Valentino Mazzola

Il mito, il più grande

(Cassano d’Adda, 26 gennaio1919 / Superga, 4 maggio 1949)

 

 

 

 

 

 

Se l’è portato via un urto infame, un gaglioffo tranello del destino che si è steso sulla collina di Superga il quattro di maggio del millenovecentoquarantanove.

Con lui se ne andava la squadra più radiosa e armonica che il calcio italiano avesse mai potuto vantare. Un manipolo di giovani atleti capace di imporre una legge del più forte mai stata così dolce, perché imposta senza arroganza né presunzione: il Grande Torino. Un mosaico perfetto, assemblato con autentica passione da un presidente illuminato, capace di guardare avanti, quasi di preconizzare, se il destino non gli fosse stato così crudo, il calcio del futuro: Ferruccio Novo.

Della compagine Mazzola era il conclamato capitano, la guida a cui tutti i compagni riconoscevano quel ruolo, consapevoli di una grandezza sportiva e atletica che in lui si esaltava al grado massimo. Perché in Mazzola la genetica e la sorte avevano concentrato, in una sorta di miscela pressoché perfetta, tutte le doti che un calciatore poteva fantasticare di possedere e su ogni cosa un particolare carisma che ne faceva un autentico trascinatore, il condottiero a cui qualsiasi esercito vorrebbe poter obbedire. Intendiamoci, se è vero che il paradigma del calciatore perfetto si compendia nella sua figura perché attacca come difende, dà ordini ma sa obbedire, sa stangare e toccare di fino, rimprovera e si fa rimproverare, incanta e irrita, è pur anche vero che pecche ce ne sono nel suo carattere, tanto che lui medesimo non esita a criticarsi, se non sotto il profilo calcistico, certamente sotto la lente della riflessione sull’uomo, quando scrive ad un amico:

 

Certo, so di possedere un caratteraccio, non lo posso nascondere. So però di dare in ogni incontro che disputo tutto me stesso… perché bisogna osare, avere coraggio, in certi momenti, della vita come di una partita, in certe situazioni, se non si osa nulla si ottiene… ho i miei bei difetti, ma non mi manca l’obbiettività… nessuno pensi che se a volte il Torino, come dire, gioca male è perché manca di Mazzola in campo… il Torino sa giocare male anche con Mazzola in squadra.

 

Un temperamento forte, inossidabile, che scaturisce e si forgia in un’infanzia per nulla facile, vissuta, prendendo a calci lattine di conserva, nelle stradine del Ricetto di Cassano d’Adda, dove vive la numerosa famiglia dei Mazzola.

Presto è tempo di dare una mano in casa. Gli zoccoletti di legno ai piedi e un capotto rivoltato chissà le volte, Valentino avanza nella vita senza timori: sa che le cose cambieranno perché ha nel cuore una gran voglia di venirne fuori, come sa anche che sarà il calcio, quel gioco che ai suoi occhi è magia pura, a concedergli quella opportunità.

All’Alfa Romeo dove lavora c’è una squadra di football, si presenta e poco importa se addirittura nei primi provini gioca scalzo, lui la palla la sa trattare come si deve, il resto poco conta. E così quando incomincia a infilarsele le scarpe è capace di incantare.

Ma tutto resta lì, la svolta arriva con la cartolina del servizio militare che lo convoca marinaio in laguna, a Venezia. Già comunque noto agli addetti ai lavori più attenti, diventa oggetto del desiderio del calcio che conta e, in confusione per tanto interesse o forse mai consigliato, firma addirittura due cartellini, per Venezia e Bari. Si corre l’alea della squalifica, la Federazione tentenna, ma si cerca un compromesso che lo liberi. Il Venezia la spunta, con buona pace di tutti, in primis per il marinaio Mazzola che nella stagione 1940-41 parte titolare con sulle spalle, che per intanto si sono fatte larghe e forti, il numero dieci.

La sorte vuole che l’organico di squadra gli ponga al fianco, come titolare dell’altra parte della metà campo che sulla carta non gli competerebbe, la destra, un fiumano forte e taciturno, in arrivo dal Milano, Ezio Loik. Fra i due scocca la scintilla della perfetta compatibilità calcistica e il Venezia vola fino a conquistare la Coppa Italia, con la grande soddisfazione del presidente Bennati. Che coppia di interni, questi due concreti interpreti del nuovo che avanza nel nostro calcio, si scrive, mentre Ettore Berra, commentatore attento delle dinamiche del football arriva ad annotare:

 

Un gioco che annulla la tattica delle mezze ali arretrate, che non proietta più il centravanti fra i terzini con un compito esclusivamente realizzatore, cioè non lo isola più ma tende anzi ad assorbirlo. In questo gioco le mezze ali non restano più fuori della mischia con un compito di coordinatrici e regolatrici delle azioni ma entrano nel vivo della lotta esercitando una pressione immediata contro la difesa avversaria. Questo gioco è il contrasto di quello che si svolse in Italia nell’ultimo decennio, un gioco scarno, tirato all’osso, ispirato dalla paura di osare, con le mezze ali in funzione di cuscinetto fra l’attacco e la mediana, un posto relativamente comodo specialmente per gli atleti corti di fiato. Tattica nuova richiede atleti nuovi. Mazzola è di questi.

 

…e anche Loik, aggiungiamo noi.

Impossibile a questo punto, per chi regge le redini alte del nostro calcio, non rendersi conto di quanto Mazzola stia crescendo, di quanto sia bravo.

Vittorio Pozzo lo convoca in maglia azzurra e subito dopo, il presidente del Torino, Ferruccio Novo, se lo porta in granata con un vero colpo da maestro. Nell’estate del 1942 fa saltare il banco. Anticipando le mosse della sempre agguerrita Juventus, scuce fior di soldoni e accasa sia Valentino che Loik, che passeranno alla mitologia calcistica oltre che con l’appellativo di “gemelli veneziani” come novelli Romolo e Remo, sostituendo all’immagine della lupa della leggenda un gigantesco toro, ammansito da Novo che lo guida con una cavezza.

Da questo momento i destini del Torino e di Mazzola si legano in modo indissolubile.

Già dal primo anno in granata imprime il suo marchio di vincente.

Il 25 aprile del 1943, ultima di campionato, santificata dal giorno di Pasqua, sul sempre ostico campo del Bari, a tre minuti dalla fine del match, Mazzola con un guizzo di orgoglio estremo segna il gol della vittoria e cuce sulle maglie del Torino il primo scudetto di una serie che arriverà a contemplarne ben cinque.

È con gesti come questi che si conquistano i gradi del comando.

Mazzola d’un colpo diventa capitano, non solo per la striscia bianca che virtualmente incomincerà a fasciare il suo braccio, ma nel cuore di tutti i compagni. Questo sebbene la squadra, per lui che da poco è arrivato, conti non pochi veterani anche, vien da dire, di spessore, come Cesare Gallea, Osvaldo Ferrini, Fioravante Baldi e, su tutti, Pietro Ferraris, campione del mondo a Parigi ’38.

Ah, la guerra!

Vinti titolo e Coppa Italia – prima squadra nella storia del calcio nostrano a fare doppietta – il Torino di Novo e Mazzola potrebbe infilare sin da subito i successivi tornei, ma è davvero impossibile dare continuità al campionato.

Bisogna pazientare, stare all’erta, salvare la pelle prima di ogni cosa, prima di pensare a giocare. Una vera disdetta, ma alla fine il cielo si rasserena e la voce di Mazzola e del Torino si fa ancora più forte, potente, imperativa.

Alla guida della squadra arriva Luigi Ferrero che conferma i gradi di capitano a Valentino a cui affida le chiavi non solo tattiche dell’undici ma pure quelle, persino più importanti, che stanno sul registro dell’esempio. È da lui, infatti, che il trainer vuole scaturisca l’immagine di consapevolezza e grintosa convinzione che intende imprimere alla squadra. Mazzola non se lo fa dire due volte: è quello il suo bagaglio, quella la sua propensione, quello il suo modo di intendere come si debba giocare al calcio. È come se dicesse: tranquillo, mister, ci son qua io, la squadra è ben affidata.

Se è vero che la guerra nega la continuità del torneo, alla ripresa nella stagione 1945-46 fino all’epilogo di Superga, il Torino di capitan Mazzola si impone come incontrastato dominatore del campionato.

E per lui, per Valentino, le qualità, tutto ciò che riesce a mostrare in fatto di abilità calcistica, non fanno che migliorare, affinandosi sempre più. A quanto già sciorina – ed è molto – aggiunge anche una capacità realizzativa, in verità in lui mai scemata, che diventa spiccatissima nel campionato 1946-47 quando con 29 gol è il re dei cannonieri. Nella fattispecie si tratta di un fatto notevole, trattandosi di un interno e non di una punta autentica. Ma Mazzola è Mazzola e sa stupire, sempre e comunque. Come l’impresa di cui si rende interprete il 20 aprile del 1947 al Filadelfia contro il Vicenza. Lo storico Bruno Colombero annota:

 

I granata vincono 6-0, ma non è tanto il punteggio tennistico che desta scalpore parlando di Grande Torino, bensì il perentorio uno-due-tre di Valentino Mazzola che, attorno alla mezz’ora del primo tempo, va tre volte a segno nello spazio di tre minuti: nessun altro è riuscito a tanto. Il portiere vicentino Romano (che qualche anno più tardi sarà granata) è infatti battuto dal furioso capitano al 29’, 30’, 31’.

 

A un giocatore così si è pronti a perdonare ogni cosa anche qualche capriccio, che Mazzola tende a inscenare, in genere all’atto del rinnovo del contratto, ogni volta che gli sale la mosca al naso traendo dai fatti l’impressione che non venga riconosciuto il giusto valore alla sua bravura.

E qualche volta il braccio di ferro con la dirigenza si fa duro. Tuttavia Valentino non fa i conti né con il presidente né con i compagni di squadra. Il primo sa sempre riconquistarlo alla causa granata con argomenti che vanno anche al di là dei compensi e toccano le corde della sua sensibilità d’uomo; i secondi con dichiarazioni e atteggiamenti di dedizione assoluti: sei il nostro condottiero, non puoi andartene e te lo dimostriamo concretamente. È passato infatti alla storia dei Campionissimi il fatto che, tutti consapevoli, Mazzola riceveva i premi di partita doppi. Tutti al Torino desideravano che restasse, che, malgrado le lusinghe delle potenti società milanesi, lui, il capitano vittorioso e indomito, continuasse a solcare il prato del Filadelfia.

Un sentimento tanto bene esplicitato dalle parole concesse da Mario Rigamonti, lo stopper della squadra, nel corso di un’intervista, quando ebbe a dichiarare, con pura innocenza e chiarezza:

 

Mi sembra, non solo logico, ma giusto che Valentino guadagni più di noi. Perché il vero segreto della squadra è lui. Quando lui si mette a urlare vinciamo qualsiasi partita, anche dovesse mancare un solo minuto alla fine. Io sono un brocco e mi arrangio come posso, magari con le mani se necessario; ma di Mazzola ce n’è uno solo e forse non ce ne sarà un altro eguale neppure in cent’anni.

 

Le parole di Rigamonti hanno quasi il sapore di una profezia. Un altro Mazzola sul palcoscenico del calcio italiano non si è ancora visto, malgrado il sorgere, da Superga in poi, di molti nomi illustri. Se il panorama dei fuoriclasse non contemplasse il nome di Giuseppe Meazza, azzardare la palma del migliore di sempre per Valentino sarebbe assegnazione che pochi troverebbero da contraddire.

Con i granata Mazzola conquista cinque scudetti e una Coppa Italia, traducendo in totale dominio il decennio calcistico degli anni Quaranta. E se la tempesta della guerra e il fato non avessero reciso il filo vincente, assai di più avrebbero potuto risultare i titoli conquistati. Perché con la sua guida e regia il Torino si fa grande e, ancora in vita, transita nella leggenda per le tante imprese al limite dell’incredibile che realizza.

Veder giocare i granata è una goduria e quand’anche in certe partite la grinta venga meno, il quarto d’ora febbrile e frenetico di gioco non viene mai risparmiato e tanto basta per giustificare il costo del biglietto. La sarabanda incontenibile travolge e la squadra vince, accompagnata dalla nota persino stonata della cornetta del trombettista del “Fila”. Lui suona la carica, Mazzola si desta e chiama a raccolta i compagni, il match, quale che sia, è vinto. Sono, questi, momenti in cui la sua abilità calcistica e agonistica si esalta al massimo, quelli che lo rendono irraggiungibile.

Meglio con quanto scrisse Ettore Berra in un lungo articolo, qui riportato a stralcio, comparso sulla rivista «Il calcio illustrato», non possiamo fare per fissare una volta per tutta la grandezza di questo campione:

 

Mazzola è il motore del gioco, uomo di spinta, animatore dell’attacco. Ha un temperamento spiccatamente agonistico. L’azione non solo la imposta ma la manovra, la plasma, la completa con un lavoro serrato nel quale si riconosce più il gioco tradizionale delle mezzali. Nel ruolo Mazzola è tecnicamente il più dotato, anche perché offre nella sua azione una gamma di risorse che con altrettanta ricchezza non si riscontra negli altri atleti. Il suo gioco raramente ha una pausa. È gioco di movimento continuo che tiene in costante attività il fronte dell’attacco. Egli è mezzala e nello stesso tempo centravanti, la sua partecipazione al gioco ha uno spiccato carattere di combattività e la sua spinta in avanti una vera forza trascinatrice. La manovra è serrata e rapida, la forza del gioco è nel suo variare continuo, nella mobilità del fronte, in quella costante spinta in profondità che sembra cercare di giungere nel vivo dell’organismo avversario. I suoi mezzi fisici gli consentono uno spiegamento di energia difficilmente eguagliabile. Egli ha una concezione fulminea dell’azione da svolgere, il suo gioco non ha battute di attesa, in quattro passi è già nel vivo dell’azione e sorge sempre una minaccia quando egli si muove. La rapidità di questo gioco può far credere che si tratti essenzialmente di occasionale improvvisazione. Mazzola ha invece sempre una sua idea di gioco che gli germoglia nella mente. Nell’istante stesso in cui scatta già è chiaro che ha una sua meta. Cerca la collaborazione coi compagni, ma si ha l’impressione che quasi desidererebbe farne a meno. La sua attività è di largo raggio, egli occupa spazio, allunga assai i tentacoli del suo gioco. Poi il palleggio. La rapidità dell’azione rende senza dubbio più difficile il trattamento della palla. Mazzola lo effettua con sicurezza grande. Il controllo della sfera non lo attarda, non è nemmeno per lui una preoccupazione. La sua tecnica è completa, non è imparaticcio e nemmeno espediente. È anzi la base del suo gioco, egli è dunque uno dei cardini essenziali del gioco del Torino. L’occhio va su di lui come verso il punto focale del gioco. Quanto c’è di vivo, di fuoco nella sua azione sembra espresso esteriormente dalla capigliatura fulva che vedete perennemente in movimento, sì che pare quasi una fiaccola agitantesi di continuo a portare ai compagni un’idea, un incitamento, un aiuto. Mazzola è così l’interprete più sicuro del nuovo gioco delle mezze ali e uno degli artefici di quella evoluzione tattica a cui stiamo assistendo. Mazzola è inoltre un insidioso uomo da rete. Il suo tiro è forte e improvviso, scoccato quasi sempre a mezza altezza, e a traiettoria tesa. Il suo gioco rasenta sempre un pericolo che è quello di sbandare. Mazzola senza dubbio è convenientemente ferrato di tutto, eppure alle volte si ha ancora l’impressione di una forza allo stato greggio; l’impressione, dico, che i suoi mezzi siano ancora suscettibili di levigatura. Erompe comunque dal suo gioco un segno di potenza. Mazzola è una macchina che sforna continuamente situazioni nuove ad un ritmo sempre accelerato, tesaurizzando un istinto sicuro, cioè la facoltà di capire al volo quello che la situazione tattica di una determinata azione suggerisce. Quanto poi alla facoltà di intuire si unisce quella di saper agire, allora si ha la classe, quella classe che ho già detto essere rara e che trova in Mazzola una delle sue più compiute espressioni.

 

 

Letture consigliate:

Francesco Bramardo, Gino Strippoli, Valentino Mazzola… morirò giovane, Priuli & Verlucca, Scarmagno, 2019.

Franco Ossola, Renato Tavella, Il romanzo del Grande Torino, Newton & Compton, Roma, 2019.

Renato Tavella, Valentino Mazzola: un uomo, un giocatore, un mito, Edizioni Graphot, Torino, 1998.