Vittorio Pozzo
Il primo trainer
(Torino, 2 marzo 1886 / Torino, 21 dicembre 1968)
Dici Pozzo e pensi al calcio.
Dici Pozzo e pensi alla nascita del campionato così come lo conosciamo oggi.
Dici Pozzo e pensi alla Nazionale, a due Mondiali vinti e un’Olimpiade.
Dici Pozzo e pensi al grande giornalismo sportivo.
Dici Pozzo e… tanto d’altro ancora.
Ma quando dici Pozzo non puoi davvero non pensare ai colori granata.
Vittorio Pozzo nasce a Torino da una famiglia di origini biellesi (Ponderano il paese natio). Studiare gli piace, ha una sorta di dono di natura nell’apprendere le lingue straniere. Ha coraggio da vendere, è incuriosito dal mondo che vuole conoscere, vuole impadronirsi della vita con l’ardore di un guerriero e se possibile in fretta, con una certa accelerazione.
Ma ci sono anche altre cose, oltre lo studio presso il Liceo classico Cavour, che lo appassionano: scrivere e lo sport, in specie l’atletica e l’alpinismo (passione questa che non l’abbandonerà mai). Tuttavia un giorno, incontra il vero amore sportivo della sua vita: il calcio. Glielo illustra l’amico Goccione, dal cuore juventino e lo fa con l’esempio facendogli vedere in che consiste e soprattutto con una battuta rimasta celebre:
Vittorio, posso dirti una cosa… ma perché ti dedichi all’atletica, alla corsa. Sai perché te lo dico perché a vederti così trafelato per nulla, senza apparente finalità, mi sembri uno che corre dietro alle mosche… senza neppure acchiapparle. Perché non ti dedichi al football, fai come noi, qui sulla Piazza d’Armi,… noi, per lo meno, si corre dietro ad un pallone e non sai lo spasso.
È allo spiazzo-giardino della Cittadella, una vasta distesa di ghiaia finissima, che si ritrovano i ragazzi della Torino bene che hanno voglia di muoversi. Fra corse, grida, sfide a tamburello e palla pugno, ci sono anche quelli che, divisi in squadrette improvvisate, seguendo regole applicate sul momento, incominciano a prendere a calci una palla. Pozzo si fa promotore del nuovo credo e mette insieme il team del Cavour, immediatamente contrapposto a quello del Liceo D’Azeglio, covo di ragazzi che già hanno trovato una fede calcistica da sostenere: la Juventus. La strage di scarpe, che in fretta si consumano, è almeno pari alla distruzione dei palloni. Mezza lira a testa per ogni nuovo acquisto e poi la frenesia di un’attesa di almeno una settimana, prima che dal negozio arrivi la buona nuova che il sacro oggetto è alla fine disponibile.
Dalla squadretta del Cavour all’Audace, dove trova alcuni ragazzi che si faranno strada come Enrico Debernardi e Nay; alla Torinese, per approdare, la fatidica notte del 3 dicembre 1906, alla nascita del Foot Ball Club Torino, fortemente voluto dal factotum Alfred Dick. Pozzo non è presente, ma appena gli amici gli hanno ventilato l’ipotesi di fondazione di un nuovo football club cittadino ha detto sì senza indugio e con entusiasmo aderito, meritandosi sin da subito la medaglia di socio fondatore. Non ha potuto presenziare al brindisi presso la Birreria Voigt, dove si è celebrata la nascita dei granata, perché non si trovava in Italia, ma in Svizzera dove stava seguendo studi di natura commerciale.
Salta anche l’esordio vincente della neo squadra, avvenuto il 13 gennaio 1907 al Motovelodromo Umberto I, contro gli striscioni della Juventus, assurta immediatamente a compagine “nemica”, su cui assolutamente prevalere per assicurarsi il prestigio cittadino. A tenerlo informato in merito ai primi passi del club ci pensa l’amico Ettore Ghiglione, portiere e attaccante insieme, che gli recapita una preziosa cartolina postale (francobollo da 10 centesimi) che nel fronte porta la prima immagine ufficiale del Torino e nel retro il messaggio che segue:
Al signor Vittorio Pozzo
c/o Herr Bleuler Hofackerstrasse 31-Zurigo.
Caro Vittorio, poche sere fa fui a casa tua invitato gentilmente dalla tua famiglia ed abbiamo tutti lamentato la tua assenza. Intanto mi sono fatto dare il tuo indirizzo e ti mando qui una cartolina nella quale troverai molte sembianze che probabilmente conosci. È la prima squadra del nuovo f.c. Torino, formatosi, come ben sai, due mesi fa in seguito ai dissensi gravi accaduti alla Juventus.
Le “molte sembianze” che Pozzo conosce sono quelle di Bollinger, Ferrari-Orsi, Schoenbrod, Muetzell, Ghiglione, Debernardi, Rodgers, Kämpfer, Jaquet, Streule, Michel, De Fernex, vale a dire il primo undici ufficiale della storia granata! In una banda laterale della postcard Ghiglione aggiunge ancora: «E tu cosa fai? Come te la passi? Non ti prende ancora la nostalgia del tuo bel paese? Ciao, una stretta di mano». Un richiamo stringente, quasi impetuoso.
Pozzo rientra in Italia e, poco alla volta, del Torino diventa l’anima organizzativa. Gli piace quella squadra verace, sanguigna. Sta bene con chi la compone, condivide ideali e spensieratezza. Ne segue le imprese sul campo ed è prodigo di suggerimenti tecnici e tattici. Dagli e ridagli, a partire dal 1912 ne diventa il primo allenatore ufficiale, con tanto di benestare del presidente in carica, l’avvocato Guido Castoldi.
Fino a quel momento non solo al Torino, ma ovunque, la figura del trainer non era contemplata. La preparazione della squadra (attenzione, si fa per dire, perché non esisteva alcuna forma di allenamento programmato), la composizione dell’undici che scendeva in campo e quant’altro serviva per la conduzione del team, erano stabiliti in comune accordo fra i giocatori tesserati, con il giocatore ritenuto più carismatico, quello che diventerà il capitano, ad avere una voce in capitolo in più.
Pozzo convince tutti su un punto fondamentale: la visione dello sviluppo del gioco è colta con migliore intuizione da chi il gioco stesso segue dal di fuori del campo piuttosto che da un giocatore impegnato nella lotta, per quanto abile e sagace sotto il profilo tattico. È la rivoluzione. Il suo carattere puntiglioso, preciso, metodico si impone subito. L’allenamento deve diventare qualcosa di fermo, di stabile, un appuntamento a cui non si deve mancare, considerato per di più che non lo si fa che di rado. Inoltre, quando ci si prepara è assolutamente importante che i giocatori destinati a scendere in campo siano uniti non solo dalle parole del trainer, ma da un profondo senso di amicizia e solidarietà. A fare da sfondo a tutto questo, è bene poi che risalti il valore morale della squadra, che deve essere compatta e leale, forte e onesta nei principi su cui si basa: «Una squadra di calcio è una unità in ogni senso del termine. Ha dei colori e delle ambizioni da difendere: porta una bandiera. E quest’ultima non la vorrebbe né dovrebbe abbassare mai, nemmeno temporaneamente».
Leggiamo, in aggiunta, dalle pagine di un numero della rivista sociale, queste ulteriori precisazioni:
Ecco che nell’autunno del 1912 Pozzo entra ufficialmente – naturalmente con mezzi ed intenzioni limitate – nella carica di trainer. Si trattava di un primo serio tentativo, benché durante la stagione precedente, il Torino per iniziativa del presidente avvocato Castoldi avesse istituito delle riunioni settimanali di critica sportiva fra i giocatori della prima squadra sotto la direzione di Debernardi I e di Rubli. Pozzo introdusse l’ammaestramento diretto sul campo di gioco. Gli effetti della sua applicazione si fecero sentire ben presto, anche per il fatto che si abbandonò il sistema in voga presso quasi tutte le squadre di allora di cambiare ogni domenica la composizione della squadra. Si adottò un metodo di direttiva unica, sotto la responsabilità di un uomo competente non giocatore, dovendo la commissione sportiva funzionare solo in caso di gravi deliberazioni. Risultati più tangibili si ottennero nella stagione 1913-14, nella quale Pozzo, potendo sempre più attivamente occuparsi della squadra, anche durante la settimana, curava gli allenamenti con vero intelletto ed amore. Lo si vedeva allora quasi quotidianamente sul campo intento a fare eseguire dai forwards delle predisposte combinazioni a larga base, riuscendo ad imporre loro e a far applicare con speciale abilità quel gioco ampio e veloce che fu la caratteristica della nostra squadra. Occorreva in quei tempi oltre alla maggiore buona volontà del trainer anche della vera diplomazia per far combinare […] i caratteri dei giocatori, quanta pazienza con l’irascibile ma buon Arioni, quanta con l’indolente Mosso III, e quanta pure per far imparare a Cisco Mosso che al football si giocava non solo con la testa ma anche con i piedi!
Come se allenare non gli bastasse, Pozzo nel Torino fa pure da segretario e, più avanti nel tempo, sarà anche il redattore di riferimento della rivista sociale, sulla quale, a partire dall’ottobre del 1919 racconterà infinite storie di incredibile interesse per chi ama il Torino.
Fra queste l’avventura dell’estate del 1914 che porta il Torino, come si diceva allora, alle Americhe. Solo la folle, sana pazzia di un coraggioso come Pozzo ha potuto tanto. Su sua fortissima pressione il Torino accetta di recarsi in Brasile per una serie di partite, che diventeranno di più col trasferimento, dapprima non previsto, in Argentina. Tra luglio (partenza) e settembre (rientro) il Torino gioca, incanta e vince. Travolge tutte le squadre brasiliane che incontra, sconfigge addirittura la Nazionale d’Argentina e coglie solo lodi e allori. La trasferta in questione costituisce uno dei momenti più incredibili della storia dei primi anni del club granata e Pozzo ne fu l’artefice.
Il viaggio, una autentica avventura da romanzo, non servì solo a far conoscere il nome del Torino oltre oceano, ma cementò in modo formidabile la squadra nei suoi elementi principali, tanto è vero che nella stagione immediatamente successiva il Torino si rivelò la compagine più omogenea e forte del campionato. Un campionato che con buona probabilità avrebbe potuto vincere non ci fosse stata l’interruzione per l’ingresso in guerra dell’Italia. Che disdetta! Se il torneo avesse potuto conchiudersi, forse nell’albo d’oro al posto del nome del Genoa (a cui il titolo venne assegnato a posteriori, a danno sia del Torino che della Lazio, finalista del centro sud) potrebbe ora comparire proprio quello dei granata.
Poi il nulla per quasi quattro anni (1915-19) durante i quali tanta della meglio gioventù granata è costretta a lasciare il football. Chi per non essere più tornato dal fronte di guerra, chi per stanchezza, chi per le pesanti primavere accumulate, chi per lavoro, chi avvertendo come un senso di smarrimento, dopo il brutto che si era consumato, nell’apparente banalità del correre dietro a una palla.
Chi non manca all’appello è però Vittorio Pozzo. Lui c’è e per il suo Torino si fa in quattro. Su questa attività straordinaria si chiosa:
Uomo di attività meravigliosa, Pozzo si prodiga per il suo club, per le sue occupazioni con instancabile energia e con ferrea volontà. I giocatori del Torino ne sanno qualcosa; a tutte le ore del mattino, del pomeriggio, della sera Pozzo è a loro disposizione; tutti lo vogliono, tutti lo cercano, tutti lo chiamano: al campo, al bar, al Fiorina, è un vero continuo assillante assedio che gli procurano i poulains, gli ammiratori, i colleghi della Direzione. Uomo d’azione ed eminentemente di lavoro, egli non sciupa e non perde un solo istante della sua giornata. Lo si vede per via sempre affrettato, carico di lettere, di giornali, di documenti, con quella sua espressione di persona continuamente tesa nello sforzo di ordinare le idee e i pensieri per attendere a tutti gli impegni. Nella moltitudine delle occupazioni sta la causa del suo unico e grande difetto: quello di non essere mai puntuale. Se vi dà un rendez-vous potete trovarvi comodamente mezz’ora dopo, sicuri di avere ancora altrettanto tempo da aspettare Ma i granata lo sanno e fanno buon viso anche alla lunga attesa, se pure non accade loro talvolta di doversene andare delusi mentre Pozzo in tutt’altra parte della città sta meditando quale sia il più importante dei numerosi appuntamenti che ha fissato magari per la stessa ora e lo stesso momento nelle località più disparate!
Riprendere non è facile, ma la determinazione che il Toro ci mette per tornare una squadra di rango è così feroce da non sottrarsi anche al cospetto dei problemi più gravi. Come, per esempio, la rinascita del campo dove giocare, quello di Stradale Stupinigi che grazie all’impegno di molti e del conte Vittorio Morelli di Popolo in particolare torna all’onor del mondo più accogliente che mai.
Per dirne della bellezza, basti pensare che sotto la tribuna oltre ai locali dove spogliarsi e alle docce, si trova persino una toeletta per gli spettatori rigorosamente divisa per sesso, dove un’arguta custode è pronta, per modesto compenso, a distribuire utili salviette profumate!
E il Torino torna a giocare eccome! Alle dinastie dei Bachmann, degli Arioni e dei Mosso proprio in questi momenti si aggiungono quella dei Boglietti e dei Martin, senza dimenticare i veterani Debernardi, Capra, Peruzzi, Valobra, Calvi, Falchi per un insieme quanto mai competitivo. Alla testa del gruppo c’è ancora lui Vittorio Pozzo, instancabile e da mille impegni preso.
Purtroppo il tempo incalza, con le sue mille richieste. Dopo aver brillantemente guidato la squadra nella stagione 1920-21 rinunciando alla disputa delle fasi finali del campionato per una forma di contestazione nei confronti della Federazione, Pozzo accompagna ancora i granata fin nell’autunno della stagione successiva. La sua ultima panchina cade il 20 novembre (sconfitta in casa per 2-0 contro il Pisa). Non ce la fa più a stare dietro a tutto, ora che il lavoro lo chiama lontano dalla città.
Sono passati dieci anni da quando il primo di novembre del 1912 il Torino per la prima volta da lui disposto in campo era andato a inaugurare il nuovo impianto di gioco del Novara cogliendo una bella vittoria per 1-2. Il rammarico per lasciare i colori granata è alto, ma la decisione non è più procrastinabile, non si può far tutto, visti anche gli impegni in Federazione.
Gli sale un groppo di commozione in gola quando comunica la sua intenzione alla Società:
Le preoccupazioni e le tante occupazioni della mia vita attuale mi costringono spesso a seguire da lontano l’attività del Torino, ma da lontano o da vicino non perdo di vista la bandiera granata. E non la perdo di vista, non per scopi personali, ma semplicemente perché non posso pensare senza profonda ed intensa commozione a quella bandiera che in quindici anni di combattimenti, di soddisfazioni e di disinganni fu la bandiera mia. Che il “mio” Torino possa sempre procedere trionfante! Questo l’augurio mio alla direzione e ai consoci.
Lo aspetta, da lì a breve, la guida della Nazionale. Ne terrà le redini di c.u. per vent’anni (dal 1929 al 1948) cogliendo successi eclatanti e forgiando squadre azzurre da mito, senza esitare, con astuta intuizione, a ricorrere ai cosiddetti rimpatriati o oriundi, calciatori di gran classe nati all’estero, ma di chiara impronta italica. Nomi che hanno lasciato impronte profonde nella storia del nostro calcio: Orsi, Sallustro, Fedullo, Sansone, Monti, Andreolo, Demaria, Guaita, Cesarini.
Al Torino resterà comunque sempre legatissimo anche quando del calcio si occuperà solo più scrivendone sulle pagine dei quotidiani. Toccherà a lui, fra l’altro, il pomeriggio del 4 maggio 1949 il pietoso compito di procedere al riconoscimento dei corpi straziati dei giocatori del Grande Torino. Un ufficio che sosterrà con una forza d’animo degna di un eroe: quei ragazzi erano i campioni della sua Nazionale!
E per il Torino e per i suoi sostenitori avrà sempre un occhio di stima e di riguardo, arrivando a scrivere:
Diciamo quello che va detto: è commovente lo spirito col quale i sostenitori del Torino sono rimasti quelli che erano malgrado le disavventure. Non hanno mai disperato. Più la squadra perdeva, più i medesimi si stringevano concordi e fidenti attorno ad essa. È tipica, è speciale la folla del Torino. Ama i suoi colori, nel senso più intimo del termine. Sa tacere, sa soffrire in silenzio, ma di fede non manca, di colori non cambia. Si chiude, si concentra in sé, corrucciata, sarcastica magari, ma decisa, sicura di quello che vuole. E non appena l’occasione gliene porge il destro esplode in forma che impressiona. È un amore serio, radicato, positivo, quello della folla granata per la sua squadra. Chiunque si è avvicinato all’ambiente e ne ha studiato la natura, ha dovuto convincersi di trovarsi di fronte ad un fenomeno di tifo speciale. È la tenacia della ragione personificata. Non si tratterà di vedute ampie, ma come sguardo che sa quello che vuole, non ve n’è di più costante, di più decisivo, di più tenace. Io sono nato lì e muoio lì, dice il granata. E col suo animo egli forgia nei momenti critici le forze morali della squadra.
Che dire di più e di meglio, quale migliore e più nitida professione di affetto che questa? Un grazie davvero grande da tutto il mondo granata a Vittorio Pozzo.
Letture consigliate:
Mario Grimaldi, Vittorio Pozzo, storia di un italiano, s.s.s., Roma, 2001.
Vittorio Pozzo, I ricordi di Pozzo, Calcio illustrato, fascicoli anni Quaranta.
id., Campioni del mondo, cen, Roma, 1960.