Enrico Marone Cinzano
L’uomo del destino
(Torino, 15 marzo 1895 / Ginevra, 23 ottobre 1968)
Ogni società calcistica si porta appresso, nella sua più o meno consistente e gloriosa storia, figure di personaggi che mano a mano che il tempo passa quasi si mitizzano, trasformandosi in icone, pietre miliari che segnano momenti da non dimenticare. Non si tratta soltanto di eroi della pedata, i giocatori, o di strateghi, gli allenatori, ma anche di chi ha saputo tenere le redini del club nel modo migliore, vale a dire i dirigenti massimi, i presidenti.
Va da sé che maggiore è la consistenza storica del sodalizio, più alte sono le probabilità che nel lungo arco di tempo della sua vita si siano affacciate al suo orizzonte più figure significative, importanti.
Così è per il Torino che può contare, senza togliere meriti a nessuno degli altri (ma sovente, lo si deve purtroppo riconoscere, si è trattato più di demeriti), almeno su un prezioso terzetto di presidenti d’eccellenza, il primo fra questi (antesignano di Ferruccio Novo e Orfeo Pianelli) è stato Enrico Marone Cinzano, un uomo a dir poco straordinario per tutto quanto riuscì a fare nella sua vita, intensa e unica sia sotto il profilo morale che imprenditoriale. Un uomo che si mantenne sempre, come si dice, con la schiena diritta, anche nei momenti in cui era assai più facile, comodo e soprattutto conveniente, lasciare che si flettesse per lo meno un poco.
Rampollo di una dinastia di aristocratici imprenditori piemontesi, Enrico studia con profitto, ma non trascura lo sport che frequenta in molte discipline: nuoto, atletica, equitazione, il nascente automobilismo, ma in modo speciale il calcio, che segue da vicino, con una particolare predilezione per il Foot Ball Club Torino.
Il giornalista Ernesto Caballo, autore di una sua ricca biografia, annota in merito:
Enrico amava recarsi al Velodromo Umberto I nel quartiere Crocetta, all’altezza dell’Ospedale Mauriziano. Era il terreno – lo chiamavano la tana – del Torino e qui giocava, come si dice, con tutti i sentimenti o, meglio, si incantava alle lezioni estemporanee di campioni affermati come Bachmann, Enrico Debernardi, i fratelli De Fernex, Capra, i fratelli Mosso. Qui strinse amicizia con Vittorio Morelli di Popolo, uno dei fondatori del club che, dopo aver fatto anche parte della formazione granata, entrò nei ranghi dirigenziali del club e con Vittorio Pozzo, allenatore della squadra fin dal 1912.
È questa frequentazione, ritagliata nei momenti liberi dallo studio, che fa innamorare Enrico dei colori granata. L’impeto, il sano slancio dilettantistico, la moralità, la gioiosa vitalità che riscontra negli atleti granata che militano nella squadra che porta il nome della città, trova riscontro pieno nel suo animo, nel suo modo allegro, ma allo stesso tempo, quanto mai impegnato e serio di vivere. In altre parole, come sentenzia un amico del tempo: «Enrico era capace di rendere simpatica persino la serietà, la riflessione».
È il calcio dei primi passi, delle prime sfide, dei brevi cenni sui quotidiani che davano assai più spazio a ciclisti, aviatori protagonisti di eroici raid e arditi pionieri dell’auto, skiatori (sic!).
E proprio in questo ambiente il futuro presidente granata incontra Edoardo Agnelli con il quale stringe un’autentica amicizia fondata sul reciproco rispetto e sulla nobiltà d’animo che contraddistingue i due. La passione per il football li unisce e se Agnelli è il deus di una Juventus che ha già nel palmarès il titolo di campione d’Italia del 1905 e sta per conquistarne un secondo (1925-26), Enrico deve, obtorto collo, constatare come il Torino, la squadra delle sue simpatie, non abbia ancora nulla vinto.
Per quanto i granata, come ormai tutti li appellano, abbiano sempre onorato al meglio la loro presenza nel massimo campionato a partire dal 1907, la vittoria decisiva e finale era sempre loro sfuggita. Ora per mera sfortuna, ora per improvvise sopravvenute complicazioni, sta di fatto che il Torino fino a quel momento, e siamo verso la metà degli anni Venti, non aveva ancora incamerato alcun successo.
Perché non provarci, si dice con entusiasmo.
Non era stato, d’altra parte, per sua diretta iniziativa e con il suo contributo assoluto che la Cinzano aveva aperto e presentato ormai da anni il suo ricercatissimo prodotto all’estero, fuori dai sempre più ristretti confini nazionali? Non era stato forse lui a porre le basi per la conquista del mercato sudamericano, un potenziale a dir poco enorme? Non era stato forse lui, di concerto con il padre Alberto che si era ritirato di buon ordine dandogli carta bianca e piena fiducia nell’operare, a fare dell’azienda un biglietto da visita internazionale dell’italianità?
La personalità di Enrico è moderna, intesa come architettura e insieme dell’intera persona, un moderno che converge nel nuovo. Disponibile ai problemi di fondo e ostile alle improvvisazioni di ogni genere, ama attuare imprese che solo pochi decenni prima erano etichettate come utopie, dimostrando per l’appunto che è utopia tutto ciò che non si vuole fare.
Che sarà mai rivitalizzare un sodalizio calcistico a fronte di tutto questo?
E allora parte la sfida.
Nel 1924 è il nuovo presidente del Torino ed è subito pronto ad assumere il comando secondo dettami freschi, innovativi come il suo impianto mentale:
Marone Cinzano comprese subito che, come nell’attività industriale, pure nel terreno sportivo non si era più al tempo del sabato del villaggio e che l’organizzazione di una società di calcio non poteva più essere chimerica, affidata all’improvvisazione; anche nelle faccende dello sport l’intelligenza è adattamento mentale ad ogni circostanza. Le buone intenzioni contano poco nell’agonismo, forse ancor meno che in sede produttiva. D’altra parte, la tradizione dell’alta scuola inglese o danubiana non era congeniale al nostro calcio, specie nell’organizzazione. Bisognava creare decorosi metodi di conduzione, eliminando gli apparati invalsi fino ad allora, ai suoi occhi di imprenditore illuminato tanto simili a un folclore da circo.
Con lui al Torino, ma in assoluto nel calcio nostrano, si affacciano nuove mete, nuovi sistemi gestionali. Manda subito all’aria certe strutture arcaiche, certi metodi di amministrazione ormai obsoleti e claudicanti, sempre però mantenendo la rotta su una direzione specifica: un sodalizio calcistico è pur sempre composto da persone, uomini e non logaritmi, freddi numeri.
Per dirla in breve, una sorta di umanismo, aperto alla semplicità pur nel rigore del rispetto di canoni e regole da osservare. Lo stesso atteggiamento che aveva quando visitando i luoghi attivi della produzione vinicola era solito soffermarsi con i lavoratori che riconosceva e chiamava per nome, non disdegnando, quando il tempo glielo concedeva, di lasciare l’ufficio direzionale per una partita di bocce con addetti e operai. Il Torino, quindi, come una famiglia unita, in cui ciascuno però doveva assolvere al meglio la propria funzione, per quanto pur sempre inquadrata nel suo vigile sguardo.
Subentrato al presidente Giuseppe Bevione, lasciato trascorrere il primo anno di noviziato, per il suo Torino è già tempo di cose notevoli. L’organico si arricchisce presto di nomi importanti. Sono soprattutto due i colpi di mercato a sensazione che Marone stesso in prima persona conduce a buon fine. Dopo aver stuzzicato e quindi convinto al granata una star del tempo, il capitano della Nazionale Adolfo Baloncieri, fa arrivare dall’Argentina Julio Libonatti, una punta ovviamente sconosciuta in Italia, ma che nel giro di breve tempo sale all’onore di tutte le cronache calcistiche per l’abilità tecnica e i grappoli di reti che non lesina mai di offrire alle platee.
La lizza per la preminenza in campionato è aperta con il Bologna, caro alla dirigenza federale fascista. Dopo le prime scaramucce è nella stagione 1926-27 che i granata si impongono, forti di ulteriori rafforzamenti nella rosa degli atleti che la disponibilità del presidente consente di accasare. Giocatori del calibro di Colombari, dell’ungherese Balacics, Gino Rossetti, aggiunti a campioni già affermati come Janni e Cesare Martin e a quelli già approdati in precedenza, fanno del Torino uno squadrone imbattibile. Il titolo di campione d’Italia è una sorta di corollario inevitabile a questa bella organizzazione societaria.
Quando, per motivazioni più politiche che sportive (Marone testardamente non dà segno di adeguarsi al tran tran del tempo e non sottoscriverà mai la tessera del pnf) il tricolore viene revocato (si parla di una combine, mai provata, perpetrata nel derby del 5 giugno 1927 vinto dal Torino), la voglia di fare ancora meglio è ampiamente premiata con un secondo titolo, questa volta inattaccabile da chicchessia. Il presidente lo festeggia un po’ in sordina avendo ceduto il passo a un imposto commissariamento nella figura del generale Giacomo Ferrari.
Ma la sua personalità si palpa, si avverte, è costantemente presente e vicino al club al quale vuole fare ancora un dono, davvero speciale: il campo di gioco di proprietà. Anche in questo Marone Cinzano anticipa i tempi, proiettandosi in un futuro che si concretizzerà soltanto molti decenni dopo. Intuisce che possedere un campo proprio è come partire con qualche punto in saccoccia ancora prima che il campionato abbia inizio. Riportiamo ancora dal Caballo:
Indubbiamente, la tipologia del nuovo calcio italiano l’ha imposta Marone fra i primi. L’acquisto del terreno in via Filadelfia, per la realizzazione del campo di gioco, fu per molte altre società un atto di previdenza amministrativa non più differibile. Quello stadio, anche per tecnica d’impianti costituiva un’eccezione: il promotore intendeva rimediare alla precarietà zingaresca a cui erano soggette anche le squadre di grande nome.
Il 17 ottobre 1926, giorno dell’inaugurazione, la soddisfazione è grande. Sul prato, prima del match domenicale contro la Fortitudo di Roma, si schierano tutte le squadre del club: dai biberon, i piccoli alla prima esperienza con la palla, ai campioni chiamati a vincere (e lo fanno in modo sonoro per 4-0) davanti a un pubblico di appassionati che ha letteralmente preso d’assalto l’impianto creando, come si legge nelle cronache del giorno dopo, persino degli ingorghi automobilistici, fatto al tempo assolutamente anomalo, viste le ancora assai rare vetture in circolazione.
Un terreno che saprà regalare alla tifoseria grandi gioie e dove il Torino conseguirà ben sette degli otto (di cui uno revocato, ma che si attende venga finalmente riconosciuto al gonfalone granata) titoli di campione conseguiti nella sua storia.
I sempre più pressanti impegni lavorativi, i
frequentissimi viaggi all’estero, le necessità della famiglia
(Marone, intanto, convolando in
seconde nozze con Maria Cristina di Borbone infanta di Spagna, è
ancor più entrato nel gotha internazionale come genero del re di
Spagna), la profonda delusione dello scudetto revocato e la
persecuzione che in ambito federale è costretto a patire non
convivendo le imposizioni autoritarie del governo calcistico ormai
soggiogato dal potere politico fascista, dopo le stagioni del
doppio trionfo, lo costringono a lasciare le briglie del suo
puledro granata.
In realtà non trascurerà mai il club, seguendolo sempre negli anni con passione immutata anche per il tramite del figlio Alberto, contribuendo sempre non solo in modo concreto ma anche sotto il profilo morale dell’esempio e della dedizione alla sua conduzione come presidente onorario.
Un esempio unico non solo in ambito granata, ma in generale di personalità illuminata e generosa. Un uomo che sapeva cogliere con grande attenzione lo spirito dei tempi, addirittura anticipandoli, senza mai scordare quanto comunque e sempre tutto dovesse avere come fulcro e centro d’attenzione l’uomo.
Ne fa fede un episodio che nulla ha a che vedere con il calcio, ma che molto ancora ci dice sulla sua figura, così come lo racconta un amico con lui presente nella circostanza, avendo presente gli anni Cinquanta:
Quando arrivammo all’aeroporto di Johannesburg, in Sudafrica, egli non esitò a mettersi in fila per il controllo con i negri sotto la scritta dell’uscita Natives e non sotto quella destinata ai bianchi che riportava Europeans. E non volle spostarsi nemmeno di fronte all’insistenza degli ufficiali addetti, restando al suo posto con un dolce sorriso di sfida sulle labbra.
Letture consigliate:
aa.vv., Il Torino, una fede, s.e.s., Firenze, 1985.
aa.vv., Il mito e i campioni, Edizioni La Stampa, Torino, 1999.
Ernesto Caballo, Enrico Marone Cinzano, Edizioni Cinzano, 1969.
Franco Ossola, Il romanzo del Toro, Priuli & Verlucca, Scarmagno, 2014.