Marco Ferrante

L’egoismo del vero bomber

(Velletri, 4 febbraio 1971)

 

 

 

 

 

 

Fate largo, fatemi passare, sono Marco Ferrante.

Non lo ha mai detto a voce, ma con i fatti certamente sì.

Difficile per un compagno schierato come lui in avanti starci insieme, condividere l’attacco: troppo esclusivo, troppo puntiglioso per, come dire, fare a metà con qualcun altro di un merito, di un gol.

Nella storia del Toro o, meglio, delle imprese del Toro, Marco Ferrante sta a fianco di Julio Libonatti. Non solo per il numero nove che si sono portati sulle spalle in campo (il primo in modo virtuale perché quando lui giocava, negli anni Venti, i numeri sulle maglie non erano ancora previsti), ma per un dato statistico di peso. Come l’argentino è in testa con 153 reti della top list per quanto riguarda la serie A, così Ferrante guida la classifica dei bomber in ambito serie B con 80 gol. Sulla coppia e su tutti in generale, fromboliere assoluto (nella sommatoria dei centri realizzati in campionato e coppe) non va certo scordata la figura di Paolo Pulici, forte di un bottino salito a 171 gol.

Una bella collana di successi personali, quella di Ferrante in granata, iniziata nel 1996 in serie B e chiusa otto stagioni dopo, nel 2004, sempre fra i cadetti. Casteldisangro e Piacenza per il battesimo e l’addio, in mezzo tante emozioni, tanti bersagli centrati.

Lungo il suo peregrinare in giro per l’Italia prima di accasarsi al Torino di un presidente Calleri sempre meno motivato e del trainer Mauro Sandreani, accolto come possibile salvatore della patria granata, oramai troppo dimessa per essere autentica, ma destinato a un flop inatteso.

Però, a venticinque anni, Ferrante è nell’età giusta per poter fare bene. Non che altrove (Napoli, Reggina, Pisa, Parma, Piacenza, Perugia, Salernitana dove è stato) non abbia dato mostra di sé, ma le tante esperienze non avevano mai avuto il segno della continuità, importante invece per la consacrazione di un bomber.

Al Toro si vedrà e tutti si augurano, tifosi per primi, che il nuovo attaccante ci sappia davvero fare con il gol.

I granata sono malamente scesi in serie B per la terza volta nella loro storia. È speranza comune che avvenga quello che nelle due precedenti analoghe situazioni (tornei del 1959-60 e 1989-90) si era registrato, ovvero la subitanea, pronta e convincente ripresa della serie A. Mai speranze andarono più crudelmente deluse. Il Toro non solo non ce la farà (e Sandreani verrà rimosso anzitempo per lasciare la panchina a Lido Vieri), ma questa sarà la prima stagione di uno stazionamento fra i cadetti protratto per tre lunghi interminabili campionati.

Ci impiega un po’, Ferrante, a mettere il primo sigillo cui si è fatto cenno, in compenso, finalmente rotto il ghiaccio, ingrana la quarta e lo fa con autorità in una sequenza davvero importante. Per sei domeniche filate (22 dicembre 1996-2 febbraio 1997) va a segno, cogliendo nella seconda tappa di questo brillante percorso un exploit a dir poco esaltante, una sorta di gemma incastonata nella sua carriera al Torino, un’impresa che vale ricordare in dettaglio.

Il 5 gennaio 1997 al Delle Alpi il Torino supera 4-1 la Reggina e tutti e quattro i gol portano la sua firma! Il botto scomoda gli statistici che devono andare alquanto a ritroso, spostarsi nel tempo granata di oltre trent’anni per rintracciare un evento simile. E spunta il nome di Eusebio Castigliano che il 30 giugno 1946 dei sette gol (a uno) rifilati al Napoli ne realizza per l’appunto quattro. In 101 gol che hanno fatto grande il Torino, si legge:

 

Una partita, quella odierna, che la Reggina gioca con intelligenza per tutto il primo tempo, ma che si guasta con le proprie mani perché lo stopper Napolitano si fa stupidamente cacciare prima del tempo per uno sciocco, per quanto pesante, fallo sull’ala granata Sommese. Guarda caso, Napolitano è l’uomo che ha in custodia Ferrante che dal momento della sua cacciata si sente libero come un fringuello, ben aiutato dalla squadra. Per tutto il secondo tempo il mini bomber è una spina nel fianco della difesa calabrese. Tutte le sue quattro reti sono frutto di azioni in contropiede, giocate sul registro della rapidità e della buona tecnica di base.

 

Meraviglia anche nella realizzazione lo sfoggio di un repertorio che appare pressoché completo: tempismo, rapidità d’intento, furbizia, velocità, tecnica, intuito. La prima frazione si è chiusa sullo 0-0, ma non si fa in tempo a rientrare che su lancio di capitan Cristallini, la rasoiata di Ferrante non perdona: e uno. Per il secondo centro, valida l’imbeccata del piccolo Nunziata, Ferrante opta per una sorta di pallonetto che rende del tutto vano il tentativo del portiere Scarpi di gettarsi all’indietro. Propiziatore delle altre due reti è lo straniero di turno Matjaž Florijančič che lo sa ispirare con servizi che sono inviti al gol e Ferrante non si fa pregare. Il giorno dopo il giornalista Claudio Giacchino scrive:

 

Marco Ferrante in un colpo solo firma un poker di reti. Impresa davvero memorabile per un torinista, e memorabilissima per il suo autore se teniamo conto di questo fatto: sommando anche il gol decisivo di domenica scorsa, il piccolo Ferrante ha quasi combinato, in due partite, quanto era riuscito a fare nell’intera scorsa stagione quando l’aveva conclusa a quota sei nella classifica cannonieri. Il bomber ha avuto fortuna agendo sempre sul contropiede favorito dalle praterie che l’espulsione di Napolitano, non a caso il suo controllore, e poi la necessità di rimontare avevano spalancato nel centrocampo e nella retroguardia reggina.

 

Sta a vedere che abbiamo finalmente trovato un attaccante che segna, una punta vera, sospirano, fiduciosi, i tifosi. E l’impressione viene ulteriormente corroborata da quello che Ferrante compie nelle successive domeniche, andando ancora a segno di seguito con puntualità cronometrica. Per sei gare di fila timbra il cartellino dei goleador e a fine stagione ne mette insieme 13, un bottino importante, ma che serve a poco ai fini della risalita: il Toro resta in serie B.

Nel frattempo la dirigenza è passata da Calleri ai cosiddetti “genovesi” che indicano in Massimo Vidulich la figura del presidente che dovrà rappresentare la loro proprietà e la Società. I sogni di gloria non sono pochi. Ma una su tutte è l’intenzione che sembra ispirare i nuovi arrivati: provare a gestire il club alla maniera britannica. L’idea è quella di condurre il Toro all’inglese. Ecco che, per coerenza, viene convocato sulla panchina lo scozzese Graeme Souness, un breve trascorso in Italia come calciatore in forza alla Sampdoria. Peccato che il diretto interessato, che non parla italiano e sin da subito sembra un pesce fuor d’acqua, non abbia neppure una minima conoscenza del calcio italiano del momento e tanto meno della serie cadetta, ancor più intricata di quella maggiore. Come a dire, un disastro annunciato.

Anche se il ritorno di Lentini, la conferma del già rientrato Cravero e l’arrivo del motorino Asta suscitano entusiasmo, la squadra non offre quel che promette soprattutto per incomunicabilità con Souness che già alla settima giornata lascia a un nuovo mister, Edoardo Reja.

Dopo qualche ritocco, la squadra riparte con grande slancio e con essa Ferrante si ritrova. A suon di gol porta il Torino avanti in classifica e la speranza di farcela a risalire in A si fa più viva che mai col trascorrere delle domeniche. Il Toro si sta facendo squadra e Ferrante ne interpreta umori e voglie, ne diventa il “profeta”, l’uomo che la cava fuori dai guai, che segna all’ultimo momento, ma soprattutto che con la sua continuità nell’andare a bersaglio si pone come una garanzia. La battaglia finale, per il quarto posto utile, i granata sono chiamati a giocarsela in uno spareggio mortale contro il Perugia, fino all’ultimo incollato alla vetta.

Il 21 giugno 1998 sul campo neutro di Reggio Emilia si lotta con accanimento e Ferrante, come da suo costume, non si sottrae. Si batte come un leone, sgomita e non si concede pause. È lui, con un colpo di testa (lui che non si può proprio definire alto) a pareggiare il conto nell’arco dei novanta minuti. E non esita a insaccare anche il rigore che gli tocca quando, dopo i supplementari, tutto deve essere deciso dal dischetto. Ed è sempre lui a lasciarsi scappare a giochi fatti, oltre a qualche imprecazione di rabbia per la sconfitta, anche una lacrima, nel vedere il suo capitano Roberto Cravero, giunto al capolinea di una bella carriera, piangere sconsolato, seduto madido di sudore, nel centro del campo.

In stagione ha centrato 19 volte la porta avversaria. È in crescita continua, tanto è vero che l’anno successivo, con il ritorno di Emiliano Mondonico in panchina, tocca quota 27 gol, cogliendo il nuovo record di categoria, record che solo un campione come Luca Toni saprà sottrargli qualche stagione dopo.

Questa volta però tanta fatica e tante belle reti non vanno, come dire, sprecate, gettate alle ortiche. Il Torino ce la fa e si riprende il massimo campionato. Per Mondonico, che ha al suo servizio una rosa a dir poco elefantiaca (a fine annata si contano ben 37 giocatori che, fra campionato e coppa nazionale, hanno vestito almeno una volta la maglia granata!) il campionato è sempre in discesa e sono proprio i tanti gol di Ferrante a renderlo più agevole che mai.

E l’anno appresso in A, in un campionato destinato di nuovo alla discesa di categoria, Ferrante fa ancora meglio, si esalta in 18 centri che lo premiano, in coppia con Vincenzo Montella, come il goleador italiano più prolifico.

Ormai i tifosi ne hanno fatto il nuovo Pulici, per quanto i due attaccanti siano l’uno opposto dell’altro. Quanto il primo era potente, tanto il secondo sa rimediare al fisico minuto con l’agilità; quanto Pulici non temeva gettarsi nelle mischie più accanite, tanto Ferrante le sa quasi schivare, sgusciando con agilità; tanto il primo era generoso e altruista, capace di dialogare e di condividere il peso dell’attacco con un compagno altrettanto bravo (leggasi Francesco Graziani), tanto il secondo preferisce “mettersi in proprio”, sorretto da una forma di egoismo che lo porta il più delle volte ad escludere un partner.

Da qui un atteggiamento a tratti poco simpatico, ma comunque produttivo per la squadra. Voler stilare l’elenco delle altre punte per lo meno oscurate dalla personalità di Ferrante è presto fatto: Cammarata, Florijančič, Claudio Bonomi, Tiribocchi, Artistico, Parente, Calaiò, persino bomber di lusso come Silenzi, Quagliarella e Cristiano Lucarelli. E vaglielo a dire. Lui si difende con un assioma che, d’altra parte, molti osservatori condividono: un attaccante se non è anche un poco egoista non è un attaccante vero. “E io attaccante ci sono nato”, sembra dire con i suoi gol a raffica.

Eppure a gennaio del 2001 tutto questo sembra non bastare più. L’Inter del presidente Massimo Moratti è a caccia di gente che la sappia metter dentro e posa gli occhi su Ferrante. Certo, l’occasione è ghiotta, la serie A al massimo livello. La società cede e Ferrante veste il nerazzurro dove non fa neppure male, ma dove non sta a suo agio come al calduccio dell’affetto granata e dei tanti tifosi che lo reclamano. Il rientro a casa è immediato a fine stagione.

Lo aspettano altri tre campionati, di cui i primi due in A e il terzo fra i cadetti, anche questi marcati dal solito vizio: segnare. Nel 2001-02 i centri sono 10; la stagione dopo 6 e nell’ultima, quella del 2003-04 ancora 13. Sono gli anni in cui Ferrante mette a punto un modo di festeggiare il gol tutto particolare.

Come è noto, tanta è la soddisfazione che un calciatore riceve segnando da indurlo sovente a inventarsi un modo tutto suo di esultare. Chi accenna a due passi di danza, chi alza le braccia al cielo, chi compie una capriola, chi salta, chi si lascia scivolare sull’erba… ebbene Ferrante si rende interprete di una nuova versione, fortemente simbolica e che tanto piace alla tifoseria.

L’occasione migliore la presta il derby del 24 febbraio 2002. La stracittadina d’andata è finita sul 3-3, consegnando alla storia del calcio l’episodio della buchetta di Riccardo Maspero. Un match al cardiopalma. Al solito, anche questa volta la vigilia è per i bianconeri (che, detto per inciso, vinceranno l’ennesimo titolo), ma il derby è derby e sfugge ai pronostici. E infatti va proprio così. Sul risultato di 1-1 a dieci minuti dalla fine Ferrante va in gol, come a dire stavolta vinciamo. Per dare sfogo alla sua gioia si esibisce nel “torello”. Corre come un pazzo per il campo con le mani aperte sulle tempie a imitare le corna di un toro, questa volta vincente e non vittima della spada juventina. Un gesto quanto mai azzeccato, che suscita l’irrefrenabile applauso, seguito da risata, della tifoseria che già si gode il successo. Ma le strade, e le risorse, della… Juve sono infinite e a un soffio dalla fine un quasi carneade di nome Maresca (passato poi alle cronache calcistiche più per questo che per autentici meriti calcistici) pareggia il conto, stroncando ogni ilarità. In aggiunta, per dileggio e per evidente sfottò, imita lui pure il gesto di Ferrante, correndo in modo provocatorio verso la panchina granata dove se ne sta seduto il mite trainer Giancarlo Camolese. Un presa in giro di cattivo gusto così commentata dal cuore granata Aldo Agroppi: «Maresca non ha saputo fare altro che imitare il gesto di Ferrante. Fossi stato al suo posto avrei cercato di essere più originale. Avrebbe potuto fare qualcosa di più tipicamente juventino, per esempio sculettare!».

È con un calcio di rigore, una sua specialità assoluta (a dimostrazione del temperamento pieno di coraggio e di intraprendenza del soggetto, ché calciare un penalty non tutti se la sentono) che si chiude la carrellata, lunga e intensa, di reti di Ferrante con la maglia del Torino. Il deludente Toro guidato da Ezio Rossi affronta in casa il Piacenza. Al 75’ scatta la massima punizione. Ferrante la insacca da par suo e festeggia. Non può certo immaginare che quella palla sarà la sua ultima tinta di granata, la 114a fra A e B, per un cannoniere che non solo ha scolpito il suo nome nell’albo dei ricordi storici del club, ma è rimasto, checché se ne dica, nel cuore di gran parte della tifoseria granata.

 

 

Letture consigliate:

Franco Ossola, I campioni che hanno fatto grande il Torino, Newton & Compton, Roma, 2015.

id., Forse non tutti sanno che il grande Torino…, Newton & Compton, Roma, 2018.