Parte seconda
1. Pescatori
Il dottor Francesco Zérboli, I.R. Commissario di Porlezza, approdò alla I.R. Ricevitoria di Oria il 10 settembre 1854, proprio quando un sole veramente imperiale e regio sormontava il bastione poderoso della Galbiga, sfolgorava la rosea casetta della Ricevitoria, gli oleandri e i fagiuoli della signora Peppina Bianconi, chiamando, secondo i regolamenti, all’ufficio il signor Carlo Bianconi suo marito, quel tale Ricevitore cui la musica manoscritta puzzava di cospirazione. Il Bianconi, detto dalla sposa «el mè Carlascia» e dal popolo «el Biancòn», un omone alto, grosso e duro, col mento pelato, con due baffoni grigi, con due occhi grossi e spenti di mastino fedele, discese a ricevere l’altro I.R. mento pelato di categoria superiore. I due non si rassomigliavano proprio che nella nudità austriaca del mento. Lo Zérboli, vestito di nero e inguantato, era piccolo e tozzo, portava due baffetti biondi appiccicati alla faccia giallognola, bucata da due scintille d’occhietti sarcastici e sprezzanti. Aveva i capelli piantati così basso sulla fronte ch’era solito raderne una lista, restandogliene spesso un’ombra, quasi di bestialità. Prontissimo di persona, d’occhi e di lingua, parlava un italiano nasale, modulato alla trentina, con facile cortesia. Disse al Ricevitore che doveva tenere un convocato, il consiglio comunale d’allora, a Castello e che aveva preferito venir per tempo, fare la salita, col fresco, da Oria invece che da Casarico o da Albogasio, onde procurarsi il piacere di salutare il signor Ricevitore.
Il bestione fedele non capì subito che c’era un secondo fine, ringraziò con un miscuglio di frasi ossequiose e di risatine stupide, fregandosi le mani, offerse caffè, latte, uova, l’aria aperta del giardinetto. Colui accettò il caffè e rifiutò l’aria aperta con un cenno del capo e una strizzatina d’occhi così eloquente che il Carlascia, vociato su per le scale «Peppina! Caffè!» fece passare il Commissario in ufficio, dove, sentendosi trasmutare, secondo la sua doppia natura, da Ricevitore di dogana in agente di polizia, si fece devoto il cuore e austero il viso come per una unione sacramentale col monarca. Questo ufficio era un ignobile bugigattolo a pian terreno, con le inferriate ai due finestrini, una infetta cellula primitiva che aveva già il puzzo della grande monarchia. Il Commissario vi si piantò a sedere in mezzo, guardando l’uscio chiuso che dall’approdo metteva nell’anticamera; quello che dall’anticamera metteva nell’ufficio era rimasto aperto, per ordine suo.
«Mi parli del signor Maironi», diss’egli.
«Sorvegliato sempre», rispose il Biancòn. «Anssi», soggiunse nel suo italiano di Porta Tosa, «aspetti: ci ho qui un rapporto quasi finito.» E si diede a frugare, a palpar fra le sue carte in cerca del rapporto e degli occhiali.
«Manderà, manderà», fece il Commissario che non si aspettava molto dalla prosa del bestione. «Intanto parli, dica!»
«Malintensionato sempre, questo si sapeva», ricominciò l’eloquente Ricevitore, «e adesso anche si vede. Si è messo a portare quella barba, sa, quella mosca, quella moschetta, quel pisso, quella porcheria...»
«Scusi», fece il Commissario. «Vede, io sono ancora nuovo, ho istruzioni, ho informazioni, ma un’idea esatta dell’uomo e della famiglia non l’ho ancora. Bisogna che Lei me li descriva proprio a fondo così come può. E incominciamo pure da lui.»
«Lui è un superbo, un furioso, un prepotentone. Avrà attaccato lite cinquanta volte, qui, per affari di dassio. Vuol aver sempre ragione, vuol darci lessione a me e al sedentario. Caccia fuori due occhiacci come se volesse mangiare la Ricevitoria. L’è che con me non c’è da fare il prepotente, se del resto!... Perché sa di tutto, poi, questo sì. Sa di legge, sa di finansa, sa di musica, sa di fiori, sa di pesci, el diavol a quatter.»
«E lei?»
«Lei? Lei lei lei lei... lei l’è una gattamorgna ma se la cascia foeura i ong l’è pesg de lü1; peggio! Lui quando va in collera diventa rosso e fa un baccano di mille lire; lei diventa pallida e dice insolense d’inferno. Adesso si dice, insolense io non ne tollero... ma insomma... mi capisce. Donna di talento, sa. La mia Peppina ci è innamorata. Donna che si insinua dappertutto, poi. Tante volte qui a Oria invece di chiamare il dottore chiamano lei. Se in una famiglia questionano vanno da lei. Se ci vien il mal di pancia a una bestia domandano lei. I bagàj s’i a tira dree tücc2. È magari buona, in carnevale, di fare i magatelli per loro. Sa, i burattini. E in pari tempo è un accidente che suona il cembalo, che sa il francese e il tedesco. Io per mia disgrassia non lo so, il tedesco, e sono andato da lei così delle volte per farmi spiegare carte tedesche che capitano in ufficio.»
«Ah, Lei ci va, in casa Maironi?»
«Sì, qualche volta, per questo.»
Veramente il bestione ci andava pure per farsi spiegare da Franco certi enigmi della tariffa doganale; ma questo non lo disse.
L’interrogatorio del Commissario continuò.
«E la casa, come è messa?»
«Messa bene. Bei pavimenti alla venessiana, soffitti pitturati, canapè con tappeti, cembol, camera da pranzo colle pareti tappessate di ritratti ch’è una bellèssa.»
«E l’ingegnere in capo?»
«L’ingegnere in capo è un buon omaccio, allegro, all’antica; mi somiglia a me. Più vecchio però, sa. Del resto qui ci sta pochissimo. Un quindici giorni a questa stagione, altri quindici la primavera e qualche visitina durante l’anno. Quando ha la sua pace, la sua quiete, il suo latte alla mattina, il suo latte alla sera, il suo boccale di Modena a pranso, il suo tarocco, la sua gasètta di Milano, l’ingegnere Ribera è contento. Del resto, tornando alla barba del signor Maironi, c’è anche di peggio. Ho saputo ieri che il signore ha messo un gelsomino in un vaso di legno inverniciato di rosso.»
Il Commissario, uomo d’ingegno e forse indifferente, nel più intimo del cuor suo, a tutti i colori tranne a quello della propria cera e della propria lingua, non poté a meno di alzar un po’ le spalle. Ma poi domandò subito:
«La pianta è fiorita?»
«Non lo so, domanderò alla donna»
«A chi? A sua moglie? Ci va, Sua moglie, in casa Maironi?»
«Si, qualche volta ci va.»
Lo Zérboli piantò i suoi occhietti sprezzanti in faccia al Bianconi, e gli articolò ben chiara questa domanda:
«Ci va con profitto o no?»
«Ma! con profitto! Segond! Lei si figura di andare come amica della signora Luisina, per i fiori, per i lavori, per i pettegolessi, e cicip e ciciap, sa bene, donne. Io poi ci cavo...»
«Tè chì, tè chì!», esclamò nel suo italiano di Porta Ticinese la signora Peppina Bianconi, venendo avanti col caffè, tutta sorridente. «El sür Commissari! Come goo mai piasè de vedèll! El sarà magàra minga tant bon el caffè, però l’è el prim! La bolgira l’è de minga podè toeul a Lügan!»3
«Tetetetetè!», fece il marito, burbero.
«Euh diavol! Disi inscì per rid. El capiss ben, neh, Lü, sür Commissari! L’è quel benedett omasc lì ch’el capiss no! En toeui nanca per mi de caffè, ch’el se figüra! Toeui giusta l’acqua de malva per i girament de testa!»4
«Ciciàra minga tant, ciciàra minga tant!»5, interruppe il marito. Il Commissario, posando la tazza vuota, disse alla buona signora che sarebbe poi andato a vedere i suoi fiori, e questa galanteria parve l’atto di chi, al caffè, butta e fa suonar la moneta sul vassoio perché il tavoleggiante lo pigli e se ne vada.
La signora Peppina intese e, sgomentata per giunta dai grossi occhi feroci del suo Carlascia, si ritirò frettolosamente.
«Senta senta senta», fece il Commissario coprendosi la fronte e stringendosi le tempie colla mano sinistra. «Oh!», esclamò a un tratto, nel raccapezzarsi. «Ecco, volevo sapere se, adesso, l’ingegnere Ribera è a Oria.»
«Non c’è, ma verrà fra pochissimi giorni, credo.»
«Spende molto, l’ingegnere Ribera, per questi Maironi?»
«Spende molto, sicuro. Non credo che di casa sua don Franco abbia più di tre svansiche al giorno. Lei poi...» Il Ricevitore si soffiò sul palmo della mano. «Dunque capisce. Hanno la donna di servissio. C’è una bambina di due anni o ché; ci vuole la ragassa, per curare la bambina. Si fanno venire fiori, libri, musica, el diavol a quatter. Alla sera si giuoca a tarocchi, c’è la sua bottèglia. Ce ne vogliono così delle svansiche, mi capisce!»
Il Commissario rifletté un poco e poi, con una faccia nebulosa, con gli occhi al soffitto, con certe parole sconnesse che parevano frammenti d’oracolo, fece intendere che l’ingegnere Ribera, un I.R. impiegato, favorito recentemente dall’I.R. Governo di una promozione in loco, avrebbe dovuto esercitare sui nipoti una influenza migliore. Quindi con altre domande e con altre osservazioni che concernevano specialmente le presenti debolezze dell’ingegnere, insinuò al Bianconi che le sue attenzioni paterne dovevano rivolgersi con particolare segretezza e delicatezza all’I.R. collega, onde illuminare, occorrendo, la Superiorità circa tolleranze che sarebbero scandalose. Gli chiese finalmente se non sapesse che l’avvocato V. di Varenna e un tale di Loveno venivano abbastanza spesso a visitare i Maironi. Il Ricevitore lo sapeva e sapeva dalla sua Peppina che venivano a far musica. «Non credo!», esclamò il Commissario con subita e insolita asprezza. «Sua moglie non capisce niente! Ella si farà menar per il naso, caro Bianconi, a questo modo. Quei due sono soggettacci che starebbero bene a Kufstein. Bisogna informarsi meglio! Informarsi e informarmi. E adesso andiamo in giardino. A proposito! Quando entra da Lugano qualche cosa per la marchesa Maironi...»
Lo Zérboli compié le frase con un gesto di graziosa larghezza e s’incamminò seguito dal mastino, alquanto mogio.
La signora Peppina si fece trovare ad annaffiar i fiori con l’aiuto di un ragazzotto. Il Commissario guardò, ammirò e trovò anche modo di dar una lezioncina al poliziotto subalterno. Lodando quei fiori trasse destramente la Bianconi a nominar Franco e sulla persona di Franco non si fermò affatto come se non gliene importasse nulla. Si tenne ai fiori, affermò che Maironi non poteva averne di più belli. Strilli, gemiti e giaculatorie dell’umile signora Peppina che perfino si vergognava d’un paragone simile. E il Commissario insistette. Ma come? Anche le fuchsie di casa Maironi erano più belle? Anche le vainiglie? Anche i pelargoni? Anche i gelsomini?
«I gesümin?», fece la signora Peppina. «Ma el sür Mairon el gà el pussee bell gesümin de la Valsolda, cara Lü!»6
Così il Commissario venne poi a sapere molto naturalmente che il famoso «gesümin» non era ancora fiorito. «Vorrei vedere le dalie di don Franco», diss’egli. La ingenua creatura si offerse di accompagnarlo a casa Ribera quel giorno stesso: «Gavarissen inscì mai piasè»7. Ma il Commissario espresse il desiderio di attendere la venuta dell’I.R. ingegnere in capo della provincia per avere occasione di riverirlo e la signora Peppina fece «eccola!» in segno della sua soddisfazione. Intanto il mastino, umiliato da quell’arte superiore, desiderando mostrar in qualche modo che almeno dello zelo ne aveva anche lui, afferrò per un braccio il ragazzotto dall’annaffiatoio e lo presentò.
«Mio nipote. Figlio d’una mia sorella maritata a Bergamo con un I.R. portiere della Delegassione. Ha l’onore di chiamarsi Francesco Giuseppe, per desiderio mio; ma capisce bene, per il dovuto rispetto, questo non può essere il nome solito.»
«Soa mader la ghe dis Ratì e so pader el ghe dis Ratù ch’el se figura!»8, interloquì la zia.
«Citto, Lei!», fece lo zio, severo. «Io lo chiamo Francesco. Un ragasso bene educato, devo dirlo, molto bene educato. Di’ un po’ su, Francesco, quando sarai grande, cosa farai?»
Ratì rispose a precipizio come se recitasse la Dottrina Cristiana:
«Io quando sarò grande mi comporterò sempre da suddito fedele e devoto di Sua Maestà il nostro Imperatore nonché da buon cristiano; e spero coll’aiuto del Signore diventare un giorno I.R. Ricevitore di Dogana come mio zio, per andar quindi a ricevere il premio delle mie buone opere in paradiso».
«Bravo bravo bravo», fece lo Zérboli, accarezzando Ratì. «Seguitiamo a farci onore.»
«Ch’el tasa, sür Commissari», saltò fuori da capo la Peppina, «che stamattina el baloss el m’ha mangiaa foeura mèss el süccher de la süccherera!»9
«Comè comè comè?», fece il Carlascia uscendo di tono per la sorpresa. Si rimise subito e sentenziò: «Colpa tua! Si mettono le cose a posto! Vero, Francesco?»
«Pròpe», rispose Ratì, e il Commissario, seccato da quel battibecco, da quella ridicola riuscita della sua frase paterna, prese bruscamente congedo.
Appena partito lui, il Carlascia menò un «toeu sü el süccher, ti»10, e un formidabile scapaccione a Francesco Giuseppe che si aspettava tutt’altro e corse a salvarsi tra i fagiuoli. Poi aggiustò le partite di sua moglie con un buon rabbuffo, giurando che in avvenire lo avrebbe tenuto lui lo zucchero, e poiché ella si permise di ribattere «cossa te voeut mai intrigàt ti?» la interruppe, «intrigatissim in tütt! intrigatissim in tütt!»11 e voltatele le spalle, s’avviò a gran passi, sbuffando e fremendo, verso il posto dove la diligente sposa gli aveva preparata la lenza e la polenta, e inescò i due poderosi ami da tinche. Poiché in antico quel piccolo mondo era ancora più segregato dal mondo grande che al presente, era più che al presente un mondo di silenzio e di pace, dove i funzionari dello Stato e della Chiesa e, dietro al loro venerabile esempio, anche alquanti sudditi fedeli dedicavano parecchie ore ad una edificante contemplazione. Primo a ponente, il signor Ricevitore slanciava due ami appaiati in capo a una lenza sola, due traditori bocconi di polenta, lontano dalla sponda quanto mai poteva; e quando il filo si era ben disteso, quando il sughero indicatore si era quasi ancorato in placida attesa, l’I.R. uomo posava delicatamente la bacchetta della lenza sul muricciuolo, sedeva e contemplava. A levante di lui, la guardia di finanza che allora chiamavano «il sedentario», accoccolata sull’umile molo dell’approdo davanti ad un altro sughero, pipava e contemplava. Pochi passi più in là, il vecchio allampanato Cüstant, imbianchino emerito, sagrestano e fabbriciere, patrizio del villaggio di Oria, seduto sulla poppa della sua barca con una sperticata tuba preistorica in testa, con la magica bacchetta in mano, con le gambe penzoloni sull’acqua, raccolta l’anima nel sughero suo proprio, contemplava. Seduto sull’orlo d’un campicello, all’ombra d’un gelso e d’un cappellone di paglia nera, il piccolo, magro, occhialuto don Brazzova, parroco di Albogasio, rispecchiato dall’acqua limpida, contemplava. In un orto di Albogasio Inferiore, fra le rive del Ceròn e la riva di Mandroeugn, un altro patrizio in giacchetta e scarponi, il fabbriciere Bignetta, detto el Signoron, duro e solenne sopra una sedia del settecento con la famosa bacchetta in mano, vigilava e contemplava. Sotto il fico di Cadate stava in contemplazione don Giuseppe Costabarbieri. A S. Mamette pendevano sull’acqua e contemplavano con grande attività il medico, lo speziale, il calzolaio. A Cressogno contemplava il florido cuoco della marchesa. In faccia a Oria, sull’ombrosa spiaggia deserta del Bisgnago, un dignitoso arciprete della bassa Lombardia usava passar ogni anno quaranta giorni di vita contemplativa. Contemplava solitario, vescovilmente, con tre bacchette ai piedi, i relativi tre pacifici sugheri, due con gli occhi e uno col naso. Chi passando per l’alto lago avesse potuto discernere tutte queste figure meditabonde, inclinate all’acqua, senza veder le bacchette né i fili né i sugheri, si sarebbe creduto nel soggiorno d’un romito popolo ascetico, schivo della terra, che guardasse il cielo giù nello specchio liquido, solo per maggiore comodità.
In fatto tutti quegli ascetici pescavano alle tinche e nessun mistero dell’avvenire umano aveva per essi maggior importanza dei misteri cui arcanamente alludeva il piccolo sughero, quando, posseduto quasi da uno spirito, dava segni d’inquietudine sempre più viva e in fine di alienazione mentale; poiché, dati dei crolli, dei tratti ora avanti ora indietro, pigliava per ultimo, nella confusione delle sue idee, il partito disperato di entrar giù a capofitto nell’abisso. Questi fenomeni avvenivano però di rado e parecchi contemplatori solevano passare delle mezze giornate senza notar la menoma inquietudine nel sughero. Allora ciascuno, senza toglier gli occhi dal piccolo galleggiante, sapeva seguire un invisibile filo d’idee parallelo al filo della lenza. Così avveniva talvolta al buon arciprete di pescar mentalmente una sede episcopale; al Signoron di pescare un bosco ch’era stato dei suoi avi, al cuoco di pescare una certa tinca rosea e bionda della montagna, al Cüstant di pescare una commissione del Governo per dare il bianco al picco di Cressogno. Quanto al Carlascia, il suo secondo filo aveva generalmente un carattere politico. E questo si comprenderà meglio quando si sappia che anche il filo principale, quello della lenza, suscitava spesso nel suo torbido testone certe considerazioni politiche suggeritegli dal Commissario Zérboli. «Vede, caro Ricevitore», gli aveva detto una volta lo Zérboli ragionando a sproposito sul moto milanese del 6 febbraio, «Lei ch’è un pescatore di tinche può benissimo capire la cosa. La nostra grande monarchia pesca alla lenza. I due bocconi uniti sono la Lombardia e il Veneto, due bei bocconi tondi e solleticanti, con del buon ferro dentro. La nostra monarchia li ha buttati là davanti a sé, in faccia alla tana di quel pesciatello sciocco ch’è il Piemonte. Egli ha abboccato nel quarantotto il boccone Lombardia, ma poi ha potuto sputarlo e cavarsela. Milano è il nostro sughero. Quando Milano si muove vuol dire che c’è sotto il pesciatello. L’anno scorso il sughero s’è mosso un pochino; il caro pesciatello non aveva fatto che fiutare il boccone. Aspettate, verrà un movimento grande, noi daremo il colpo, ci sarà un poco di strepito e di sbatacchiamento e lo tireremo su, il nostro pesciatello, non ce lo lasceremo scappare più, quel porcellino bianco, rosso e verde!»Il Biancòn ci aveva fatto una gran risata e spesso, mettendosi a pescare, si ruminava, per il proprio innocente piacere, la graziosa similitudine, da cui gli nascevano per solito altri sottili e profondi pensamenti politici. Quella mattina il lago era quieto, propizio per le contemplazioni. Le prime alghe del fondo precipitoso si vedevan diritte, segno che non c’eran correnti. I bocconi, slanciati ben lontano, calarono lentamente a piombo, il filo si distese via via sotto il sughero che gli navigò dietro un poco indicando con spessi anellini i titillamenti dei piccoli cavedini e si mise quindi in pace, segno che i bocconi s’erano adagiati sul fondo e che i cavedini non li toccavan più. Il pescatore posò la bacchetta sul muricciuolo e si mise a pensare all’ingegnere Ribera.
Il Biancòn aveva, a sua insaputa, una discreta dose di mansuetudine in un doppio fondo che Iddio gli aveva fatto nel cuore senza avvertirnelo. Il mondo del resto se ne poté accorgere nel 1859 quando il caro pesciatello si mangiò il boccone di Lombardia con l’amo e il filo e la bacchetta e il Commissario e tutto quanto; e il Biancòn, rassegnato, si mise a piantar cavoli nazionali e costituzionali a Precotto. Malgrado questa occulta mansuetudine, posando la bacchetta e pensando che si trattava di pescare quel povero vecchio ingegnere Ribera, egli provò una singolare compiacenza non nel cuore, non nel cervello né in alcuno dei soliti sensi, ma in un suo particolare senso, puramente I. e R. Davvero, egli non aveva coscienza di sé come di un organismo distinto dall’organismo governativo austriaco. Ricevitore di una piccola dogana di frontiera, si considerava una punta d’unghia in capo a un dito dello Stato; come agente di polizia poi, si considerava un occhiolino microscopico sotto l’unghia. La vita sua era quella della monarchia. Se i Russi le facevano il solletico sulla pelle della Galizia, egli ne sentiva il prurito a Oria. La grandezza, la potenza, la gloria dell’Austria gli ispiravano un orgoglio smisurato. Non ammetteva che il Brasile fosse più esteso dell’Impero Austriaco, né che la Cina fosse più popolata, né che l’Arcangelo Michele potesse prendere Peschiera, né che Domeneddio potesse prendere Verona. Il suo vero Iddio era l’Imperatore; rispettava quello del cielo come un alleato di quello di Vienna.
Non gli era, dunque, mai entrato il sospetto che l’ingegnere in capo fosse un cattivo suddito. Le parole del Commissario, un vangelo per lui, ne lo persuasero addirittura; e l’idea di trovarsi a portata questo malfido servitore accendeva il suo zelo d’occhio regio e d’unghia imperiale. Si diede dell’asino per non averlo conosciuto prima. Oh ma era ancora in tempo di pescarlo bene: bene bene bene bene! «Lasci fare a me! Lasci fare a me, signor...»
Troncò la frase e afferrò la bacchetta. Il sughero aveva impresso nell’acqua un anello, dolcemente, muovendosi appena; indizio di tinca. Il Biancòn strinse forte la bacchetta tenendo il fiato. Altro tocco al sughero, altro anello più grosso; il sughero va pian piano sull’acqua, si ferma, il cuore del Biancòn batte a furia; il sughero cammina ancora per un piccol tratto, a fior d’acqua e sprofonda; zac! il Biancòn dà un colpo, la bacchetta si torce in arco tanto il filo è tirato da un peso occulto. «Peppina, el gh’è!», grida il Carlascia perdendo la testa, confondendo il sesso della tinca con quello dell’ingegnere in capo: «El guadèll, el guadèll». Il sedentario si volta invidioso: «Ghe l’ha, scior Recitòr?». Il Cüstant si cuoce dentro e non fa motto né volge la sua tuba. Ratì accorre e accorre anche la signora Peppina portando il «guadèll», una pertica lunga con una gran borsa di rete in capo, per imborsarvi la tinca nell’acqua, ché il tirarla su di peso col filo sarebbe un rischio disperato. Il Biancòn piglia il filo, lo raccoglie pian piano a sé. La tinca non si vede ancora ma deve esser grossa; il filo viene in su per un paio di braccia, poi è tirato furiosamente in giù; quindi torna a venire, viene, viene, e in fondo all’acqua, sotto il naso dei tre personaggi, balena un giallore, un’ombra mostruosa. «Oh la bella!», fa la signora Peppina sottovoce. Ratì esclama: «Madòne, madòne!», e il Biancòn non dice parola, tira e tira con cautela. È un bel pescione, corto, grosso, dal ventre giallo e dal dorso scuro che viene in su dal fondo quasi supino e per isghembo, con mala volontà.
Le tre facce non gli piacciono perché volta loro di colpo la coda e sbattendola fa un’altra punta furiosa verso il fondo. Finalmente, spossato, segue il filo, arriva sotto il muro con la pancia dorata all’aria. La Peppina, rovescioni sul parapetto, stende giù quanto può la sua pertica per imborsar il malcapitato e non le riesce. «Per el müson!», grida suo marito. «Per la cua!»12, strilla Ratì. A quello strepito, alla vista di quel pauroso arnese, il pesce si dibatte, si tuffa; la Peppina si arrabatta invano, non trova il «müson», non trova la «cua»; il Biancòn tira, la tinca trascinata a galla si aggomitola e con una potente spaccata rompe il filo, strepita via tra la spuma. «Madòne!», esclama Ratì; la Peppina seguita a frugar l’acqua con la sua pertica; «dova l’è sto pèss? dova l’è sto pèss?»13, e il Biancòn che era rimasto petrificato col filo in mano, si volta furibondo, tira un calcio a Ratì, afferra sua moglie per le spalle, la scuote come un sacco di noci, la carica d’improperi. «L’è andada, scior Recitòr?», fa il sedentario, mellifluo. Il Cüstant volta un poco la tuba, guarda il luogo della catastrofe, torna alla contemplazione del suo pacifico sughero e brontola in tono di compatimento: «Minga pràtich!»14.
Intanto la tinca ritorna alle native alghe profonde, malconcia ma libera come il suo simile, il Piemonte, dopo Novara; ed è dubbio se al povero ingegnere in capo toccherà la stessa fortuna.
2. La sonata del chiaro di luna e delle nuvole
Il sole calava dietro al ciglio del monte Brè e l’ombra oscurava rapidamente la costa precipitosa e le case di Oria, imprimeva, violacea e cupa, il profilo del monte sul verde luminoso delle onde che correvano oblique a ponente, grandi ancora ma senza spuma, nella breva stanca. Casa Ribera si era oscurata l’ultima. Addossata ai ripidi vigneti della montagna, sparsi d’ulivi, essa cavalca la viottola che costeggia il lago, e pianta nell’onda viva una fronte modesta, fiancheggiata a ponente, verso il villaggio, da un giardinetto pensile a due ripiani, a levante, verso la chiesa, da una piccola terrazza gittata su pilastri che inquadrano un pezzo di sagrato. Entra in quella fronte una piccola darsena dove allora si dondolava, fra lo schiamazzar delle onde, il battello di Franco e Luisa. Sopra l’arco della darsena una galleria sottile lega il giardinetto pensile di ponente alla terrazza di levante e guarda il lago per tre finestre. La chiamavan loggia, forse perché lo era stata in antico. La vecchia casa portava incrostati qua e là parecchi di questi venerandi nomi fossili che vivevano per la tradizione e figuravano, nella loro apparente assurdità, i misteri nella religione delle mura domestiche. Dietro alla loggia vi ha una sala spaziosa e dietro alla sala due stanze: a ponente il salottino da pranzo tappezzato di piccoli uomini illustri di carta, ciascuno sotto il proprio vetro e dentro la propria cornice, ciascuno atteggiato dignitosamente a modo degl’illustri di carne e d’ossa, come se i colleghi nemmanco esistessero e il mondo non guardasse che a lui; a levante la camera dell’alcova dove accanto agli sposi dormiva nel proprio letticciuolo la signorina Maria Maironi nata nell’agosto del 1852.
Dai cassettoni rococò delle camere da letto alla madia della cucina, dal nero pendolo del salottino da pranzo al canapè della loggia con la sua stoffa color marrone cosparsa di cavalieri turchi gialli e rossi, dalle seggiole impagliate a certi seggioloni dai bracciuoli spropositatamente alti, i mobili della casa appartenevano all’epoca degli uomini illustri, la maggior parte dei quali portava parrucca e codino. Se parevano discesi dal granaio, parevan pure aver ripreso nell’aria e nella luce della nuova dimora certe perdute abitudini di pulizia, un notevole interesse alla vita, una dignità di onesta vecchiaia. Così un’accozzaglia di vocaboli disusati potrebbe oggi comporsi, nel soffio d’un attempato poeta conservatore, e rifletterne la serena ed elegante senilità. Sotto il regime matematico e burocratico dello zio Piero, seggiole e seggioloni, tavole e tavolini avevano vissuto in perfetta simmetria e il privilegio della inamovibilità era stato accordato persino agli stoini. Il nome di «mobile» non lo aveva meritato che un cuscino grigio e celeste, un aborto di materasso, che l’ingegnere durante i suoi brevi soggiorni a Oria si portava con sé quando mutava seggiolone. Assente lui, il custode rispettava tanto le suppellettili da non osar di toccarne confidenzialmente, di spolverarne le parti meno visibili. Ciò faceva andar sulle furie la governante, regolarmente, ad ogni ritorno in Valsolda. Il padrone, irritato che per un po’ di polvere si gridasse tanto contro un povero diavolo di contadino, se la pigliava con lei e le suggeriva di spolverare ella stessa; e quando la donna scattò a domandargli, in via di sdegnosa replica, se dovesse ammazzarsi a spolverare tutta la casa ogni volta che veniva, le rispose bonariamente: «Mazzèv ona volta sola ch’el sarà assée»15.
Egli abbandonava poi del tutto al capriccio del custode la coltivazione del giardinetto come quella di un orto che possedeva a levante del sagrato, in riva al lago. Solo una volta, due anni prima del matrimonio di Luisa, arrivando a Oria in principio di settembre e trovando nel secondo ripiano del giardinetto sei piante di granturco, si permise di dire al custode: «Sent on poo: quii ses gamb de carlon, podarisset propi minga fann a men?»16.
I poeti non conservatori Franco e Luisa avevano trasformata, col loro soffio, la faccia delle cose. La poesia di Franco era più ardita, fervida e appassionata, la poesia di Luisa era più prudente; così i sentimenti di Franco gli fiammeggiavano sempre dagli occhi, dal viso, dalla parola e quelli di Luisa non davano quasi mai fiamme ma solo coloravano il fondo del suo sguardo penetrante e della sua voce morbida. Franco non era conservatore che in religione e in arte; per le mura domestiche era un radicale ardente, immaginava sempre trasformazioni di pareti, di soffitti, di pavimenti, di arredi. Luisa incominciava con ammirar il suo genio, ma poiché i denari venivan quasi tutti dallo zio e non ci era larghezza per imprese fantastiche, piano piano, un po’ per volta, lo persuadeva di lasciar a posto le pareti, i soffitti e anche i pavimenti, di studiar come si sarebbero potuti disporre meglio gli arredi senza trasformarli. E gli suggeriva delle idee senza averne l’aria, facendogli credere che venivan da lui, perché alla paternità delle idee Franco ci teneva molto e Luisa era invece del tutto indifferente a questa maternità. Così tra l’uno e l’altra disposero la sala per la conversazione, la lettura e la musica, la loggia per il giuoco, la terrazza per il caffè e per le contemplazioni poetiche. Di quella terrazzina Franco fece la poesia lirica della casa. Era piccina assai e parve a Luisa che vi si potesse concedere un po’ di sfogo all’estro di suo marito. Fu allora che cadde dal trono il re dei gelsi valsoldesi, il famoso antico gelso del sagrato, un tiranno che toglieva alla terrazza tutta la vista migliore. Franco si liberò da lui mediante pecunia, disegnò e alzò sopra la terrazza un aereo contesto di sottili aste e bastoncini di ferro che figuravan tre archi sormontati da una cupolina, vi mandò su due passiflore eleganti che vi aprivan qua e là i loro grandi occhi celesti e ricadevano da ogni parte in festoni e vilucchi. Un tavoluccio rotondo e alcune sedie di ferro servivano per il caffè e per la contemplazione. Quanto al giardinetto pensile, Luisa avrebbe potuto sopportare anche il granturco per una tolleranza di spirito superiore che ama lasciar in pace gl’inferiori nelle loro idee, nelle loro abitudini, nei loro affetti. Ella sentiva una certa rispettosa pietà per gl’ideali orticoli del povero custode, per quell’insalata di rozzezze e di gentilezze ch’egli aveva nel cuore, un gran cuore capace di accogliere insieme reseda e zucche, begliuomini e carote. Invece Franco, generoso e religioso com’era, non avrebbe tollerato nel suo giardino una zucca né una carota per amore di qualsiasi prossimo. Ogni stupida volgarità lo irritava. Quando l’infelice ortolano si sentì predicare dal signor don Franco che il giardinetto era una porcheria, che bisognava cavar tutto, buttar via tutto, rimase sbalordito, avvilito da far pietà; ma poi lavorando agli ordini suoi per riformare le aiuole, per contornarle di tufi, per piantare arbusti e fiori, vedendo come il padrone stesso sapesse lavorar di sua mano e quanti terribili nomi latini e qual portentoso talento avesse in testa per immaginare disposizioni nuove e belle, concepì poco a poco per lui un’ammirazione quasi paurosa e quindi anche, malgrado i molti rabbuffi, una affezione devota.
Il giardinetto pensile fu trasformato a immagine e similitudine di Franco. Un’olea fragrans vi diceva in un angolo la potenza delle cose gentili sul caldo impetuoso spirito del poeta; un cipressino poco accetto a Luisa vi diceva in un altro angolo la sua religiosità; un piccolo parapetto di mattoni a traforo, fra il cipresso e l’olea, con due righe di tufi in testa che contenevano un ridente popolo di verbene, petunie e portulache, accennava alla ingegnosità singolare dell’autore; le molte rose sparse dappertutto parlavano del suo affetto alla bellezza classica; il ficus repens che vestiva le muraglie verso il lago, i due aranci nel mezzo dei due ripiani, un vigoroso, lucido carrubo rivelavano un temperamento freddoloso, una fantasia volta sempre al mezzogiorno, insensibile al fascino del nord.
Luisa aveva lavorato e lavorava assai più del marito; ma se questi si compiaceva delle proprie fatiche e ne parlava volentieri, Luisa invece non ne parlava mai e non ne traeva veramente alcuna vanità. Lavorava d’ago, d’uncinetto, di ferri, di forbici, con una tranquilla rapidità prodigiosa, per suo marito, per la sua bambina, per ornar la sua casa, per i poveri e per sé. Tutte le stanze avevan lavori suoi, cortine, tappeti, cuscini, paralumi. Era pure affar suo di collocare i fiori in sala e in loggia; non piante in vaso perché Franco ne aveva poche e non gli garbava di chiuderle nelle stanze; non fiori del giardinetto perché coglierne uno era come strapparglielo dal cuore. Erano invece a disposizione di Luisa le dalie, le rose, i gladioli, gli astri dell’orto. Ma poiché non le bastavano e poiché il villaggio, dopo Dio, Santa Margherita e S. Sebastiano, adorava la «sciora Lüisa», così ad un cenno suo i ragazzi le portavano fiori selvaggi e felci, le portavano edera per rilegar con festoni i grandi mazzi fissati alle pareti dentro anelli di metallo. Anche alle braccia dell’arpa che pendeva dal soffitto della sala erano sempre attorcigliati lunghi serpenti d’edera e di passiflora.
Lo zio Piero, quando gli scrivevano di queste novità, rispondeva poco o nulla. Tutt’al più raccomandava di non tener troppo occupato l’ortolano il quale doveva pur attendere alle faccende proprie. La prima volta che capitò a Oria dopo la trasformazione del giardinetto, si fermò a guardarlo come aveva fatto per le sei piante di granturco e borbottò sottovoce: «Oh poer a mi!». Uscì sulla terrazza, guardò il cupolino, toccò le aste di ferro e pronunciò un «basta!» rassegnato ma pieno di disapprovazione per tante eleganze superiori allo stato suo e de’ suoi nipoti. Invece, dopo aver esaminato in silenzio tutti i mazzi, i mazzolini, i vasi, i festoni della sala e della loggia, disse con un bonario sorriso: «Sent on poo, Lüisa; con tütt st’erba chì farisset minga mèj a tegnì on para de pégor?»17.
Ma la governante fu beata di non aversi più ad ammazzare per la polvere e le ragnatele, ma l’ortolano vantò senza fine le opere miracolose del signor don Franco ed egli stesso cominciò presto ad abituarsi ai nuovi aspetti della sua casa, a guardar senza malevolenza il cupolino della terrazza che gli faceva comodo per l’ombra. Dopo tre o quattro giorni domandò chi lo avesse eseguito e gli accadde di fermarsi qualche volta a guardar i fiori del giardinetto, di chiedere il nome dell’uno e dell’altro. Dopo otto o dieci giorni, stando con la piccola Maria sulla porta della sala che mette al giardinetto, le domandò: «Chi ha piantato tutti questi bei fiori?», e le insegnò a rispondere: «Papà». Ad un suo impiegato venuto a fargli visita mostrò le opere del nipote e ne accolse gli elogi con un assenso misurato ma pieno di soddisfazione: «Sì sì, per questo sì». Insomma finì con diventare un ammiratore di Franco e persino con dare ascolto, in via di conversazione, ad altri suoi progetti. E in Franco crescevano l’ammirazione e la gratitudine per quella grande e generosa bontà, che aveva vinto la natura conservatrice, l’avversione antica alle eleganze di ogni maniera; per la solita bontà che ad ogni simile contrasto saliva saliva silenziosamente dietro le renitenze dello zio fino a sormontare, a coprir tutto con una larga onda di acquiescenza o almeno con la frase sacramentale «del resto, fate vobis». A una sola novità lo zio non aveva voluto adattarsi: alla scomparsa del suo vecchio cuscino. «Luisa», diss’egli sollevando con due dita dal seggiolone il nuovo cuscino ricamato: «porta via». E non ci fu verso di persuaderlo. «Et capì de portall via?» Quando Luisa sorridendo gli diede il vecchio materassino abortito, egli ci si sedette su con un sonoro «inscì!»18 come se riprendesse solennemente il possesso di un trono.
Adesso, mentre l’ombra violacea invadeva il verde delle onde e correva lungo la costa, di paesello in paesello, spegnendo, una dopo l’altra, le bianche case lucenti, egli era appunto seduto sul suo trono e si teneva sulle ginocchia la piccola Maria, mentre Franco, sulla terrazza, annaffiava i vasi di pelargoni, pieno il cuore e il viso di contentezza affettuosa come se versasse da bere a Ismaele nel deserto, e Luisa stava sgrovigliando pazientemente una pesca di suo marito, un garbuglio pauroso di spago, di piombi, di seta e di ami. Ella discorreva in pari tempo col professore Gilardoni che aveva sempre qualche garbuglio filosofico da sgrovigliare e ci si metteva molto più volentieri con lei che con Franco, il quale lo contraddiceva sempre, a torto e a ragione, avendolo in concetto d’un ottimo cuore e d’una testa confusa. Lo zio, tenendo il ginocchio destro sul sinistro e la bambina sul mucchio, le ripeteva per la centesima volta, con affettata lentezza, e storpiando un poco il nome esotico, la canzonetta:
Ombretta sdegnosa
Del Missipipì.
Fino alla quarta parola la bambina lo ascoltava immobile, seria, con gli occhi fissi; ma quando veniva fuori il «Missipipì» scoppiava in un riso, sbatteva forte le gambucce e piantava le manine sulla bocca dello zio, il quale rideva anche lui di cuore e dopo un breve riposo ricominciava adagio adagio, nel tono solito:
Ombretta sdegnosa...
La bambina non somigliava né al padre né alla madre, aveva gli occhi, i lineamenti fini della nonna Teresa. Al vecchio zio, che pure vedeva di rado, mostrava una tenerezza strana, impetuosa. Lo zio non le diceva paroline dolci, le faceva, occorrendo, qualche piccola riprensione, ma le portava sempre giuocattoli, la conduceva spesso a passeggio, se la faceva saltar sulle ginocchia, rideva con lei, le diceva canzonette comiche, quella che cominciava col «Missipipì» e un’altra che finiva:
Rispose tosto Barucabà.
Chi era mai Barucabà? E cosa gli avevano domandato?
«Toa Bà, toa Bà!», diceva Maria; «ancora Barucabà, ancora Barucabà!» Lo zio le ripeteva allora la poetica storia ma nessuno la sa più ripetere a me.
Ecco di che parlava a Luisa, con la sua voce timida e gentile, il professore Gilardoni, diventato un tantin più vecchio, un tantin più calvo, un tantin più giallo. «Chi sa», aveva detto Luisa, «se Maria somiglierà alla nonna come nel viso anche nell’anima?» Il professore rispose che sarebbe stato un miracolo avere in una famiglia, a così poca distanza, due anime simili. E volendo spiegare a quale rarissima specie fosse appartenuta, nel suo concetto, l’anima della nonna, mise fuori il seguente garbuglio. «Vi sono», diss’egli, «anime che negano apertamente la vita futura e vivono proprio secondo la loro opinione, per la sola vita presente. Queste non sono molte. Poi vi sono anime che mostrano di credere nella vita futura e vivono del tutto per la presente. Queste sono alquante più. Poi vi sono anime che alla vita futura non pensano e vivono però in modo da non mettersi troppo a repentaglio di perderla se c’è. Queste sono più ancora. Poi vi sono anime che credono veramente nella vita futura e dividono pensieri e opere in due categorie che fanno quasi sempre ai pugni fra loro: una è per il cielo, l’altra è per la terra. Queste sono moltissime. Poi vi sono anime che vivono per la sola vita futura nella quale credono. Queste sono pochissime e la signora Teresa era di queste.»
Franco, che non poteva soffrire le disquisizioni psicologiche, passò accigliato col suo annaffiatoio vuoto per andare nel giardinetto e pensò: «Poi vi sono anime che rompono l’anima». Lo zio, del resto un po’ sordo, rideva con la Maria. Luisa, passato che fu suo marito, disse piano: «Poi vi sono anime che vivono come se vi fosse la sola vita futura nella quale non credono: e di queste ve n’è una». Il professore trasalì e la guardò senza dir nulla. Ella stava cercando nella matassa della pesca un filo doppio, a occhiello, per farlo passare. Non vide quello sguardo ma lo sentì e si affrettò a indicare col capo lo zio. Aveva ella pensato proprio a lui nel dir quello che aveva detto? O vi era stata nel suo pensiero una occulta complicazione? Aveva pensato allo zio senza un vero convincimento, solo perché non osava nominare, neanche nel pensiero, un’altra persona cui le sue parole potevano riferirsi più giustamente? Il silenzio del professore, lo sguardo scrutatore di lui, non incontrato ma sentito, le rivelarono ch’egli sospettava di lei stessa: per questo accennò frettolosamente allo zio.
«Non crede nella vita futura?», mormorò il professore.
«Direi di no», rispose Luisa e subito si sentì nel cuore un rimorso, sentì che non aveva sufficienti ragioni, che non aveva il diritto di rispondere così. In fatto lo zio Piero non s’era curato mai di meditare sulla religione: egli compenetrava nel suo concetto della onestà la continuazione delle vecchie pratiche di famiglia, la professione della fede avita, presa come stava, alla carlona. Il suo era un Dio bonario come lui, che non ci teneva tanto alle giaculatorie né ai rosari, come lui; un Dio contento di aver per ministri, com’era contento lui di aver per amici, dei galantuomini di cuore, fossero pure allegri mangiatori e bevitori, tarocchisti per la vita, franchi raccontatori di porcherie non disoneste a lecito sfogo della sudicia ilarità che ciascuno ha in corpo. Certi suoi discorsi scherzosi, certi aforismi buttati là senza riflettere sulla importanza relativa delle pratiche religiose e sulla importanza assoluta del vivere onesto l’avevano colpita fin da bambina, anche perché la mamma se ne inquietava moltissimo e supplicava suo fratello di non dire spropositi. Le era entrato il sospetto che lo zio andasse in chiesa solamente per convenienza. Non era vero; non bisognava tener conto degli aforismi di uno che, invecchiato nel sacrificio e nell’abnegazione, soleva dire «charitas incipit ab ego»19; e poi, quand’anche lo zio avesse stimato poco le pratiche religiose, a negar la vita futura ci correva ancora un bel tratto. Infatti, appena messo fuori il suo giudizio e uditolo suonare, Luisa lo sentì falso, vide più chiaro in se stessa, intese di avere inconsciamente cercato nell’esempio dello zio un appoggio e un conforto per sé.
Il professore era tutto commosso di una rivelazione tanto inattesa.
«Quest’anima unica», diss’egli, «che vive come se non pensasse che alla vita futura nella quale non crede, è in errore, ma bisogna pur ammirarla come la più nobile, la più grande. È una cosa sublime!»
«Lei è certo, però, che quest’anima è in errore?»
«Oh sì sì!»
«Ma Lei, a quale delle Sue categorie appartiene?»
Il professore si credeva dei pochissimi che si regolano interamente secondo un’aspirazione alla vita futura; benché forse sarebbe stato imbarazzato a dimostrare che i suoi profondi studi su Raspail, il suo zelo nel preparare acqua sedativa e sigarette di canfora, il suo orrore dell’umidità e delle correnti d’aria significassero poca tenerezza per la vita presente. Però non volle rispondere, disse che non appartenendo a nessuna Chiesa, credeva tuttavia fermamente in Dio e nella vita futura e che non poteva giudicare il proprio modo di vivere.
Intanto Franco, annaffiando il giardinetto, aveva trovato fiorita una verbena nuova, e, posato l’annaffiatoio, era venuto sulla soglia della loggia e chiamava la Maria per fargliela vedere. La Maria si lasciava chiamare e voleva ancora «Missipipì», onde lo zio la posò a terra e la condusse lui al papà.
«Però, professore», disse Luisa uscendo con la parola viva da un corso occulto d’idee, «si può, non è vero, credere in Dio e dubitare della nostra vita futura?»
Ell’aveva posato, così dicendo, l’aggrovigliata matassa della pesca e guardava il Gilardoni in viso con un interesse vivo, con un desiderio manifesto che rispondesse di sì; e, perché il Gilardoni taceva, soggiunse:
«Mi pare che qualcuno potrebbe dire: che obbligo ha Iddio di regalarci l’immortalità? L’immortalità dell’anima è una invenzione dell’egoismo umano che in fin dei conti vuol far servire Iddio al comodo proprio. Noi vogliamo un premio per il bene che facciamo agli altri e una pena per il male che gli altri fanno a noi. Rassegnamoci invece a morire anche noi del tutto come ogni essere vivente e facciamo sin che siamo vivi la giustizia per noi e per gli altri, senza speranza di premi futuri, solo perché Iddio vuole da noi questo come vuole che ogni stella faccia lume e che ogni pianta faccia ombra. Cosa Le pare, a Lei?»
«Cosa vuol che Le dica?», rispose il Gilardoni. «A me pare una gran bellezza! Non posso dire: una gran verità. Non lo so, non ci ho mai pensato; ma una gran bellezza! Io dico che il Cristianesimo non ha potuto avere né immaginare dei Santi sublimi come questo qualcuno! È una gran bellezza, è una gran bellezza!»
«Perché poi», riprese Luisa dopo un breve silenzio, «si potrebbe forse anche sostenere che questa vita futura non sarebbe proprio felice. Vi è felicità quando non si conosce la ragione di tutte le cose, quando non si arriva a spiegare tutti i misteri? E il desiderio di saper tutto sarà esso appagato nella vita futura? Non resterà ancora un mistero impenetrabile? Non dicono che Dio non si conoscerà interamente mai? E allora, nel nostro desiderio di sapere, non finiremo a soffrire come adesso, anzi forse più, perché in una vita superiore quel desiderio dev’essere ancora più forte? Io vedrei un solo modo di arrivare a saper tutto e sarebbe di diventar Dio...»
«Ah, Lei è panteista!», esclamò il professore, interrompendo.
«Ssss!», fece Luisa. «No no no! Io sono cristiana cattolica. Dico quel che altri potrebbero sostenere.»
«Ma scusi, vi è un panteismo...»
«Ancora filosofia?», esclamò Franco entrando con la piccina in braccio.
«Oh, miseria!», borbottò lo zio alle sue spalle.
Maria teneva in mano una bella rosa bianca. «Guarda questa rosa, Luisa», disse Franco. «Maria, da’ il fiore alla mamma. Guarda la forma di questa rosa, guarda il portamento, guarda le sfumature, le venature di questi petali, guarda quella stria rossa; e senti che odore, adesso! E lascia star la filosofia.»
«Lei è nemico della filosofia?», osservò il professore, sorridendo.
«Io sono amico», rispose Franco, «della filosofia facile e sicura che m’insegnano anche le rose.»
«La filosofia, caro professore», interloquì lo zio, solennemente, «l’è tutta in Aristòtel: quell che te pòdet avè, tòtel20.»
«Lei scherza», ribatté il professore, «ma Lei pure è un filosofo.»
L’ingegnere gli posò una mano sulla spalla:
«Sentite, caro amico, la mia filosofia in vott o des biccièr21 la ci sta tutta».
«Euh, vott o des biccièr!», borbottò la governante che udì, entrando, questa spacconata d’intemperanza del suo misuratissimo padrone. «Vott o des corni!»
Veniva ad annunciare don Giuseppe Costabarbieri che fece in pari tempo udire dalla sala un cavernoso e pure ilare Deo gratias. Ecco la rugosa faccia rossa, gli occhi allegri, i capelli bianchi del mansueto prete.
«Si discorre di filosofia, don Giuseppe», disse Luisa dopo i primi saluti. «Venga qui e metta fuori le Sue belle idee anche Lei!»
Don Giuseppe si grattò la nuca e poi volgendo un po’ il capo verso l’ingegnere con lo sguardo di chi desidera una cosa e non osa domandarla, mise fuori il fiore delle sue idee filosofiche:
«Sarissel minga mej fa ona primerina?»22.
Franco e lo zio Piero, felici di salvarsi dalla filosofia del Gilardoni, si misero allegramente a tavolino col prete.
Appena rimasto solo con Luisa, il professore disse piano:
«Ieri è partita la signora marchesa».
Luisa, che s’era presa Maria sulle ginocchia, le piantò le labbra sul collo, appassionatamente.
«Forse», riprese il professore che mai non aveva saputo leggere nel cuore umano né toccarne le corde a proposito, «forse, il tempo... son tre anni soli... forse verrà il giorno che si piegherà.»
Luisa alzò il viso dal collo di Maria. «Forse lei, sì», diss’ella. Il professore non capì, cedette al mal genio che ci suggerisce la peggior parola nel peggior momento e, invece di smettere, si ostinò. «Forse, se potesse veder Maria!» Luisa si strinse al petto la bambina e lo guardò con una fierezza tale ch’egli si smarrì e disse: «Scusi». Maria, stretta così forte, alzò gli occhi al viso strano della mamma, diventò rossa rossa, strinse le labbra, pianse due grosse lagrime, scoppiò in singhiozzi.
«No no, cara», le mormorò Luisa teneramente, «sta buona, sta buona, tu non la vedrai mai, tu!»
Appena chetata la bambina, il professore, turbato dall’idea di aver fatto un passo falso, di aver offeso Luisa, un essere che gli pareva sovrumano, voleva spiegarsi, giustificarsi, ma Luisa non lo lasciò parlare. «Basta, scusi», diss’ella alzandosi. «Andiamo a veder il giuoco.»
In fatto non s’accostò ai giuocatori, mandò Maria sul sagrato con la sua piccola bambinaia Veronica e andò a portar un avanzo di dolce a un vecchione del villaggio, che aveva un vorace stomaco e una piccola voce, con la quale prometteva ogni giorno alla sua benefattrice la stessa preziosa ricompensa: «Prima de morì ghe faroo on basin»23. Intanto il professore, pieno di scrupoli e di rimorsi per le sue mosse poco fortunate, non sapendo se partire o rimanere, se la signora tornerebbe o no, se andarne in cerca fosse indiscrezione o no, dopo essersi affacciato al lago come per chieder consiglio ai pesci, dopo essersi affacciato al monte per veder se da qualche finestra della casa gli apparisse Luisa o qualcuno cui si potesse domandar di lei, andò finalmente a vedere il giuoco. Ciascuno dei giuocatori teneva gli occhi sulle proprie quattro carte raccolte nella sinistra, l’una sopra l’altra per modo che la seconda e la terza sormontavan tanto da potersi riconoscere; e ciascuno, avendo preso delicatamente fra il pollice e l’indice l’angolo superiore delle due ultime, faceva uscire con un combinato moto del polso e delle dita la quarta ignota di sotto la terza, adagio adagio, come se portasse la vita o la morte, ripetendo con gran devozione appropriate giaculatorie: don Giuseppe cui occorrevano picche «scappa ross e büta négher»24, gli altri due che volevano quadri e cuori «scappa négher e büta ross». Il professore pensò ch’egli pure aveva in mano una carta coperta, un asso di denari, e che non sapeva ancora se l’avrebbe giuocata o no. Aveva il testamento del vecchio Maironi. Pochi giorni dopo la morte della signora Teresa, Franco gli aveva detto di distruggerlo e di non fiatarne mai con sua moglie. Egli non aveva obbedito che quanto al silenzio. Il documento, all’insaputa di Franco, esisteva ancora perché il suo possessore s’era fitto in capo di aspettar gli eventi, di vedere se Cressogno e Oria facessero la pace, se, perdurando le ostilità, Franco e la sua famigliuola capitassero nel bisogno; nel quale ultimo caso avrebbe fatto qualche cosa lui. Che cosa avrebbe fatto non sapeva bene, si coltivava in testa i germi di parecchie corbellerie e aspettava che l’una o l’altra maturasse a tempo e luogo. Ora, guardando Franco giuocare, ammirava come quell’uomo tanto assorto nella cupidità di un re di quadri, avesse respinta l’altra carta preziosa, che neppure avesse voluto farne saper niente a sua moglie. Egli attribuiva questo silenzio a modestia, al desiderio di nascondere un azione generosa; e quantunque avesse preso da Franco più d’un brusco rabbuffo e sentisse di non esserne tenuto in gran conto, lo guardava con un rispetto pieno d’umile devozione. Franco fu il primo a scoprir la quarta carta e le buttò via dispettosamente tutte mentre don Giuseppe esclamava: «Ovèj! L’è négher!», e si fermava a pigliar fiato prima di andar avanti a scoprire «se l’era güzz25 o minga güzz», cioè s’erano picche o fiori. Ma l’ingegnere, alzato dalle carte il viso placido e sorridente, si mise a batter col dito, sotto il piano del tavolino, dei colpettini misteriosi che volevan dire: c’è la carta buona; e allora don Giuseppe, visto che il suo «négher» non era «güzz», cacciò un «malarbetto!» e buttò via le carte anche lui. «Che reson de ciapà rabbia!», fece l’ingegnere. «Anca vü sii négher e sii minga güzz.» Il prete, avido della rivincita, si contentò d’invocarla sdegnosamente: «Scià i cart, scià i cart, scià i cart!»26. E la partita, simbolo dell’eterna lotta universale fra i neri e i rossi, ricominciò.
Il lago dormiva oramai coperto e cinto d’ombra. Solo a levante le grandi montagne lontane del Lario avevano una gloria d’oro fulvo e di viola. Le prime tramontane vespertine movevano le frondi della passiflora, corrugavano verso l’alto, a chiazze, le acque grigie, portando un odor fresco di boschi. Il professore era partito da un pezzo quando Luisa ritornò. Ell’aveva incontrato sulla scalinata del Pomodoro una ragazza piangente che strillava, «el mè pà el voeur mazzà la mia mamm!»27. Aveva seguita la ragazza in casa sua presso la Madonna del Romìt e ammansato l’uomo che cercava sua moglie con un coltello in mano, per causa non tanto d’una cattiva minestra quanto d’una cattiva risposta. Luisa rappresentò a suo marito e a don Giuseppe l’ultimo atto del dramma, il suo dialogo con la moglie ch’era corsa a nascondersi nella stalla. «Oh Regina, dovè sii?» «Sont chì.» «Dovè, chì?» «Chì.» La voce tremante veniva di sotto la vacca. La donna era proprio lì, accoccolata. «Vegnì foeura, donca!» «Sciora no.» «Perché?» «Goo pagüra.» «Vegnì foeura ch’el voss marì el vaeur fav on basin.» «Mi no.» Allora Luisa aveva chiamato dentro l’uomo. «E vü andee a fagh on basin sott a la vacca.» E l’uomo aveva dato il bacio mentre la donna, temendo un morso, gemeva: «Càgnem poeu minga, neh!»28.
«Che diàvol d’ona sciora Luisa», fece don Giuseppe. E soddisfatto della scorpacciata di primiera, palpandosi dolcemente sui fianchi e sul ventre le modeste rotondità, il piccolo personaggio del mondo antico pensò al secondo scopo della sua visita. Voleva dire una parolina alla signora Luisa. L’ingegnere era uscito a far i suoi soliti quattro passi fino alla piccola salita del Tavorell ch’egli chiamava scherzosamente il San Bernardo; e Franco, data un’occhiata alla luna che sfavillava allora fuor dal ciglio nero del Bisgnago e giù nell’ondular dell’acqua, si pose a improvvisar sul piano effusioni di dolore ideale, che andavan via per le finestre aperte sulla sonorità profonda del lago. La improvvisazione musicale gli riusciva meglio delle elaborate poesie perché il suo impetuoso sentire trovava nella musica una espressione più facile e piena, e gli scrupoli, le incertezze, le sfiducie che gli rendevano faticosissimo e lento il lavoro della parola, non tormentavano, al piano, la sua fantasia. Allora si abbandonava all’estro anima e corpo, vibrava tutto fino ai capelli, i chiari occhi parlanti ridicevan ogni sfumatura dell’espressione musicale, gli si vedeva sotto le guance un movimento continuo di parole inarticolate, e le mani, benché non tanto agili, non tanto sciolte, facean cantare il piano inesprimibilmente.
Adesso egli passava da un tono all’altro, mettendo il più intenso sforzo intellettuale in questi passaggi, ansando, sviscerando, per così dire, lo strumento con le dieci dita e quasi anche cogli occhi ardenti. S’era messo a suonare sotto l’impressione del chiaro di luna, ma poi, suonando, tristi nuvole gli eran uscite dal fondo del cuore. Conscio di avere sognata, da giovinetto, la gloria e di averne quindi umilmente deposta la speranza, diceva, quasi, a se stesso con la sua mesta appassionata musica che pure anche in lui v’era qualche lume d’ingegno, qualche calore di creazione veduto solamente da Dio, perché neppur Luisa mostrava far dell’intelligenza sua quella stima che a lui stesso mancava ma che avrebbe desiderata in lei; neppur Luisa, il cuor del suo cuore! Luisa lodava misuratamente la sua musica e i suoi versi ma non gli aveva detto mai: segui questa via, osa, scrivi, pubblica. Pensava così e suonava nella sala oscura, mettendo in una tenera melodia il lamento del suo amore, il timido segreto lamento che mai non avrebbe osato mettere in parole.
Sulla terrazza, nel mobile chiaroscuro che facevano insieme i fiati di tramontana e la passiflora, la luna e il suo riverbero dal lago, don Giuseppe raccontò a Luisa che il signor Giacomo Puttini era in collera con lui per colpa della signora Pasotti la quale gli aveva falsamente riferito ch’esso don Giuseppe andava predicando la convenienza di un matrimonio fra il signor Giacomo e la Marianna. «Voeui morì lì», protestò il povero prete, «se ho detto una parola sola! Niente! Tücc ball!29» Luisa non voleva creder colpevole la povera Barborin, e don Giuseppe le dichiarò che sapeva la cosa dallo stesso signor Controllore. Ella capì subito, allora, che Pasotti s’era voluto perfidamente burlare di sua moglie, del sior Zacomo e del prete, si schermì dall’intervenire nella faccenda, come quest’ultimo avrebbe voluto e gli consigliò di parlare alla Pasotti. «L’è inscì sorda!»30, fece don Giuseppe grattandosi la nuca, e se n’andò malcontento, senza salutar Franco, per non interromperlo. Luisa venne al piano in punta di piedi, stette ad ascoltar suo marito, a sentir la bellezza, la ricchezza, il fuoco di quell’anima ch’era sua e cui ell’apparteneva per sempre. Non aveva mai detto a Franco «segui questa via, scrivi, pubblica», forse anche perché giustamente pensava, nel suo affetto equilibrato, che non potesse produrre opere superiori alla mediocrità, ma soprattutto perché, sebbene avesse un fine sentimento della poesia e della musica, non faceva grande stima, in fondo, né dell’una né dell’altra, non le piaceva che un uomo vi si dedicasse intero, ambiva per suo marito un’azione intellettuale e materiale più virile. Ammirava tuttavia Franco nella sua musica più che se fosse stato un grande maestro; trovava in questa espressione quasi segreta dell’animo suo un che di verginale, di sincero, la luce di uno spirito amante, il più degno d’essere amato.
Egli non s’accorse di lei se non quando si sentì sfiorar le spalle da due braccia, si vide pender sul petto le due piccole mani. «No, no, suona suona», mormorò Luisa perché Franco gliele aveva afferrate; ma cercando lui col viso supino, senza rispondere, gli occhi e le labbra di lei, gli diede un bacio e rialzò il viso ripetendo: «Suona!». Egli trasse giù più forte di prima i due polsi prigionieri, richiamò in silenzio la dolce, dolce bocca; e allora ella si arrese, gli fermò le labbra sulle labbra con un bacio lungo, pieno di consenso, tanto più squisito e ricreante del primo. Poi gli sussurrò ancora: «Suona».
Ed egli suonò, felice, una tumultuosa musica trionfale, piena di gioia e di grida. Perché in quel momento gli pareva di posseder tutta intera l’anima della donna sua mentre tante volte, pure sapendosi amato, credeva sentire in lei, al di sopra dell’amore, una ragione altera, pacata e fredda, dove i suoi slanci non arrivassero. Luisa gli teneva spesso le mani sul capo e andava di tratto in tratto baciandogli lievemente i capelli. Ella conosceva il dubbio di suo marito e protestava sempre di appartenergli tutta intera ma in fondo sentiva che aveva ragione lui. Un tenace fiero sentimento d’indipendenza intellettuale resisteva in lei all’amore. Ella poteva tranquillamente giudicar suo marito, riconoscerne le imperfezioni e sentiva ch’egli non poteva altrettanto, lo sentiva umile nel suo amore, devoto senza fine. Non credeva fargli torto, non provava rimorso, ma s’inteneriva, quando ci pensava, di amorosa pietà. Indovinò adesso che significasse quella effusione musicale di gioia e, commossa, abbracciò Franco, fece tacere il piano d’un colpo.
Ecco sulle scale il passo lento e pesante dello zio che ritorna dal suo San Bernardo.
Erano le otto e i soliti tarocchisti, il signor Giacomo e Pasotti, non comparivano. Perché anche Pasotti, in settembre e in ottobre, era un frequentatore di casa Ribera, dove faceva l’innamorato dell’ingegnere, di Luisa e anche di Franco. Franco e Luisa sospettavano di un doppio giuoco ma Pasotti era un vecchio amico dello zio e bisognava fargli una buona accoglienza per riguardo allo zio. Poiché i tarocchisti tardavano, Franco propose a sua moglie di uscir in barca a goder la luna. Prima andarono a veder Maria, che dormiva nel lettino dell’alcova col viso inclinato alla spalla destra, con un braccio sotto il capo e un altro posato sul petto. La guardarono, la baciarono sorridendo, si incontrarono silenziosamente nel pensiero della nonna Teresa che tanto l’avrebbe amata, la baciarono ancora col viso serio. «Povera la mia piccina!», disse Franco. «Povera donna Maria Maironi senza quattrini!»
Luisa gli pose una mano sulla bocca. «Zitto!», diss’ella. «Felici noi che siamo le Maironi senza quattrini!»
Franco intese, e sull’atto non replicò; ma poi, nell’uscir di camera per andare in barca, disse a sua moglie, dimenticando una minaccia della nonna: «Non sarà sempre così».
Quell’allusione alle ricchezze della vecchia marchesa dispiacque a Luisa. «Non parlarmene», diss’ella. «Quella roba non vorrei toccarla con un dito.»
«Dico per Maria», osservò Franco.
«Maria ci ha noi che possiamo lavorare.»
Franco tacque. Lavorare! Anche quella lì era una parola che gli mordeva il cuore. Sapeva di condurre una vita oziosa perché la musica, la lettura, i fiori, qualche verso di tempo in tempo, cos’erano se non vanità e perditempi? E questa vita la conduceva in gran parte a carico d’altri, perché, con le sue mille lire austriache l’anno, come avrebbe vissuto? Come avrebbe mantenuto la sua famiglia? Aveva preso la laurea ma senza cavarne profitto alcuno. Diffidava delle proprie attitudini, si sentiva troppo artista, troppo alieno dalle arti curialesche, sapeva di non aver nelle vene sangue di forti lavoratori. Non vedeva salute che in una rivoluzione, in una guerra, nella libertà della patria. Ah quando l’Italia fosse libera, come la servirebbe, con che forza, con che gioia! Queste poesie nel cuore le aveva bene, ma il proposito e la costanza di prepararsi con gli studi a un tale avvenire, no.
Mentr’egli remava in silenzio scostandosi dalla riva, Luisa andava pensando come mai suo marito commiserasse la bambina perché non aveva denari. Non vi era contraddizione tra la fede, la pietà cristiana di Franco e questo sentimento? Le vennero in mente le categorie del professor Gilardoni. Franco credeva fervidamente nella vita futura ma in fatto si attaccava con passione a tutto che la vita terrena ha di bello, di buono e di onestamente piacevole, compreso il tarocco, la primiera e i buoni pranzetti. Uno che osservava così scrupolosamente i precetti della Chiesa, che ci teneva tanto a mangiar di magro il venerdì e il sabato, a udire ogni domenica la spiegazione del Vangelo, avrebbe dovuto conformar la propria vita molto più severamente all’ideale evangelico. Avrebbe dovuto temerlo e non desiderarlo, il denaro.
«Buona lagata!», gridò lo zio dalla terrazza vedendo il battello e Luisa seduta sulla prora, nel chiaro di luna. In faccia al nero Bisgnago tutta la Valsolda si spiegava dal Niscioree alla Caravina nella pompa della luna, tutte le finestre di Oria e di Albogasio come le arcate di Villa Pasotti, come le casette bianche dei paeselli più lontani, Castello, Casarico, S. Mamette, Drano, parevano guardare, come ipnotizzate, il grande occhio fisso della Morta del cielo.
Franco tirò i remi in barca. «Canta», diss’egli.
Luisa non aveva mai studiato il canto ma possedeva una dolce voce di mezzo soprano, un orecchio perfetto e cantava molte arie d’opera imparate da sua madre che aveva udito la Grisi, la Pasta, la Malibran durante l’età d’oro dell’opera italiana.
Cantò l’aria di Anna Bolena:
Al dolce guidami
Castel natìo
il canto dell’anima, che prima scende e si abbandona poco a poco, per più dolcezza, all’amore, e poi, abbracciata con esso, risale in uno slancio di desiderio verso qualche alto lume lontano che tuttavia manca alla sua felicità piena. Ella cantava e Franco, rapito, fantasticava che aspirasse ad essergli unita pure in quella parte superiore dell’anima che finora gli aveva sottratta, che aspirasse a venir guidata da lui, in questa perfetta unione verso la meta dell’ideale suo. E gli venivano le lagrime alla gola; e il lago ondulante e le grandi montagne tragiche e quegli occhi delle cose fisi nella luna e la stessa luce lunare, tutto gli si riempiva del suo indefinibile sentimento, per cui quando di là dalla spezzata immagine dell’astro luccicori argentei sfavillarono un momento fin sotto il Bisgnago, fin dentro il golfo ombroso del Dòi, se ne commosse come di arcani segni alludenti a lui che si facessero il lago e la luna, mentre Luisa compieva la frase:
Ai verdi platani
Al cheto rio
Che i nostri mormora
Sospiri ancor.
La voce di Pasotti gridò dalla terrazza:
«Brava!»
E la voce dello zio:
«Tarocco!»
Nello stesso tempo si udirono i remi d’una barca che veniva da Porlezza, si udì un fagotto scimmiottar l’aria di Anna Bolena. Franco, che s’era seduto sulla poppa del suo battello, salto in piedi, gridò lietamente:
«Ehi là!». Gli rispose un bel vocione di basso:
Buona sera,
Miei signori,
Buona sera,
Buona sera.
Erano i suoi amici del lago di Como, l’avvocato V. di Varenna e un tal Pedraglio di Loveno, che solevano venire per far della musica in palese e della politica in segreto; un segreto di cui Luisa sola era a parte.
Anche dalla terrazza si gridava:
«Bene, don Basilio!». «Bravo il fagotto!». E negli intervalli si udiva pure la voce di un signore che si schermiva dal tarocco. «No, no, Controllore gentilissimo, xe tardi, no ghe stemo più, no ghe stemo propramente più! Oh Dio, oh Dio, La me dispensi, no posso, no posso; ingegnere pregiatissimo, me raccomando a Ela.»
Lo fecero poi giuocare, l’ometto, con la promessa di non passar le due partite. Egli soffiò molto e sedette al tavolino con l’ingegnere, Pasotti e Pedraglio. Franco sedette al piano e l’avvocato gli si mise accanto col fagotto.
Fra Pasotti e Pedraglio, due terribili motteggiatori, il povero signor Giacomo ebbe una mezz’ora amara, piena di tribolazioni. Non gli lasciavano un momento di pace. «Come va, sior Zacomo?» «Mal, mal.» «Sior Zacomo, non ci sono frati che passeggiano in pantofole?» «Gnanca uno.» «E il toro? Come sta il toro, sior Zacomo?» «La tasa, La tasa.» «Maledetto, eh, quel toro, sior Zacomo?» «Maledetissimo, sì signor.» «E la servente, sior Zacomo?» «Zitto!», esclamò Pasotti a questa impertinente domanda di Pedraglio. «Abbiate prudenza. A questo riguardo il signor Zacomo ha dei dispiaceri da parte di certi indiscreti.» «Lassemo star, Controllore gentilissimo, lassemo star», interruppe il signor Giacomo contorcendosi tutto, e l’ingegnere lo esortò a mandar i due seccatori al diavolo. «Come, sior Zacomo», riprese Pasotti, imperterrito: «non è un indiscreto quel piccolo sacerdote?». «Mi ghe digo aseno», fremette il signor Giacomo. Allora Pasotti, tutto ridente e trionfante perché si trattava proprio d’una burla sua, fece tacere Pedraglio che scoppiava dalla curiosità di saper la storia e rimise in corso il tarocco.
Franco e l’avvocato studiavano un pezzo nuovo per piano e fagotto, pasticciavano, si rifacevan ogni momento da capo; ed ecco entrare in punta di piedi per non guastar le loro melodie, la signora Peppina Bianconi. Nessuno s’accorse di lei tranne Luisa che se la fece sedere accanto, sul piccolo canapè vicino al piano.
A Franco la signora Peppina, con la sua bontà cordiale, chiacchierona e sciocca, urtava i nervi; a Luisa no. Luisa le voleva bene ma stava in guardia per il Carlascia. La Peppina aveva udito dal suo giardino quella canzonetta «inscì bella, neh», e poi il fagotto, i saluti; s’era immaginata che avrebbero fatto musica e lei era «inscì matta, neh», per la musica! E poi c’è quel signor avvocato «ch’el boffa denter in quel rob inscì polito!»31. E poi c’è il signor don Franco «parlèmen nanca, con quèi diavoi de did32!» Udir suonare il piano con quella precisione era proprio come udire un organetto; e a lei gli organetti piacevano «inscì tant!». Soggiunse che temeva recar disturbo ma che suo marito l’aveva incoraggiata. E domandò se quell’altro signore di Loveno non suonava anche lui, se si fermavano un pezzo; osservò che dovevano avere ambedue una gran passione per la musica.
«Aspetta me, birbone d’un Ricevitore», pensò Luisa e rimpinzò sua moglie delle più comiche frottole sulla melomania di Pedraglio e dell’avvocato, infilzandone tante più quanto più s’irritava contro la gente odiosa da cui era forza salvarsi a furia di menzogne. La signora Peppina le inghiottì scrupolosamente tutte fino all’ultima, accompagnandovi affettuose note di lieta meraviglia: «Oh bell, oh bell!». «Figürèmes!». «Ma guardee!». Poi, invece di ascoltare la diabolica disputa del piano col fagotto, parlò del Commissario di Porlezza e disse ch’egli aveva l’intenzione di venir a vedere i fiori di don Franco.
«Venga pure», fece Luisa, fredda.
Allora la signora Peppina, approfittando di un uragano che Franco e l’amico suo facevano insieme, arrischiò un discorsetto intimo che guai se il suo Carlascia l’avesse udito; ma fortunatamente il buon bestione dormiva nel proprio letto col berretto da notte tirato sugli orecchi.
«Mi goo inscì mai piasè de sti car fior!»33, diss’ella. Secondo lei, i Maironi avrebbero fatto bene ad accarezzare un poco il signor Commissario. Era intimo della marchesa e guai se gli veniva il ticchio di farli tribolare! Era un uomo terribile, il Commissario. «El mè Carlo el baia34 un poo ma l’è on bon omasc; quell’alter là, el baia minga, mah, neh!...» Per esempio, ella non sapeva niente, non aveva udito niente, ma se quel signor avvocato e quell’altro signore fossero venuti per qualche altra cosa invece che per la musica e il Commissario venisse a saperlo, misericordia!
La luna trascinava i suoi splendori per il lago verso le acque di ponente; il giuoco finì e il signor Giacomo si dispose a far accendere il suo lanternino, malgrado le esclamazioni di Pasotti. «Il lume, sior Zacomo? È matto? Il lume con questa luna?». «Per servirla», rispose il signor Giacomo. «Prima ghe xe quel maledeto Pomodoro da passar, e po, cossa voria, adesso, la luna! La diga che la xe la luna d’agosto, anca; perché siben che semo de setembre, la luna la xe d’agosto. Ben! una volta, sì signor, le lune d’agosto le gera lunazze, tanto fate, come fondi de tina35; adesso le xe lunete, buzarete36... no, no, no.» E, acceso il suo lanternino, partì con Pasotti, accompagnato fino al cancello del giardinetto dall’impertinente Pedraglio con le solite antifone sul toro e la servente, si avviò verso gli antri di Oria, col conforto delle giaculatorie di Pasotti: «gente maleducata, sior Zacomo, gente villana!», giaculatorie dette abbastanza forte perché gli altri potessero udire e ridere.
Un sonoro sbadiglio dell’ingegnere mise in fuga la signora Peppina. Pochi momenti dopo, preso il suo solito bicchier di latte, egli tolse commiato poeticamente:
Crescono sul Parnaso e mirti e allori
Felicissima notte a lor signori.
Anche i due ospiti chiesero un po’ di latte: e Franco che intese il loro latino andò a pigliare una vecchia bottiglia del piccolo eccellente vigneto di Mainè.
Quando ritornò, lo zio non c’era più. Il bruno, barbuto avvocato, una quadratura di forza e di calma, alzò le due mani, chiamò silenziosamente a sé Franco da una parte, Luisa dall’altra e disse piano, con la sua voce di violoncello, calda e profonda: «Notizie grosse».
«Ah!», fece Franco, spalancando gli occhi ardenti. Luisa diventò pallida e giunse le mani senza dir parola. «Sicuro», fece Pedraglio, tranquillo e serio. «Ci siamo.» «Dite su, dite su, dite su!», fremette Franco. Fu l’avvocato che rispose:
«Abbiamo l’alleanza del Piemonte con la Francia e l’Inghilterra. Oggi la guerra alla Russia, domani la guerra all’Austria. Volete altro?»
Franco abbracciò di slancio, con un singulto, i suoi amici.
I tre stettero abbracciati in silenzio, palpitando, stringendosi forte, nella ebbrezza della magica parola: guerra. Franco non si accorgeva di avere ancora la bottiglia in mano. Gliela tolse Luisa; egli allora si staccò impetuoso dagli altri due e cacciatosi fra loro a braccia aperte, li trascinò via per la vita come una valanga, li portò in loggia ripetendo: «Contate, contate, contate».
Colà, chiuso per prudenza l’uscio a vetri che mette sulla terrazza, l’avvocato e Pedraglio misero fuori il loro prezioso segreto. Una signora inglese villeggiante a Bellagio, fervente amica dell’Italia, aveva ricevuto da un’altra signora, cugina di sir James Hudson, ministro d’Inghilterra a Torino, una lettera di cui l’avvocato possedeva la traduzione. La lettera diceva ch’erano in corso a Torino, a Parigi e a Londra segretissime pratiche per avere la cooperazione armata del Piemonte in Oriente, che la cosa era in massima decisa fra i tre Gabinetti, che restavano solamente a risolvere alcuna difficoltà di forma perché il conte di Cavour esigeva i maggiori riguardi alla dignità del suo paese; che a Torino si era certi di ricevere al più tardi in dicembre l’invito ufficiale delle Potenze occidentali per accedere puramente e semplicemente al trattato del 10 aprile 1854. Si affermava persino che il corpo di spedizione sarebbe comandato da S. A. R. il duca di Genova.
V. leggeva, e Franco teneva stretta la mano di sua moglie. Poi volle leggere egli stesso e dopo lui lesse Luisa. «Ma!», diss’ella. «La guerra all’Austria? Come?»
«Ma sicuro!», fece l’avvocato. «Vuole che Cavour mandi il duca di Genova e quindici o ventimila uomini a battersi per i turchi se non ha in pugno la guerra all’Austria? La signora crede che non passerà un anno.»
Franco scosse i pugni in aria con un fremito di tutta la persona.
«Viva Cavour», sussurrò Luisa.
«Ah!», fece l’avvocato. «Demostene non avrebbe potuto lodar il conte con efficacia maggiore.»
Gli occhi di Franco s’empirono di lagrime. «Sono uno stupido», diss’egli. «Cosa volete che vi dica?»
Pedraglio domandò a Luisa dove diavolo avesse cacciata la bottiglia. Luisa sorrise, uscì e ritornò subito col vino e i bicchieri.
«Al conte di Cavour!», disse Pedraglio, sottovoce. Tutti alzarono il bicchiere ripetendo: «al conte di Cavour!» e bevvero; anche Luisa che non beveva mai.
Pedraglio si versò dell’altro vino e sorse in piedi.
«Alla guerra!», diss’egli.
Gli altri tre si alzarono di slancio impugnando il bicchiere silenziosamente, troppo commossi per poter parlare.
«Bisogna andarci tutti!», disse Pedraglio.
«Tutti!», ripeté Franco. Luisa lo baciò con impeto, sulla spalla. Suo marito le afferrò il capo a due mani, le stampò un bacio sui capelli.
Una delle finestre verso il lago era spalancata. Si udì, nel silenzio che seguì quel bacio, un batter misurato di remi.
«Finanza», sussurrò Franco. Mentre la lancia delle guardie di finanza passava sotto la finestra, Pedraglio fece «maledetti porci!» così forte che gli altri zittirono. La lancia passò. Franco mise il capo alla finestra.
Faceva fresco, la luna scendeva verso i monti di Carona, rigando il lago di una lunga striscia dorata. Che strano senso faceva contemplar quella romita quiete con l’idea d’una gran guerra vicina! Le montagne, scure e tristi, parevano pensare al formidabile avvenire. Franco chiuse la finestra e la conversazione ricominciò sommessa, intorno al tavolino. Ciascuno faceva le proprie supposizioni sugli avvenimenti futuri, e tutti ne parlavano come di un dramma il cui manoscritto fosse già pronto fino all’ultimo verso, con i punti e le virgole, nella scrivania del conte di Cavour. V., bonapartista, vedeva chiaro che Napoleone intendeva vendicar lo zio demolendo uno ad uno i membri della Santa Alleanza: oggi la Russia, domani l’Austria. Invece Franco, diffidentissimo dell’imperatore, attribuiva l’alleanza sarda al buon volere dell’Inghilterra, ma riconosceva che, appena proclamata quest’alleanza, l’Austria, sacrificando i suoi interessi ai principii e agli odii si sarebbe schierata con la Russia, per cui Napoleone sarebbe stato costretto di combatterla. «Sentite», disse sua moglie, «io invece ho paura che l’Austria si metta dalla stessa parte del Piemonte.» «Impossibile», fece l’avvocato. Franco si sgomentò, ammirando la finezza dell’osservazione, ma Pedraglio esclamò: «Off! Sti zurucch chì hin trop asen per fà ona balossada compagna!»37 e l’argomento parve decisivo, nessuno ci pensò più, salvo Luisa. Si misero a discorrere di piani di campagna, di piani d’insurrezione; ma qui non andavano d’accordo. V. conosceva gli uomini e le montagne del lago di Como come forse nessun altro, da Colico a Como e a Lecco. E dappertutto, lungo il lago, nella Val Menaggio, nella Vall’Intelvi, nella Valsassina, nelle Tre Pievi aveva gente devota, pronta magari a menar le mani a un cenno del «scior avocàt». Egli e Franco credevano utile qualunque movimento insurrezionale che valesse a distrarre anche una menoma parte delle forze austriache. Invece Luisa e Pedraglio erano del parere che tutti gli uomini validi dovessero ingrossare i battaglioni piemontesi. «Faremo la rivoluzione noi donne», disse Luisa con la sua serietà canzonatoria. «Io, per parte mia, butterò nel lago il Carlascia.»
Discorrevano sempre sottovoce, con una elettricità in corpo che dava luce per gli occhi e scosse per i nervi, assaporando il parlar sommesso con le porte e le finestre chiuse, il pericolo di avere quella lettera, la vita ardente che si sentivano nel sangue, le parole alcooliche a cui tornavano ogni momento. Piemonte, guerra, Cavour, duca di Genova, Vittorio Emanuele, cannoni, bersaglieri.
«Sapete che ore sono?», disse Pedraglio guardando l’orologio.
«Le dodici e mezzo! Andiamo a letto.»
Luisa uscì a prendere delle candele e le accese, stando in piedi; nessuno si mosse e sedette anche lei. Allo stesso Pedraglio, quando vide le candele accese, passò la voglia di andar a letto.
«Un bel Regno!», diss’egli.
«Piemonte», disse Franco, «Lombardo-Veneto, Parma e Modena.»
«E Legazioni», fece V.
Altra discussione. Tutti le avrebbero volute le Legazioni, specialmente l’avvocato e Luisa; ma Franco e Pedraglio avevano paura di toccarle, temevano di suscitare difficoltà. Si riscaldarono tanto che l’allegro Pedraglio invitò i suoi compagni a gridare sottovoce: «Vosèe adasi, fioeu!». Allora fu V. che propose di andare a letto. Prese in mano la candela ma senza alzarsi.
«Corpo di Bacco!», diss’egli, non sapeva bene se in forma di conclusione o di esordio. In fatto aveva una gran voglia di parlare, di sentir parlare, e non sapeva cosa trovar di nuovo. «Proprio corpo di Bacco!», esclamò Franco ch’era nelle stesse condizioni. Seguì un silenzio alquanto lungo. Finalmente Pedraglio disse: «Dunque?», e si alzò. «Andiamo?», fece Luisa avviandosi per la prima. «E il nome?», chiese l’avvocato. Tutti si fermarono. «Che nome?» «Il nome del nuovo Regno.» Franco posò subito la candela. «Bravo», diss’egli, «il nome!», come se fosse una cosa da decidere prima di andare a letto. Nuova discussione. Piemonte? Cisalpino? Alta Italia? Italia?
Luisa posò presto la candela anche lei, e Pedraglio, perché gli altri non volevano passargli il suo Italia, la posò pure. Però siccome il dibattito andava troppo per le lunghe, riprese la candela e corse via ripetendo: «Italia, Italia, Italia, Italia!» senz’ascoltar i «zitto» e i richiami degli altri che lo seguivano in punta di piedi. Si fermarono ancora tutti a piè della scala che Pedraglio e l’avvocato dovevano salire per andare a letto, e si diedero la felice notte. Luisa entrò nella vicina camera dell’alcova; Franco restò a veder salire i suoi amici. «Ehi!», diss’egli a un tratto. Voleva parlar loro dal basso ma poi pensò invece di raggiungerli. «E se si perde?», sussurrò.
L’avvocato si contentò d’uno sdegnoso «off!» ma Pedraglio voltandosi come una iena afferrò Franco per il collo. Si dibatterono ridendo sul pianerottolo della scala e poi «addio!», Pedraglio corse su e Franco precipitò abbasso.
Sua moglie lo aspettava ferma in mezzo alla camera, guardando l’uscio. Appena lo vide entrare gli andò, grave, incontro, lo abbracciò stretto stretto, e quando egli, passati alcuni momenti, fece dolcemente atto di sciogliersi, raddoppiò la stretta, sempre in silenzio. Franco, allora, intese. Ella lo abbracciava adesso come lo aveva impetuosamente baciato prima, quando si era parlato di andar tutti alla guerra. Strinse egli pure le tempie di lei fra le mani, le baciò, le ribaciò i capelli e disse dolcemente: «Cara, pensa che gran cosa, dopo, questa Italia!». «Oh sì!», diss’ella. Alzò il viso al viso di suo marito, gli offerse le labbra. Non piangeva ma gli occhi erano un poco umidi. Vedersi guardar così, sentirsi baciar così da quella creatura briosa e fiera valeva bene alcuni anni di vita, perché mai mai ella non era stata con lui, nella tenerezza, così umile.
«Allora», diss’ella, «non resteremo più in Valsolda. Tu dovrai lavorare come cittadino, non è vero?»
«Sì, sì, certo!»
Si misero a discorrere con gran zelo, l’una e l’altro, di quel che avrebbero fatto dopo la guerra, come per allontanar la idea di una possibilità terribile. Luisa si sciolse i capelli e andò a guardar Maria nel suo lettino. La bimba si era prima, forse, svegliata e s’era posto in bocca un ditino che poi pian piano, tornando il sonno, n’era scivolato fuori. Ora dormiva con la bocca aperta e il ditino sul mento. «Vieni, Franco», disse sua madre. Si piegarono ambedue sul lettino. Il visetto di Maria aveva una soavità di paradiso. Marito e moglie stettero a guardarla in silenzio e si rialzarono poi commossi, non ripresero il discorso interrotto.
Ma quando furono a letto ed ebbero spento il lume, Luisa mormorò sulla bocca di suo marito:
«Se viene quel giorno, tu vai; ma vado anch’io».
E non gli permise di rispondere.
3. Con i guanti
Pasotti, per far la burla più completa, rimproverò sua moglie di avere riferito al signor Giacomo il discorso di don Giuseppe circa la convenienza di quel tale matrimonio. La povera sorda cadde dalle nuvole, non sapeva né di discorsi né di matrimoni, protestò ch’era una calunnia, scongiurò suo marito di non crederci, si disperò, quasi, perché il Controllore mostrava conservar un sospetto. Il maligno uomo si preparava un divertimento squisito; dire al signor Giacomo e a don Giuseppe che sua moglie desiderava rimediare al mal fatto e metter pace, farli trovare tutti e tre insieme a casa sua, star ad ascoltare dietro un uscio la deliziosa scena che seguirebbe fra il signor Giacomo irritato, don Giuseppe atterrito, la Barborin addolorata e sorda. Ma il disegno gli fallì perché sua moglie non poté stare alle mosse e corse al «Palazz» a giustificarsi.
Ella trovò don Giuseppe e la Maria in uno stato di agitazione straordinaria. Era capitato loro qualche cosa di grosso che la Maria avrebbe voluto dire e don Giuseppe no. Cedette il padrone a patto che la Maria non gridasse, che si facesse intendere a segni. Trovando contrasto anche su questa condizione, diventò addirittura, nella sua prudenza, furibondo e la serva non insistette.
Siccome era corsa voce d’un caso di colèra a Lugano nella persona d’un tale venuto da Milano, dove il male c’era, don Giuseppe aveva subito disposto che le provviste per cucina si facessero a Porlezza invece che a Lugano; e ne aveva incaricato il Giacomo Panighèt, il postino che portava le lettere in Valsolda non tre volte il giorno, come ora si portano, ma due volte la settimana, com’era la beata consuetudine del piccolo mondo antico. Ora, cinque minuti prima che venisse la signora Pasotti, il Giacomo Panighèt aveva portato il solito canestro e nel canestro s’era trovata, sotto i cavoli, una letterina diretta a don Giuseppe. Diceva così:
Lei che giuoca a primiera con don Franco Maironi, lo avverta che l’aria di Lugano è molto migliore di quella di Oria.
Tivano
La Maria mostrò silenziosamente alla Pasotti il canestro ancora pieno, le rappresentò con una mimica efficace la scoperta della lettera, gliela diede a leggere.
Appena la sorda ebbe letto incominciò una bizzarra, indescrivibile azione muta di tutti e tre. La Maria e don Giuseppe rappresentavano a furia di gesti e di occhiacci la loro sorpresa e il loro terrore; la Pasotti, tra sgomenta e smarrita, li guardava a bocca aperta, col foglio in mano, come se avesse capito; in fatto capiva solamente che la lettera doveva essere spaventosa. Ebbe un lampo, tese il foglio a don Giuseppe con la sinistra, puntando l’indice della destra sulla parola Franco, incrociò quindi i polsi con una mimica interrogativa; e poiché i due, riconosciuta la figura delle manette, si sbracciavano a far di sì col capo, diede in ismanie per l’affezione grande che portava a Luisa e, senza curarsi più del suo proprio affare, spiegò per segni, come se anche gli altri due fossero stati sordi, che sarebbe corsa subito a Oria, da don Franco, e gli avrebbe recato lo scritto.
Si cacciò la carta in tasca e prese la corsa senza quasi salutare né don Giuseppe né la Maria che si provarono inutilmente, mezzo spiritati, di afferrarla, di trattenerla, di raccomandarle ogni precauzione possibile. Ella sgusciò loro di mano e si mise a trottare, scuotendo il suo alto cappellone, trascinando per terra la sua vecchia sottana grigia, verso Oria, dove arrivò tutta scalmanata, con la testa piena di gendarmi, di perquisizioni, d’arresti, di terrori e di pianti.
Salì le scale del giardinetto Ribera, entrò difilata in sala, vide gente, riconobbe il Ricevitore e l’I.R. Commissario di Porlezza, si sgomentò dubitando che fossero lì per il terribile colpo, ma vide pure la signora Bianconi, il signor Giacomo Puttini e respirò.
Il Commissario, seduto al posto d’onore, sul canapè grande, presso l’ingegnere in capo, parlava molto, con grande facilità e brio, guardando di preferenza Franco come se Franco fosse il solo per il quale valesse la pena di spendere fiato e spirito. Franco stava in una poltrona, muto, ingrugnato quale chi sta in casa altrui e sente un puzzo che non può convenientemente fuggire né maledire. Si discorreva della campagna di Crimea e il Commissario magnificava il piano degli alleati di attaccare il colosso in un punto vitale per le sue ambizioni, parlava della barbarie russa e persino dell’Autocrata in modo da far rabbrividire Franco per il timore di un’alleanza anglo-franco-austriaca e da far strabiliare il Carlascia che aveva le idee del 1849 e vedeva nello Czar un grosso amicone di casa. «E Lei, signor primo deputato politico», disse il Commissario volgendo il suo giallastro sorriso ironico al signor Giacomo, «cosa ne dice Lei?» Il signor Giacomo batté gli occhietti e, palpatesi alquanto le ginocchia, rispose: «Mi, signor Commissario riveritissimo, de Russia né de Franza né de Inghilterra no me ne intendo e no me ne intrigo. Lasso che i se la despàta. Ma mi, ghe digo la verità, me fa pecà el poro can del Papuzza. Lü xe quieto come un polesin e questi ghe fà momò: lü no ciama agiuto e quei core in zinquanta a giutarlo, e intanto i ghe xe adosso tuti, e magna che te magna, el poro Papuzza, sia ch’el vinza, sia ch’el perda, el me resta in camisa»38.
Con questo nomignolo di Papuzza (babbuccia), il signor Giacomo designava venetamente il Turco. Era la personificazione della Turchia in un turco ideale, con tanto di turbante, di barba, di pancia e di babbucce. Nella sua qualità di uomo pacifico e di semi-libero pensatore, il Puttini aveva un debole per il pigro, placido e bonario Papuzza.
«Stia tranquillo», disse ridendo il Commissario. «Il suo amico Papuzza se la caverà benone. Siamo amici di Papuzza anche noi e non lo lasceremo mutilare né svenare.»
Franco non si tenne dal brontolare con tanto di cipiglio:
«Sarebbe però una bella ingratitudine verso la Russia!»
Il Commissario tacque, e la signora Peppina propose, con un tatto insolito, di andare a vedere i fiori.
«Meglio!», fece l’ingegnere, assai contento che si troncasse quel dialogo.
Nel passar della sala nel giardinetto, il Commissario prese familiarmente il braccio di Franco e gli disse all’orecchio: «Ha ragione, sa, dell’ingratitudine, ma certe cose noi impiegati non le possiamo dire». Franco, a cui il tocco della Imperial Regia mano bruciava, fu sorpreso di questa uscita. Se colui avesse avuto una faccia più italiana, gli avrebbe creduto; con quella faccia calmucca non gli credette e lasciò cader il discorso. Lo ripigliò l’altro, sottovoce, affacciandosi alla ringhiera verso il lago e fingendo di guardar il ficus repens che veste la muraglia.
«Si guardi anche Lei», diss’egli, «da certe parole. C’è delle bestie che possono interpretar male.» E accennò leggermente col capo al Ricevitore. «Se ne guardi, se ne guardi!» «Grazie», rispose Franco, asciutto, «ma non credo che avrò bisogno di guardarmi.» «Non si sa, non si sa, non si sa», sussurrò il Commissario, e toltosi di là, andò, seguito da Franco, dove il Ricevitore e l’ingegnere discorrevano di tinche presso la scaletta che scende al secondo ripiano del giardinetto.
Lì presso c’era il famoso vaso rosso di gelsomini.
«Questo rosso sta male, signor Maironi», disse il bestione ex abrupto, e diede un colpo all’aria con la mano come per dire «via!». In quel momento Luisa si affacciò al giardino dalla sala e chiamò suo marito. Il Commissario si voltò al suo zelante accolito e gli disse bruscamente: «Lasci stare!»
La Pasotti partiva e voleva salutare Franco. Questi desiderava farla uscire per il giardino ma ella, volendo evitare le cerimonie con quegli altri signori, preferì di scender per la scala interna e Franco l’accompagnò fino alla porta di strada, ch’era aperta. Con suo grande stupore, la Pasotti, invece di uscire, chiuse la porta e si mise a fargli una mimica concitata, affatto inintelligibile, accompagnandola di sospiri tronchi e di stralunamenti d’occhi: dopo di che si levò di tasca una lettera e gliela porse.
Franco lesse, si strinse nelle spalle e intascò la carta. Poi, siccome la Pasotti consigliava, con la sua mimica disperata, fuga fuga, Lugano Lugano, la rassicurò con un gesto sorridendo. Colei gli afferrò ancora una volta le mani, scosse ancora con un fremito di supplica, il cappellone inclinato a destra e i due lunghi riccioli neri. Poi spalancò gli occhi, porse le labbra in fuori quanto poté, si calcò l’indice sul naso nel segno del silenzio. «Anca con Pasott!», diss’ella; e furono le sole sue parole durante tutta questa spiegazione; dopo le quali scappò.
Franco risalì le scale, pensando ai casi suoi. Poteva essere un falso allarme, poteva essere una cosa seria. Ma perché mai lo si sarebbe arrestato? Cercò di ricordare se avesse in casa qualche cosa di compromettente e non trovò nulla. Pensò ad una perfidia della nonna ma cacciò subito quest’idea, se ne rimproverò e rimise ogni decisione a più tardi, quando avrebbe parlato a sua moglie. Ritornò nel giardinetto dove il Commissario, appena lo vide, gli chiese di mostrargli certe dalie che la signora Peppina vantava. Udito che le dalie erano nell’orto, propose a Franco di accompagnarvelo. Potevano andar soli; tanto, gli altri erano profani. Franco accettò.
Il contegno di quel piccolo birro inguantato già pareva molto strano; avrebbe pur voluto capire se potesse in qualche modo accordarsi con l’avvertimento misterioso.
«Senta, signor Maironi», disse risolutamente il Commissario quando Franco ebbe chiuso dietro a sé l’uscio dell’orto. «Le voglio dire una parola.»
Franco, che stava scendendo i due scalini appoggiati alla soglia della porta, si fermò e aggrottò le sopracciglia. «Venga qua!», soggiunse l’altro, imperioso. «Ciò che sto per fare è forse contro il mio dovere ma lo faccio egualmente. Sono troppo amico della signora marchesa Sua nonna per non farlo. Lei corre un gravissimo pericolo.»
«Io?», disse Franco, freddamente. «Quale?»
Franco aveva rapida e sicura l’intuizione del pensiero altrui. Le parole del Commissario si accordavano bene con quelle portategli dalla Pasotti; pure egli sentì, in quel momento, che il piccolo birro aveva un tradimento nel cuore.
«Quale?», rispose costui. «Mantova!»
Franco udì senza batter ciglio il formidabile nome, sinonimo di segrete e di forche.
«Io non posso aver paura di Mantova», diss’egli. «Non ho fatto nulla per andar a Mantova.»
«Eppure!»
«Di che cosa mi accusano?», ripeté Franco.
«Questo lo sentirà se resta qui», rispose il Commissario, pigiando sulle ultime parole. «E adesso vediamo le dalie.»
«Non ho fatto nulla», tornò a dire Franco. «Non mi muovo.»
«Vediamo queste dalie, vediamo queste dalie!», insistette il Commissario.
Parve a Franco che avrebbe dovuto ringraziar quell’uomo e non poté farlo. Gli mostrò i suoi fiori con quel tanto di cortesia che occorreva, con perfetta tranquillità; e lo ricondusse dall’orto in casa, discorrendo di non so qual professore Maspero, di non so qual segreto per combattere l’oïdium.
In sala si discorreva di un altro peggiore oïdium. La signora Peppina aveva in corpo una terribile paura del colèra. Riconosceva, sì, che il colèra ammoniva ogni buon cristiano di mettersi in grazia di Dio e che quando si è in grazia di Dio è una fortuna di andar all’altro mondo: «Ma però, anca la pell, neh! Quella cara pelascia! A pensà che l’è domà vüna!»39.
«Il colèra», disse Luisa, «se avesse giudizio, potrebbe fare bellissime cose; ma non ne ha.» «Vede», sussurrò alla signora Peppina, mentre il Biancòn si alzava per andare incontro al Commissario di ritorno con Franco, «il colèra è capace di portar via Lei e di lasciar qui Suo marito.» A questa uscita stravagante la signora Peppina ebbe un sussulto di spavento, fece «Esüsmaria!» e poi capì di essersi tradita, di non aver mostrato per il suo Carlascia quella tenerezza di cui parlava sempre, afferrò il ginocchio della sua vicina e si piegò a dirle sottovoce, rossa come un papavero: «Citto, citto, citto!»
Ma Luisa non badava più a lei; un’occhiata di Franco le aveva detto ch’era successo qualche cosa.
Partita tutta quella gente, lo zio Piero si mise a leggere la Gazzetta di Milano e Luisa disse a suo marito: «Sono le tre, andiamo a svegliar Maria».
Quando fu con lui nella camera dell’alcova, invece di aprir le imposte, gli domandò cosa fosse accaduto. Franco le raccontò tutto, dal biglietto della Pasotti allo strano contegno, alla strana confidenza del Commissario.
Luisa lo ascoltò molto seria ma senza dar segno di timore. Esaminò il biglietto misterioso. Ella e Franco sapevano che fra gli agenti governativi di Porlezza v’era un galantuomo il quale nel 1849 e nel 1850 aveva salvato parecchi patrioti avvertendoli segretamente; ma sapevano pure che quel galantuomo là non conosceva l’ortografia né la grammatica. Il biglietto portato dalla Pasotti era correttissimo. Quanto al Commissario, si sapeva che era uno dei più tristi e maligni arnesi del Governo. Luisa approvò la risposta di suo marito. «Giurerei che ti vogliono far partire», diss’ella.
Franco lo pensava pure ma senza trovarne un ragionevole perché. Luisa ne aveva bene in mente uno, suggeritole dal suo disprezzo per la nonna. Il Commissario era un buon amico della nonna, l’aveva detto egli stesso per un raffinamento, secondo lei, di astuzia. Nel guanto del Commissario vi era l’artiglio della nonna. Non Franco solo ma tutti si volevano colpire; e si volevano colpire nella persona di colui che sosteneva la famiglia con le proprie fatiche, col proprio generoso cuore. Ella sapeva, per discorsi riferitile dalle solite lingue odiose, che la nonna detestava lo zio Piero perché lo zio Piero aveva dato modo a suo nipote di ribellarsi a lei e di vivere nella ribellione, abbastanza comodamente. Ora si cercava un pretesto di colpirlo. La fuga del nipote sarebbe stata una confessione e, per un Governo come l’austriaco, un buon pretesto di colpir lo zio. Luisa non lo disse subito, solamente lasciò capire che aveva un’idea; allora suo marito gliela fece, poco a poco, metter fuori. Uditala, ci credette nel suo cuore ma protestò a parole, cercò difender la nonna da un’accusa troppo poco fondata e troppo mostruosa. Comunque la cosa fosse, marito e moglie si accordavano interamente nella risoluzione di non muoversi, di aspettare gli avvenimenti. Perciò non stettero più a fare né a discutere supposizioni. Luisa si alzò, andò ad aprire le imposte, si voltò a guardar sorridendo suo marito nella luce; gli stese la mano ch’egli strinse e scosse col cuore caldo e la lingua impedita. Pareva loro di esser soldati condotti per una via quieta al rombo lontano del cannone, a Dio sa qual sorte.
4. Con gli artigli
L’ingegnere in capo non si accorse di nulla, e due giorni dopo, spirata la sua licenza, se n’andò via in barca, pacifico nel suo soprabitone grigio da viaggio, insieme alla Cia, la sua governante. Passarono altri dieci giorni senza novità alcuna, cosicché Franco e Luisa si persuasero che proprio fosse stato teso loro un tranello e che la Polizia non si lascerebbe vedere. La sera del primo ottobre fecero allegramente il tarocco con Puttini e Pasotti e, partiti gli ospiti per tempo, andarono a letto. Luisa, nel baciar la bambina che dormiva, la sentì calda. Le toccò le mani e le gambe. «Maria ha la febbre», diss’ella.
Franco pigliò la candela e guardò. Maria dormiva con la testina piegata sulla spalla sinistra secondo il suo solito. Il bel visetto, sempre accigliato nel sonno, era un po’ acceso, la respirazione un po’ frequente. Franco si spaventò, immaginò in un momento il morbillo, la scarlattina, il gastrico, l’infiammazione cerebrale. Luisa, più tranquilla, pensò ai vermi, preparò la santonina sul tavolino da notte. Poi padre e madre si coricarono senza rumore, spensero il lume, stettero ad ascoltar con pena il sottile respiro breve della piccina. Si assopirono e furono svegliati intorno alla mezzanotte, da Maria che piangeva. Accesero il lume e Maria si chetò, prese la santonina. Poi uscì da capo a piangere, volle esser portata nel letto grande, fra la mamma e il papà e in breve vi pigliò sonno; ma era un sonno inquieto, interrotto da pianti.
Franco tenne il lume acceso per poterla osservare meglio.
Pendevano, egli e sua moglie, sulla loro creatura quando all’uscio di strada furono precipitosamente battuti due colpi. Franco balzò a sedere sul letto. «Hai udito?», diss’egli. «Zitto!», fece Luisa afferrandogli un braccio e tendendo l’orecchio.
Due altri colpi, più forti. Franco esclamò: «La Polizia!», e saltò a terra. «Va’, va’!», supplicò lei, sottovoce. «Non lasciarti prendere! Passa dal cortiletto! Scavalca il muro!»
Egli non rispose, si vestì a mezzo, in furia, e si slanciò fuori della camera, risoluto di non lasciar volontariamente la sua Luisa, la sua Maria malata, sdegnoso del pericolo. Discese le scale a salti. «Chi è?», diss’egli, prima di aprire. «La Polizia!», si rispose. «Aprite subito!»
«A quest’ora non apro a chi non vedo.»
Si udì un breve dialogo nella strada. La voce di prima disse: «Parli lei», e la voce che parlò poi era ben conosciuta da Franco.
«Apra, signor Maironi.»Era la voce del Ricevitore. Franco aperse. Entrò un signore vestito di nero, in occhiali; dopo di lui, il bestione; dopo il bestione un gendarme con una lanterna; poi tre altri gendarmi armati, due semplici e un graduato che portava un gran sacco di cuoio. Qualcuno rimase fuori.
«Lei è il signor Maironi?», disse quel dagli occhiali, un aggiunto della Polizia di Milano. «Venga di sopra con me». E tutta la compagnia si avviò sulle scale con uno strepito di passi pesanti, di ferramenta soldatesche.
Non erano ancora al primo piano che la scala si illuminò in alto, singhiozzi e gemiti scoppiarono al secondo piano.
«Questa è Sua moglie?», chiese l’aggiunto.
«Crede?», rispose Franco, ironico. Il Ricevitore mormorò: «Sarà la domestica». L’aggiunto si voltò a dare un ordine, due gendarmi si fecero avanti, salirono in fretta al secondo piano. Il poliziotto domandò a Franco, più aspramente di prima: «Sua moglie è a letto?».
«Naturalmente.»
«Dove? Bisogna che si alzi!»
L’uscio dell’alcova si aperse, comparve Luisa, in veste da camera con i capelli sciolti e con una candela in mano, mentre un gendarme si affacciava al ripiano superiore della scala a dir che la serva era mezzo svenuta e non poteva venir giù. L’aggiunto gli ordinò di lasciar il suo compagno presso la donna e di scendere. Poi salutò la signora che non rispose al saluto. Sperando che Franco fuggisse, ella si era affrettata di uscir di camera per trattenere, per ingannare, se possibile, la Polizia. Vide suo marito, trasalì, palpitò, ma si rimise subito.
L’aggiunto si avanzò per entrar in camera. «No!», esclamò Franco. «C’è un’ammalata!» Luisa impugnò la maniglia dell’uscio chiuso guardando colui in faccia.
«Questa malata chi è?», domandò l’aggiunto.
«Una bambina.»
«Eh, cosa vogliono che le facciamo?»
«Scusi», disse Luisa scotendo nervosamente la maniglia quasi in atto di sfida. «Hanno bisogno d’entrare tutti?»
«Tutti.»
Al rumore delle voci e della maniglia la piccola Maria si mise a piangere un pianto di stanchezza desolata, che faceva male al cuore.
«Luisa», disse Franco, «lascia che questi signori facciano la loro parte!»
L’aggiunto era un giovane, alquanto elegante, dalla fisonomia fine e cattiva. Lanciò a Franco una occhiata sinistra. «Ascolti Suo marito, signora», diss’egli tanto per mordere di rimando, a qualche modo. «Lo trovo prudente.»
«Meno di lei che si fa scortare da un esercito!», rispose Luisa aprendo l’uscio. Quegli la guardò, si strinse nelle spalle e passò oltre, seguito dagli altri.
«Aprano tutto, qui!», diss’egli forte, ruvidamente, indicando la scrivania. I grandi occhi cilestrini di Franco lampeggiarono. «Parli sottovoce!», diss’egli. «Non mi spaventi la bambina!»
«Silenzio a Lei!», tuonò l’aggiunto calando un pugno sulla scrivania. «Apra!»
La bambina, a quello strepito, si mise a singhiozzare disperatamente. Franco, furibondo, scagliò la chiave sulla scrivania.
«A Lei!», diss’egli.
«Ella è in arresto!», gridò l’aggiunto.
«Va bene!»
Mentre Franco rispondeva così, Luisa, che si era chinata tutta sulla sua creatura per cercar di quietarla, rialzò impetuosamente il viso.
«Ci ho diritto anch’io, a quest’onore», diss’ella con la sua bella voce vibrante.
L’aggiunto non degnò rispondere, fece aprire e rovistare da un gendarme tutti i cassetti della scrivania, levarne lettere e carte ch’egli esaminava rapidamente e buttava parte a terra, parte nel gran sacco di cuoio. Dopo la scrivania venne la volta dei cassettoni dove tutto fu messo sossopra. Dopo i cassettoni fu visitato il lettuccio di Maria. L’aggiunto ordinò a Luisa di levar la bambina dal letto grande ch’egli intendeva pure di visitare.
«Mi metta il lettuccio in ordine», rispose Luisa fremente. Fino a quel momento il bestione Carlascia era sempre stato lì muto e duro dietro i suoi baffi, come se quella bisogna, forse da lui desiderata in astratto, non fosse stata poi, in pratica, interamente di suo gusto. Adesso si mosse e, senza parlare, si pose ad accomodar con le sue manacce enormi le materasse e le lenzuola del lettuccio. Luisa vi posò la bambina e anche il letto grande fu sfatto e frugato senza frutto. Maria non piangeva più, guardava quella baraonda con tanto d’occhi spalancati.
«Adesso vengano con me», disse l’aggiunto. Luisa si tenne sicura d’esser condotta via con suo marito e chiese che si facesse scendere la sua domestica per affidarle la bambina. All’idea che Luisa pure fosse tratta in arresto, che si volesse togliere a Maria malata anche la madre, Franco, fuori di sé dalla collera e dal dolore, mise un grido di protesta:
«Questo non è possibile! Lo dica!»
L’aggiunto non degnò rispondergli, ordinò che si facesse venir la fantesca. La fantesca, mezza morta di paura, entrò fra i gendarmi, gemendo e singhiozzando.
«Stupida!», mormorò Franco, fra i denti.
«La donna starà qui con la bambina», disse l’aggiunto. «Loro vengano con me. Devono assistere alla perquisizione.» Fece prendere dei lumi, lasciò un gendarme nell’alcova e passò in sala, seguito dagli altri gendarmi, dal Bianconi, da Franco e Luisa.
«Prima di continuar la perquisizione», diss’egli, «domanderò Loro ciò che avrei domandato prima se il Loro contegno fosse stato migliore. Mi dicano se tengono armi o pubblicazioni sediziose o carte, sia stampate che manoscritte, ostili all’Imperial Regio Governo.»
Franco rispose forte:
«No».
«È quello che vedremo», fece l’aggiunto.
«Si accomodi.»
Mentre l’aggiunto faceva scostar i mobili dalle pareti, guardare e frugare dappertutto, venne in mente a Luisa che otto o dieci anni prima lo zio le aveva fatto vedere, nel cassettone di una camera del secondo piano, una vecchia sciabola che vi stava sin dal 1812. Era la sciabola di un altro Pietro Ribera, tenente di cavalleria, caduto a Malojaroslavetz. In quella camera, che stava sopra la cucina, non ci dormiva mai nessuno, non ci si andava quasi mai; era come se non ci fosse. Luisa aveva dimenticato del tutto la vecchia sciabola dell’Impero. Dio, le veniva in mente adesso! Se anche lo zio l’avesse dimenticata! Se non l’avesse consegnata nel ’48, dopo la guerra; quando tutte le armi si dovevano consegnare, pena la vita! Avrà pensato, lo zio, nella sua semplicità patriarcale, che quel ricordo di famiglia, giacente da trentasei anni nel fondo d’un cassettone, era pure diventato un arnese pericoloso e proibito? E Franco, Franco che non sapeva niente! Luisa teneva le mani sulla spalliera d’una seggiola; la seggiola scricchiolò tutta sotto una stretta convulsa; ell’alzò le mani, atterrita come se avesse parlato.
Vedeva il poliziotto passar di camera in camera con i suoi gendarmi, giungere a quella, aprire il cassettone, frugare, trovar la sciabola. Faceva ogni sforzo di ricordar il posto preciso dove l’aveva veduta, d’immaginar una via di scampo, e taceva seguendo con gli occhi, macchinalmente, la candela che un gendarme accostava, secondo i cenni del suo capo, ora ad un cassetto aperto, ora ad una cantoniera, ora ad un quadro che colui alzava per guardarvi dietro. Non le veniva in mente nessun rimedio. Se lo zio non aveva pensato di levar la sciabola, c’era solo da sperare che non si visitasse anche quella camera.
Franco, appoggiato alla stufa, seguiva, scuro nella fronte, ogni atto di quella gente. Quando cacciavano le mani nei cassetti, gli si vedeva la collera nel giuoco muto delle mascelle. Non si udiva che qualche ordine tronco dell’aggiunto, qualche risposta sommessa dei gendarmi. Nulla si moveva intorno ad essi se non le loro grandi ombre traballanti per le pareti. Il silenzio del Ricevitore, di Franco e di Luisa pareva, in una sala da giuoco proibito, intorno alle voci brevi dei giuocatori, il silenzio di coloro che hanno puntato forte. La sinistra faccia, la sinistra voce dell’aggiunto, quantunque nulla si trovasse, non cambiavano mai. A Luisa egli pareva un uomo sicuro d’arrivare al suo scopo. E non poter far niente, neppur avvertire Franco! Ma forse era meglio che non lo sapesse, forse quest’ignoranza poteva salvarlo.
Visitate la sala e la loggia, l’aggiunto passò nel salotto. Pigliò la candela dalle mani del gendarme e fece una rapida rassegna dei piccoli uomini illustri. «Il signor ingegnere in capo Ribera», diss’egli vedendo i ritratti di Gouvion Saint-Cyr, di Marmont e di altri generali napoleonici, «avrebbe fatto molto meglio a tener il ritratto di S. E. il feld-maresciallo Radetzky. Non c’è?»
«No», rispose Franco.
«Che razza d’impiegati!», fece colui con un disprezzo, con un’arroganza da non dire.
«Hanno gl’impiegati il dovere», scattò Franco, «di tenere ritratti...»
«Non sono qui», lo interruppe l’aggiunto, «per discutere con Lei!»
Franco voleva replicare. «Citto, Lei, con quella lingua lunga quatter brazza!», fece il Ricevitore, burbero.
L’aggiunto uscì dal salotto nel corridoio che conduce alla scala. Salirebbe, pensava Luisa, o non salirebbe? Salì ed ella gli tenne dietro senza tremare ma immaginando con una rapidità vertiginosa tante cose diverse che potevano accadere. Rotavano, per così dire, nella sua mente tutte le possibilità del momento, le sciagurate e le prospere. Se si fermava sulle prime, l’orrore la portava di slancio alle seconde; se si fermava su queste, la fantasia ritornava con avidità perversa alle prime.
Prima ancora di porre il piede nel corridoio del secondo piano, udì Maria piangere. Franco chiese all’aggiunto che permettesse a sua moglie di scendere dalla bambina ma ella protestò che voleva restare. L’idea di non essere con lui quando si scoprisse l’arma, l’atterriva. Intanto l’aggiunto entrò in uno stanzino dov’erano parecchi libri, trovò un’opera stampata a Capolago col titolo Scritti letterari di un italiano vivente e domandò:
«Chi è quest’italiano vivente?»
«Il padre Cesari», rispose Franco, audacemente. L’altro, ingannato da quella prontezza e da quel nome di frate, si diede l’aria dell’uomo colto, disse: «Ah, conosco!», e ripose il libro, chiese dove dormisse l’ingegnere in capo.
Luisa era troppo soggiogata da un’angoscia sola per sentir altro, ma Franco, a veder entrare il birro e i suoi nella camera dello zio così pulita e ordinata, così piena del suo buono, pacifico spirito, a pensar che colpo sarebbe per il povero vecchio una notizia siffatta, si sentì uno struggimento, una rabbia da piangerne. «Mi pare», diss’egli, «che almeno questa camera dovrebb’essere rispettata.»
«Ella si tenga le Sue osservazioni», rispose l’aggiunto, e incominciò con far buttare all’aria coperte e materasse. Poi volle la chiave del cassettone. L’aveva Franco, che discese, accompagnato da un gendarme, a prenderla nella sua camera. Lo zio gliel’aveva consegnata prima di partire dicendogli che, ad un bisogno, avrebbe trovato un po’ di cum quibus nel primo cassetto. Aprirono. V’era un rotolo di svanziche, alcune lettere e carte, dei portafogli e dei taccuini vecchi, dei compassi, delle matite, una scodellina di legno con varie monete.
L’aggiunto esaminò ogni cosa minutamente, scoperse fra le monete della scodellina uno scudo di Carlo Alberto e un pezzo di quaranta lire del Governo Provvisorio di Lombardia. «Il signor ingegnere in capo», disse l’aggiunto, «ha conservato queste monete con una cura straordinaria! D’ora in poi le conserveremo noi.» Chiuse il cassetto e restituì la chiave senza aprire gli altri.
Uscì poi nel corridoio e si fermò, incerto. Il Ricevitore lo credette disposto a scendere e siccome il corridoio era quasi buio e la scala non si vedeva, s’incamminò egli, come più pratico, a destra, verso la scala, dicendo: «Di qua». La stanza della sciabola era a sinistra.
«Aspetti», disse l’aggiunto. «Guardiamo anche qui dentro.» E voltosi a sinistra spinse quel tale uscio. Luisa, ch’era rimasta l’ultima del seguito, giunto il momento supremo, si fece avanti. Il cuore, che durante l’indecisione dell’aggiunto le aveva martellato a furia, si chetò come per miracolo. Ora ella era fredda, intrepida e pronta.
«Chi dorme qui?», le chiese l’aggiunto.
«Nessuno. Dormivano qui i genitori di mio zio che sono morti da quarant’anni. Dopo non vi ha più dormito nessuno.»
Nella camera v’erano due letti, un canapè, un cassettone. L’aggiunto accennò ai gendarmi di aprire il cassettone. Si provarono; era chiuso a chiave. «Debbo averla io, la chiave», disse Luisa con perfetta indifferenza. Discese accompagnata da un gendarme e risalì con un cestellino pieno di chiavi, lo porse all’aggiunto.
«Non la conosco», disse, «non si adopera mai. Dev’essere una di queste.»
Colui le provò tutte inutilmente. Poi le provò il Ricevitore, poi Franco. La buona non c’era.
«Mandi a S. Mamette, faccia venire il fabbro», disse Luisa tranquillamente. Il Ricevitore guardò l’aggiunto come per dirgli: «Mi pare inutile». Ma l’aggiunto gli voltò le spalle ed esclamò volto a Luisa: «Questa chiave ci dev’essere».
Il cassettone, un vecchio mobile rococò, aveva maniglie di metallo ad ogni cassetto. Uno dei gendarmi, il più robusto, si provò di aprire a forza. Non gli riuscì né col primo né col secondo cassetto. In quel punto Luisa si risovvenne che aveva veduto la sciabola nel terzo, insieme a certi disegni arrotolati. Il gendarme afferrò le maniglie del terzo cassetto. «Questo non è chiuso», diss’egli. Infatti il cassetto si aperse facilmente. L’aggiunto pigliò il lume e si chinò a guardarvi dentro.
Franco si era seduto sul canapè e guardava i travicelli del soffitto. Sua moglie, quando vide il cassetto aperto, gli sedette accanto, gli prese e gli strinse una mano spasmodicamente. Udì sfogliar carte e il Ricevitore mormorar con voce benigna: «Disegni». Poi l’aggiunto fece: «Oh!». I satelliti si chinarono a guardare; Franco trasalì. Ella ebbe la forza di levarsi per vedere e dire: «Cosa c’è?». L’aggiunto aveva in mano una lunga, curva busta di cartone, che portava un biglietto scritto. Egli lo aveva prima letto silenziosamente e ora lo lesse forte con un accento inesprimibile di soddisfazione e di sarcasmo. «Sciabola del tenente Pietro Ribera ucciso a Malojaroslavetz, 1812.» Franco balzò in piedi, sorpreso, incredulo, e in pari tempo l’aggiunto aperse la busta. Franco non la poteva vedere; guardò sua moglie, che la vedeva. Sua moglie aveva le labbra bianche. Lo credette spavento e non gli pareva possibile.
Era gioia: la busta non conteneva che un fodero vuoto. Luisa si trasse nell’ombra precipitosamente, cadde a sedere sul canapè, lottò contro un violento tremito interno, s’irritò con se stessa, si disprezzò e lo vinse. Intanto l’aggiunto, preso il fodero e guardatolo per ogni verso, chiese a Franco dove fosse l’arma. Franco fu per rispondere che non lo sapeva com’era vero. Ma questa potendo parere una giustificazione personale, rispose invece:
«In Russia».
La sciabola non era in Russia, era confitta nella melma, in fondo al lago, dove l’aveva segretamente gittata lo zio Piero, invece di consegnarla.
«E perché hanno scritto sciabola?», fece il Ricevitore tanto per mostrare un po’ di zelo anche lui.
«Chi ha scritto è morto», disse Franco.
«Questa chiave subito!», esclamò rabbiosamente il Commissario. Stavolta Luisa la trovò e gli altri due cassetti furono aperti; uno era vuoto, l’altro conteneva delle coperte di lana e della lavanda.
La perquisizione finì qui. L’aggiunto discese in sala e intimò a Franco di prepararsi a seguirlo dentro un quarto d’ora. «Ma ci arresti tutti, dunque!», esclamò Luisa.
L’aggiunto si strinse nelle spalle e ripeté a Franco: «Dentro un quarto d’ora. Lei! Vada pure nella Sua camera». Franco trascinò via Luisa, la supplicò di tacere, di rassegnarsi per amor di Maria. Egli pareva un altro, non mostrava né dolore né collera, aveva nel viso e nella voce una dolcezza seria, una virile tranquillità.
Mise nella valigia poca biancheria, un Dante e un Almanach du jardinier che aveva sul tavolino da notte, si chinò un momento su Maria che dormiva e non le diede un bacio per non svegliarla, baciò invece Luisa e, poiché stavano sotto gli occhi dei gendarmi posti alle due uscite della camera, si sciolse presto dalle sue braccia dicendole in francese che non conveniva dare spettacolo a quei signori. Prese la valigia, andò a porsi agli ordini dell’aggiunto.
Questi aveva la barca a cinquanta passi da casa Ribera, verso Albogasio, all’approdo che chiamano del Canevaa. Uscendo dal sottoportico cavalcato dalla casa, Franco si udì sopra la testa uno strepito d’imposte, vide batter sulla faccia bianca della chiesa il lume della sua camera e si voltò a dir verso la finestra:
«Manda a chiamar il medico, domattina! Addio!»
Luisa non rispose.
Quando i gendarmi arrivarono con l’arrestato presso il Canevaa, l’aggiunto comandò loro di fermarsi.
«Signor Maironi», diss’egli, «Ella ha avuto la sua lezione. Per questa volta ritorni a casa Sua e impari a rispettare le Autorità.»
Meraviglia, gioia, sdegno scoppiarono nel cuore di Franco. Si contenne, però, si morse le labbra e si avviò a casa senza fretta. Non aveva ancora girato il canto della chiesa, che Luisa lo riconobbe al passo e chiamò:
«Franco?». Egli saltò avanti, fu visto, vide l’ombra di lei sparire dalla finestra, entrò in casa di corsa, si slanciò sulla scala gridando «libero, libero!» mentre sua moglie la scendeva a precipizio con una furia di «come come come?». Si cercarono con le braccia avide, si afferrarono, si strinsero, non parlarono più.
Parlarono poi, in loggia, per due ore continue di tutto che avevano visto, udito e provato, ritornando sempre alla sciabola, alle carte, alle monete, non senza fermarsi su tante inezie, sull’accento veneto che aveva l’aggiunto, sul gendarme bruno che pareva un buon diavolo e sul gendarme biondo che doveva essere un cane. Di quando in quando tacevano, gustavano il silenzio sicuro e la dolcezza della casa; poi ricominciavano. Prima di andar a letto uscirono sulla terrazza. La notte era scura e tepida, il lago immobile. L’afa, le tenebre, le forme vaghe, mostruose delle montagne pigliavano nella immaginazione una mortale pesantezza austriaca; l’aria stessa ne pareva grave. Non avevano sonno, né Luisa né Franco, ma conveniva pure andar a letto per la fantesca che vegliava Maria. Entrarono in camera in punta di piedi. La bambina dormiva, aveva il respiro quasi regolare.
Cercarono di dormire anch’essi e non ci riuscirono.
Non potevano a meno, specialmente Franco, di parlare. Egli domandava sottovoce: «Dormi?». Ella rispondeva «no» e allora tornavano in campo le monete o le carte o la sciabola o lo sgherro dall’accento veneto. Oramai non erano più davvero cose nuove e siccome sull’alba Maria si agitava, dava segno di svegliarsi, avendo Franco sussurrato da capo «dormi?» Luisa rispose «sì» ed egli tacque definitivamente, come se ne fosse persuaso.
Il giorno dopo la perquisizione, Oria, Albogasio, San Mamette, furono pieni di bisbigli: «Avii sentii?». «Oh car Signor!». «Avii sentii?». «Oh cara Madonna!» I bisbigli più sonori, per forza, furono quelli che appresero il fatto alla Barborin Pasotti. Suo marito le gridò in bocca: «Maironi! Polizia! Gendarmi! Arresto!». La povera donna credette che un esercito avesse spazzato via i suoi amici e si mise a sbuffare «oh! oh!» come una locomotiva. Gemette, pianse, domandò a Pasotti della bambina. Pasotti, che non voleva assolutamente permetterle di scendere a Oria, di mostrare in quelle circostanze affetto ai Maironi, rispose con un gesto che pareva un colpo di scopa. Via. Via anche quella! «E la serva? Ci sarà la serva?» Il perfido uomo menò in aria un altro colpo di scopa e la Barborin capì che Sua Maestà I.R.A. avesse fatto portar via anche la serva.
Ma i bisbigli più maligni suonarono assai lontano dalla Valsolda, in una sala del Palazzo Maironi a Brescia. Dieci giorni dopo la perquisizione, il cavaliere Greisberg di S. Giustina, cugino del Maironi, addetto al governo del feld-maresciallo Radetzky in Verona sino al 1853 e passato poi col padrone a Milano, scendeva a casa Maironi dalla carrozza dell’I.R. Delegato di Brescia, del quale era ospite da poche ore. Il cavaliere, un bell’uomo sulla quarantina, azzimato e profumato, non aveva un’aria molto gaia mentre, ritto in mezzo alla sala di ricevimento, stava guardando gli antichi stucchi del soffitto in aspettazione della marchesa, loro contemporanea. Però, quando l’uscio in faccia, spalancato da mano servile, lasciò passar lentamente la grossa persona, il viso marmoreo e la parrucca nera di Madama, il cavaliere si trasfigurò e baciò con fervore la mano grinzosa della vecchia. Una dama lombarda devota all’Austria era un animale raro e di gran pregio agli occhi dell’Imperial Regio Governo: ogni leale funzionario le doveva la più ossequiosa galanteria. La marchesa ricevette gli omaggi del cugino cavaliere con la solita flemmatica dignità e, fattolo sedere, gli domandò notizie dei suoi, lo ringraziò della visita, sempre nello stesso tono gutturale e dormiglioso. Finalmente, posatesi le mani sul ventre, ansando un poco per la fatica di tante parole, mostrò di star ad aspettare quelle del cugino.
Aspettava che le parlasse della perquisizione e dell’ingegnere Ribera. Ella gli aveva espresso in passato il suo dispiacere che Franco subisse la influenza di sua moglie e del Ribera, il suo stupore che il Governo tenesse al proprio stipendio uno che nel 1848 aveva fatto apertamente il liberale e la cui famiglia, specialmente quella signorina della trappola, professava il più sfacciato liberalismo. Il cavaliere Greisberg le aveva risposto che di queste sue sagge osservazioni si sarebbe tenuto conto. Poi la marchesa aveva istigato il Commissario Zérboli contro il povero ingegnere in capo. Sapeva dallo Zérboli della perquisizione; perciò, quando vide Greisberg, intese ch’era venuto a parlarle di questo. Ora ella voleva bene servirsi del Governo per i suoi rancori privati, ma, per principio, non si riconosceva obbligata mai di gratitudine a nessuno. Il governo austriaco, saggiando un impiegato malfido, aveva fatto il proprio interesse. Ella non aveva sollecitato nulla, non toccava a lei di chieder nulla; toccava al cavaliere di parlare per primo. Ma il signor cavaliere, furbo, maligno e orgoglioso la sua parte, non la intendeva così. La vecchia voleva un favore e per averlo doveva piegarsi a baciar le unghie benefiche del Governo.
Tacque alquanto per raccogliersi e vedere se l’altra cedesse. Visto che stava muta e dura, si fece a un tratto molle egli stesso, sorridente, grazioso, le disse che veniva da Verona, le propose d’indovinar il giro che aveva fatto. Era passato per un paese così carino, aveva veduto una villa così deliziosa, così splendida, un paradiso! Indovinare non era il forte della marchesa; gli domandò s’era stato in Brianza. No, da Verona a Brescia per la Brianza non c’era venuto. Tornò a descriver la villa così minutamente che la marchesa non poté a meno di riconoscere il suo possesso di Monzambano. Allora il cavaliere le propose d’indovinare perché mai fosse andato a veder la villa. Ella indovinò subito, indovinò tutta la tela della commedia che le si recitava, ma il suo viso melenso non ne disse nulla. Il Delegato di Brescia l’aveva tastata un’altra volta per sapere se appigionerebbe la villa a S. E. il Maresciallo; ed ella, minacciata segretamente d’incendi e di morte dai liberali di Brescia, aveva preso delle rispettose scappatoie. Sentì ora nel discorso del Greisberg la tacita offerta di un contratto e si pose in guardia. Confessò al cugino che non sapeva indovinare neppur questo. Già le pareva di diventare ogni giorno più stupida. Anni e dispiaceri! «Ne ho avuto uno grosso anche di questi giorni!», diss’ella. «Ho saputo che la Polizia ha fatto una perquisizione in casa di mio nipote a Oria.»
Il Greisberg, sentendosi sfuggire la vecchia ipocrita, buttò via i guanti e la fermò con gli artigli. «Marchesa», diss’egli prendendo un tono che non ammetteva repliche, «Ella non deve parlare di dispiaceri. Ella ha fornito per mezzo mio e per mezzo del signor Commissario di Porlezza preziose informazioni al Governo, il quale Le tien conto delle Sue benemerenze. A Suo nipote non fu torto un capello né si torcerà se avrà giudizio. Mi rincresce invece che non si avrà modo, forse, di prendere provvedimenti severi contro un’altra persona che ha dei torti privati verso di Lei. Per trovar modo di colpire questa persona il signor Commissario di Porlezza ha fatto anche più del suo dovere. Ella deve capire senz’altro, marchesa, che non è il caso di dispiaceri e che anzi ha un obbligo particolare verso il Governo.» La marchesa non s’era mai udita parlare così alto e con tanta formidabile autorità. Era forse ai battiti dispettosi del cuore che rispondeva sopra al suo rigido busto il visibile ondulamento continuo del collo e del capo; ma pareva proprio il moto d’un animale che lavorasse faticosamente a ingoiar un boccone enorme. A ogni modo ella non piegò fino a dire una parola d’acquiescenza. Solamente, quando riprese la sua placidezza obesa, osservò che non aveva mai domandato di prendere provvedimenti contro nessuno, che se nella perquisizione non si era trovato niente a carico dell’ingegnere Ribera, ne aveva piacere; che del resto in casa Ribera se n’eran dette di tutti i colori e che i discorsi era difficile trovarli. Il cavaliere rispose, più mansueto, che non poteva dire se si fosse trovato niente o no e che l’ultima parola sarebbe stata pronunciata dal maresciallo, il quale intendeva occuparsi personalmente della cosa. Ciò gli diede modo di ritornar al discorso della villa di Monzambano. La chiese formalmente per Sua Eccellenza che intendeva venirci dentro otto giorni. La marchesa ringraziò dell’onor grande, disse che la sua villa non meritava tanto, che le pareva troppo angusta, che aveva bisogno di riparazioni, che bisognava dirlo a Sua Eccellenza. Avrebbe voluto differire, aspettar il prezzo sciagurato della sua condiscendenza, ma il cavaliere diede un altro colpo di artiglio e dichiarò che bisognava risponder subito, risponder netto, sì o no, e convenne bene che la vecchia piegasse il capo. «Per compiacere a Sua Eccellenza», diss’ella. Greisberg tornò subito amabile, scherzò sulle misure che si potrebbero prendere contro quel signor ingegnere. Non c’era da sparger sangue, c’era da spargere, tutt’al più, un po’ d’inchiostro; non c’era da togliergli la libertà, c’era da rendergliela intera! La marchesa non fiatò. Fece portare due limonate e sorbì lentamente la sua a piccoli sorsi, non senza una fioca espressione di contentezza fra un sorso e l’altro, come se ci fosse nella limonata un sapore nuovo e squisito. Il cavaliere avrebbe pur voluto da lei una parola esplicita su questo punto del Ribera, una confessione del suo desiderio, e posando sul vassoio la tazza vuotata rapidamente, le disse: «Mi ci metterò io, sa, e ci riusciremo a questo. È contenta?».
La marchesa continuò a sorseggiare la limonata, piano, piano, guardando nel bicchiere.
«Non va bene?», domandò ancora il cugino dopo una inutile attesa.
«Sì, è buona», rispose il sonnolento naso. «Bevo adagio per i denti.»
Gli ultimi bisbigli non furono umani. Luisa e Franco erano seduti sull’erba di Looch, presso al cimitero. Parlavano della bontà grande e squisita della mamma, la paragonavano alla bontà grande e semplice dello zio notandone le somiglianze e le differenze. Non dicevano quale delle due bontà paresse loro superiore nell’insieme, ma dai loro giudizi s’indovinavano le inclinazioni diverse. Franco preferiva la bontà tutta penetrata di fede nel soprannaturale e Luisa preferiva l’altra. Egli soffriva di questa contraddizione segreta pur esitando di rilevarla, temendo di premere il tasto che poteva dare una nota troppo penosa. Ma la fronte sua n’era adombrata e a un certo punto gli sfuggì di dire: «Quante disgrazie, quante amarezze ha sopportato tua madre, con che rassegnazione, con che forza, con che pace! Credi tu che una pura bontà naturale le avrebbe potute sopportare così?». «Non lo so», rispose Luisa. «La povera mamma aveva vissuto, io credo, in un mondo superiore prima che in questo: aveva sempre il cuore là.» Ella non disse tutto il suo pensiero. Pensava che se le anime buone di questo mondo fossero simili nella mansuetudine religiosa a sua madre, la terra diventerebbe il regno dei bricconi e dei prepotenti. E quanto ai dolori che non vengono dagli uomini ma dalle condizioni stesse della vita umana, le pareva di ammirar coloro che vi resistono per una forza loro propria sopra quegli altri che invocano e ottengono aiuto dallo stesso Essere onde furono percossi. Ma ella non voleva confessar questi sentimenti a suo marito. Espresse invece la speranza che lo zio non avesse a incontrar mai afflizioni gravi. Possibile che il Signore volesse far soffrire un uomo tale? «No no no!», esclamò Franco, che in un altro momento non avrebbe osato, forse, ammonire Iddio a questo modo. Un soffio del Boglia calò per la gola di Muzài, agitò le frondi alte dei noci. A Luisa quello stormire parve legarsi con le ultime parole di Franco: le parve che il vento e i grandi alberi sapessero qualche cosa del futuro e ne bisbigliassero insieme.
5. Il segreto del vento e dei noci
La febbre di Maria non durò che otto giorni, eppure quando la piccina si alzò i suoi genitori la trovarono mutata nel viso e nello spirito più che se gli otto giorni fossero stati otto mesi. Gli occhi avevan preso un colore più oscuro, una singolare espressione di serietà e di maturità precoce. Parlava più chiaro e spedito, ma con le persone che non le garbavano non parlava affatto; neanche le salutava. Ciò spiaceva più a Franco che a Luisa. Franco la voleva gentile e Luisa temeva di guastarle la sincerità. Maria aveva per sua madre un affetto non tanto espansivo ma violento: fiero, quasi, e geloso. Voleva molto bene anche a suo padre; però si capiva che lo sentiva diverso da sé. Franco aveva trasporti di passione per essa, l’afferrava all’impensata, la stringeva, la divorava di baci ed ella allora gittava il capo all’indietro puntando una manina sul viso di suo padre e guardandolo scura come se qualche cosa in lui le fosse straniero e ripugnante. Spesso Franco la sgridava con ira e Maria piangeva, lo fissava attraverso le lagrime senza muoversi, come affascinata, ancora con quella espressione di persona che non comprende. Egli vedeva la predilezione della bambina per sua madre e se ne compiaceva, gli pareva una preferenza giusta, non dubitava che Maria, più tardi, avrebbe teneramente amato anche lui. A Luisa dispiaceva molto, per amore del marito, che la bambina dimostrasse maggior affetto a lei, però questo sentimento suo non era vivo e schietto come la compiacenza generosa di Franco. A Luisa pareva in fondo che Franco malgrado tanti trasporti, amasse sua figlia come un essere distinto da lui; mentre lei, che trasporti esteriori di tenerezza non ne aveva, amava la bambina come una parte vitale di se stessa; perciò non poteva trovare ingiusto d’esserne preferita. Poi ell’aveva in cuore una Maria futura probabilmente diversa da quella che aveva in cuore Franco. Anche per questo non le poteva rincrescere di avere un predominio morale sulla figliuola. Vedeva il pericolo che Franco favorisse uno sviluppo forte del sentimento religioso; pericolo gravissimo, secondo lei; perché Maria, piena di curiosità, avida di racconti, aveva i germi d’un’immaginazione assai viva, assai propizia alle fantasie religiose e ne poteva venire uno squilibrio morale. Non si trattava di sopprimere il sentimento religioso; questo, Luisa non l’avrebbe fatto mai, non foss’altro per rispetto a Franco; ma occorreva che Maria, fatta donna, sapesse trovare il perno della propria vita in un senso morale sicuro e forte per sé, non appoggiato a credenze che finalmente erano ipotesi e opinioni, e potevano un giorno o l’altro mancarle. Serbar fede al Giusto, al Vero, fuor di qualsiasi altra fede, di qualsiasi speranza e paura, pareva a lei lo stato più sublime della coscienza umana. A una tale perfezione si figurava aver rinunciato per sé poiché andava a messa e due volte l’anno ai sacramenti, e intendeva rinunciarvi per Maria, ma come uno che rinuncia alla perfezione cristiana perché si trova aver moglie e figliuoli; a malincuore e il meno possibile.
A Maria poteva essere serbata in sorte la ricchezza. Bisognava impedire assolutamente che accettasse una vita di frivolezze, compensate dalla messa alla mattina, dal rosario alla sera e da elemosine. Luisa si era provata qualche volta di tastar Franco su questo terreno di dare all’educazione di Maria un indirizzo morale disgiunto dall’indirizzo religioso e il tasto aveva sempre risposto male. Che non si credesse nella religione Franco lo capiva; che qualcuno la potesse trovare insufficiente come norma della vita, gli riusciva affatto inconcepibile. Che tutti poi dovessero aspirare alla santità, che non fosse buon cristiano chi amasse il tarocco, la primiera, la caccia, la pesca, i buoni pranzetti e le bottiglie fini, neanche gli passava per il capo. E questo indirizzo morale dell’educazione disgiunto dall’indirizzo religioso gli pareva una fisima perché secondo lui i galantuomini senza fede erano galantuomini per natura o per abitudine, non per un ragionamento morale o filosofico. Non c’era dunque modo per Luisa d’intendersi con suo marito circa questo delicato punto. Doveva operare da sé e con molta cautela per non offenderlo né affliggerlo. Se Franco mostrava alla bambina le stelle e la luna, i fiori e le farfalle come opere mirabili di Dio e le faceva della poesia religiosa buona per una ragazza di dodici anni, Luisa taceva; se invece gli avveniva di dire a Maria: «Bada, Iddio non vuole che tu faccia questo, Iddio non vuole che tu faccia quello», Luisa soggiungeva subito: «Questo è male, quello è male, non si deve mai far il male». Qui però non poteva a meno di aprirsi qualche screzio visibile fra il padre e la madre perché non sempre il giudizio morale dell’uno si accordava col giudizio morale dell’altra. Una volta erano insieme alla finestra della sala mentre Maria giuocava sul sagrato con una bambina di Oria presso a poco della sua età. Passa un fratello di questa, un prepotentone di otto anni e intima alla sorellina di seguirlo. Questa rifiuta e piange. Maria, seria seria, affronta il prepotente con i pugni. Franco la trattiene con una chiamata imperiosa; la piccina si volta a guardarlo e scoppia in lagrime mentre quell’altro si trascina via la sua vittima. Luisa lasciò la finestra dicendo sottovoce a suo marito: «Scusa, questo non è giusto». «Come non è giusto?» Franco si riscaldò, alzò la voce, chiese a sua moglie se voleva una Maria violenta e manesca. Ella rispondeva con dolcezza e con fermezza, senza risentirsi di qualche parola pungente, sosteneva che il sentimento di Maria era buono, che opporsi alla prepotenza e all’ingiustizia era il compito migliore per tutti, che se un bambino vi adoperava le mani, fatto adulto vi avrebbe adoperato mezzi più civili, ma che se si reprimeva in lui la espressione naturale dell’animo, si correva il rischio di schiacciare con essa anche il buon sentimento nascente.
Franco non si persuase. Secondo lui era molto dubbio che in Maria vi fossero di quei sentimenti eroici. Ella si era arrabbiata di vedersi portar via la sua compagna di giuoco e niente altro. Ma poi, la parte della donna non era forse di opporre alle ingiustizie e alle prepotenze una dolcezza mansueta, di mitigare ed emendare gli offensori piuttosto che di respinger con la forza l’offesa? Luisa diventò rossa e rispose che ad alcune donne, forse alle migliori, questa parte conveniva, ma che non poteva convenire a tutte perché tutte non potevano essere tanto miti e umili. «E tu sei di quelle altre?», esclamò Franco.
«Credo di sì.»
«Bella cosa!»
«Ti rincresce molto?»
«Moltissimo.»
Luisa gli pose le mani sulle spalle. «Ti rincresce molto?», diss’ella fissandolo negli occhi, «che io m’irriti come te d’aver questi padroni in casa, che io desideri come te di aiutare anche con le mie mani a cacciarli via o preferiresti che io cercassi di emendare Radetzky e di mitigare i croati?»
«Questa è un’altra cosa!»
«Come un’altra cosa? No, è la stessa cosa!»
«È un’altra cosa!», ripeté Franco; e non seppe dimostrare che fosse un’altra cosa. Gli pareva di aver torto secondo un raziocinio superficiale e di avere ragione secondo una verità profonda che non riusciva ad afferrare. Non parlò più, fu pensieroso tutto quel giorno e si vedeva che cercava la sua risposta. Ci pensò anche la notte, gli parve di averla trovata e chiamò sua moglie che dormiva.
«Luisa!», diss’egli. «Luisa! Quella è un’altra cosa.»
«Cos’è stato?», fece Luisa svegliandosi di soprassalto.
Egli aveva pensato che la offesa del dominio straniero non era personale come le offese private e che procedeva dalla violazione d’un principio di giustizia generale; ma nell’atto di spiegar ciò a sua moglie, gli venne in mente che anche nelle offese private aveva sempre luogo la violazione d’un principio di giustizia generale, si figurò di avere sbagliato.
«Niente», diss’egli.
Sua moglie credette che sognasse e, posatogli il capo sopra una spalla, si riaddormentò. Se vi erano argomenti capaci di convertire Franco alle idee di sua moglie, erano quel dolce contatto, quel dolce respiro vicino al suo petto, che gli avevan fatto tante altre volte deliziosamente sentire un reciproco abbandono delle anime. Ora non fu così. Gli passò anzi nel cervello, come una lama rapida e fredda, il pensiero che questo latente antagonismo fra le idee di sua moglie e le sue avesse un giorno o l’altro a scoppiare in qualche doloroso modo e se la strinse atterrito nelle braccia come per difender sé e lei contro i fantasmi della propria mente.
Il sei novembre, dopo colazione, Franco prese le sue grosse forbici da giardiniere per fare il solito sterminio di seccumi nel giardinetto e sulla terrazza. Era un’ora di tanta bellezza, di tanta pace da stringere il cuore. Non una foglia che si muovesse; purissima, cristallina l’aria da ponente; sfumanti a levante, dentro lievi vapori, le montagne fra Osteno e Porlezza; la casa sfolgorata dal sole e dai riverberi tremoli del lago; il sole assai caldo ma i crisantemi del giardinetto, gli ulivi, gli allori della costa più visibili fra il rosseggiar delle foglie caduche, certa segreta frescura dell’aria imbalsamata d’olea fragrans, il silenzio d’ogni vento, le aeree montagne del lago di Como bianche di neve accordantisi malinconicamente a dire che la cara stagione moriva. Sterminati i seccumi, Franco propose a sua moglie di andar in barca a Casarico per riportare all’amico Gilardoni i due primi volumi dei Mystères du Peuple, divorati avidamente in pochi giorni, e averne il terzo. Fu deciso di partire a mezzogiorno, dopo aver posto a letto Maria. Ma prima che Maria fosse a letto comparve tutta ansante, col cappello e la mantiglia a sghimbescio, la Barborin Pasotti. Era salita dal cancello del giardinetto e si fermò sulla soglia della sala. Veniva per la prima volta dopo la perquisizione; vide i suoi amici, giunse le mani, ripeté sottovoce: «Ah Signor, ah Signor, ah Signor!», si precipitò su Luisa, la coperse di baci.
«Cara la mia tosa! Cara la mia tosa!». Avrebbe volentieri fatto altrettanto con Franco, ma Franco non gradiva certe espansioni, aveva una faccia poco incoraggiante, per cui la povera donna si accontentò di prendergli e scuotergli ambedue le mani. «Car el mè don Franco! Car el mè don Franco!». Si raccolse finalmente in braccio la Maria che le puntò le manine al petto facendo un viso simile a quello di suo padre. «Son vègia, neh? Son brutta, neh? Te piasi no? L’è nient, l’è nient, l’è nient!»40. E si mise a baciarle umilmente le braccia e le spalle, non osando affrontare il visetto acerbo. Poi disse ai suoi amici che aveva portato loro una bella notizia e gli occhi le brillavano di questo mistero gaudioso. La marchesa aveva scritto a Pasotti e nella lettera c’era un periodo che la Barborin aveva imparato a mente: «Ho appreso con vivo dispiacere (vivo dispiacere, gh’è sü inscì41) il triste fatto di Oria... di Oria... (spètta!) il triste fatto di Oria... (ah!) e benché mio nipote nulla meriti, (ciào, quell pacienza!) desidero non abbia cattive conseguenze». Il periodo non ebbe un gran successo. Luisa fece il viso scuro e non parlò; Franco guardò sua moglie e non osò metter fuori il commento favorevole che aveva nella bocca ma non, per verità, nel cuore. La povera Barborin che aveva approfittato della andata di suo marito a Lugano per correre a portar il suo zuccherino, rimase assai mortificata, guardava contrita ora Luisa ora Franco e finì col togliersi di tasca uno zuccherino vero e proprio onde darlo a Maria. Poi, avendo capito che gli sposi desideravano partire in barca e struggendosi di stare un po’ con Maria, tanto disse e fece che quelli se ne andarono lasciando l’incarico alla Veronica di metter la bambina a letto un po’ più tardi.
Maria non parve gradir molto la compagnia della sua vecchia amica. Taceva, taceva ostinatamente e non andò molto che spalancò la bocca e scoppiò in lagrime. La povera Pasotti non sapeva che Santi invocare. Invocò la Veronica, ma la Veronica discorreva con una guardia di finanza e non udì o non volle udire. Offerse anelli, braccialetti, l’orologio, persino il cappellone da viceregina Beauharnais, ma nulla riuscì gradito. Maria continuava a piangere. Ebbe allora l’idea di mettersi al piano e si mise a picchiare e ripicchiare otto o dieci battute d’una monferrina antidiluviana. Allora la principessina Maria si mansuefece, si lasciò pigliar dalla sua musicista di camera così delicatamente come se le sue braccine fossero state ali di farfalla e posar sulle ginocchia così piano come se vi fosse stato pericolo di far cader in polvere le vecchie gambe.
Udite cinque o sei repliche della monferrina, Maria fece un visino annoiato, si provò di strappar dal piano le mani rugose della suonatrice e disse sottovoce: «Cantami una canzonetta». Poi, non ottenendo risposta, si voltò a guardarla in faccia, le gridò a squarciagola:
«Cantami una canzonetta!».
«Non capisco», rispose la Pasotti, «sono sorda.»
«Perché sei sorda?»
«Sono sorda», replicò l’infelice, sorridendo.
«Ma perché sei sorda?»
La Pasotti non poteva immaginare cosa chiedesse la bambina.
«Non capisco», diss’ella.
«Allora», fece Maria con un’aria molto grave, «sei stupida.»
Dopo di che aggrottò le ciglia e riprese piagnucolando:
«Voglio una canzonetta!»
Qualcuno disse dal giardinetto:
«Eccolo, quel delle canzonette!»
Maria alzò il viso, s’illuminò tutta. «Missipipì», diss’ella e scivolò giù dalle ginocchia della Pasotti, corse incontro allo zio Piero ch’entrava. Si alzò anche la Pasotti, stese le braccia, tutta sorpresa e ridente, verso il vecchio inaspettato amico. «Tè chì, tè chì, tè chì!»42. E corse a salutarlo. La Maria strillò tanto forte «Missipipì, Missipipì!», e si avvinghiò tanto stretta alle gambe dello zio che questi, quantunque paresse non averne voglia, dovette pur sedere sul canapè, pigliarsi la bambina sulle ginocchia e ripeterle la vecchia canzone:
Ombretta sdegnosa...
Dopo quattro o cinque Missipipì la Pasotti, temendo che suo marito ritornasse, prese congedo. La Veronica voleva porre Maria a letto. La piccina si crucciò, lo zio intervenne: «Oh lasciatela un po’ qui!», e uscì con lei sulla terrazza per vedere se il papà e la mamma ritornassero.
Nessuna barca veniva da Casarico. La piccina ordinò allo zio di sedere e gli si arrampicò sulle ginocchia.
«Perché sei venuto?», diss’ella. «Non c’è mica, sai, il pranzo per te.»«Me lo farai tu, il pranzo. Sono venuto per star con te.»
«Sempre?»
«Sempre.»
«Proprio sempre sempre sempre?»
«Proprio sempre.»
Maria tacque, pensierosa. Poi domandò:
«E cosa mi hai portato?»
Lo zio si levò di tasca un fantoccio di gomma. Se Maria avesse potuto sapere, intendere con quale animo, sotto qual colpo lo zio fosse andato a prender per lei quel fantoccino avrebbe pianto di tenerezza.
«È brutto questo regalo», diss’ella, ricordando gli altri dello zio. «E se resti qui, non mi porti più niente?»
«Più niente.»
«Va’ via, zio», diss’ella.
Egli sorrise.
Adesso Maria volle sapere dallo zio se, quando era bambino lui, suo zio gli portasse regali. Ma questo zio dello zio, per quanto la cosa paresse impossibile a Maria, non era mai esistito. E allora chi gli portava regali? Ed era egli un buon bambino? Piangeva? Lo zio si mise a raccontarle cose della sua infanzia, cose di sessant’anni prima, quando la gente portava parrucca e codino. Si compiaceva di ricordare alla nipotina quel tempo lontano, di farla vivere per un momento insieme ai suoi vecchi, e parlava con gravità triste, come avendo presenti quei cari morti, come parlando più per essi che per lei. Ella gli fissava in viso gli occhi spalancati, non batteva palpebra. Né lui né lei s’accorgevano che intanto passava il tempo, né lui né lei pensavano più alla barca che doveva venire.
E la barca venne, Luisa e Franco salirono senza sospettare di nulla, pensando che la bambina dormisse. Franco fu il primo che vide sotto i rami cadenti delle passiflore lo zio seduto, curvo su Maria che gli stava sulle ginocchia. Mise una gran voce di sorpresa e corse là seguito da Luisa, con l’idea che fosse successo qualche cosa. «Tu qui?», diss’egli correndo. Luisa, pallida, non disse nulla. Lo zio alzò il capo, li vide: essi compresero subito che vi era una brutta novità, non gli avevano mai veduto una faccia così seria.
«Addio», diss’egli.
«Cosa è stato?», sussurrò Franco.
Egli fe’ cenno ad ambedue di ritirarsi dalla terrazza nella loggia, ve li seguì, allargò le braccia, povero vecchio, come un crocifisso e disse con voce triste ma tranquilla:
«Destituito».
Franco e Luisa lo guardarono un momento come istupiditi. Poi Franco esclamò: «Oh zio, zio!», e lo abbracciò. Vedendo quell’atto e il viso di sua madre, Maria scoppiò in lagrime. Luisa cercò di farla tacere, ma ella stessa, la donna forte, aveva il pianto alla gola.
Seduto sul canapè della sala lo zio raccontò che l’I.R. Delegato di Como lo aveva fatto chiamare per dirgli che la perquisizione operata nella sua casa di Oria aveva dati risultati dolorosi e inattesi; quali, non aveva voluto assolutamente dire. Aveva poi soggiunto che s’era voluto iniziare un processo contro di lui ma che in vista dei lunghi e lodevoli servigi prestati al Governo si limitava a togliergli l’ufficio. Lo zio aveva insistito per conoscere le accuse e colui l’aveva licenziato senza rispondere.
«E allora?», disse Franco.
«E allora...». Lo zio tacque un poco e poi pronunciò una frase sacramentale d’ignota origine che egli stesso e i suoi compagni tarocchisti solevano ripetere quando il giuoco andava disperatamente male: «Siamo arcifritti, o Regina».
Vi fu un lungo silenzio; poi Luisa si buttò al collo del vecchio. «Zio, zio», gli sussurrò, «ho paura che sia stato per causa nostra!»
Ella pensava alla nonna e lo zio intese che accusasse Franco e sé di qualche imprudenza.
«Sentite, cari amici», diss’egli con un tono bonario che aveva pure qualche recondito sapore di rimprovero, «questi sono discorsi inutili. Adesso la frittata è fatta e bisogna pensare al pane. Fate conto su questa casa, su qualche piccolo risparmio che mi frutta circa quattro svanziche al giorno e su due bocche di più: la mia e quella della Cia; la mia, speriamo per poco tempo.» Franco e Luisa protestarono. «Ci vuol altro! Ci vuol altro!», fece lo zio agitando le braccia, come a dispregio di un sentimentalismo irragionevole. «Viver bene e crepare a tempo. Questa è la regola. La prima parte l’ho fatta, adesso mi tocca di fare la seconda. Intanto mandatemi dell’acqua in camera e aprite la mia borsa. Vi troverete dieci polpette che la signora Carolina dell’Agria mi ha voluto dare per forza. Vedete che le cose non vanno poi troppo male.»
Ciò detto lo zio si alzò e se n’andò per l’uscio del salotto con passo franco, mostrando anche da tergo la sua faccia eretta, il suo modesto ventre pacifico, la sua serenità di filosofo antico. Franco, ritto sul limitare della terrazza, con le braccia incrociate sul petto e le sopracciglia aggrottate, guardava verso Cressogno. Se in quel momento egli avesse avuto fra le mascelle un fascio di Delegati, di Commissari, di birri e di spie, avrebbe tirato tale un colpo di denti da farne una melma sola.
6. L’asso di danari spunta
«La barca è pronta», disse Ismaele, entrando senza complimenti con la pipa nella sinistra e una lanterna nella destra.
«Che ore sono?», domandò Franco.
«Undici e mezzo.»
«Il tempo?»
«Nevica.»
«Bene», esclamò lo zio, ironicamente, allargando le gambe davanti alla vampa del ginepro che scoppiettava nel caminetto.
Nel minuscolo salottino assediato dall’inverno Luisa stava mettendo, ginocchioni, un fazzoletto al collo di Maria, Franco aspettava col cappuccio di sua moglie in mano e la Cia, la vecchia governante, col cappello in testa e le mani nel manicotto, andava brontolando al suo padrone: «Che signore è mai Lei! Cosa vuol fare qui solo a casa?».
«Per dormire non ho bisogno di nessuno», rispose l’ingegnere, «e se sono matti gli altri non sono matto io. Mettetemi qua il mio latte e il mio lume.»
Era la vigilia di Natale e l’idea pazza di quella gente savia, la risoluzione che pareva incredibile all’ingegnere era di andare a S. Mamette per assistervi alla messa solenne di mezzanotte.
«E quella povera vittima!», diss’egli guardando la bambina.
Franco diventò rosso, osservò che desiderava prepararle dei ricordi preziosi, questa partenza notturna in barca, il lago oscuro, la neve, la chiesa piena di lumi e di gente, l’organo, i canti, la santità del Natale. Egli parlava con calore non tanto per lo zio, forse, quanto per un’altra persona che taceva.
«Sì sì sì sì», fece lo zio, come se si fosse aspettata questa rettorica, questa poesia buona a niente.
«Anch’io, sai, il punch!», gli disse la piccina. Lo zio sorrise: manco male! Quello sarà proprio un ricordo prezioso. Franco, sentendosi così demolire la sua sottile preparazione di ricordi religiosi e poetici, si fece scuro. «E questo Gilardoni?», chiese Luisa. «Sono qui adesso», fece Ismaele uscendo con la sua lanterna.
Il professore Gilardoni aveva invitato i Maironi e donna Ester Bianchi a prendere il punch in casa sua dopo la messa. Lo si aspettava dal Niscioree dov’era andato a pigliare la signorina che ci viveva sola con due vecchie serve, dopo la morte del padre avvenuta nel 1852. L’ottimo professore aveva pianto segretamente la signora Teresa per uno spazio di tempo ragionevole. Durante quella pessima convalescenza del cuore che lo tiene debole e molle, in continuo pericolo di ricadere, egli si era troppo poco guardato dal bel visino brioso, dagli occhi vivaci, dalla gaiezza scintillante della principessina del Niscioree, come la chiamavano i Maironi. Ella era così diversa nello spirito e nel corpo dalla signora Teresa, la sua persona vigorosa nelle forme della grazia più squisita suggeriva l’idea di un amore così lontano da quell’altro, che al professore pareva di poterle volere bene senza offendere la santa immagine della madre di Luisa. Infatti egli santificò sempre maggiormente questa immagine, la spinse in su in su verso il cielo, tanto in su che qualche nuvola cominciò a passare fra lui e lei; prima eran cirri, adesso eran cumuli e stava per giungere uno strato definitivo. Egli era più timido ancora con donna Ester che non lo fosse stato con la signora Teresa. Aveva del resto un inconscio bisogno di amare senza speranza per potersi poi compiangere, per la voluttà di un doppio intenerimento, verso una bella creatura e verso se stesso. E la sua timidezza era pure contenta di possedere una scusa in quella gran differenza d’età e di aspetto. Però col non far alcuna difesa contro gli occhi maliziosi, i folti capelli biondi, il sottile collo di neve, col bersi e ribersi nel cuore la voce fresca, il riso d’argento, l’uomo si metteva in pericolo di cuocere intollerabilmente.
Ester, che a ventisette anni ne mostrava venti salvo che nella morbidezza delle movenze e in una certa occulta, deliziosa scienza degli occhi, non aveva desiderato di pescar quell’amante rispettabile ma lo sentiva preso e se ne compiaceva, stimandolo un grande ingegno, un sapientone. Che egli osasse parlarle d’amore, ch’ella potesse sposar quella sapienza giallognola, rugosa e secca, neppure le veniva in mente; ma neanche avrebbe voluto spegnere un focherello così discreto che faceva onore a lei e, probabilmente, piacere a lui. S’ella ne rideva qualche volta con Luisa, non era però mai la prima a ridere e soggiungeva subito: «Povero signor Gilardoni! Povero professore!».
Ella entrò frettolosa, con la testolina bionda chiusa in un gran cappuccio nero, come una primavera travestitasi, per chiasso, da dicembre. Dicembre le veniva dietro, affagottato il collo in una gran sciarpa sulla quale si porgeva, lucente e rosso, il naso professorale irritato dalla neve. Era tardi, tutti si accomiatarono dallo zio ed egli rimase solo con il suo lume e il suo latte, davanti alle ultime brage moribonde del ginepro.
Gli restava sul viso una leggera ombra di disapprovazione. Franco faceva troppo il poeta! Adesso la vita era dura in casa Maironi. Si faceva colazione con una tazza di latte e cicoria adoperando certo zucchero rosso che puzzava di farmacia. Non si mangiava carne che la domenica e il giovedì. Una bottiglia di vin Grimelli veniva ogni giorno in tavola per lo zio, il quale non voleva saperne di privilegi. Ogni giorno, per questa bottiglia, sorgevano le stesse nubi, scoppiava la stessa piccola burrasca e si scioglieva secondo il volere dello zio, con una brevissima pioggerella di decotto in ciascuno dei cinque bicchieri. La serva era stata licenziata; restava la Veronica per le faccende grosse, per la polenta, e qualche volta per badare a Maria. Malgrado queste ed altre economie, malgrado che la Cia avesse rinunciato al suo salario, malgrado i doni di ricotta, di mascherpa, di formaggio di capra, di castagne, di noci, che piovevano dalla gente del paese, Luisa non riusciva a tener la spesa dentro l’entrata. Si era procacciato qualche lavoro di copiatura da un notaio di Porlezza; molta fatica e miserabilissimi guadagni. Franco aveva cominciato a copiar con ardore anche lui, ma ci reggeva meno di sua moglie e poi non c’era lavoro per due. Avrebbe dovuto darsi le mani attorno, cercar un impiego privato, ma di questo lo zio non vedeva indizio; per cui?
Per cui, questo pensare a spedizioni poetiche gli pareva anche più fuor di luogo. Dopo aver meditato alquanto sulla triste situazione e sulla poca probabilità che Franco sapesse uscirne, trovò che dal canto suo la prima cosa a fare era di bere il suo latte e la seconda di andarsene a letto. Ma no, gli venne un altro pensiero. Aperse l’uscio della sala, e, visto tutto buio, andò in cucina, accese una lanterna, la portò in loggia, spalancò una finestra e, poiché nevicava senza vento, posò il lume sul davanzale, onde quella gente poetica potesse dirigersi ritornando a casa per il lago tenebroso. Dopo di che se n’andò a dormire.
Nella vecchia barca di casa l’ingegnoso Franco aveva architettato una specie di felze per l’inverno con due finestrini ai lati e un usciolino a prora. Ora i sei viaggiatori vi stavano attorno a un minuscolo tavolino, sul quale ardeva una candela. Vedendo l’espressione estatica del professore ch’era seduto in faccia a Ester, Franco si divertì a spegner il lume e osservò che la filosofia poteva trovarsi male al buio, ma che la poesia ci si trovava benissimo.
Infatti i pensieri suoi e de’ suoi compagni, prima raccolti intorno al lume, uscivano adesso per il vetro dell’usciolino dietro un chiaror fioco dove si vedeva la prora della barca, già biancastra di neve sul lago immobile e nero. E le immaginazioni lavoravano. A chi pareva di andar verso Osteno, a chi pareva di andar verso la Caravina, a chi pareva di andar verso Cadate; e ciascuno diceva i propri dubbi parlando piano come per non svegliare il lago addormentato. Un po’ alla volta si misero a discutere, ma le sei teste, ad ogni colpo dei remi, facevano un cenno di completo accordo. Così ciascuno dei critici saliti nella navicella d’un grande poeta si crede fare una via differente. Chi stima dirigersi verso un ideale, chi verso un altro, chi stima accostarsi a un modello, chi a un altro, chi andar avanti, chi tornar indietro; e il poeta li commove, li scuote col suo verso tutti insieme, li porta sulla propria via.
Ismaele portò fedelmente il suo carico a S. Mamette. La neve cadeva sempre grossa e placida. Sotto i portici della piazza v’era molta gente e un viavai di lanterne. C’era pure il preposto che arringava un gruppo di fedeli disposti a disertar la chiesa per l’osteria. Egli stava dimostrando che il Paradiso è difficile a guadagnare e che bisogna pensarci per tempo: «Vialter credii che andà in Paradis el sia giusta come andà in la barca del Parella. E sü gent! E sü gent! Gh’è semper post! Avii capì che l’è minga inscì?»43. Sulla scalinata che sale alla chiesa Ester domandò a Luisa se il paradiso fosse proprio così piccolo. Il professore che accompagnava Ester con l’ombrello ebbe un’idea, palpitò, tremò e, fattosi un coraggio leonino, la mise fuori; disse che il paradiso era più piccolo ancora e poteva stare sotto un ombrello. La cosa passò liscia, Ester non rispose e tutta la compagnia entrò, mista a una frotta di donne, nelle tenebre della chiesa.
Il professore si fermò sulla porta, incerto fra l’amore e la filosofia. La filosofia lo tirava indietro con un filo e l’amore lo tirava avanti con una fune; egli entrò e si pose accanto a Ester. Franco ebbe per un momento la crudele idea di trascinarlo avanti, fra i banchi degli uomini; ma poi mutò pensiero e si pose anche lui presso sua moglie. Giovò poco, perché Ester, fingendo voler dire qualche cosa a Luisa, le si avvicinò e spinse maliziosamente la vecchia Cia verso il professore. Questi, ancora palpitante per quella sua disperata audacia del paradiso sotto l’ombrello, alla mossa di Ester si turbò, pensò di averla offesa, si diede dell’asino e dell’asino e dell’asino.
La chiesa era già tutta piena e anche le signore dovettero star in piedi dietro la spalliera del primo banco. Ester s’incaricò di Maria, la pose a sedere sulla spalliera mentre il sagrestano accendeva le candele dell’altar maggiore. La Cia tormentava il professore, credendolo un sant’uomo, con mille domande sulle differenze tra il rito romano e il rito ambrosiano, e Maria teneva occupata Ester con altre domande ancora più straordinarie.
«Per chi si accendono quei lumi?»
«Per il Signore.»
«Va’ a letto adesso, il Signore?»
«No, taci.»
«E il bambino Gesù è già a letto?»
«Sì, sì», rispose Ester storditamente, per finirla.
«Col mulo?»
Lo zio aveva portato una volta a Maria un brutto muletto di legno ch’ella odiava; e, quando si ostinava in qualche capriccio, sua madre la poneva a letto con quel mulo sotto il guanciale, sotto la testolina troppo dura.
«Citto, ciallina!»44, fece Ester.
«Io no, a letto col mulo. Io dico scusa.»
«Zitto! Ascolta l’organo, adesso.»
Tutti i ceri erano ormai accesi e l’organista salito al suo posto andava stuzzicando, come per risvegliarlo, il suo vecchio strumento che pareva mettere grugniti di corruccio. Nel punto in cui un campanello suonò e l’organo alzò tutte le sue gran voci e uscirono i chierici e uscì il sacerdote, Luisa prese di soppiatto, come un’amante, la mano di suo marito.
Quelle due mani, stringendosi furtivamente, parlavano di un prossimo avvenimento, di una risoluzione grave che conveniva tener segreta e che non ancora era presa in modo irrevocabile. La piccola mano nervosa disse «coraggio!». La mano virile rispose «l’avrò». Bisognava decidersi. Franco doveva partire, lasciar sua moglie, la bambina, il vecchio zio, forse per qualche mese, forse per qualche anno; doveva lasciar Valsolda, la casetta cara, i suoi fiori, forse per sempre, emigrare in Piemonte, cercar lavoro e guadagno con la speranza di poter chiamare a sé la famiglia quando le altre grandi speranze nazionali sfumassero. Contento che sua moglie avesse scelto la chiesa e quel momento solenne per incoraggiarlo al sacrifizio, non lasciò più la dolce mano, la tenne egli pure come l’avrebbe tenuta un amante, non guardando mai Luisa, serbando impassibile il viso e rigida la persona. Parlava con la mano sola, con l’anima nel palmo e nelle dita, il più vario appassionato linguaggio misto di blande carezze e di strette, di tenerezze e di ardori. Qualche volta ella si provava di ritirarsi dolcemente ed egli la tratteneva allora violento. Guardava l’altare col viso alzato, come assorto nel suono dell’organo, nella voce del sacerdote, nel canto del popolo. In fatto non seguiva le preghiere, ma sentiva la Divina Presenza, un rapimento, una effervescenza di amore, di dolore, di speranza in Dio. Luisa gli aveva presa la mano indovinando ch’egli pregava, che tutte le sue angustie, tutte le sue dubbiezze gli si agitavano nel cuore. Avea realmente voluto infondergli coraggio, convinta ch’era bene per lui di prender questo partito doloroso. Fraintese la stretta che le rispose; le parve un’appassionata protesta contro la separazione, e non la potendo, quantunque le fosse dolce, approvare, accennava ogni tanto a ritrar la mano. Fu lui che all’Elevazione ritrasse, per rispetto, la propria. Egli dovette quindi prendersi in braccio Maria che s’era addormentata e continuò a dormire con la testa sulla spalla di suo padre, mostrando un bel mezzo visino pacifico. Non lo sapeva, lei, cara, che il suo papà sarebbe andato lontano lontano e il suo papà aveva il cuore tutto molle di quel piccolo tesoro caldo che vi respirava su, di quella testina dall’odore di uccelletto del bosco. Gli pareva già di essere partito e che lo cercasse, che piangesse, e allora gli correva nelle braccia un desiderio di stringerla forte, fermato subito dal timor di destarla.
Il Gilardoni era uscito il primo e stava sul sagrato ad aspettare donna Ester con l’ombrello aperto. Ella venne a braccetto di Luisa, e la perfida Luisa, malgrado il pregar sommesso della compagna, disse al professore: «Ecco la Sua dama». Ester non ebbe il coraggio di rifiutar il braccio del Gilardoni ma gli osservò ridendo che splendevano mille stelle.
Il Gilardoni guardò il cielo, mise fuori due o tre frasi senza senso comune e chiuse l’ombrello. Non nevicava più, sopra il Boglia il cielo era lucido, s’udiva in alto un rombo continuo. «Vento, vento!», disse Ismaele raggiungendo la comitiva. «Vado a piedi! Vado a piedi!», gemette allora la Cia che aveva una gran paura del lago. Intanto la gente, uscendo di chiesa, urtò e scompose il gruppo, lo trasse giù per la scalinata. I sei viaggiatori e il barcaiuolo si riunirono da capo sulla piazza di S. Mamette e lì donna Ester dichiarò che non si sentiva troppo bene, che rinunciava al punch e che sarebbe andata a casa a piedi con la Cia.
Il professore taceva in disparte.
Franco e Luisa capirono che non c’era da insistere e le due donne s’avviarono a Oria con la scorta d’Ismaele il quale doveva ritornar poi a prendere i Maironi e la barca.
Una lucerna modérateur era accesa nel salotto del Gilardoni, un bel fuoco ardeva nel caminetto, il Pinella aveva preparato ogni cosa per il punch e chi lo fece fu Luisa perché il professore pareva aver perduto la testa, non faceva che darsi dello stupido e della bestia. Sulle prime non gli si poté cavar niente; poi vennero fuori, poco a poco, la storia del paradiso sotto l’ombrello e certe infernali conseguenze di quel paradiso. Nello scendere la scalinata della chiesa c’era stato fra lui ed Ester questo dialogo: «Sa, donna Ester, temevo quasi di averla offesa». «Come?» «Con quell’affare dell’ombrello.» «Che ombrello?» Qui il professore non era stato buono di ripetere il suo complimento. «Sa, Le avevo detto qualche cosa...» «Che cosa?» «Si parlava del Paradiso...» Silenzio di Ester. «... e io quando mi trovo con una persona che stimo, che stimo proprio di tutto cuore, dico facilmente degli spropositi. Vorrei quasi dirne uno anche adesso, donna Ester.» «Spropositi mai, sa», aveva risposto Ester e s’era staccata da lui per andare a Oria con la Cia. Veramente il dialogo non fu riferito così. Il Gilardoni raccontò che aveva fatto capire la sua gran passione e che donna Ester si era sdegnata. Franco aveva una gran voglia di ridere; Luisa disse scherzando: «Lasci fare a me, lasci fare a me che farò il punch e la pace e tutto; e Lei, un’altra volta, non sia un seduttore così terribile!». Il povero professore per poco non si inginocchiò a baciarle uno scarpino e, rifatto animo, riprese le sue funzioni di ospite, servì il punch agli amici.
«Guardate Maria», disse Franco, sottovoce. La piccina si era addormentata sulla poltrona del professore, presso la finestra.
Franco prese la lucerna e l’alzò per vederla meglio. Pareva una piccola creatura del cielo, caduta lì col lume delle stelle, assopita, soffusa nel viso di una dolcezza non terrena, di una solennità piena di mistero. «Cara!», diss’egli. Raccolse sua moglie a sé con un braccio, sempre guardando Maria. Il Gilardoni venne loro alle spalle, mormorò «che bellezza!» e tornò al caminetto sospirando «beati voi!».
Allora Franco, intenerito, sussurrò all’orecchio di sua moglie: «Glielo diciamo?». Ella non capì, lo guardò negli occhi. «Che parto», diss’egli, sempre sottovoce. Luisa trasalì, rispose «sì, sì» tutta commossa perché non l’attendeva a questo, avendolo in chiesa creduto incerto. La sorpresa di lei non sfuggì a Franco. Ne fu turbato, si sentì scosso nel suo proposito ed ella intese, ripeté impetuosamente «sì, sì» e lo spinse verso il Gilardoni.
«Caro amico», diss’egli, «Le debbo dir una cosa.»
Il professore, assorto nella contemplazione del fuoco, non rispondeva. Franco gli posò una mano sulla spalla. «Ah!», fece quegli trasalendo. «Scusi. Che cosa?»
«Le debbo raccomandare qualcuno.»
«A me? Chi?»
«Un vecchio, una signora e una bambina.»
I due uomini si guardarono in silenzio, uno commosso, l’altro stupefatto.
«Non capisce?», sussurrò Luisa.
No, non capiva, non rispondeva.
«Le raccomando», riprese Franco, «mia moglie, mia figlia e il nostro vecchio zio.»
«Oh!», esclamò il professore, guardando ora Luisa ora Franco.
«Vado via», disse questi con un sorriso che fece doler il cuore al Gilardoni. «Allo zio non l’abbiamo ancora detto ma è cosa necessaria. Nelle nostre condizioni non posso star qui a far niente. Dirò che vado a Milano, crederà chi vorrà; invece sarò in Piemonte.»
Gilardoni giunse le mani silenziosamente, sbalordito. Luisa abbracciò Franco, lo baciò, gli tenne il capo sul petto, ad occhi chiusi. Il professore s’immaginò ch’ella piegasse con dolore alla volontà di suo marito. «Oh senta», diss’egli, volto a Franco. «Se ci fosse la guerra, capirei; ma così, se dà una tale afflizione a Sua moglie per ragioni economiche, ha torto!»
Luisa, tenendosi sempre al collo di suo marito con un braccio, agitò in silenzio l’altra mano verso Gilardoni per farlo tacere.
«No, no, no», mormorò, ricongiungendo le braccia intorno al collo di Franco, «fai bene, fai bene», e perché il Gilardoni insisteva, si staccò da suo marito. «Oh, ma professore!», diss’ella scotendogli le mani incontro, «se glielo dico io che fa bene di partire, se glielo dico io che sono sua moglie! Ma caro professore!»
«Oh infine, signora!», proruppe il Gilardoni. «Bisogna poi anche sapere...»
Franco stese impetuoso le braccia verso di lui, gridò: «Professore!»
«Fa male!», gli rispose questi. «Fa male! Fa male!»
«Cosa c’è, Franco?», dimandò Luisa, meravigliata. «C’è qualche cosa che io non so?»
«C’è che devo andar via, che andrò via e non c’è altro!»
Maria s’era svegliata di soprassalto a quel grido di suo padre: «Professore!», poi, vedendo la mamma così agitata, si dispose a piangere. Finalmente scoppiò in lagrime dirotte: «No papà, no via papà, no via papà!».
Franco se la tolse in braccio, la baciò, l’accarezzò. Ella andava ripetendo fra i singhiozzi «papà mio, papà mio» con una voce accorata e grave che faceva male al cuore. Suo padre se ne struggeva tutto, le protestava di voler star sempre con lei e piangeva per il dolore d’ingannarla, per la commozione di quella tenerezza nuova che veniva proprio adesso.
Luisa pensava al grido di suo marito. Il Gilardoni s’accorse ch’era in sospetto di un segreto e le domandò, per toglierla da quel pensiero, se Franco intendesse partire presto. Fu questi che rispose. Dipendeva da una lettera di Torino. Fra una settimana, forse; tutt’al più fra quindici giorni. Luisa taceva e il discorso cadde. Franco parlò allora di politica, delle probabilità che la guerra scoppiasse a primavera. Anche questo discorso morì presto. Pareva che il Gilardoni e Luisa pensassero ad altro, che ascoltassero il batter delle onde ai muri dell’orto. Finalmente Ismaele ritornò, ebbe il suo punch, assicurò che il lago non era troppo cattivo, che si poteva partire.
Appena i Maironi furono in barca, appena Maria vi riprese il sonno, Luisa domandò a suo marito se vi fosse una cosa ch’ella non sapeva e che il Gilardoni non doveva dire.
Franco tacque.
«Basta», diss’ella. Allora suo marito le passò un braccio al collo, la strinse a sé, protestando contro parole che ella non aveva dette: «Oh Luisa, Luisa!».
Luisa si lasciò abbracciare ma non rispose all’abbraccio; onde suo marito, disperato, le promise subito di dirle tutto, tutto. «Mi credi curiosa?», sussurrò ella fra le sue braccia. No, no, egli voleva raccontarle ogni cosa subito, dirle perché non avesse parlato prima. Ella si oppose; preferiva che parlasse più tardi, spontaneamente.
Avevano il vento in favore e il lume che brillava ad una finestra della loggia serviva bene di mira a Ismaele. Franco tenne sempre abbracciato il collo di sua moglie e guardava tacendo quel punto lucente. Né l’uno né l’altra pensarono alla mano amorosa e prudente che lo aveva acceso. Vi pensò Ismaele, affermò che né la Veronica né la Cia eran capaci di un simile tratto di genio e benedisse la faccia del signor ingegnere.
Nell’uscire di barca Maria si svegliò e gli sposi non parvero pensar più che a lei. Quando furono a letto, Franco spense il lume.
«Si tratta della nonna», diss’egli. La voce era commossa, rotta. Luisa mormorò «caro» e gli prese una mano, affettuosamente. «Non ho mai parlato», riprese Franco, «per non accusar la nonna e poi anche...» Qui seguì una pausa; quindi fu egli che mescolò al suo dire le più tenere carezze mentre sua moglie, invece, non vi rispondeva più. «Temevo», disse, «l’impressione tua, i tuoi sentimenti, le idee che ti potevano venire...» Più le parole avevano questo dubbio sapore, più la voce era tenera.
Luisa sentiva avvicinarsi, non un alterco, ma un contrasto più durevole e grave; non avrebbe voluto, adesso, che suo marito parlasse, e suo marito, sentendola diventar fredda, non proseguì. Ella gli posò la fronte alla spalla e disse sottovoce, malgrado se stessa: «Racconta».
Allora Franco, parlandole nei capelli, le ripeté il racconto fattogli dal professore nella notte del suo matrimonio. Nel riferire a memoria la lettera e il testamento di suo nonno, temperò alquanto le frasi ingiuriose verso suo padre e la nonna. A mezzo il racconto, Luisa, che non si aspettava una rivelazione simile, alzò il capo dalla spalla di suo marito. Questi s’interruppe.
«Avanti», diss’ella.
Finito ch’egli ebbe, gli domandò se si potesse dimostrare che il testamento del nonno era stato soppresso. Franco rispose prontamente di no. «Ma», diss’ella, «perché allora parlavi delle idee che mi potevan venire?». Il suo pensiero era subito corso al probabile delitto della nonna, alla possibilità di un’accusa.
Ma se l’accusa non era possibile?
Franco non rispose ed ella, dopo aver pensato un poco, esclamò: «Ah, la copia del testamento? Adoperarla? Quello è un testamento che potrebbe valere?»
«Sì»
«E tu non l’hai voluto far valere?»
«No.»
«Perché, Franco?»
«Ecco!», esclamò Franco, pigliando fuoco. «Vedi? Lo sapevo! No, non lo voglio far valere, no, no, assolutamente, no!»
«Ma le ragioni?»
«Dio, le ragioni! Le ragioni si sentono, le devi sentire senza che io te le dica!»
«Non le sento. Non credere ch’io pensi ai denari. Non pigliamoli i denari, dalli a chi vuoi tu. Io sento le ragioni della giustizia. C’è la volontà di tuo nonno da rispettare, c’è un delitto che tua nonna ha commesso. Tu sei tanto religioso, devi riconoscere che questa carta l’ha fatta venir fuori la giustizia divina. Tu ti vuoi mettere fra la giustizia divina e questa donna?»
«Lascia stare la giustizia divina!», rispose Franco, violento. «Cosa sappiamo noi delle vie che prende la giustizia divina? Vi è anche la misericordia divina! Si tratta della madre di mio padre, sai! E non li ho disprezzati sempre questi maledetti denari? Cosa ho fatto quando la nonna mi ha minacciato di non lasciarmi un soldo se sposavo te?»
La tenerezza e la collera, miste insieme, gli fecero groppo alla gola. Non potendo parlare, afferrò il capo di Luisa, se lo strinse sul petto.
«Ho disprezzato i denari per aver te», riprese con voce soffocata. «Come vuoi che adesso cerchi di riprenderli con dei processi?»
«Ma no!», lo interruppe Luisa rialzando il capo. «I denari li darai a chi vorrai! È della giustizia che parlo io! Ma non la senti, tu, la giustizia?»
«Dio mio!», diss’egli mettendo un profondo sospiro. «Era meglio che non t’avessi parlato neanche stasera!»
«Forse sì. Se non volevi rinunciare in nessun caso ai tuoi propositi, forse era meglio.»
La voce di Luisa, dicendo questo, esprimeva tristezza, non collera.
«Del resto», soggiunse Franco, «quella carta non esiste più.»
Luisa trasalì. «Non esiste più?», diss’ella sottovoce, con ansia.
«No. Il professore deve averla distrutta, per ordine mio.»
Seguì un lungo silenzio. Luisa ritirò il capo adagio adagio, lo posò sul guanciale proprio. Poi Franco uscì a dir forte: «Un processo! Con quei documenti! Con quelle ingiurie! Alla madre di mio padre! Per i denari!»
«Ma non ripetere questa cosa!», esclamò sua moglie, sdegnata. «Perché la ripeti sempre? Sai pure che non è vera!»
Parlavano concitati l’uno e l’altra; si capiva che durante il silenzio di prima avevano continuato a lavorar forte col pensiero su questo punto.
Egli si irritò del rimprovero e rispose alla cieca:
«Non so niente».
«Oh Franco!», disse Luisa, addolorata. Egli si era già pentito dell’oltraggio e le domandò perdono, accusò il proprio temperamento che gli faceva dire cose non pensate, implorò una parola buona. Luisa gli rispose sospirando «sì, sì» ma egli non fu contento, volle che dicesse proprio «ti perdono», che lo abbracciasse. Il tocco delle care labbra non lo ristorò come al solito. Passarono alcuni minuti ed egli stette in ascolto per capire se sua moglie si fosse addormentata. Udì il vento, il respiro lieve di Maria, il fragor delle onde, qualche tremolìo dei vetri, non altro. Sussurrò: «Mi hai proprio perdonato?», e udì rispondersi con dolcezza: «Sì, caro». Andò poco e fu lei che stette in ascolto, che udì, insieme al vento, alle onde, agli scricchiolii delle imposte, il respiro uguale, regolare della piccina, il respiro uguale, regolare del marito. Allora mise un altro gran sospiro, un sospiro desolato. Dio, come poteva Franco essersi condotto così? Ciò che la feriva nel più vivo del cuore era ch’egli paresse sentir poco le offese fatte alla povera mamma e allo zio. Ma su questo pensiero non voleva fermarsi, almeno prima di aver considerato il torto di lui altrove, di fronte all’idea di giustizia; e là lo sentiva, con amarezza eppur non senza compiacimento, inferiore a sé, governato da sentimenti che procedevano dalla fantasia, mentre il sentimento suo proprio era penetrato di ragione. Aveva tanto del bambino, Franco. Ecco, egli poteva già dormire ed ella si teneva sicura di non chiuder occhio fino alla mattina. A lei pareva di non aver fantasia perché non se la sentiva muovere, accendere così facilmente. Chi le avesse detto che la fantasia poteva in lei più che in suo marito, l’avrebbe fatta ridere. Eppure era così. Solamente, per dimostrarlo, occorreva capovolgere ambedue le anime, perché Franco aveva la sua fantasia visibile a fior d’anima e tutta la sua ragione al fondo, mentre Luisa aveva la fantasia al fondo e la ragione, molto visibilmente, a fior d’anima. Ella non dormì infatti e pensò per tutta la notte, con la sua fantasia del fondo dell’anima, come la religione favorisca i sentimentalismi deboli, com’essa che predica la sete della giustizia sia incapace di formare negl’intelletti devoti a lei il vero concetto di giustizia.
Anche il professore, che aveva infiltrazioni sierose di fantasia nelle cellule raziocinanti del cervello come nelle cellule amorifiche del cuore, spenta la lucerna, passò gran parte della notte davanti al caminetto lavorando con le molle e con la fantasia, pigliando, guardando, lasciando cader brage e progetti fino a che gli restarono un ultimo carbone lucente e un’ultima idea. Prese allora uno zolfino e accostatolo alla bragia ne riaccese la lucerna, prese l’idea pure luminosa e scottante, se la portò a letto.
Era questa: partire, all’insaputa di tutti, per Brescia, presentarsi alla marchesa con i terribili documenti, ottenere una capitolazione.
7. È giuocato
Tre giorni dopo, alle cinque della mattina, in Milano, il professore Gilardoni usciva, inferraiuolato fino agli occhi, dall’Albergo degli Angeli, passava davanti al Duomo e infilava la buia contrada dei Rastelli dietro una fila di cavalli condotti a mano dai postiglioni, entrava nell’ufficio delle diligenze erariali. Il piccolo cortile dove ora è la Posta era già pieno di gente, di bestie, di lanterne. Voci di postiglioni e di conduttori, passi di cavalli, scosse di sonagliere; all’eremita della Valsolda pareva un finimondo.
Si stavano attaccando i cavalli a due diligenze, quattro per ciascuna. Il professore andava a Lodi perché aveva saputo che la marchesa era in visita presso un’amica di Lodi. La diligenza di Lodi partiva alle cinque e mezzo.
Faceva un freddo intenso e il povero professore girava inquieto intorno al carrozzone mostruoso pestando i piedi per riscaldarsi; tanto che un altro viaggiatore gli disse argutamente: «Freschino, eh? Freschinetto, freschinetto!». Quando Dio volle si finì di attaccare i cavalli, un impiegato chiamò i viaggiatori per nome e il buon Beniamino sparì nel ventre del carrozzone insieme a due preti, a una vecchia serva, a un vecchio signore con una natta enorme sul viso e a un giovine elegante. Gli sportelli furono chiusi, un comando fu dato, le sonagliere tintinnarono, il carrozzone si scosse, i preti, la vecchia, il signore dalla natta si fecero il segno della croce, i sedici zoccoli dei cavalli strepitarono sotto l’androne, le ruote pesanti lo empirono di fragore, poi tutto questo fracasso si smorzò e la diligenza svoltò a destra verso Porta Romana.
Adesso le ruote correvano quasi silenziose e i viaggiatori non sentivano più che il pestar disordinato dei sedici zoccoli sulle pietre. Il professore guardava passar le case scure, il raro chiaror dei fanali, qualche piccolo caffè illuminato, qualche garetta di sentinella. Gli pareva che il silenzio della grande città avesse qualche cosa di minaccioso e di formidabile per quei soldati, che le stesse mura delle case nereggiassero d’odio. Quando la diligenza entrò nel corso di Porta Romana, così allagato di nebbia che dai finestrini non si vedeva quasi più nulla, chiuse gli occhi e si abbandonò al piacere d’immaginar le persone e le cose che aveva nel cuore, di conversar con esse.
Non era più il viaggiatore della natta che gli sedeva in faccia, era donna Ester tutta chiusa in un gran mantello nero e col cappuccio in capo. Ella lo guardava fiso; i begli occhi gli dicevano: «Bravo, Lei fa una bella azione, mostra molto cuore, non l’avrei creduto. L’ammiro. Ella non è più né vecchio, né brutto per me. Coraggio!». A questa esortazione di aver coraggio gli veniva una stretta di paura, gli scattava in mente la immagine della marchesa; e il rumor sordo delle ruote si trasformava nella voce nasale della vecchia dama che gli diceva: «Si accomodi. Cosa desidera?».
A questo punto la diligenza si fermò e il professore aperse gli occhi. Porta Romana. Qualcuno aperse lo sportello, domandò le carte di sicurezza, e, raccoltele, si allontanò, ricomparve dopo cinque minuti, le restituì a tutti fuorché al giovine elegante. «Lei scenda», gli diss’egli. Quegli impallidì, discese in silenzio e non ritornò. Dopo un altro minuto fu chiuso lo sportello, una voce ruvida disse: «Avanti!». Il signore dalla natta collocò la sua borsa da viaggio sul sedile rimasto vuoto; nessun altro viaggiatore diede segno di accorgersi dell’accaduto. Solo quando i quattro cavalli ebbero ripreso il trotto, Gilardoni domandò al prete suo vicino se conoscesse il nome del giovine e quegli rispose bruscamente «off!», girò verso il professore due occhi sgomentati e sospettosi. Il professore guardò l’altro prete che subito trasse di tasca una corona e fattosi il segno della croce si mise a pregare. Il professore tornò a chiudere gli occhi e l’immagine del giovane sconosciuto si perdette per sempre nella nebbia come parevano perdervisi i rari fantasmi d’alberi, di pioppi e di salici, che passavano a destra e a sinistra della via.
«Come incominciare?», pensava il Gilardoni. Dalla notte di Natale in poi non aveva fatto che immaginare e discutere fra sé il modo di presentarsi alla marchesa, di entrar nell’argomento e di svolgerlo, la capitolazione da offrire. Non aveva chiara in mente che quest’ultima; ove la signora marchesa facesse un largo assegno al nipote, egli distruggerebbe le carte. Queste carte non le teneva seco; ne aveva una copia. Dovevano produrre un effetto fulmineo; ma come incominciare? Nessuno dei tanti esordi pensati lo accontentava. Anche adesso, fantasticando ad occhi chiusi, si poneva il problema partendo dal solo termine conosciuto: “Si accomodi. Cosa desidera?”. Immaginava una risposta che poi gli pareva o troppo ossequiosa o troppo ardita o troppo lontana dall’argomento o troppo vicina ad esso e ricominciava la via dal solito principio: “Cosa desidera?”.
Un livido chiaror d’alba, pieno d’uggia, di tristezza e di sonno, entrò nella diligenza. Adesso che l’ora del colloquio stava per giungere, mille dubbi, mille incertezze nuove mettevano in iscompiglio tutte le previsioni del professore. La stessa base de’ suoi calcoli improvvisamente crollò. Se la marchesa non gli dicesse né «si accomodi» né «cosa desidera?». Se lo accogliesse Dio sa in quale altro modo imbarazzante? E se non lo volesse ricevere? Santo cielo, se non lo volesse ricevere? L’improvviso strepitar dei sedici zoccoli sopra un ciottolato gli fece battere il cuore. Ma non era ancora il ciottolato di Lodi; era il ciottolato di Melegnano.
A Lodi arrivò circa alle nove. Scese all’Albergo del Sole, ebbe una stanza dove non c’era né sole né fuoco. Non osando affrontare la nebbia delle vie, né le vampe della cucina, osò invece porsi a letto, mise il berretto da notte che sapeva le sue angustie, aspettò, con la sigaretta di canfora in bocca, qualche buona idea e il mezzogiorno.
Salì, al tocco, le scale del palazzo X., col savio proposito di scordar tutte le frasi meditate, di rimettersi alla ispirazione del momento. Un domestico in cravatta bianca lo introdusse in uno stanzone scuro, dal pavimento di mattoni, dalle pareti coperte di seta gialla, dal soffitto a stucchi, e, fatto un inchino, uscì. Poche antiche sedie a bracciuoli, bianche e dorate, con la stoffa rossa, stavano in semicerchio davanti al camino dove tre o quattro ceppi enormi ardevano adagio dietro la grata di ottone. L’aria aveva un odor misto di vecchie muffe, di vecchie pasticcerie, di vecchie mele cotte, di vecchie stoffe, di vecchia pelle, di decrepite idee, una sottile essenza di vecchiaia che faceva raggrinzar l’anima.
Il domestico ritornò ad annunciare, con grande emozione del Gilardoni, il prossimo ingresso della signora marchesa. Aspetta e aspetta, ecco aprirsi un grande uscio a fregi dorati, ecco un campanellino corrente, ecco Friend che trotta dentro fiutando il pavimento a destra e a manca, ecco una gran campana di seta nera sotto un cupolino di pizzo bianco, ecco fra due nastri celesti la parrucca nera, la fronte marmorea, gli occhi morti della marchesa.
«Che miracolo, professore, a Lodi?», disse la voce sonnolenta, mentre il cagnolino fiutava gli stivali del professore. Questi fece un profondo saluto e la dama che pareva appunto l’ampolla dell’essenza di vecchiaia, andò a porsi in un seggiolone accanto al fuoco e fece accomodare la sua bestiola in un altro; dopo di che accennò al Gilardoni di accomodarsi pure. «Suppongo», diss’ella, «che avrà qualche parente alle Dame Inglesi.»
«No», rispose il professore, «veramente no.»
La marchesa era faceta, qualche volta, alla sua maniera. «Allora», disse, «sarà forse venuto a far provvista di mascherponi.»
«Neanche, signora marchesa. Sono venuto per affari.»
«Bravo. È stato disgraziato col tempo. Mi par che piova, adesso.»
A questa impreveduta diversione il professore ebbe paura di perdere la tramontana. «Sì», diss’egli sentendosi diventare sciocco come lo scolaro cui l’esame piega male: «pioviggina».
La sua voce, la sua fisionomia dovettero tradire l’imbarazzo interno, apprendere alla marchesa che egli era venuto per dirle qualche cosa di particolare. Ella si guardò bene dall’offrirgliene il bandolo, continuò a parlargli del tempo, del freddo, dell’umido, di un raffreddore di Friend che infatti accompagnava di frequenti starnuti il discorso della sua dama. La voce sonnolenta aveva un placido tono quasi ridente, una blanda benevolenza; e il professore sudava freddo al pensiero di fermare quella melliflua vena per offrir in cambio la pillola amara che aveva in tasca. Egli avrebbe potuto approfittar d’una pausa per metter fuori il suo esordio, ma non seppe farlo; e fu invece la marchesa che ne approfittò per metter fuori la sua chiusa.
«La ringrazio tanto», diss’ella, «della visita, e adesso La congedo perché Ell’avrà le Sue faccende e, per dire il vero, ho un impegno anch’io.»
Qui bisognò saltare:
«Veramente», rispose il Gilardoni, tutto agitato, «io ero venuto a Lodi per parlare con Lei, signora marchesa.»
«Questo», osservò la dama, gelida, «non lo avrei potuto immaginare.»
Il professore trascorse avanti, nello slancio del salto.
«Si tratta di cose urgentissime», diss’egli, «e io debbo pregare...»
La marchesa lo interruppe.
«Se si tratta di affari, bisogna ch’Ella si rivolga al mio agente di Brescia.»
«Scusi, signora marchesa; si tratta d’un affare specialissimo. Nessuno sa e nessuno deve sapere che sono venuto da Lei. Le dico subito che si tratta di Suo nipote.»
La marchesa si alzò e il cane accovacciato sul seggiolone si levò pure, abbaiando verso il Gilardoni.
«Non mi parli», disse solennemente la vecchia signora, «di quella persona che per me non esiste più. Andiamo, Friend.»
«No, signora marchesa!», ripigliò il professore. «Ella non può assolutamente immaginare cosa Le dirò!»
«Non m’importa di niente, non voglio saper niente, La riverisco!»
La inflessibile dama si mosse, così dicendo, verso l’uscio.
«Marchesa!», esclamò alle sue spalle il professor Beniamino, mentre Friend, saltato dal seggiolone, gli abbaiava disperatamente alle gambe: «Si tratta del testamento di Suo marito!»
Stavolta la marchesa non poté a meno di fermarsi. Tuttavia non si voltò.
«Questo testamento non Le può piacere», soggiunse rapidamente il Gilardoni, «ma io non ho l’intenzione di pubblicarlo. Mi ascolti, La supplico, marchesa!»
Ella si voltò. La faccia impenetrabile tradiva una certa emozione nelle narici. Neppure le spalle eran del tutto tranquille.
«Che storie mi conta?», rispose. «Le pare una bella convenienza di venire a nominarmi, così senza riguardi, il povero Franco? Cosa c’entra Lei negli affari della mia famiglia?»
«Perdoni», replicò il professore frugandosi in tasca. «Se non c’entro io, ci potrebbero entrare altri con meno riguardi di me. Abbia la bontà di vedere i documenti. Queste...»
«Si tenga i suoi scartafacci», interruppe la marchesa vedendogli levar di tasca delle carte.
«Queste sono le copie fatte da me...»
«Le dico che se le tenga, che se le porti via!»
La marchesa suonò un campanello e si avviò da capo per uscire. Il professore, tutto fremente, udendo venir un domestico, vedendo lei aprir l’uscio, gittò le sue carte sopra una seggiola, disse sottovoce in fretta e furia: «Le lascio qui, non le veda nessuno, io sono al Sole, ritornerò domani, le guardi, ci pensi bene!», e prima che arrivasse il domestico, scappò per la parte ond’era venuto, tolse il ferraiuolo, infilò le scale.
La marchesa rimandò il domestico, stette un poco in ascolto, poi ritornò sui suoi passi, prese le carte, andò a chiudersi nella sua stanza e, inforcati gli occhiali, incominciò a leggere presso la finestra. La faccia era oscura e le mani tremavano.
Il professore stava per andare a letto nella sua camera gelata del Sole, quando due poliziotti vennero a recargli l’ordine di recarsi immediatamente all’ufficio di Polizia.
Egli sentì bene un certo rimescolamento interno ma non si smarrì e partì con essi. Alla Polizia, un piccolo Commissario insolente gli domandò perché fosse venuto a Lodi e avutone risposta che c’era venuto per affari privati, fece un atto d’incredulità sprezzante. Che affari privati pretendeva avere a Lodi il signor Gilardoni? Con chi? Il professore nominò la marchesa. «Ma se nessuna Maironi sta a Lodi!», esclamò il Commissario, e perché l’altro protestava, lo interruppe subito: «Basta, basta, basta!». La Polizia sapeva di certo che il signor Gilardoni, quantunque I.R. pensionato, non era un leale austriaco, che aveva degli amici a Lugano e ch’era venuto a Lodi con un fine politico.
«Lei ne sa più di me!», esclamò il Gilardoni soffocando a stento la collera.
«Faccia silenzio!», gl’intimò il Commissario. «Del resto Ella non deve credere che l’I.R. Governo abbia paura di Lei. È libero di andare. Solamente deve lasciar Lodi entro due ore!»
Qui Franco avrebbe capito subito di dove veniva il colpo; il filosofo non capì.
«Son venuto», diss’egli, «a Lodi per un affare urgente che non ho finito, per un interesse privato gravissimo. Come posso partire dentro due ore?»
«Con una vettura. Se, trascorse due ore, Ella è ancora in Lodi, La faccio arrestare.»
«La mia salute», replicò la vittima, «non mi permette di viaggiare di notte in dicembre.»
«Ebbene, La farò arrestare subito.»
Il povero filosofo prese in silenzio il suo cappello e uscì.
Un’ora dopo egli partiva per Milano in un calessino chiuso, con i piedi nella paglia, con una coperta sulle gambe, con una gran sciarpa al collo, pensando che aveva pur fatto una bella spedizione e inghiottendo saliva ogni momento per sentir se gli doleva la gola. Notte infame davvero; ma non la passò sulle rose neppur la signora Marchesa.
8. Ore amare
L’ultimo dì dell’anno, mentre Franco stava scrivendo le minutissime istruzioni che intendeva lasciare a sua moglie per il governo del giardinetto e dell’orto, mentre lo zio rileggeva per la decima volta la sua favorita Storia della diocesi di Como, Luisa uscì a passeggio con Maria. Splendeva un tepido sole. Non v’era neve che sul Bisgnago e sulla Galbiga. Maria trovò una viola presso il cimitero e un’altra la trovò in fondo alla Calcinera. Lì faceva veramente caldo, l’aria aveva un lieve aroma di alloro. Luisa sedette con le spalle al monte, permise che Maria si divertisse ad arrampicarsi e sdrucciolar sull’erba secca dietro a lei, e pensò.
Non aveva riveduto il professor Gilardoni dopo la notte di Natale e desiderava parlargli, non per udir da capo la storia del testamento Maironi, ma per farsi raccontare il suo colloquio con Franco quando gliel’aveva mostrato, per conoscere le prime impressioni di Franco e l’opinione del professore. Poiché il testamento era stato distrutto, ciò aveva solamente un’importanza psicologica. La curiosità di Luisa non era però una fredda curiosità di osservatrice. La condotta di suo marito l’aveva gravemente offesa. Pensandoci e ripensandoci, come aveva fatto dalla notte di Natale in poi, s’era persuasa che anche il silenzio serbato con lei fosse un peccato grave contro il diritto e l’affetto. Ora le riusciva amaro il sentirsi diminuir la stima per suo marito, tanto più amaro alla vigilia della sua partenza e in un momento in cui egli meritava lode. Avrebbe voluto almeno sapere che quando il Gilardoni gli aveva mostrato quelle carte vi era stata in lui una lotta, che il sentimento più giusto si era sollevato almeno un momento nell’anima sua. Si alzò, prese Maria per mano e si avviò verso Casarico.
Trovò il professore nell’orto, col Pinella, disse a Maria di andar a correre, a giuocare insieme al Pinella, ma la bambina, sempre avida di ascoltar i discorsi delle persone grandi, non volle assolutamente saperne. Allora entrò nell’argomento senza pronunciar nomi. Voleva parlare al professore di quelle tali carte, di quelle vecchie lettere. Il professore, rosso, rosso, protestò che non capiva. Per fortuna il Pinella chiamò Maria mostrandole un libro d’immagini e Maria, vinta dal libro, corse a lui. Allora Luisa levò al professore gli scrupoli, gli disse che sapeva tutto da Franco stesso, gli confessò di aver disapprovato suo marito, di aver provato e di provare ancora un gran dolore...
«Perché perché perché?», interruppe il buon Beniamino. Ma perché Franco non aveva voluto far nulla! «Ho fatto io, ho fatto io, ho fatto io!», disse il Gilardoni, tutto acceso e trepidante, «ma per amor del cielo non dica niente a Suo marito!». Luisa restò sbalordita. Ma cosa aveva fatto il professore? Ma quando? Ma come? Ma il testamento non era stato distrutto?
Allora il professore, rosso come una bragia, facendo degli occhi spiritati, intercalando il suo dire di «ma per carità, neh? – ma zitto, neh?», mise fuori tutti i suoi segreti, la conservazione del testamento, il viaggio a Lodi. Luisa lo ascoltò sino alla fine, poi fece «ah!» e si strinse forte forte il viso fra le mani.
«Ho fatto male?», esclamò il professore, spaventato. «Ho fatto male, signora Luisina?»
«Altro che male! Malissimo! Mi scusi, sa, Lei ha avuto l’aria di andare a proporre una transazione, un mercato! E la marchesa crederà che siamo d’accordo! Ah!»
Ella strinse e scosse le mani congiunte come se avesse voluto rimaneggiarvi, rimpastarvi dentro una testa professorale più quadra. Il povero professore, costernato, andava ripetendo: «Oh Signore! Oh povero me! Oh che asino!», senza tuttavia comprender bene quale asinata avesse commesso. Luisa si buttò sul parapetto verso il lago, a guardare nell’acqua. Balzò su a un tratto, batté il dorso della destra sul palmo della sinistra, il suo viso s’illuminò. «Mi conduca nel Suo studio», diss’ella. «Posso lasciar qui Maria?». Il professore accennò di sì e l’accompagnò, tutto palpitante, nello studio.
Luisa prese un foglio di carta e scrisse rapidamente:
«Luisa Maironi Rigey fa sapere alla marchesa Maironi Scremin che il professore Beniamino Gilardoni è un ottimo amico di suo marito e suo, ma che ne fu disapprovato per l’uso inopportuno di un documento destinato a sorte diversa: che perciò nessuna comunicazione si attende né si desidera da parte della signora marchesa».
Com’ebbe scritto, tese silenziosamente la lettera al professore. «Oh no!», esclamò il professore dopo aver letto. «Per amor del cielo, non mandi questa lettera! Se Suo marito lo sa! Pensi che dispiacere immenso, per me, per Lei! E come Suo marito non lo avrebbe a sapere?». Luisa non rispose, lo guardò a lungo, non pensando a lui, pensando a Franco, pensando che forse la marchesa potrebbe prendere quella lettera per un artificio, per uno spauracchio. La riprese e la stracciò sospirando. Il professore, raggiante, le voleva baciar la mano. Ella protestò: non lo aveva fatto né per lui né per Franco, lo aveva fatto per altre ragioni! Il sacrificio del suo sfogo la esacerbò, anzi, contro Franco. «Ha torto! Ha torto!», ripeteva col cuore amaro. E né lei né il professore si accorsero che Maria era nella stanza. Vista partir sua madre, la piccina non aveva più voluto restar col Pinella e il Pinella l’aveva condotta fino all’uscio dello studio, gliel’aveva aperto senza far rumore. La piccina, colpita dall’aspetto di sua madre, si fermò a fissarla con una espressione di sgomento. La vide stracciar la lettera, la udì esclamare «ha torto!» e si mise a piangere. Luisa accorse, la prese tra le braccia, la consolò e partì subito. Le ultime parole del professore nel congedarsi, furono: «Per carità, silenzio!».
«Cosa, silenzio?», domandò subito Maria. Sua madre non le badò; tutti i suoi pensieri erano altrove. Maria ripeté tre o quattro volte: «Cosa, silenzio?». Quando finalmente si udì rispondere «zitto, basta» tacque un poco e poi ricominciò rovesciando all’indietro la sua testolina ridente, proprio per stuzzicar la mamma: «Cosa, silenzio?». Ne fu sgridata forte, tacque ancora, ma passando sotto il cimitero, a pochi passi da casa, ricominciò da capo, con lo stesso riso malizioso. Allora Luisa, tutta raccolta nello sforzo di comporsi una maschera indifferente, le diede solo una strappata, che però bastò a farla tacere.
Maria era molto allegra, quel giorno. A pranzo, scherzando con la mamma, si ricordò dei rimproveri toccati a passeggio, la guardò sottecchi col solito risolino timido e provocatore, mise ancora fuori il suo «cosa, silenzio?». La mamma finse di non udire ed ella insistette. Luisa la fermò allora con un «basta!» così insolitamente vibrato che la boccuccia di Maria si aperse piano piano e le lagrime scoppiarono. Lo zio fece «oh povero me!» e Franco diventò scuro, si capì che disapprovava sua moglie. Poiché Maria piangeva e piangeva, si sfogò addosso a lei; la prese tra le braccia, la portò via che strillava come un’aquila. «Meglio ancora!», esclamò lo zio. «Bravissimi!» «Lasci un po’ fare, Lei», gli disse la Cia mentre Luisa taceva. «I genitori devono farsi ubbidire, già.» «Ma sì, così mi piace», le rispose il padrone, «mettete fuori anche voi la vostra sapienza.» Ella si azzittì tutta ingrugnata.
Intanto Franco, piantata Maria in un angolo dell’alcova, ritornò e brontolò qualche parola sul voler far piangere i bambini per forza, per cui Luisa s’imbronciò alla sua volta, andò in cerca di Maria, la ricondusse lagrimosa ma silenziosa. Il breve desinare finì male perché Maria non volle più mangiare e tutti erano imbronciati per una ragione o per l’altra, meno lo zio Piero il quale si mise ad arringar Maria con dei predicozzi mezzo serii mezzo scherzosi, tanto che le fece tornare un po’ di sole in viso. Dopo pranzo Franco andò a vedere di certi vasi che teneva nel sotterraneo sotto il giardinetto pensile e prese Maria con sé, la interrogò benignamente, vedendola ormai allegra, sull’origine di tanti guai. «Che significava questo cosa, silenzio?» «Non lo so.» «Ma perché la mamma non voleva che tu dicessi così?» «Non lo so. Io dicevo sempre così e la mamma mi sgridava sempre.» «Quando?» «A passeggio.» «Dove sei stata, a passeggio?» «Dal signor Ladroni.» (Lo zio le aveva facilitato il nome del professore così.) «E hai cominciato in casa del signor Ladroni a dire questa cosa?» «No, è stato il signor Ladroni che ha detto così alla mamma.» «Cosa ha detto?» «Ma, papà, non capisci niente! Ha detto: per carità, silenzio!». Franco non parlò più. «La mamma ha stracciato una carta, anche, dal signor Ladroni», soggiunse Maria, stimando, adesso, far tanto maggior piacere a suo padre quante più cose gli raccontava di questa visita. Suo padre le impose di tacere. Ritornato in casa, domandò a Luisa, con un viso poco benevolo, perché avesse fatto piangere la bambina. Luisa lo guardò, le parve che sospettasse, gli domandò risentita se dovesse giustificarsi di queste cose. «Oh no!», fece suo marito, freddo; e se ne andò in giardinetto a veder se le foglie secche al piede degli aranci e la paglia intorno al tronco fossero in ordine perché la notte si annunziava rigida. Lavorando intorno alle piante si disse amaramente che se avessero avuto senso e parola, gli si sarebbero mostrate più riconoscenti, più affettuose del solito per la sua prossima partenza, mentre Luisa aveva cuore di essergli aspra. D’essere stato aspro egli stesso non gli venne in mente. Luisa, dal canto suo, si dolse subito d’avergli risposto così, ma non poteva trattenerlo, gittarglisi al collo e finirla con due baci; troppo le pesava sul cuore l’altra cosa! Franco finì di accomodar le fasciature a’ suoi aranci e rientrò a pigliarsi il mantello per andar in chiesa ad Albogasio. Luisa che stava in cucina sbucciando delle castagne, lo udì passare pel corridoio, stette un momento in forse, lottando con se stessa, poi balzò fuori, lo raggiunse mentre stava per scender le scale.
«Franco!», diss’ella. Franco non rispose, parve respingerla. Ella lo afferrò allora per un braccio, lo trasse nella vicina camera dell’alcova. «Cosa vuoi?», diss’egli, scosso ma desideroso di tenersi il suo rancore. Luisa non gli rispose, gli cinse con le braccia il collo riluttante, gli piegò il viso sul petto e disse sottovoce:
«Non dobbiamo esser in collera, sai, in questi giorni».
Egli, che aveva aspettato parole di scusa, si staccò dal collo le braccia di sua moglie e rispose asciutto:
«Io non sono in collera. Mi racconterai poi», soggiunse, «cosa ti ha confidato il signor professore Gilardoni di tanto segreto da doverti raccomandare il silenzio».
Luisa lo guardò attonita, addolorata. «Tu hai sospettato di me», diss’ella, «e hai interrogato la bambina? Hai fatto questo?»
«Ebbene», diss’egli, «e se avessi fatto questo? Del resto tu pensi sempre il peggio di me, si sa. Bene, guarda, non voglio saper niente.» Ella lo interruppe, «ma te lo dirò, ma te lo dirò», ed egli allora cui la coscienza rimordeva un poco per l’interrogatorio di Maria, vedendo poi anche Luisa disposta a parlare, non volle assolutamente udirla, le proibì di spiegarsi. Ma il suo cuore traboccava di amarezza e gli occorreva pure uno sfogo. Si dolse che dopo la notte di Natale ella non fosse più stata con lui la solita Luisa. A che valevano le proteste? Lo aveva capito bene. Del resto era tanto tempo ch’egli aveva capito una cosa! Che cosa? Oh, una cosa naturale! Naturalissima! Meritava egli di essere amato da lei? No certo; egli era un povero disutile e niente altro. Non era naturale che dopo averlo conosciuto bene, ella lo amasse meno? Perché certo certo lo amava meno di una volta.
Luisa tremò che questo fosse vero, disse «no, Franco, no» e lo sgomento di non saperlo dire con energia bastante le paralizzò la voce. Egli che aveva sperato una smentita violenta, sussurrò atterrito: «Dio mio!». Allora fu lei che si atterrì, fu lei che lo strinse disperatamente fra le braccia singhiozzando «ma no! ma no! ma no!». S’intesero sino al fondo con una comunicazione magnetica e stettero a lungo abbracciati, parlandosi in un muto sforzo spasmodico di tutto l’esser loro, dolendosi l’uno dell’altro, rimproverandosi, volendosi appassionatamente riprendere, gustando il piacere acuto e amaro di unirsi per un momento con la volontà e con l’amore malgrado la intima disunione delle loro idee e della loro natura; tutto senza una parola, senza una sola voce.
Franco partì per andare in chiesa. Non volle invitar Luisa ad accompagnarlo, sperando ch’ella lo facesse spontaneamente; ed ella non lo fece dubitando che gli fosse gradito.
La mattina del sette gennaio, dopo le dieci, lo zio Piero fece chiamare Franco.
Lo zio stava ancora a letto. Si alzava tardi, non potendo riscaldare la stanza e non volendo, per economia, accendere il fuoco nel salottino troppo per tempo. Però il freddo non gl’impediva di tirarsi su a leggere, con mezzo il petto e ambedue le braccia fuori delle coperte.
«Ciao», diss’egli quando Franco entrò.
Dal tono del saluto, dalla bella faccia seria nella sua bontà, Franco intese che lo zio aveva pronte parole insolite.
Lo zio gl’indicò infatti la sedia presso il letto, e disse il più solenne dei suoi esordi:
«Sètet giò».
Franco sedette.
«Dunque parti domani?»
«Sì, zio.»
«Bene.»
Parve che nel metter fuori quel «bene» il cuore dello zio gli fosse venuto in bocca, tanto la parola gli gonfiò le guance, gli uscì piena e sonora.
«Tu», riprese il vecchio, «non mi hai udito fino ad ora, dirò così, approvare né disapprovare il tuo progetto. Forse avrò dubitato un poco che lo effettuassi. Adesso...»
Franco gli stese ambedue le mani. «Adesso», continuò lo zio, tenendogliele strette fra le proprie, «visto che sei fermo nella tua idea, ti dico: l’idea è buona, il bisogno c’è, va’, lavora, il lavoro è una gran cosa. Dio ti faccia incominciar bene e poi ti faccia perseverare, ch’è il più difficile. Ecco.»
Franco gli voleva baciar le mani, ma lo zio fu pronto a ritirarle. «Lassa stà, lassa stà!». E riprese a parlare.
«Adesso senti. È possibile che non ci vediamo più.» Proteste di Franco. «Sì sì sì», rispose il vecchio ritirando l’anima dagli occhi e dalla voce, «tutte belle cose, cose che bisogna dire. Lascia stare.»
Gli occhi ripresero la loro luce seria e buona, la voce il suo tono grave.
«È possibile che non ci vediamo più. Del resto ti domando io cosa ci faccio, oramai, a questo mondo. E per voi sarebbe meglio che me ne andassi. Forse a tua nonna dispiace che io vi abbia raccolti, forse le sarà più facile, poi, di riconciliarsi con voi. Perciò, posto che non ci vediamo più, ti prego, appena morto io, se le cose non saranno ancora accomodate, di fare qualche passo.»
Franco si alzò, abbracciò lo zio con le lagrime agli occhi.
«Testamento», riprese lo zio, «non ne ho fatto e non ne faccio. Il poco che ho è di Luisa; non occorre testamento. Vi raccomando la Cia; fate che non le manchi un letto e un tozzo di pane. Per i funerali bastano tre preti che mi cantino un requiem di cuore; il nostro, l’Introini e il prefetto della Caravina; c’è mica bisogno di farne cantare cinque o sei per amor del candirott e del vin bianch45. Per il mio vestiario lasciamo fare a Luisa che saprà dove metterlo a posto. Il mio orologio a ripetizione lo prenderai tu per mia memoria. Vorrei lasciare un ricordo anche a Maria, ma come si fa? Potrai pigliar un pezzo della mia catena d’oro. Se hai una medaglietta, un crocifisso, glielo attacchi al collo con la mia catena. E amen.»
Franco piangeva. Era una gran commozione di sentire lo zio parlar della sua morte così serenamente come di un affare qualsiasi da condur con giudizio e onestà; lo zio che discorrendo con gli amici pareva tanto attaccato alla vita, che diceva sempre: «Se se pò schivà quella tal crepada!»46.
«Oh e adesso contami!», diss’egli. «Che lavoro speri di trovare?»
«Per ora, nell’ufficio d’un giornale a Torino, mi scrive T. Forse in avvenire si troverà qualche cosa di meglio. Se poi al giornale non potessi vivere e se non trovassi altro, ritornerei. Per questo bisogna tener la cosa segretissima, almeno per il primo tempo.»
Quanto al segreto, lo zio era incredulo. «E le lettere?», diss’egli.
Per le lettere era combinato che Franco scriverebbe a Lugano fermo in posta, che Ismaele porterebbe alla posta di Lugano le lettere della famiglia e ritirerebbe quelle di Franco. E che si doveva dire ai conoscenti? Si era già detto che Franco andava a Milano il giorno otto per affari e che sarebbe stato assente forse un mese, forse anche più.
«Questo dover infinocchiar la gente non è la più bella cosa del mondo», disse lo zio, «ma insomma! Io ti abbraccio adesso, neh, Franco, perché so che domani mattina parti per tempo e oggi difficilmente saremo soli. Dunque addio. Ti raccomando tutto da capo e non dimenticarti di me. Oh, un’altra cosa. Tu vai a Torino. Io, come impiegato, ho inteso servire il mio paese. Non ho cospirato, non vorrei cospirare neanche adesso, ma al mio paese ci ho sempre voluto bene. Insomma, salutami la bandiera tricolore. Ciao, neh!»
Qui lo zio aperse le braccia.
«Verrai anche tu, zio, in Piemonte», gli disse Franco alzandosi commosso da quell’abbraccio. «Se posso appena guadagnarmi quel che strettamente bisogna, vi faccio venire tutti.»
«E no, caro. Son troppo vecchio, non mi muovo più.»
«Ebbene, verrò io questa primavera con duecentomila miei amici.»
«Eh sì! Düsent mila zücch!47 Belle idee, belle speranze! Oh, è qui, signorina Ombretta Pipì?»
Ombretta Pipì, così Maria era chiamata in casa nei momenti di buon umore, entrò impettita e grave. «Buon giorno, zio. Mi dici l’Ombretta Pipì?»
Suo padre la prese e la posò sul letto dello zio che la raccolse a sé sorridendo, se la fece sedere sulle gambe.
«Venga qua, signorina. Ha dormito bene? E la bambola, ha dormito bene? E il mulo, ha dormito bene? Ah non c’era? Tanto meglio. Sì, sì, adesso vengo con l’Ombretta. E un bacio, niente? E un altro, no? Allora bisogna proprio dire:
Ombretta sdegnosa
Del Missipipì,
Non far la ritrosa
E baciami qui.»
Maria lo ascoltò come se udisse i versi per la prima volta; e poi, fuori a ridere, a saltare, a battere le mani. E lo zio rideva come lei.
«Papà», diss’ella facendosi seria, «perché piangi? Sei in castigo?»
Si aspettavano alquante visite, in quel giorno, di conoscenti che avevan promesso di venire a congedarsi da Franco prima della sua partenza per Milano. Luisa fece il miracolo di accender la stufa in Siberia, come lo zio chiamava la sala, e vi si trovarono insieme donna Ester, i due indivisibili Paoli di Loggio, il Paolin e il Paolon, il professor Gilardoni che vi sofferse di una trepidazione, di una inquietudine continua perché Luisa, non avendo ancora allestito il bagaglio di Franco, andava e veniva dalla camera dell’alcova, chiamava Ester ogni momento ed Ester era quindi sempre in moto, quando passava dietro al professore, quando gli passava davanti, quando a destra, quando a sinistra. Al pover’uomo pareva di stare in un turbine magnetico.
Ecco capitare, molto inattesa perché dopo la perquisizione non s’era più veduta, anche la signora Peppina. «Oh cara la mia süra Lüisa! Oh car el me sür don Franco! L’è vera ch’el voeur propi andà via?» Adesso è il Paolin che si dimena un poco sulla sedia perché ha l’idea che la süra Peppina sia mandata dal marito per vedere chi c’è e chi non c’è intorno all’uomo sospetto, nella casa scomunicata. Vorrebbe andarsene subito col suo Paolon, ma il Paolon è più grosso. «Come se fa adèss con sto vioròn chì ch’el capiss nagott?»48, pensa il Paolin, e, senza guardare il Paolon, gli dice sottovoce: «Andèmm, Paol! Andèmm!» Il Paolon stenta infatti molto a capire ma finalmente si alza, se ne va col Paolin, piglia la sua sulle scale.
Franco ebbe lo stesso pensiero del Paolin e salutò la signora Peppina con mal garbo. La povera donna ne avrebbe pianto perché voleva tanto bene a sua moglie e teneva in gran concetto anche lui; ma capiva la sua avversione; la scusava in cuor suo. Appena osava guardarlo di tempo in tempo, umile, con un’aria di cane bastonato. Si tolse la Maria sulle ginocchia, le parlò del suo buon papà, del suo caro papà che andava via. «Chi sa che dispiasè, neh ti poera vèggia? Chi sa che magòn? Poer ratin49. Andà via el papà! On papà de quella sort!» Franco discorreva col professore ma udiva e fremeva d’impazienza. Fu contentissimo che la Veronica venisse a chiamarlo.
Lo volevano nell’orto. Vi discese, trovò il signor Giacomo Puttini e don Giuseppe Costabarbieri ch’eran venuti per salutarlo ma, informati dal Paolin e dal Paolon, desideravano non farsi vedere dalla süra Peppina. Anche il suolo dell’orto scottava loro i piedi. Mentre il piccolo eroe magro si difendeva, soffiando, dagl’inviti di Franco a salire in casa, il piccolo eroe grasso girava vivacemente la testa e gli occhietti come un merlo di buon umore, a guardar ora il monte ora il lago, quasi per un’abitudine di sospetto. Scorse una barca che veniva da Porlezza. Chi sa? Non potrebb’essere l’I.R. Commissario? Benché la barca fosse ancora lontana, pensò subito di cavarsela, pensò di andar col Puttini a visitar il Ricevitore per aver la fortuna di non trovar la süra Peppina in casa.
Scambiati con Franco saluti sommessi e frettolosi, i due vecchi leproni trottarono via a testa bassa e Franco rimase nell’orto. L’aria era mite, il picco di Cressogno saliva senza neve, tutto glorioso di sole, nel sereno, il sole dorava ancora le coste giallognole della Valsolda picchiettate di ulivi, mentre dall’altra parte del lago scendevano sino all’acqua, nell’ombra azzurrognola, i grandi padiglioni bianchi della Galbiga nevosa e del Bisgnago. Franco stette a guardare col cuore grosso il caro paese dei suoi sogni, de’ suoi amori. «Addio, Valsolda», pensò. «E adesso voglio salutare anche voialtre.»
Voialtre erano le sue piante, gli aranci amari, l’olea sinensis, il nespolo del Giappone, il pinus pinea, che verdeggiavano a giusti intervalli lungo il viale diritto, fra le aiuole degli erbaggi e il lago; erano i rosai, i capperi, le agavi che uscivano a pender sopra l’acqua dai fori praticati nel muro. Tutte piccole vite, ancora; il colosso della famiglia, il pino, non misurava tre metri; piccole, pallide vite che parevano sonnecchiare nel pomeriggio invernale. Ma Franco le vedeva nell’avvenire come le aveva pensate piantandole col suo fine sentimento del grazioso e del pittoresco. Ciascuna portava in sé una intenzione di lui.
Le nobili pianticelle del viale, sorgendo sugli erbaggi, dovevano significare una certa finezza di spirito e di cultura nella modesta fortuna della famiglia. Gli aranci avevano il compito speciale di dare al quadretto una intonazione mite e gentile; il dovere del nespolo era di alzare e allargar le braccia frondose sopra un futuro sedile; i rosai e i capperi del muro verso il lago dovevano dire a chi passava in barca la fantasia d’un poeta; le agavi vi avrebbero risposto, in un accordo minore, agli aranci, compagni di esilio; finalmente gli alti destini del pino erano di spiegar un grazioso ombrello sulla breve oasi, di porre il suo accento meridionale sopra l’accordo delle agavi e degli aranci, di incorniciar con la sua verde corona il piccolo seno azzurro di Casarico. Addio, addio! Pareva a Franco che le pianticelle gli rispondessero tristemente: “Perché ci lasci? Che sarà di noi? Tua moglie non ci ama come te”.
Intanto la barca veduta da don Giuseppe aveva camminato e passava davanti all’orto, alquanto discosto dalla riva. V’erano un signore e una signora. Il signore si alzò in piedi e salutò con voce squillante: «Addio, don Franco! Evviva!». La signora sventolò il fazzoletto. Erano i Pasotti. Franco salutò col cappello.
I Pasotti! In Valsolda di gennaio! Che ci venivano a fare? E quel saluto! Pasotti che dopo la perquisizione non si era fatto più vedere, Pasotti salutar così? Che voleva dir ciò? Franco, perplesso, salì in casa, diede la notizia. Tutti stupirono e sopra tutti la süra Peppina: «Ma comè? El dis de bon? El sür Controlòr? Poer omasc! Anca la süra Barborin? Poera donnètta!». Si commentò il fatto. Chi supponeva una cosa e chi un’altra. Dopo cinque minuti Pasotti entrò strepitando, trascinandosi dietro la signora Barborin carica di scialli e di fagotti, mezza morta dal freddo. Povera creatura, non sapeva dir altro che «dò ôr50 dò ôr in barca!» mentre suo marito schiamazzava ghignando negli occhi diabolici: «Le fa bene, le fa bene! Le ho cacciato giù un bicchierino di ginepro a Porlezza. Ha fatto smorfie d’inferno, ma sta benone!». La povera sorda, indovinando che parlava del ginepro, girava gli occhi per il soffitto, rifaceva le smorfie di Porlezza. Pasotti non era mai stato così espansivo. Baciò la mano a Luisa, abbracciò l’ingegnere e Franco accompagnando gli atti con effusioni e profluvi di sentimento. «Carissima donna Luisa! Signora ammirabile e perfetta. Car el me Peder! Car el me re de coeur! Il mondo è grande ma on alter Peder el gh’è propri no, va là! E questo don Franco! Caro il mio Francone! Pensare come t’ho veduto io! In sottane e grembialino. Quando andavi a rubar i fichi al prefetto della Caravina! Sto baloss chì!»51
Il «baloss» non faceva il viso più incoraggiante del mondo ma l’altro non se ne dava per inteso. Altrettanto poco poteva intendersi sua moglie con le signore che l’interrogavano.
«Come l’ha mai faa, süra Pasotti», le gridava la signora Peppina, «a vegnì in Valsolda de sto temp chì?» «Oh dèss, la capiss nient, poera donnètta.» Per quanto anche Luisa ed Ester le gridassero nelle orecchie la stessa domanda, per quanto ella spalancasse la bocca, la sorda non capiva, andava rispondendo a caso: «Se ho mangiàa? Se voeui disnà chì?»52. Intervenne Pasotti, disse che in ottobre egli e sua moglie eran partiti per un richiamo di affari, senza fare il bucato, che sua moglie lo andava seccando da un pezzo per questo benedetto bucato, che finalmente si era risolto di accontentarla e di venire. Allora donna Ester si voltò verso la Pasotti a far l’atto di lavare.
La Pasotti guardò suo marito che le teneva gli occhi addosso e rispose: «Sì sì, la bügada, la bügada!». Quell’occhiata, l’impero che lesse negli occhi del Controllore fecero sospettare Luisa che vi fosse sotto un mistero. Questo mistero e le inesplicabili espansioni di Pasotti le suggerirono un altro sospetto. Se fosse venuto per loro? Se nelle cause di questa improvvisa venuta ci avesse parte il viaggio del professore a Lodi? Avrebbe voluto consultarsi col professore, dirgli di fermarsi fino a che i Pasotti fossero partiti; ma come parlargli poi senza che se ne avvedesse Franco? Intanto donna Ester prese congedo e il professore che aveva ottenuto il perdono della capricciosetta, perfidetta signorina, a patto di non domandare il paradiso, ebbe licenza di accompagnarla a casa.
I Pasotti non potevano salire ad Albogasio Superiore fino a che il mezzadro, fatto avvertire subito, non avesse posto loro in ordine e riscaldata almeno una stanza. Parlò subito di piantare un tarocchino in tre con l’ingegnere e Franco. Allora se ne andò anche la signora Peppina e la Pasotti chiese a Luisa di ritirarsi un momento, la pregò di accompagnarla. Appena fu sola coll’amica nella camera dell’alcova si guardò attorno con due occhioni spaventati e poi sussurrò: «Sèm minga chì per la bügada neh, sèm minga chì per la bügada!». Luisa la interrogò silenziosamente, col viso e col gesto, perché a parlar forte in sala avrebbero udito. Stavolta la Pasotti capì, rispose che non sapeva niente, che suo marito non le aveva detto niente, che le aveva imposto la storia del bucato ma che del bucato a lei non importava nulla. Allora Luisa prese un pezzo di carta e scrisse: «Cosa sospetti?». La Pasotti lesse e poi cominciò una mimica complicatissima. Scrollamenti del capo, stralunamenti d’occhi, sospiri, invocazioni al soffitto; pareva che si combattesse dentro di lei una gran battaglia di timori e di speranze. Finalmente fece «ah!», afferrò la penna e scrisse sotto la domanda di Luisa:
«La marchesa!».
Lasciò cader la penna, stette a contemplar l’amica. «L’è a Lod», diss’ella sottovoce. «El Controlòr l’è staa a Lod. Speri comè!53» E poi scappò in sala temendo esser sospettata da suo marito.
Finito il tarocco, Pasotti si accostò a una finestra, disse forte qualche cosa sugli effetti della luce crepuscolare e chiamò Franco. «Bisogna che tu venga stasera da me», gli disse piano, «devo parlarti.» Franco cercò schermirsi. Partiva l’indomani mattina per Milano, lasciava la famiglia per qualche tempo, gli era difficile passar la sera fuori di casa. Pasotti replicò ch’era assolutamente necessario. «Si tratta del tuo viaggio di domani», diss’egli.
1 Lei è una gattamorta ma se tira fuori le unghie è peggio di lui.
2 I ragazzi se li tira tutti dietro.
3 «Che piacere vederla. Il caffè non sarà tanto buono ma è il primo. Peccato che non si può andare a Lugano a prenderlo».
4 «Dico per ridere. Lei capisce bene, Signor Commissario, è questo benedetto omaccio che non capisce. Non ne prendo neanche per me del caffè, pensi un po’. Prendo giusto l’acqua di malva per i giramenti di testa».
5 «Non chiacchierare tanto...».
6 «I gelsomini? Ma il signor Maironi ha il più bel gelsomino della Valsolda, caro Lei!».
7 «Avrebbero un gran piacere».
8 «Sua madre gli dice Topin e suo padre Topon, pensi lei!».
9 «Stamattina il briccone mi ha mangiato mezzo zucchero della zuccheriera».
10 «Eccoti lo zucchero!».
11 «Di cosa vuoi intrigarti, tu?»; «mi intrigo di tutto, di tutti».
12 «Per il muso!»; «Per la coda!».
13 «Dov’è questo pesce?».
14 «Mica pratico!».
15 «Ammazzatevi una sola volta e sarà sufficiente».
16 «Senti un po’: non potresti proprio fare a meno di quelle sei piante di granturco?».
17 «Senti un po’, Luisa; con tutta quest’erba faresti meglio a tenere un paio di pecore?».
18 «Così!».
19 «La carità comincia da me».
20 «Quel che puoi avere, prendilo».
21 «In otto o dieci bicchieri».
22 «Non sarebbe meglio fare una primierina?».
23 «Prima di morire le darò un bacio».
24 «Scappa rosso e butta nero».
25 A punta.
26 «Dai le carte...».
27 «Mio papà vuole ammazzare mia mamma».
28 «Regina, dove siete?» «Qui». «Qui dove?» «Qui...». «Venite fuori, dunque». «No signora». «Perché?» «Ho paura». «Venite fuori che vostro marito vuol darvi un bacetto». «Io no...». «E voi andate a dargli il bacetto sotto la vacca...». «Non modermi, eh!».
29 Tutte balle!
30 «È così sorda!».
31 «Che soffia dentro a quel coso così bene!».
32 Di dita.
33 «Ho così piacere di questi cari fiori!».
34 Abbaia.
35 Tinozze.
36 Pazzerelle.
37 «Oh! Questi zucconi sono troppo asini per fare una simile bravata!».
38 «Io, signor Commissario non mi intendo né mi interesso di Russia, Francia o Inghilterra. Lascio che se la vedano tra loro. Piuttosto, dico la verità, mi fa pena quel povero cane del Papuzza. È buono come un pulcino e tutti lo assediano; lui non chiede aiuto a nessuno e in cinquanta corrono ad aiutarlo e intanto tutti gli sono addosso, e mangia che ti mangia, il povero Papuzza, che vinca o perda, mi resta in camicia».
39 «Però anche la pelle, eh! La cara pellaccia! Pensare che è solo una!».
40 «Sono vecchia? Sono brutta? Non ti piaccio? Non fa niente!».
41 È scritto così.
42 «Eccoti!».
43 «Voi credete che andare in Paradiso sia come andare nella barca del Parella. Andiamo gente! C’è sempre posto! Lo capite o no che non è così?».
44 «Zitta, stupidina».
45 Del candelotto e del vino bianco.
46 «Se si potesse evitare di crepare!».
47 Duecentomila zucche!
48 «Come si fa ora con questo contrabbasso che non capisce nulla?».
49 Topolino.
50 Due ore.
51 Questo briccone qui!
52 «Se ho già mangiato, se voglio pranzare qui?».
53 Ci spero proprio!