Gianluigi Lentini
La fantasia al potere
(Carmagnola, 27 marzo 1969)
«In tanti anni di calcio giocato e vissuto, raramente mi è capitato di incontrare un giocatore così talentuoso».
Parole pesanti, importanti, sottoscritte, senza tentennamenti, da uno che di calcio non solo se ne intagliava, ma ne aveva “masticato” tantissimo, sul campo e fuori: Emiliano Mondonico.
Nella vita di ciascuno di noi spiccano persone che, in modo più o meno sensibile, ci hanno aiutato, guidato, indirizzato. Ebbene, fatti salvi ovviamente gli affetti familiari, la vita calcistica e umana di Lentini trova nella figura di Mondonico un passaggio chiave, determinante. Certo, nel corso di una carriera lunga come la sua, anche altri personaggi hanno timbrato nel suo cuore e nelle sue azioni momenti significativi. Basti pensare a chi lo ha avuto allievo nelle giovanili (Sergio Vatta e colleghi del Filadelfia) o a Gigi Radice che lo lancia in A quando ha appena 17 anni, tuttavia Mondonico, incrociando come un leitmotiv la sua strada, rappresenta qualcosa di speciale, tanto da apparire persino più di un mentore.
Una vita da romanzo la sua, già anche se considerata solamente sul fronte calcistico, tanto appare intensa, magmatica.
Al di là delle circostanze, è il suo stesso carattere, il suo modo di essere, a garantire uno sviluppo costantemente sintonizzato sul registro dell’imprevedibilità. Il football gli piace, eccome, ma lo vuole interpretare come gli garba, come gli suggerisce l’estro, che è davvero tanto. Queste caratteristiche fanno del giovane Lentini un elemento, come dire, “raro”, pur nel panorama ricchissimo delle squadre giovanili granata che crescono al Filadelfia.
Quando lui bussa al Torino, il fermento che vi riscontra ha il sapore dell’eccezionalità. I maestri di calcio che trovano in Vatta un leader indiscusso, per capacità tecnica e umana, stanno plasmando giocatori di rango, e alcuni di classe superiore, a getto continuo. Il vivaio diretto ormai da decenni dal dottor Cozzolino è additato non solo in Italia, ma un po’ in tutta Europa, come un incredibile esempio di efficienza organizzativa e soprattutto come una fucina di preparazione tecnica, psicologica e umana da prendere assolutamente in esempio.
I ragazzi che vestono la casacca granata sono molti, ma fra i tanti pur in gamba, non ce n’è alcuno che spicchi come Lentini nella sommatoria delle capacità calcistiche: prestanza fisica, tecnica di base, astuzia, potenza, stile. Sin dalle sue prime partite fra i ragazzi rivela un talento fuori dal comune.
Madre natura lo ha dotato di un fisico che non passa inosservato, una struttura sulla quale gli dèi del calcio hanno poi provveduto a instillare un’ingenita, spontanea capacità a dare, come si dice in gergo, del tu al pallone. Per farla breve: una sorta di geniaccio del calcio, per doti innate, sulle quali e grazie alle quali immaginare di costruire un autentico fuoriclasse non è certo fantasia proibita o azzardata.
Pretendere tutto però è eccessivo.
Dovrà pur avere qualche difettuccio questo giovane campione?
La domanda è lecita e, volendo, trova risposta in certi modi trasgressivi, in comportamenti di sufficienza, in atteggiamenti che, a volte, paiono svogliati, poco concentrati, da uno che quasi quasi se ne frega. Figlio del suo tempo, e cioè di anni passati tesi, gonfi di contestazioni nei confronti di un mondo da troppo tempo ingessato in regole rigide e per certi versi assurde, Lentini sente su di sé il soffio del rinnovamento, di una acquisita libertà per tutti, che è anche un po’ quel sentimento che mette, a testa bassa, nel suo modo di giocare.
Con le squadre giovanili del Torino vince molto e si mette indiscutibilmente in mostra.
Nella stagione 1986-87 il club sta vivendo un altro momento clou della sua storia. Il presidente Sergio Rossi, succeduto al mitico Orfeo Pianelli, è al suo ultimo anno di mandato: non ce la fa più a resistere agli attacchi di una tifoseria ingrata che è arrivata a contestarlo in modo quasi brutale, trovando appigli quasi banali, come il rimproverargli di non essere sempre presente alle partite, per rinfacciare gli ultimi risultati, non del tutto gratificanti, della squadra. Ad aggiungere pepe alla situazione, già di per sé calda, ci si mette anche l’allenatore Radice che, in corso di stagione entrerà in brusco contrasto con gli uomini chiave della rosa, vale a dire Junior, Dossena e, in parte, lo stesso capitan Zaccarelli, costretti a fine campionato i primi due a cambiare aria, il terzo al ritiro.
In questo clima poco sereno, con la squadra che viaggia su alti e bassi, tuttavia sotto tono rispetto alle attese, Lentini si gode invece la sua prima bella soddisfazione da professionista. Aggregato da tempo alla rosa dei titolari, il 23 novembre 1986 ha la soddisfazione di giocare gli ultimi spezzoni del match che i granata perdono in quel di Brescia. A questo esordio seguono altre apparizioni, così che a fine stagione ne conterà dodici, fra cui una in Coppa Italia.
Il dado è tratto, la porta si è spalancata, il viaggio verso il successo ha inizio. Viste le premesse il rampante Lentini ha il mondo fra le mani, la carriera che gli si prospetta non può che essere radiosa. Ma è ancora così giovane.
Consumata una seconda stagione con l’incremento dei gettoni di presenza, è giunta l’ora, a vent’anni non ancora scanditi, di veleggiare verso lidi che permettano di scendere in campo con maggiore continuità. Va da sé che la destinazione di Ancona, fra i cadetti, varrà giusto il tempo provvisorio per consolidare la grinta, affilare i tacchetti in tackle sempre più tosti, scolpire il temperamento nelle lotte aspre della serie minore; tutto ciò maturato, il rientro a casa sarà garantito.
Ad accoglierlo, dopo una bella stagione fra i cadetti, è un Torino ancora una volta in subbuglio. La presidenza è passata nella mani di un ingegnere, giovane e volitivo, che dice di voler fare del Torino una delle sette grandi sorelle del nostro campionato. Si chiama Gian Mauro Borsano. La piccola statura tradisce, come spesso capita negli uomini, un’ambizione grande, una voglia di emergere che traspare in ogni dichiarazione e, in modo particolare, nell’affrontare il mondo del pallone, su cui si affaccia per la prima volta, senza troppi pensieri, senza tremori, ma con qualche leggerezza di troppo. A ogni buon conto, con la squadra scivolata in serie B per la seconda volta nella sua storia, Borsano intende fare le cose non solo per bene, ma addirittura alla grande.
Convoca sulla panchina granata un trainer saggio ed esperto, che ha l’abitudine (o il vizio?) di non guardare in faccia nessuno o, meglio, di dire, forse troppo sovente, pane al pane a tutti. Come con i giornalisti non si lascia scappare un pelo, così con i giocatori che allena Eugenio Fascetti è diretto e immediato: quando, a suo avviso, è il caso di tirare loro le orecchie. Inevitabile, in queste condizioni, entrare in rotta di collisione con Lentini, spirito ribelle, anarchico nella vita come sul prato. Le consegne sono consegne, dice Fascetti, non si può giocare come si vuole; è la squadra che deve risalire non le quotazioni dei singoli, solo tutti compatti si conquisterà la vittoria. Cosa che accade, puntuale, come, alla fine, arriva per Lentini anche la gioia del primo gol che conta, appioppato alla Reggina (vittoria 2-0) il 25 marzo 1990.
Nel corso di stagione però gli attriti fra giocatore e allenatore non si contano, anche se la ragionevolezza prevale, sebbene a serie A conquistata Lentini chieda di essere ceduto. Manco per idea, si dice utilitaristicamente, Borsano, meglio cambiare panchina che disperdere un patrimonio che proprio in questo frangente sta lievitando, eccome (opinione che rapidamente cambierà da lì a breve).
L’arrivo di Mondonico è come una boccata d’ossigeno per Lentini. Il trainer si rispecchia in lui, per quanto, come lui era stato da giovane, è insofferente al gioco, ribelle alle imposizioni, allergico ai luoghi comuni, al gioco monotono privo di fantasia, e per questo entra in sintonia e lo comprende, pur senza risparmiargli qualche stoccata quando se la merita. Ed ecco, allora, avviarsi nel giocatore un processo di maturazione calcistica che ha del notevole.
Anche se potrebbe giocare in ogni spezzone di campo con proiezione offensiva, la collocazione ideale si rivela essere quella del tornante che partendo dalla sua metà campo va a dilagare sulla fascia, trascinando la palla ora sul fondo per il cross, ora, rientrando, verso il centro area per una possibile conclusione. Assistito da un dribbling che a tratti confonde anche il difensore più esperto, sorretto da un fisico che si è intanto molto irrobustito e che gli consente progressioni devastanti, padrone di una tecnica con i due piedi che non ha nulla da invidiare a nessuno, la critica non può fare a meno di parlare di Lentini come del nuovo fuoriclasse italiano.
L’apprezzamento non è fuori luogo.
Se solo la testa fosse più ordinata… è però anche vero che se lo fosse, come qualcuno reclama, il calciatore non sarebbe così, non avrebbe quei numeri, sarebbe un Lentini diverso.
Difficile in qualche modo etichettarlo.
Un fantasista moderno, utile alla squadra, perché non sa soltanto inventare, tirando fuori dal cilindro della sua fantasia colpi di genio, ma sa anche lottare, sacrificarsi, rientrare, contrastare. Ciondola in dribbling qua e là, fa uso della finta con una dimestichezza naturale e quando decide di partire sulla fascia in slalom, la sua azione tende sovente ad assumere il carattere della irresistibilità. Se un appunto gli si può muovere è la non spiccata confidenza con il gol, ben compensata comunque dai tanti che, in controparte, fa realizzare ai compagni con le sue sgroppate. A molti osservatori sembra una felice sintesi di due altri campionissimi della storia granata: Gigi Meroni, per quella immaginazione fervida che nel gioco non dà nulla per scontato, facendo assumere anche al gesto più semplice una sua particolarissima caratteristica di stile, e Claudio Sala, per quel modo di piegarsi sul pallone, difendendolo, per poi andarsene via lungo la linea dell’out con autorità e slancio. Senza dimenticare che giocare a fianco di calciatori del calibro di Scifo, Casagrande, Cravero, Martin Vazquez, Fusi, Mussi, Policano e i tanti altri che annovera l’organico granata è ulteriore scuola di apprendimento calcistico, sia in fatto di stile che di carattere.
Il Toro di Borsano compie belle imprese: risalita in serie A, quinto posto in campionato, conquista della Mitropa Cup, terzo posto in campionato, finale di Coppa uefa. Lentini è in spolvero, una perla lucente vestita di granata che attira l’attenzione vigile di chi ha tutti i mezzi per portarsela nel proprio scrigno.
Quando l’estate del 1992 apre i battenti alla campagna acquisti, Borsano, già in gravi difficoltà economiche e presto giudiziarie, è costretto a rivedere i suoi piani ambiziosi e, ma lo si scopre ora, del tutto scriteriati, considerate le sostanze che impropriamente aveva sempre millantato di possedere. Sono in tanti a dire addio al granata: Silvano Benedetti, Giorgio Bresciani, Roberto Cravero, Rafael Martín Vázquez, Roberto Policano e pure lui, Gigi Lentini; anzi è lui il primo della lista, appurato che per il suo acquisto il Milan del presidente Silvio Berlusconi offre una montagna di quattrini.
Come dire di no? Borsano è contestato, la città presa in assedio da una tifoseria incazzata, illusa di aver finalmente trovato una stabilizzazione societaria che sta invece mostrando il suo aspetto peggiore: lo spettro del fallimento.
Vestire il rossonero agli inizi degli anni Novanta per un calciatore era come trovare il Perù, voleva dire, se solo le cose fossero andate per il meglio, mettere in ordine anche il futuro, il dopo, in altre parole una sorta di assicurazione. Fabio Capello, il mister del momento, non ha solo la faccia un po’ truce di chi ha sempre battagliato con successo e sa che cosa vuol dire farcela, ma anche un carattere spigoloso che il mestiere di trainer ha ulteriormente accentuato, visto che trattare con tante prime donne è impresa per lo meno ardua su ogni fronte. Di nuovo, Lentini stenta, gioca, certo, e segna anche qualche gol, ma dire che stia completamente a suo agio forse è non vero.
Un grave incidente automobilistico, patito nell’agosto del 1993, lo tiene lontano dal calcio a lungo. Quando rientra non è più lui e il Milan, trascorse altre tre stagioni quasi in anonimato, lo cede all’Atalanta. Qui ritrova Mondonico che si fa punto d’orgoglio di riportarlo ai livelli che gli competono. L’assonanza di intenti, l’affinità nel sentire, il feeling profondo fra i due riconducono Lentini a una condizione psicofisica eccellente. Gioca sempre e con buon profitto. Non si smarrisce più, ritrova slancio e foga, Mondonico, ancora una volta ha riacceso in lui la luce.
A Bergamo ci sta un anno soltanto, perché per la stagione che viene si accasa di nuovo al Torino dell’ennesima nuova dirigenza, detta dei “genovesi”, dai quattro personaggi, con attività imprenditoriali radicate nel capoluogo ligure, che guidano il club che naviga in B.
Lentini è accolto dal popolo granata con grande entusiasmo, come un figliol prodigo che rientra alla casa del padre dopo tanto girovagare. L’affetto che avverte lo stimola, gioca sempre, continua a non segnare molto, ma sa ancora dare il suo bel contributo che per quanto non basti per la risalita (svanita in uno spareggio mortale contro il Perugia), getta però le basi per una squadra finalmente pronta a farcela.
Lentini, che porta con orgoglio la fascia di capitano, dichiara di voler il suo Toro in A e quando, nell’estate del 1998 Mondonico torna a sedersi sulla panchina, sentitosi ancor più rinfrancato nell’intenzione, questo desiderio diventa per lui un imperativo. A fine campionato, solo il Verona, e per un solo punto, sta davanti ai granata. La coppia Mondonico-Lentini non ha fallito il bersaglio della A. Taumaturgico per il calciatore il tocco del maestro, la fiducia che gli accorda è come benzina per il suo fisico, nutrimento per la sua voglia di continuare a giocare. A trent’anni Lentini si gioca ancora un bel campionato in serie A, guidato dal nume tutelare Mondonico.
Quando il campionato finisce, come in due storie parallele, sia per il trainer che per il giocatore, le rispettive personali vicende a braccetto al Torino sono arrivate una volta per tutte al capolinea, anche se per tutti e due l’avventura nel calcio non cessa.
Lentini giocherà ancora per un decennio, per quanto in tono e su palcoscenici minori, ma sempre portando in campo quella straordinaria ricchezza di invenzioni e di giocate imprevedibili che ne hanno fatto uno dei più grandi talenti del calcio italiano degli anni Novanta e in assoluto uno dei fuoriclasse della storia del Torino.
Letture consigliate:
Massimo Ellena, Gianluigi Lentini, le quattro vite di un campione, effedi Edizioni, Alpignano, 2017.
Franco Ossola, Forse non tutti sanno che il grande Torino…, Newton & Compton, Roma, 2018.