Rolando Bianchi

…e lo chiamarono Rolandinho

(Lovere, 15 febbraio 1983)

 

 

 

 

 

 

Volli, volli, fortissimamente volli!

Moderno Vittorio Alfieri – che si faceva legare alla sedia dal suo domestico per costringersi a diventare un autore tragico – Rolando Bianchi ha fatto tornare alla mente questo motto ai sostenitori del Toro (ovviamente a quelli con ancora qualche reminiscenza letteraria scolastica) domenica il 19 maggio 2013.

Scenario lo stadio Olimpico (che diventerà Grande Torino), ultima giornata di campionato, un Torino già salvo affronta un Catania rivelatosi l’autentica, piacevole, sorpresa del torneo. Il classico match di ultimissima coda, ma che si deve giocare non fosse altro per consentire ai padroni di casa di salutare con gioia il proprio pubblico: missione compiuta, siamo rimasti in A, anche se la battaglia è stata lunga e dura.

Ma c’è qualcosa in più nella giornata.

Bianchi, il centravanti granata, sa da tempo che non è più ospite gradito nello spogliatoio del Comunale. Ha un groppo in gola. Una sensazione di amaro in bocca che lo tormenta e lo rattrista, ulteriormente appesantita dal fatto di non essere sceso in campo sin dall’inizio, per questa sua ultima prestazione davanti ai tanti tifosi che lo hanno sempre sostenuto.

La decisione del trainer Gian Piero Ventura di mandare in campo l’illustre carneade brasiliano Cristian Jonathas al suo posto, non solo ha meravigliato il pubblico, non solo ha mortificato lui, ma è apparsa a tutti davvero di cattivo gusto, quasi si fosse trattato di una ripicca, chissà per cosa. E così quando, bontà sua, il mister al minuto 51 lo aveva invitato a entrare in campo al posto del brasiliano, Bianchi lo aveva fatto con il solito slancio e l’immancabile entusiasmo, ma con un misto di rabbia e dispiacere profondo.

E allora si era sentito l’Alfieri di cui sopra: devo, devo assolutamente farcela, devo fare ancora un gol per questo pubblico magico, gente che in questi anni mi ha sempre voluto bene, per il Torino che mi ha accolto come una grande famiglia, per lasciare un buon ricordo calcistico di me ai miei tanti compagni e per me stesso, per dare il segno che sono uno con gli attributi.

Chissà, vista la pesante mancanza di riguardo da parte di Ventura, se in panchina ci fosse stato invece di Bianchi un altro giocatore (diciamo, che so, un Alessio Cerci o un Antonio Cassano, per esempio) quale sarebbe stata la reazione alla chiamata di svestire la tuta. Se non una pernacchia, quasi certamente una scrollatina di spalle, come a suggerire: sai che ti dico, mister, in campo ci mandi un altro.

E invece sulla panca quel pomeriggio ci stava Rolando Bianchi, un ragazzo per bene ed educato, mite e cortese.

Passa una mezz’ora e il Comunale scoppia di gioia, sfavilla di bandiere e striscioni: Bianchi, come da promessa, è andato in gol (e fanno 77 con la casacca granata), manca un pugno di minuti alla fine e questo suo sigillo, ultimo per lui in granata, sarà anche quello che chiude in modo definitivo il campionato 2012-13 del Torino, ottavo del presidente Urbano Cairo.

Si è reso conto subito, al volo, che l’avrebbe messa dentro, sin dal momento in cui Cerci, scappato sull’ala, aveva messo al centro quella rasoiata invitante sulla quale lui si era avventato per il tocco vincente da pochi passi. La gioia, grande e quasi commovente, con i virtuali baci e abbracci a tutti, a tutto lo stadio.

Beh, con quel tocco in rete, Bianchi si lasciava alle spalle cinque stagioni intense e importanti per la sua carriera. Nella durata di un attimo di quell’ultimo punto conquistato gli erano passati in rassegna tutti quegli anni, come se un proiettore interno glieli avesse rapidissimamente fatti scorrere agli occhi della mente. A fine gara, in un misto di delusione e rammarico, si apre ai giornalisti con queste parole, che vanno ben al di là di retorica:

 

Eccomi arrivato, sono proprio all’addio. Non ne sono felice affatto, ma è andata così. Cinque anni a Torino, al Toro, non si possono dimenticare. Sono orgoglioso di avere indossato questa maglia e spero di averlo fatto con onore. Ho vissuto momenti di grande soddisfazione e altri piuttosto difficili, ma ho sempre ricevuto soltanto affetto e, credetemi, così tanto che non me lo sarei atteso. Così se oggi che me ne vado e qualcuno di voi mi chiede che cosa mi mancherà della città e del club non posso che rispondere: tutto, mi mancherà tutto.

 

E pensare che la sua vicenda al Torino aveva preso le mosse in modo non del tutto simpatico o, meglio, lineare.

Uscito ancora un po’ da sgrezzare da quella autentica fucina di bravi giocatori che è la scuola dell’Atalanta, maglia con la quale aveva debuttato nella massima serie, trascorso un anno interlocutorio a Cagliari, ecco arrivare una svolta importante.

Nella carriera di ogni calciatore ci sono non soltanto delle tappe significative colte strada facendo (il debutto, il primo gol, la nazionale) ma anche squadre che ne segnano il percorso più di altre, che lasciano un solco più profondo di emozioni, ricordi e affetti. Fatta salva la casa madre bergamasca, è sotto le tonalità lievemente diverse di granata della Reggina e del Torino che Bianchi ha vissuto il meglio delle sue stagioni di bomber.

Sì, di bomber autentico. Il gol lo ha sempre accompagnato, ora con assiduità ora con meno frequenza, ma ha sempre avuto un peso sul piatto della bilancia del suo rendimento. Ed è, come si sa, col gol che si conquistano le platee.

Rapire il cuore di una tifoseria calda e sanguigna come quella della Reggio calabrese è un attimo o, meglio, una stagione, la sua seconda sullo stretto, un campionato da incorniciare (2006-07). Pesante la mazzata del giudizio sportivo che, al nastro di partenza, accolla sul groppone della squadra la bellezza di 11 punti di penalizzazione. Il trainer Walter Mazzarri avrà il suo bel da fare a tenere in A la sua truppa. I timori di non farcela sono tanti, ma presto succede una sorta di miracolo, Bianchi affina con l’altra punta titolare, Nicola Amoruso, un feeling che risulta letale per le difese avversarie. L’alchimia scatta magicamente. Prima si schioda lui, che nella giornata di apertura del torneo fa addirittura tripletta contro il Palermo; il compagno lo segue qualche domenica dopo con la rete che dà la vittoria sulla Roma. E poi vanno a segno in tandem contro Parma, Empoli, Catania, Messina per arrivare sul traguardo della classifica dei marcatori rispettivamente al quarto e quinto posto con 18 e 17 centri e la permanenza in A assolutamente garantita (nota a margine, e guarda se non è destino: Bianchi “castiga”, fra i tanti, anche il Toro rifilando ai granata la doppietta che li stende in casa 1-2).

Dire delle feste reggine è poco, dire di immaginare un’altra annata così… è utopia. Bianchi è ambito e il richiamo più forte arriva da Albione, dove il Manchester City lo reclama. La dirigenza reggina quasi non crede a quelle sirene, ma quando sul banco della trattativa si concretizzano più di dieci milioni di euro, toccare la concretezza di quella realtà e, seppure a malincuore, imbarcare Bianchi sul primo aereo per l’Inghilterra è un tutt’uno. I gemelli del gol di Reggio Calabria si dividono, il segno che lasciano è così potente che resterà nel tempo come un ricordo incancellabile.

Bruttina l’esperienza oltremanica. Bianchi è spaesato, gioca poco e male, segna pochissimo. E pensare che idealmente il fisico è più che adatto al campionato britannico. Alto, slanciato, robusto, alieno alle moine quando incassa le botte, deciso nello slancio, volitivo, prestante nel corpo a corpo, svettante nel gioco aereo; insomma ha di tutto per non solo adattarsi alla Premier League, ma per frequentarla da primo attore. Eppure la cosa non funziona, chissà… saudade all’italiana?

Fatto sta che nel mercato invernale (siamo nel gennaio del 2008) Lazio e Torino lo vogliono accasare e le richieste sono per lui un vero toccasana. Quasi d’impulso, sceglie la Lazio e ai tifosi granata questa decisione garba poco, non la riescono a digerire. Così quando il 27 gennaio, proprio alla sua prima partita in maglia azzurra, si presenta sul prato del Comunale è beccato con tanta perfida e precisa malignità ogni volta che tocca palla da perdere la pazienza e farsi espellere (curiosità a latere: stessa sorte per Federico Balzaretti, ex granata considerato “traditore” per aver in tutta fretta abbandonato il club l’anno della grande diaspora a seguito del fallimento cimminelliano. Il 14 aprile 2013 sceso a Torino con la casacca della Roma è fischiato con così tanta pervicacia da indurlo, alla fine, a qualche fallo di troppo con conseguente cacciata anticipata negli spogliatoi. Da cui la morale: la memoria del tifoso è tanto gelidamente implacabile nei confronti di chi lo delude, quanto è generosamente accalorato il suo affetto per chi gli mostra rispetto).

Anche a Roma per Bianchi le cose non vanno per il verso giusto: poco sugo e anche poca sostanza, sebbene – e guarda, di nuovo, se non è destino – faccia in tempo a timbrare la sua sosta in azzurro proprio contro la Reggina.

Con l’estate allora il d.s. granata Petrachi torna alla carica e questa volta fa centro: Bianchi è del Torino. In tanti storcono il naso e, sul momento, lo criticano, ma lui sa che a suon di gol saprà farsi perdonare ogni cosa e comincia subito: segna il terzo sigillo della vittoria (3-0) casalinga dei granata alla prima di campionato. Per quanto l’inizio del torneo sia buono, l’annata scivola via storta. De Biasi, Novellino e Camolese non bastano a tenere a galla la squadra che retrocede malamente, con un match finale casalingo contro il Genoa che finisce in scandalosa rissa. Alla faccia dell’antico gemellaggio fra le due società!

Con la stagione che verrà il Torino è costretto a recitare per la decima volta nella sua storia fra i cadetti. La tifoseria è profondamente delusa. Il presidente Cairo, sempre molto attendista nonché ottimista, non può certo prevedere che il club è atteso addirittura da un triennio di purgatorio. Quanti aiuti in meno, quante tribolazioni, quanti alti e bassi di umore, contestazioni, arrabbiature.

Anche l’impegno di Bianchi, che gioca il suo secondo campionato in granata alla grande, non serve a riportare a galla i colori. Sarà comunque questo 2009-10 il suo campionato perfetto in casa Toro. Chiude con 24 gol, a cui ne vanno aggiunti altri tre: uno in Coppa Italia e due nei playoff che i granata sono chiamati a disputare, arrivando però sconfitti all’atto finale decisivo a opera del Brescia.

In stagione Bianchi fa vedere di tutto ai suoi tifosi, anche la freddezza di calciare i rigori. Sciorina con eleganza e continuità un bagaglio di gesti atletici che lo rivela non solo ben attrezzato sotto il profilo fisico, ma soprattutto in quello tecnico, implacabile, del goleador. Segna in tutti i modi, dando lieve preferenza al colpo di testa, favorito dalla notevole altezza, che declina in molte versioni: con impatto forte e violento, in girata e avvitamento, in tuffo plastico, conseguendo traiettorie varie, fra cui alcune palombelle veramente malefiche per il malcapitato portiere di turno. Nel menù che offre alla platea c’è poi il gol in acrobazia. Si inventa ricette gustose, ma la più squisita, la migliore, la più apprezzata dal palato dei tifosi, la serve sul prato del Comunale il 23 ottobre 2009, guarda caso, proprio contro la sua Reggina. Azzecca, con coraggio e fantasia, una rovesciata al volo che definire spettacolare è riduttivo. Per un attimo, quando si verificano gesti così audaci, si sta tutti fermi nello stadio, perché l’improvvisazione è ardita, solo quando la rete che si scuote segnalando che è tutto vero, parte il via all’applauso. Meno appariscente, ma altrettanto redditizio, il tiro, che quando è azzeccato risulta teso, potente e preciso. Non di rado è la zampata in tap-in a conquistare il punto: le lunghe leve agevolano la battuta e ai tifosi più stagionati il tocco riporta alla mente quello, altrettanto efficace, di un altro grande centravanti granata, Guglielmo Gabetto, capace di infilare la lunga gamba fra terzino e portiere per metterla nel sacco.

Buona a livello individuale anche la stagione che segue (2010-11) con 19 centri in campionato, ancora non sufficienti per la risalita. Nascono le prime incomprensioni con il nuovo allenatore, l’ex granata Franco Lerda. Nel tabellino di fine stagione Bianchi è accreditato di 33 presenze, ma molte sono a gara iniziata, se non addirittura in chiusura. Bianchi ci sta male e in più di una occasione quando va in gol, si porta il dito indice alle labbra e corre verso la panchina, come a dire: hai visto e ora stai zitto!

Tensione che non fa bene a nessuno e che diventa ancora più palpabile a seguito dell’ennesimo cambio di allenatore, quando sulla panchina granata nel nuovo torneo viene a sedersi Gian Piero Ventura. La figura di Bianchi, centravanti pivot, nel contesto degli schemi tattici che intende attuare non trova collocazione. Progressivamente gli ingressi in campo si fanno via via più radi e soprattutto di breve consistenza. Passi il primo anno, ma col secondo gli attriti, per quanto silenziosi, producono incrinature profonde. Bianchi non si lamenta e gioca quando gli è concesso, segna anche, seppure giocoforza di meno e si appresta a fare le valigie che trovano plastica rappresentazione nella match interno con il Catania raccontato nell’incipit.

La sua storia al Torino finisce in sordina come il giocatore non si meriterebbe. Se è vero che tornare a giocare in A è stato gratificante, dopo un triennio di sofferenze, e può aver distratto nell’euforia, non è però giusto restare indifferenti come l’universo granata, a tutti i livelli, sembra accogliere la notizia della sua cessione, come da un breve sfogo del diretto interessato:

 

Il mio dispiacere più grande è che tutto sia come finito nel silenzio. Un silenzio assordante, specie da parte del presidente. È un peccato, da parte mia ho sempre dato il massimo e, ovviamente, l’ho fatto anche per lui, perché lo ringrazierò sempre per avermi dato il Torino e mi ha permesso di rientrare in Italia e non in una squadra qualsiasi, ma nel Toro. Sia chiaro, Cairo mi ha dato molto e non solo a livello economico, mi ha anche permesso di entrare nella storia di questa grande squadra. Ho sempre provato un grande orgoglio, un sentimento che per me viene anche prima dei quattrini, qualcosa che resterà sempre con me, assieme con l’affetto di tutta la gente granata.

 

 

Letture consigliate:

Franco Ossola, I campioni che hanno fatto grande il Torino, Newon Compton, Roma, 2015.