Parte prima
1. Risotto e tartufi
Soffiava sul lago una breva fredda, infuriata di voler cacciar le nubi grigie, pesanti sui cocuzzoli scuri delle montagne. Infatti, quando i Pasotti, scendendo da Albogasio Superiore, arrivarono a Casarico, non pioveva ancora. Le onde stramazzavano tuonando sulla riva, sconquassavan le barche incatenate, mostravano qua e là, sino all’opposta sponda austera del Doi, un lingueggiar di spume bianche. Ma giù a ponente, in fondo al lago, si vedeva un chiaro, un principio di calma, una stanchezza della breva; e dietro al cupo monte di Caprino usciva il primo fumo di pioggia. Pasotti, in soprabito nero di cerimonia, col cappello a staio in testa e la grossa mazza di bambù in mano, camminava nervoso per la riva, guardava di qua, guardava di là, si fermava a picchiar forte la mazza a terra, chiamando quell’asino di barcaiuolo che non compariva.
Il piccolo battello nero con i cuscini rossi, la tenda bianca e rossa, il sedile posticcio di parata piantato a traverso, i remi pronti e incrociati a poppa, si dibatteva, percosso dalle onde, fra due barconi carichi di carbone che oscillavano appena.
«Pin!», gridava Pasotti sempre più arrabbiato. «Pin!»
Non rispondeva che l’eguale, assiduo tuonar delle onde sulla riva, il cozzar delle barche fra loro. Non c’era, si sarebbe detto, un cane vivo in tutto Casarico. Solo una vecchia voce flebile, una voce velata da ventriloquo, gemeva dalle tenebre del portico:
«Andiamo a piedi! Andiamo a piedi!»
Finalmente il Pin comparve dalla parte di San Mamette.
«Oh là!», gli fece Pasotti alzando le braccia. Quegli si mise a correre.
«Animale!», urlò Pasotti. «T’han posto un nome di cane per qualche cosa!»
«Andiamo a piedi, Pasotti», gemeva la voce flebile. «Andiamo a piedi!»
Pasotti tempestò ancora col barcaiuolo che staccava in fretta la catena del suo battello da un anello infisso nella riva. Poi si voltò con una faccia imperiosa verso il portico e accennò a qualcuno, piegando il mento, di venire.
«Andiamo a piedi, Pasotti!», gemette ancora la voce.
Egli si strinse nelle spalle, fece con la mano un brusco atto di comando, e discese verso il battello.
Allora comparve ad un’arcata del portico una vecchia signora, stretta la magra persona in uno scialle d’India, sotto al quale usciva la gonna di seta nera, chiusa la testa in un cappellino di città, sperticatamente alto, guernito di rosette gialle e di pizzi neri. Due ricci neri le incorniciavano il viso rugoso dove s’aprivano due grandi occhi dolci, annebbiati, una gran bocca ombreggiata di leggeri baffi.
«Oh, Pin», diss’ella giungendo i guanti canarini e fermandosi sulla riva a guardar pietosamente il barcaiuolo. «Dobbiamo proprio andare con un lago di questa sorte?»
Suo marito le fece un altro gesto più imperioso, un’altra faccia più brusca della prima. La povera donna sdrucciolò giù in silenzio al battello e vi fu fatta salire, tutta tremante.
«Mi raccomando alla Madonna della Caravina, caro il mio Pin», diss’ella. «Un lago così brutto!»
Il barcaiuolo negò del capo, sorridendo.
«A proposito», esclamò Pasotti «hai la vela?»
«Ce l’ho su in casa», rispose Pin. «Debbo andare a prenderla? La signora qui avrà paura, forse. E poi, ecco là che vien l’acqua!»
«Va’!», fece Pasotti.
La signora, sorda come un battaglio di campana, non udì verbo di questo colloquio, si meravigliò molto di veder Pin correr via e chiese a suo marito dove andasse.
«La vela!», le gridò Pasotti sul viso.
Colei stava lì tutta china, a bocca spalancata, per raccogliere un po’ di voce, ma inutilmente.
«La vela!», ripeté l’altro, più forte, con le mani accostate al viso.
Ella sospettò d’aver capito, trasalì di spavento, fece in aria col dito un geroglifico interrogativo. Pasotti rispose tracciando pure in aria un arco immaginario e soffiandovi dentro; poi affermò del capo, in silenzio. Sua moglie, convulsa, si alzò per uscire.
«Vado fuori!», diss’ella angosciosamente. «Vado fuori! Vado a piedi!»
Suo marito l’afferrò per un braccio, la trasse a sedere, le piantò addosso due occhi di fuoco.
Intanto il barcaiuolo ritornò con la vela. La povera signora si contorceva, sospirava, aveva le lagrime agli occhi, gittava alla riva delle occhiate pietose, ma taceva. L’albero fu rizzato, i due capi inferiori della vela furono legati, e la barca stava per prender il largo, quando un vocione mugghiò dal portico:«To’, to’, il signor Controllore!», e ne sbucò un pretone rubicondo, con una pancia gloriosa, un gran cappello di paglia nera, il sigaro in bocca e l’ombrello sotto il braccio.
«Oh, curatone!», esclamò Pasotti. «Bravo! È di pranzo? Viene a Cressogno con noi?»
«Se mi toglie!», rispose il curato di Puria, scendendo verso il battello. «To’ to’ che c’è anche la signora Barborin!»
Il faccione diventò amabile amabile, il vocione dolce dolce.
«Ha in corpo una paura d’inferno, povera diavola», ghignò Pasotti, mentre il curato faceva degli inchinetti e dei sorrisetti alla signora, cui quel minacciato soprappiù di peso metteva un nuovo terrore. Ella si mise a gesticolare in silenzio come se gli altri fossero stati sordi peggio di lei. Additava il lago, la vela, la mole del curato enorme, alzava gli occhi al cielo, si metteva le mani sul cuore, se ne copriva il viso.
«Peso mica tanto», disse il curato, ridendo. «Tâs giò, ti», soggiunse rivolto a Pin, che aveva sussurrato irriverentemente: «Ona bella tenca»1.
«Sapete», esclamò Pasotti, «cosa faremo perché le passi la paura? Pin, hai un tavolino e un mazzo di tarocchi?»
«Magari un po’ unti», rispose Pin, «ma li ho.»
Ci volle del buono per far capire alla signora Barbara, detta comunemente Barborin, di che si trattasse adesso. Non lo voleva intendere, neanche quando suo marito le cacciò in mano, per forza, un mazzo di carte schifose.
Ma per ora non era possibile, giuocare. La barca avanzava faticosamente, a forza di remi, verso la foce del fiume di S. Mamette, dove si sarebbe potuto alzar la vela, e i cavalloni sbattuti indietro dalle rive si arruffavano con i sopravvegnenti, facevano ballare il battello fra un bollimento di creste spumose. La signora piangeva. Pasotti imprecava a Pin che non s’era tenuto bastantemente al largo. Allora il curatone, afferrati due remi, ben piantata la gran persona in mezzo al battello, si mise a lavorar di schiena, tanto che in quattro colpi si uscì dal cattivo passo. La vela fu alzata, e il battello scivolò via liscio, a seconda, con un sommesso gorgoglio sotto la chiglia, con ondular lento e blando. Il prete sedette allora sorridente accanto alla signora Barborin che chiudeva gli occhi e mormorava giaculatorie. Ma Pasotti batteva impaziente il mazzo dei tarocchi sul tavolino e bisognò giuocare.
Intanto la pioggia grigia veniva avanti adagio adagio, velando le montagne, soffocando la breva. La signora andava ripigliando fiato a misura che ne perdeva il vento, giuocava rassegnata, pigliandosi in pace gli spropositi propri e le sfuriate di suo marito. Quando la pioggia incominciò a mormorar sulla tenda del battello e sull’onda morta che andava tutt’ora, quasi senz’aria, agli scogli del Tentiòn; quando il barcaiuolo pensò bene di calar la vela e di riprendere i remi, la signora Barborin respirò del tutto. «Caro il mio Pin!», diss’ella teneramente; e si mise a giuocar a tarocchi con uno zelo, con un brio, con una beatitudine in viso, che non si turbavano né di spropositi né di strapazzate.
Molti giorni di breva e di pioggia, di sole e di tempeste sorsero e tramontarono sul lago di Lugano, sui monti della Valsolda, dopo quella partita a tarocchi giuocata dalla signora Pasotti, da suo marito, controllore delle dogane a riposo, e dal curatone di Puria, nel battello che costeggiava lento, in mezzo ad una nebbiolina di pioggia, le scogliere di S. Mamette e Cressogno. Quando rivedo nella memoria qualche casupola nera che ora specchia nel lago le sue gale di zotica arricchita, qualche gaia palazzina elegante che ora decade in un silenzioso disordine; il vecchio gelso di Oria, il vecchio faggio della Madonnina, caduti con le generazioni che li veneravano; tante figure umane piene di rancori che si credevano eterni, di arguzie che parevano inesauribili, fedeli ad abitudini di cui si sarebbe detto che solo un cataclisma universale potesse interromperle, figure non meno familiari di quegli alberi alle generazioni passate, e scomparse con essi, quel tempo mi pare lontano da noi molto più del vero, come al barcaiuolo Pin, se si voltava a guardar il ponente, parevano lontani più del vero, dietro la pioggia, il San Salvatore e i monti di Carona.
Era un tempo bigio e sonnolento, proprio come l’aspetto del cielo e del lago, caduta la breva che aveva fatto tanta paura alla signora Pasotti. La gran breva del 1848, dopo aver dato poche ore di sole e lottato un pezzo con le nuvole pesanti, spenta da tre anni, lasciava piovere e piovere i giorni quieti, foschi, silenziosi dove cammina questa mia umile storia.
I re e le regine di tarocchi, il Mondo, il Matto e il Bagatto erano in quel tempo e in quel paese personaggi d’importanza, minute potenze tollerate benevolmente nel seno del grande tacito impero d’Austria, dove le loro inimicizie, le loro alleanze, le loro guerre erano il solo argomento politico di cui si potesse liberamente discutere. Anche Pin, remando, ficcava avidamente sopra le carte della signora Barborin il suo adunco naso curioso, e lo ritraeva a malincuore. Una volta restò dal remare per tenervelo su e vedere come la povera donna se la sarebbe cavata da un passo difficile, cosa avrebbe fatto di una certa carta pericolosa a giuocare e pericolosa a tenere. Suo marito picchiava impaziente sul tavolino, il curatone palpava con un sorriso beato le proprie carte, e lei si stringeva le sue al petto, ridendo e gemendo, sbirciando ora l’uno ora l’altro de’ suoi compagni.
«Ha il Matto in mano», sussurrò il curato.
«Fa sempre così, lei, quando ha il Matto», disse Pasotti e gridò picchiando:
«Giù questo Matto!».
«Io lo butto nel lago», diss’ella. Gittò un’occhiata a prora e trovò lo scampo di osservare che si toccava Cressogno, ch’era tempo di smettere.
Suo marito sbuffò alquanto, ma poi si rassegnò a infilare i guanti.
«Trota, oggi, curato», diss’egli mentre l’umile sposa glieli abbottonava. «Tartufi bianchi, francolini e vin di Ghemme.»
«Lo sa, lo sa, lo sa?», esclamò il curato. «Lo so anch’io. Me l’ha detto il cuoco, ieri, a Lugano. Che miracoli, eh, la signora marchesa!»
«Ma, miracoli? Pranzo di Sant’Orsola, intanto; e poi invito di signore: le Carabelli madre e figlia; quelle Carabelli di Loveno, sa?»
«Ah sì?», fece il curato. «E ci sarebbe qualche progetto...? Ecco là don Franco in barca. Ehi, che bandiera, il giovinotto! Non gliel’ho mai vista.»
Pasotti alzò la tenda del battello, per vedere. Poco discosto una barca dalla bandiera bianca e azzurra si cullava in un comune moto di saliscendi, in una comune stanchezza con l’onda. A poppa, sotto la bandiera, v’era seduto don Franco Maironi, l’abiatico della vecchia marchesa Orsola che dava il pranzo.
Pasotti lo vide alzarsi, dar di piglio ai remi e allontanarsi remando adagio, verso l’alto lago, verso il golfo selvaggio del Dòi; la bandiera bianca e azzurra si spiegava tutta, sventolava sulla scia.
«Dove va, quell’originale?», diss’egli. E brontolò fra i denti, con una forzata raucedine da barabba2 milanese:
«Antipatico!»
«Dicono ch’è così di talento!», osservò il prete.
«Testa pessima», sentenziò l’altro. «Molta boria, poco sapere, nessuna civiltà.»
«È mezzo marcio», soggiunse. «Se fossi io quella signorina...»
«Quale?», chiese il curato.
«La Carabelli.»
«Tenga a mente, signor Controllore. Se i francolini e i tartufi bianchi sono per la popòla3 Carabelli, son buttati via.»
«Sa qualche cosa, Lei?», disse piano Pasotti con una vampa di curiosità negli occhi.
Il prete non rispose perché in quel punto la prora strisciò sulla rena, toccò all’approdo. Egli uscì il primo; quindi Pasotti diede a sua moglie, con una rapida mimica imperiosa, non so quali istruzioni, e uscì anche lui. La povera donna venne fuori per l’ultima, tutta rinfagottata nel suo scialle d’India, tutta curva sotto il cappellone nero dalle rosette gialle, barcollando, mettendo avanti le grosse mani dai guanti canarini. I due ricci pendenti a lato della sua mansueta bruttezza avevano un particolare accento di rassegnazione sotto l’ombrello del marito, proprietario, ispettore e geloso custode di tante eleganze.
I tre salirono al portico col quale la villetta Maironi cavalca, da ponente, la via dell’approdo alla chiesa parrocchiale di Cressogno. Il curato e Pasotti fiutavano, tra un sospiro di dolcezza e l’altro, certo indistinto odore caldo che vaporava dal vestibolo aperto della villa.
«Ehi, risotto, risotto», sussurrò il prete con un lume di cupidigia in faccia.
Pasotti, naso fine, scosse il capo aggrottando le ciglia, con manifesto disprezzo di quell’altro naso.
«Risotto no», diss’egli.
«Come, risotto no?», esclamò il prete, piccato. «Risotto sì. Risotto ai tartufi; non sente?»
Si fermarono ambedue a mezzo il vestibolo, fiutando l’aria come bracchi, rumorosamente.
«Lei, caro il mio curato, mi faccia il piacere di parlare di posciandra», disse Pasotti dopo una lunga pausa, alludendo a certa rozza pietanza paesana di cavoli e salsicce. «Tartufi si, risotto no.»
«Posciandra, posciandra», borbottò l’altro, un poco offeso. «Quanto a quello...»
La povera mansueta signora capì che litigavano, si spaventò e si mise a cacciar puntate al soffitto coll’indice destro, per significare che lassù potevano udire. Suo marito le afferrò la mano in aria, le accennò di fiutare e poi le soffiò nella bocca spalancata: «Risotto!»
Lei esitava, non avendo udito bene. Pasotti si strinse nelle spalle. «Non capisce un accidente», diss’egli: «il tempo cambia»; e salì la scala seguito da sua moglie. Il grosso curato volle dare un’altra occhiata alla barca di don Franco. «Altro che Carabelli!», pensò; e fu richiamato subito dalla signora Barborin che gli raccomandò di metterlesi vicino a tavola. Aveva tanta soggezione, povera creatura!
I fumi delle casseruole empivano anche la scala di tepide fragranze. «Risotto no», disse piano l’avanguardia. «Risotto sì», rispose sullo stesso tono la retroguardia. E così continuarono, sempre più piano, «risotto sì», «risotto no» fino a che Pasotti spinse l’uscio della sala rossa, abituale soggiorno della padrona di casa.
Un brutto cagnolino smilzo trottò abbaiando incontro alla signora Barborin che cercava di sorridere mentre Pasotti metteva la sua faccia più ossequiosa e il curato, entrando ultimo con un faccione dolce dolce, mandava in cuor suo all’inferno la maledetta bestia.
«Friend! Qua! Friend!», disse placidamente la vecchia marchesa. «Cara signora, caro Controllore, curato.»
La grossa voce nasale parlava con la stessa flemma, con lo stesso tono agli ospiti e al cane. S’era alzata per la signora Barborin ma senza fare un passo dal canapè, e stava lì in piedi, una tozza figura dagli occhi spenti e tardi sotto la fronte marmorea e la parrucca nera che le si arrotondava in due grossi lumaconi sulle tempie. Il viso doveva essere stato bello un tempo e serbava, nel suo pallore giallastro di marmo antico, certa maestà fredda che non mutava mai, come lo sguardo come la voce, per qualsiasi moto dell’animo. Il curatone le fece due o tre inchini a scatto, stando alla larga, ma Pasotti le baciò la mano, e la signora Barborin, sentendosi gelare sotto quello sguardo morto, non sapeva come muoversi né che dire. Un’altra signora si era alzata dal canapè all’alzarsi della marchesa e stava guardando con sussiego la Pasotti, quel povero mucchietto di roba vecchia rinfagottato di roba nuova. «La signora Pasotti e suo marito», disse la marchesa. «Donna Eugenia Carabelli.»Donna Eugenia piegò appena il capo. Sua figlia, donna Carolina, stava in piedi presso la finestra discorrendo con una favorita della marchesa, nipote del suo fattore.
La marchesa non stimò necessario d’incomodarla per presentarle i nuovi venuti e, fattili sedere, riprese una pacata conversazione con donna Eugenia sulle loro comuni conoscenze milanesi, mentre Friend faceva, fiutando e starnutendo, il giro dello scialle canforato della Pasotti, si strofinava sui polpacci del curato e guardava Pasotti con i suoi occhietti umidi e afflitti, senza toccarlo, come se intendesse che il padrone dello scialle indiano, malgrado la sua faccia amabile, gli avrebbe torto il collo volentieri.
La marchesa Orsola teneva in moto la sua solita grossa voce sonnolenta e la Carabelli si studiava, rispondendo, di rendere amabile la sua grossa voce imperiosa, ma non sfuggì agli occhi penetranti e al maligno ingegno di Pasotti che le due vecchie dame dissimulavano, la Maironi più e la Carabelli meno, un comune malcontento. Ciascuna volta che l’uscio si apriva, gli occhi spenti dell’uno e gli occhi foschi dell’altra si volgevano là. Una volta entrò il prefetto del Santuario della Caravina col piccolo signor Paolo Sala detto «el Paolin» e col grosso signor Paolo Pozzi detto «el Paolon», compagni indivisibili. Un’altra volta entrò il marchese Bianchi, di Oria, antico ufficiale del regno d’Italia, con la sua figliuola, una nobile figura di vecchio cavalleresco soldato accanto a una seducente figura di fanciulla briosa.
Sì la prima che la seconda volta un’ombra di corruccio passò sul viso della Carabelli. Anche la figlia di costei girava pronta gli occhi all’uscio, quando si apriva, ma poi chiacchierava e rideva più di prima.
«E don Franco, marchesa? Come sta don Franco?», disse il maligno Pasotti, con voce melliflua, porgendo alla marchesa la tabacchiera aperta.
«Grazie tante», rispose la marchesa piegandosi un poco e ficcando due grosse dita nel tabacco: «Franco? a dirle la verità sono un poco in angustia. Stamattina non si sentiva bene e adesso non lo vedo. Non vorrei...»
«Don Franco?», disse il marchese. «È in barca. L’abbiamo visto un momento fa che remava come un barcaiuolo.»
Donna Eugenia spiegò il ventaglio.
«Bravo!», diss’ella facendosi vento in fretta e in furia. «È un bellissimo divertimento.»
Chiuse il ventaglio d’un colpo e si mise a mordicchiarlo con le labbra.
«Avrà avuto bisogno di prender aria», osservò la marchesa nel suo naso imperturbabile.
«Avrà avuto bisogno di prender acqua», mormorò il prefetto della Caravina con gli occhi scintillanti di malizia. «Piove!»
«Don Franco viene adesso, signora marchesa», disse la nipote del fattore dopo aver dato un’occhiata al lago.
«Va bene», rispose il naso sonnacchioso. «Spero che stia meglio, altrimenti non dirà due parole. Un ragazzo sanissimo ma apprensivo. Senta, Controllore; e il signor Giacomo? Perché non si vede?»
«El sior Zacomo», incominciò Pasotti canzonando il signor Giacomo Puttini, un vecchio celibatario veneto che dimorava da trent’anni in Albogasio Superiore, presso la villa Pasotti. «El sior Zacomo...»
«Adagio», lo interruppe la dama. «Non le permetto di burlarsi dei veneti, e poi non è vero che nel Veneto si dica Zacomo.»
Ella era nata a Padova, e benché abitasse a Brescia da quasi mezzo secolo, il suo dire lombardo era ancora infetto da certe croniche patavinità. Mentre Pasotti protestava, con cerimonioso orrore, di aver solamente inteso imitar la voce dell’ottimo suo vicino ed amico, l’uscio si aperse una terza volta. Donna Eugenia, sapendo bene chi entrava, non degnò voltarsi a guardare, ma gli occhi spenti della marchesa si posarono con tutta flemma su don Franco.
Don Franco, unico erede del nome Maironi, era figlio di un figlio della marchesa, morto a ventott’anni. Aveva perduto la madre nascendo ed era sempre vissuto nella potestà della nonna Maironi. Alto e smilzo, portava una zazzera di capelli fulvi, irti, che l’aveva fatto soprannominare el scovin d’i nivol, lo scopanuvoli. Aveva occhi parlanti, d’un ceruleo chiarissimo, una scarna faccia simpatica, mobile, pronta a colorarsi e a scolorarsi. Quella faccia accigliata diceva ora molto chiaramente: «Son qui, ma mi seccate assai».
«Come stai, Franco?», gli chiese la nonna, e soggiunse tosto senz’aspettare risposta: «Guarda che donna Carolina desidera udire quel pezzo di Kalkbrenner.»
«Oh no, sa», disse la signorina volgendosi al giovine con aria svogliata. «L’ho detto, sì, ma poi non mi piace, Kalkbrenner. Preferisco chiacchierare con le signorine.»
Franco parve soddisfatto dell’accoglienza ricevuta e andò senza aspettar altro a discorrere col curatone d’un buon quadro antico che dovevano vedere insieme nella chiesa di Dasio. Donna Eugenia Carabelli fremeva.
Ell’era venuta con la figliuola da Loveno dopo un’arcana azione diplomatica cui avevano preso parte altre potenze. Se questa visita si dovesse fare o no, se il decoro della famiglia Carabelli lo permettesse, se vi fosse quella probabilità di successo che donna Eugenia richiedeva, erano state le ultime questioni definite dalla diplomazia; perché malgrado la vecchia relazione della mamma Carabelli e della nonna Maironi i giovani non s’erano veduti che un paio di volte alla sfuggita ed erano i loro involucri di ricchezza e di nobiltà, di parentele e di amicizie, che si attraevano come si attraggono una goccia d’acqua marina e una goccia d’acqua dolce, benché le creature minuscole che vivono nell’una e nell’altra sieno condannate, se le due gocce si uniscono, a morirne. La marchesa aveva vinto il suo punto, apparentemente in grazia dell’età, sostanzialmente in grazia dei denari, era stato accettato che l’intervista seguisse a Cressogno, perché se Franco non aveva di proprio che la magra dote della madre, diciotto o ventimila lire austriache, la nonna sedeva, con quella sua flemmatica dignità, su qualche milione. Ora donna Eugenia, vedendo il contegno del giovine, fremeva contro la marchesa, contro chi aveva esposto lei e la sua ragazza a una umiliazione simile. Se avesse potuto soffiar via d’un colpo la vecchia, suo nipote, la casa tetra e la compagnia uggiosa, lo avrebbe fatto con gioia; ma conveniva dissimulare, parer indifferente, inghiottir lo smacco e il pranzo.
La marchesa serbava la sua esterna placidità marmorea benché avesse il cuore pieno di dispetto e di maltalento contro suo nipote. Egli aveva osato chiederle, due anni prima, il permesso di sposare una signorina della Valsolda, civile, ma non ricca né nobile. Il reciso rifiuto della nonna aveva reso impossibile il matrimonio e persuasa la madre della ragazza a non più ricevere in casa don Franco; ma la marchesa tenne per fermo che quella gente non avesse levato l’occhio da’ suoi milioni. Era quindi venuta nel proposito di dar moglie a Franco assai presto per toglierlo dal pericolo; e aveva cercato una ragazza ricca ma non troppo, nobile ma non troppo, intelligente ma non troppo. Trovatane una di questo stampo, la propose a Franco che si sdegnò fieramente e protestò di non voler prender moglie. La risposta era ben sospetta ed ella vigilò allora più che mai sui passi del nipote e di quella «madama Trappola», poiché chiamava graziosamente così la signorina Luisa Rigey.
La famiglia Rigey, composta di due sole signore, Luisa e sua madre, abitava in Valsolda, a Castello: non era difficile sorvegliarla. Pure la marchesa non poté venir a capo di nulla. Ma Pasotti le riferì una sera con molta ipocrisia d’esitazioni e d’inorriditi commenti che il prefetto della Caravina, stando a crocchio nella farmacia di S. Mamette con lui Pasotti, col signor Giacomo Puttini, col Paolin e col Paolon, aveva tenuto questo bel discorso: «Don Franco fa il morto da burla fino a che la vecchia lo farà sul serio». Udita questa fine arguzia, la marchesa rispose nel suo pacifico naso «grazie tante» e cambiò discorso. Seppe quindi che la signora Rigey, sempre infermiccia, si trovava a mal partito per una ipertrofia di cuore e le parve che l’umore di Franco se ne risentisse. Proprio allora le fu proposta la Carabelli. La Carabelli non era forse interamente di suo gusto, ma di fronte all’altro pericolo non c’era da esitare. Parlò a Franco. Stavolta Franco non si sdegnò, ascoltò distratto e disse che ci avrebbe pensato. Fu la sola ipocrisia, forse, della sua vita. La marchesa giuocò audacemente una carta grossa, fece venire la Carabelli.
Ora lo vedeva bene, il giuoco era perduto. Don Franco non s’era trovato all’arrivo delle signore e aveva poi fatto una sola apparizione di pochi minuti. I suoi modi, durante quei pochi minuti, erano stati cortesi, ma la sua faccia no; la sua faccia aveva parlato, secondo il solito, talmente chiaro, che la marchesa, affibbiandogli, come subito fece, una indisposizione, non poté ingannar nessuno. Però la vecchia dama non si persuase d’aver giuocato male. Già dall’età dei primi giudizi in poi, ella si era messa al punto di non riconoscersi mai un solo difetto né un solo torto, di non ferirsi mai, volontariamente, nel suo nobile e prediletto sé. Ora le piacque di supporre che dopo il suo sermone matrimoniale al nipote, gli fosse pervenuta nel mistero una parolina di miele, di vischio e di veleno. Se il suo disinganno aveva qualche lieve conforto era nel contegno della signorina Carabelli che mal celava la vivacità del proprio risentimento. Ciò non piaceva alla marchesa. Il prefetto della Caravina non aveva torto se non forse un poco nella forma quando diceva sottovoce di lei: «L’è on’ Aüstria p...»4. Come la vecchia Austria di quel tempo, la vecchia marchesa non amava nel suo impero gli spiriti vivaci. La sua volontà di ferro non ne tollerava altre vicino a sé. Le era già di troppo un indocile Lombardo-Veneto come il signor Franco, e la ragazza Carabelli, che aveva l’aria di sentire e volere per conto proprio, sarebbe probabilmente riuscita in casa Maironi una suddita incomoda, una torbida Ungheria.
Si annunciò il pranzo. Nella faccia rasa e nell’abito grigio, mal tagliato, del domestico si riflettevano le idee aristocratiche della marchesa, temperate di abitudini econome.
«E questo signor Giacomo, Controllore?», disse ella, senza muoversi.
«Temo, marchesa», rispose Pasotti. «L’ho incontrato stamattina e gli ho detto: “Dunque, signor Giacomo, ci vediamo a pranzo?”. È parso che gli mettessi una biscia in corpo. Ha cominciato a contorcersi e a soffiare: “Sì, credo, no so, forse, no digo, apff, ecco, propramente, Controllore gentilissimo, no so, insomma, e apff!”. Non ne ho cavato altro.»
La marchesa chiamò a sé il domestico e gli disse qualche cosa sottovoce. Quegli fece un inchino e si ritirò. Il curato di Puria si dondolava in su e in giù accarezzandosi le ginocchia nel desiderio del risotto; ma la marchesa pareva petrificata sul canapè e perciò si petrificò anche lui. Gli altri si guardavano, muti.
La povera signora Barborin, avendo visto il domestico, meravigliata di quella immobilità, di quelle facce sbalordite, inarcò le sopracciglia, interrogò con gli occhi ora suo marito, ora il Puria, ora il prefetto, sino a che una fulminea occhiata di Pasotti petrificò lei pure. “Se fosse bruciato il pranzo!”, pensava componendosi un viso indifferente. “Se ci mandassero a casa! Che fortuna!”. Dopo due minuti il domestico ritornò e fece un inchino.
«Andiamo», disse la marchesa, alzandosi.
La comitiva trovò in sala da pranzo un personaggio nuovo, un vecchietto piccolo, curvo, con due occhietti buoni e un lungo naso spiovente sul mento.
«Veramente, signora marchesa», disse costui tutto timido e umile, «io avrei già pranzato.»
«Si accomodi, signor Viscontini», rispose la marchesa che sapeva praticare l’arte insolente della sordità come tutti coloro che assolutamente vogliono un mondo secondo il proprio comodo e il proprio gusto.
L’ometto non osò replicare, ma neanche osava sedere.
«Coraggio, signor Viscontini!», gli disse il Paolin che gli era vicino. «Cosa fa?»
«Fa il quattordici di coppe», mormorò il prefetto. Infatti l’ottimo signor Viscontini, accordatore di pianoforti, venuto la mattina da Lugano per accordare il piano dei signori Zelbi di Cima e quello di don Franco, aveva pranzato al tocco a casa Zelbi, era quindi venuto a casa Maironi, e ora gli toccava di sostituire il signor Giacomo perché altrimenti i commensali sarebbero stati tredici.
Un liquido bruno fumava nella zuppiera d’argento.
«Risotto no», sussurrò Pasotti al Puria passandogli dietro. Il faccione dolce non diede segno di avere udito.
I pranzi di casa Maironi erano sempre lugubri e questo accennava ad esserlo anche più del solito. Per compenso era pure molto più fino. Pasotti e il Puria si guardavano spesso, mangiando, per esprimere ammirazione e quasi per congratularsi a vicenda del godimento squisito, e se mai qualche occhiata di Pasotti sfuggiva al Puria, la signora Barborin, vicina di quest’ultimo, lo avvertiva con un timido tocco del gomito.
Le voci che più si udivano erano quelle del marchese e di donna Eugenia. Il grande naso aristocratico del Bianchi, il suo fine sorriso di galante cavaliere si volgevano spesso alla bellezza, languente ma non ancora spenta, della dama. Milanesi ambedue del miglior sangue, si sentivano uniti in una certa superiorità non solamente rispetto ai piccoli borghesi della mensa, ma rispetto altresì ai padroni di casa, nobili provinciali. Il marchese era l’affabilità stessa e avrebbe conversato amabilmente anche col commensale più modesto; ma donna Eugenia, nell’amarezza dell’animo suo, nel suo disgusto del luogo e delle persone, s’attaccò a lui come al solo degno, marcatamente anche per far dispetto agli altri. Ella lo imbarazzò dicendogli forte che non capiva com’egli potesse essersi innamorato dell’orrida Valsolda. Il marchese, che vi si era ritirato da molti anni a vita quieta e vi aveva veduto nascere la sua unica figliuola, donna Ester, rimase sulle prime un poco sconcertato da quel discorso insolente verso parecchi dei convitati, ma poi fece una briosa difesa del paese. La marchesa non mostrò turbarsi; il Paolin, il Paolon e il prefetto, valsoldesi, tacevano con tanto di muso.
Pasotti recitò solennemente un ampolloso elogio del «Niscioree», la villa Bianchi, presso Oria. Il Bianchi, leale uomo, che in passato non aveva avuto troppo a lodarsi del Pasotti, non parve gradir l’elogio. Egli invitò la Carabelli al Niscioree. «A piedi no, tu, Eugenia», disse la marchesa, sapendo che l’amica sua era tribolata dallo spavento d’ingrassare. «Bisogna vedere com’è stretta la strada, dalla Ricevitoria al Niscioree! Tu non ci passi di sicuro.» Donna Eugenia protestò con sdegno. «L’è minga el Cors de Porta Renza», disse il marchese, «ma l’è poeu nanca, disgraziatamente, le chemin du Paradis!»5
«Quell no! Propi no! Ghe l’assicuri mi!», esclamò il Viscontini riscaldato, per disgrazia, da troppi bicchieri di Ghemme. Tutti gli occhi si volsero a lui e il Paolin gli disse qualche cosa sottovoce. «Se son matto?», rispose l’ometto acceso in faccia. «Nient del tütt! Le dico che ona bolgira compagna non la mi è mai più toccata in vita mia.»6 E qui raccontò che la mattina, venendo da Lugano e avendo preso un po’ di freddo in barca, era disceso al Niscioree per proseguire il viaggio a piedi; che tra quei due muri, dove non si potrebbe voltare un asino, aveva incontrato le guardie di finanza, le quali lo avevano insultato perché non era disceso allo sbarco della Ricevitoria; che l’avevano condotto alla maledetta Ricevitoria; che portava in mano un rotolo di musica manoscritta e che l’animale del Ricevitore, pigliando le crome e le biscrome per corrispondenze politiche segrete, gliel’aveva trattenuto.
Silenzio profondo. Dopo qualche momento la marchesa sentenziò che il signor Viscontini aveva torto marcio. Non doveva sbarcare al Niscioree, ciò era proibito. Quanto al signor Ricevitore egli era una persona rispettabilissima. Pasotti confermò, con una faccia severa. «Ottimo funzionario», diss’egli. «Ottima canaglia», mormorò il prefetto fra i denti. Franco, che sulle prime pareva pensare a tutt’altro, si scosse e lanciò a Pasotti un’occhiata sprezzante.
«Dopo tutto», soggiunse la marchesa, «trovo che col pretesto della musica manoscritta si potrebbe benissimo...»
«Certo!», disse il Paolin, austriacante per paura, mentre la padrona di casa lo era per convinzione.
Il marchese, che nel 1815 aveva spezzata la spada per non servire gli Austriaci, sorrise e disse solo:
«Là! C’est un peu fort!»7.
«Ma se tutti sanno ch’è una bestia, quel Ricevitore!», esclamò Franco.
«Scusi, don Franco...», fece Pasotti.
«Ma che scusi!», interruppe l’altro. «È un bestione!»
«È un uomo coscienzioso», disse la marchesa, «un impiegato che fa il proprio dovere.»
«Allora le bestie saranno i suoi padroni!», ribatté Franco.
«Caro Franco», replicò la voce flemmatica, «questi discorsi in casa mia non si fanno. Grazie a Dio non siamo mica in Piemonte, qui.» Pasotti fece una sghignazzata d’approvazione. Allora Franco, preso furiosamente il proprio piatto a due mani lo spezzò d’un colpo sulla tavola. «Jesüsmaria!», esclamò il Viscontini, e il Paolon, interrotto nelle sue laboriose operazioni di mangiatore sdentato: «Euh!». «Sì, sì», disse Franco alzandosi con la faccia stravolta, «è meglio che me ne vada!» E uscì dal salotto. Subito donna Eugenia si sentì male, bisognò accompagnarla fuori. Tutte le signore, meno la Pasotti, le andaron dietro da una parte mentre il domestico entrava dall’altra portando un pasticcio di risotto. Il Puria guardò Pasotti con un riso trionfante, ma Pasotti finse di non avvedersene. Tutti erano in piedi. Il Viscontini, reo apparente, continuava a dire: «Mi capissi nagott, mi capissi nagott»8, e il Paolin, seccatissimo del pranzo guastato, gli brontolò: «Cossa l’ha mai de capì Lü?»9. Il marchese, molto scuro, taceva. Finalmente il Pasotti, reo di fatto, presa un’aria d’affettuosa tristezza, disse come tra sé: «Peccato! Povero don Franco! Un cuor d’oro, una buona testa, e un temperamento così! Proprio peccato!».
«Ma!», fece il Paolin. E il Puria, tutto contrito: «Sono gran dispiaceri!».
Aspetta e aspetta, le signore non ritornavano. Allora qualcuno cominciò a muoversi. Il Paolin e il Puria si accostarono lentamente, con le mani dietro la schiena, alla credenza, contemplarono il pasticcio di risotto. Il Puria chiamò dolcemente Pasotti, ma Pasotti non si mosse. «Volevo solo dirle», fece il curatone, coprendo il suo trionfo in modo da lasciarlo e non lasciarlo vedere, «che ci sono i tartufi bianchi.»
«Direi che qui non mancano neppure i tartufi neri», osservò il marchese pigiando un poco sulle due ultime parole.
2. Sulla soglia d’un’altra vita
«Canaglia!», fremeva don Franco salendo la scala che conduceva alla sua camera. «Pezzo d’asino d’un austriaco!». Si vendicava su Pasotti di non poter insultar la nonna e le stesse consonanti della parola austriaco gli servivano tanto bene per stritolarsi fra i denti la propria collera e spremerne, gustarne il sapore. Quando fu in camera la collera gli svampò.
Si gittò in una poltrona, in faccia alla finestra spalancata, guardando il lago triste nel pomeriggio nebbioso, e, al di là del lago, i monti deserti. Mise un gran respiro. Ah come stava bene lì, solo, ah che pace, ah che aria diversa da quella del salotto, che aria cara, piena de’ suoi pensieri e de’ suoi amori! Aveva un gran bisogno di abbandonarsi ad essi ed essi lo ripresero subito, gli cacciaron di mente le Carabelli, il Pasotti, la nonna, il bestione del Ricevitore. Essi? No, era un pensiero solo, un pensiero fatto di amore e di ragione, di ansia e di gioia, di tanti dolci ricordi e insieme di trepida aspettazione, perché qualche cosa di solenne si avvicinava e sarebbe giunto nelle ombre della notte. Franco guardò l’orologio. Erano le quattro meno un quarto. Ancora sette ore. Si alzò, si buttò a braccia conserte sul davanzale della finestra.
Ancora sette ore e comincerebbe per lui un’altra vita. Fuori delle pochissime persone che dovevano prender parte all’avvenimento, nemmanco l’aria sapeva che quella sera stessa, verso le undici, don Franco Maironi avrebbe sposato la signorina Luisa Rigey.
La signora Teresa Rigey, madre di Luisa, aveva un tempo lealmente pregato Franco di piegare al volere della nonna, di astenersi dal visitar la sua casa, di non pensare più a Luisa, la quale, dal canto suo, era stata contenta che per la dignità della famiglia, per il decoro di sua madre, si troncassero le relazioni ufficiali, ma non dubitava della fede di Franco né d’essergli già legata per sempre. Egli studiava ora leggi, privatamente, all’insaputa della nonna, per dedicarsi a una professione e aver modo di bastare a sé. Ma la signora Teresa contrasse da tante agitazioni una malattia di cuore che nel 1851, in fine d’agosto, si aggravò subitamente. Franco le scrisse chiedendole almeno il permesso di vederla poiché non poteva compiere «il suo dovere d’assisterla». La signora non credette di consentire e il giovine se ne disperò, le fece intendere che considerava Luisa come sua fidanzata davanti a Dio e che sarebbe morto prima di abbandonarla. Allora la povera donna, sentendosi mancar la vita ogni giorno, accorandosi di veder la sua cara figliuola in uno stato così incerto e considerando la ferma volontà del giovine, concepì il desiderio intenso che le nozze, poiché dovevan seguire, seguissero al più presto. Tutto fu combinato frettolosamente con l’aiuto del curato di Castello e del fratello della signora Rigey, l’ingegnere Ribera di Oria, addetto all’Imperiale R. Ufficio delle Pubbliche Costruzioni in Como. Le intelligenze furono queste. Le nozze si farebbero segretamente; Franco resterebbe presso la nonna e Luisa presso la madre, sino a che venisse il momento opportuno di confessar tutto alla marchesa. Franco sperava nell’appoggio di monsignor Benaglia, vescovo di Lodi, vecchio amico della famiglia, ma occorreva il fatto compiuto. Se il cuore della marchesa si indurisse, com’era probabile, gli sposi e la signora Teresa prenderebbero stanza nella casa che l’ingegnere Ribera possedeva in Oria. Il Ribera, celibe, manteneva ora del proprio la famiglia di sua sorella; terrebbe poi anche Franco in luogo di figliuolo.
Fra sette ore, dunque.
La finestra guardava sulla lista di giardino che fronteggiava la villa verso il lago, e sulla riva di approdo. Nei primi tempi del suo amore Franco stava lì a spiar il venire e l’approdare d’una certa barca, l’uscirne d’una personcina snella, leggera come l’aria, che mai mai non guardava su alla finestra. Ma poi un giorno egli era disceso ad incontrarla ed ella aveva aspettato un momento ad uscire per accettare l’aiuto, ben inutile, della sua mano. Lì sotto, nel giardino, egli le aveva dato per la prima volta un fiore, un profumato fiore di mandevilia suaveolens. Lì sotto si era un’altra volta ferito con un temperino, abbastanza seriamente, tagliando per lei un ramoscello di rosaio, ed ella gli aveva dato col suo turbamento un delizioso segno del suo amore. Quante gite con lei e altri amici, prima che la nonna sapesse, alle rive solitarie del monte Bisgnago là in faccia, quante colazioni e merende a quella cantina del Dòi! Con quanta dolcezza viva nel cuore di sguardi incontrati Franco tornava a casa e si chiudeva nella sua stanza a richiamarseli, a esaltarsene nella memoria! Queste prime emozioni dell’amore gli ritornavano adesso in mente, non ad una ad una ma tutte insieme, dalle acque e dalle rive tristi dove gli occhi suoi fisi parevano smarrirsi piuttosto nelle ombre del passato che nelle nebbie del presente. Vicino alla mèta, egli pensava i primi passi della lunga via, le vicende inattese, l’aspetto della sospirata unione così diverso nel vero da quel ch’era apparso nei sogni, al tempo della mandevilia e delle rose, delle gite sul lago e sui monti. Non sospettava certo, allora, di dovervi arrivare così, di nascosto, fra tante difficoltà, fra tante angustie. Pure, pensava adesso, se il matrimonio si fosse fatto pubblicamente, pacificamente, col solito proemio di cerimonie ufficiali, di contratti, di congratulazioni, di visite, di pranzi, tanto tedio sarebbe riuscito più ripugnante all’amore che questi contrasti.
Lo scosse la voce del prefetto che lo chiamava dal giardino per annunciargli la partenza delle Carabelli. Franco pensò che se scendeva avrebbe dovuto fare delle scuse e preferì non lasciarsi vedere. «Doveva romperglielo sulla faccia il piatto!», gli stridette su il prefetto tra le mani accostate alle guance. «Doveva romperglielo sulla faccia!»
Poi se n’andò e Franco vide il barcaiuolo delle Carabelli scendere ad apparecchiar la barca. Lasciò allora la finestra e seguendo i pensieri di prima, aperse il cassettone, stette lì a contemplare, come distratto, uno sparato di camicia ricamata, dove lucevano già certi bottoncini di brillanti che suo padre aveva portati alle nozze proprie. Gli dispiaceva andar all’altare senza un segno di festa, ma questo segno, si capisce bene, non doveva essere facilmente visibile.
Nel cassettone profumato d’ireos tutto era disposto con la particolare eleganza dell’ordine fatto da uno spirito intelligente, e nessuno vi metteva le mani tranne lui. Invece le sedie, lo scrittoio, il piano erano tanto disordinatamente ingombri che pareva esser passato per le due finestre della camera un uragano di libri e di carte. Certi volumi di giurisprudenza dormivano sotto un dito di polvere, e non una foglia della piccola gardenia in vaso, sul davanzale della finestra di levante, ne aveva un atomo solo. Questi eran già sufficienti indizi, là dentro, del bizzarro governo d’un poeta. Un’occhiata ai libri e alle carte ne avrebbe fornite le prove.
Franco aveva la passione della poesia ed era poeta vero nelle squisite delicatezze del cuore; come scrittore di versi non poteva dirsi che un buon dilettante senza originalità. I suoi modelli prediletti erano il Foscolo e il Giusti; li adorava veramente e li saccheggiava entrambi, perché l’ingegno suo, entusiasta e satirico a un tempo, non era capace di crearsi una forma propria, aveva bisogno d’imitare. Conviene anche dire, per giustizia, che a quel tempo i giovani possedevano comunemente una cultura classica fattasi rara di poi; e che dagli stessi classici venivano educati a onorare l’imitazione come una pratica virtuosa e lodevole. Frugando fra le sue carte per cercarvi non so cosa, gli vennero alle mani i seguenti versi dedicati a un tale di sua conoscenza e nostra conoscenza, che rilesse con piacere e ch’io riferisco per saggio del suo stile satirico:
Falso occhio mobile,
Mento pelato,
Lingua di vipera,
Cor di castrato,
Brache policrome,
Bisunto saio,
Maiuscolissimo
Cappello a staio.
Ecco l’immagine
Del vil Tartufo
Che l’uman genere
E il cielo ha stufo.
Il Giusti e la passione d’imitarlo erano quasi soli in colpa di tanta bile, perché davvero Franco non ne aveva nel fegato una così gran dose. Aveva collere pronte, impetuose, fugaci; non sapeva odiare e nemmanco risentirsi a lungo contro alcuno. Un saggio dell’altra sua maniera poetica stava sul leggìo del piano, in un foglietto tutto sgorbi e cancellature:
A Luisa
Ove l’aëreo tuo pensile nido
Una balza ventosa incoronando
Ride alla luna ed ai cadenti clivi
Ch’educan uve a la tua mensa e rose
Al capo tuo, purpurëi ciclami
A me, sogni e fragranze, o mia Luisa,
Da l’orror di quest’ombre ti figura
L’amoroso mio cor. Tacita siedi
E da l’alto balcon già non rimiri
Le bianche plaghe d’occidente, i chiari
Monti ed il lago vitrëo, sereno,
Riscintillante a l’astro; ma quest’una
Tenebra esplori, l’aura interrogando
Vocal che va tra i mobili oleandri
De la terrazza e freme il nome mio.
Forse piaceva a Franco d’improvvisar sul piano con questi suoi versi davanti agli occhi. Appassionato per la musica più ancora che per la poesia, se l’era comperato lui, quel piano, per centocinquanta svanziche, dall’organista di Loggio, perché il mediocre piano viennese della nonna, intabarrato e rispettato come un gottoso di famiglia, non gli poteva servire. Lo strumento dell’organista, corso e pesto da due generazioni di zampe incallite sulla marra, non mandava più che una comica vocina nasale sopra un tintinnio sottile come d’infiniti bicchierini minuti e fitti. Ciò era quasi indifferente, per Franco; egli aveva appena posato le mani sullo strumento che la sua immaginazione si accendeva, l’estro del compositore passava in lui e nel calore della passione creatrice gli bastava un fil di suono per veder l’idea musicale e inebbriarsene. Un Erard gli avrebbe dato soggezione, gli avrebbe lasciato minor campo alla fantasia, gli sarebbe stato men caro, insomma, della sua spinetta.
Franco aveva troppe diverse attitudini e inclinazioni, troppa foga, troppo poca vanità e forse anche troppo poca energia di volere per sobbarcarsi a quel noioso metodico lavoro manuale che si richiede a diventar pianisti. Però il Viscontini era entusiasta del suo modo di suonare; Luisa, la sua fidanzata, non divideva interamente il gusto classico di lui ma ne ammirava, senza fanatismi, il tocco; quando, pregato, egli faceva mugghiare e gemere classicamente l’organo di Cressogno, il buon popolo, intontito dalla musica e dall’onore, lo guardava come avrebbe guardato un predicatore incomprensibile, con la bocca aperta e gli occhi riverenti. Malgrado tutto questo, Franco non avrebbe potuto cimentarsi, nei salotti cittadini, con tanti piccoli dilettanti incapaci d’intendere e di amare la musica. Tutti o quasi tutti lo avrebbero vinto di agilità e di precisione, avrebbero ottenuto maggiori applausi, quand’anche non fosse riuscito ad alcuno di far cantare il piano, come lo faceva cantar lui, sopra tutto negli adagi di Bellini e di Beethoven, suonando con l’anima nella gola, negli occhi, nei muscoli del viso, nei nervi delle mani che facevan tutt’uno con le corde del piano.
Un’altra passione di Franco erano i quadri antichi. Le pareti della sua camera ne avevano parecchi, la più parte croste. Scarso di esperienza perché non aveva viaggiato, pronto a pigliar fuoco nella fantasia, costretto ad accordar i desideri molti con i quattrini pochi, credeva facilmente le asserite fortune di altri cercatori tapini, n’era spesso infocato, accecato e precipitato su certi cenci sporchi, che, se costavano poco, valevano meno. Non possedeva di passabile che una testa d’uomo della maniera del Morone e una Madonna col Bambino della maniera del Dolci. Egli battezzava, del resto, i due quadretti per Morone e Dolci, senz’altro.
Com’ebbe rilette e rigustate le strofe ispirategli dal Tartufo Pasotti, tornò a frugare nel caos dello scrittoio e ne cavò un foglietto di carta Bath per scrivere a monsignor Benaglia, la sola persona che gli potesse giovare in avvenire presso la nonna. Gli parve doverlo mettere a parte dell’atto che stava per compiere, delle ragioni che avevano consigliato la sua fidanzata e lui di addivenirvi in questo modo penoso, della speranza che avevano d’essere aiutati da lui quando venisse il momento d’aprir tutto alla nonna. Stava ancora pensando con la penna in mano, davanti alla carta bianca, quando la barca delle Carabelli passò sotto la sua finestra. Poco dopo udì partire la gondola del marchese e la barca del Pin. Suppose che la nonna, rimasta sola, lo facesse chiamare, ma non ne fu nulla. Passato un po’ di tempo in quest’aspettazione, si rimise a pensare alla sua lettera e ci pensò tanto, rifece l’esordio tante volte e procedette anche poi tanto adagio, con tanti pentimenti, che la lettera non era ancora finita quando gli convenne accendere il lume.
La chiusa gli riuscì più facile. Egli vi raccomandava la sua Luisa e sé alle preghiere del vecchio vescovo e vi esprimeva una fiducia in Dio così candida e piena che avrebbe toccato il cuore più incredulo.
Focoso e impetuoso com’era, Franco aveva tuttavia la semplice tranquilla fede d’un bambino. Punto orgoglioso, alieno dalle meditazioni filosofiche, ignorava la sete di libertà intellettuale che tormenta i giovani quando la loro ragione ed i loro sensi cominciano a trovarsi a disagio nel duro freno di una credenza positiva. Non aveva dubitato un istante della sua religione, ne eseguiva scrupolosamente le pratiche senza domandarsi mai se fosse ragionevole di credere e di operare così. Non teneva però affatto del mistico né dell’asceta. Spirito caldo e poetico, ma nello stesso tempo chiaro ed esatto, appassionato per la natura e per l’arte, preso da tutti gli aspetti piacevoli della vita, rifuggiva naturalmente dal misticismo. Non s’era conquistata la fede e non aveva mai vôlti lungamente a lei tutti i suoi pensieri, non aveva potuto esserne penetrato in tutti i suoi sentimenti. La religione era per lui come la scienza per uno scolaro diligente che ha la scuola in cima de’ suoi pensieri e vi è assiduo, non trova pace se non ha fatto i suoi compiti, se non si è preparato alle ripetizioni, ma poi quando ha compiuto il proprio dovere, non pensa più al professore né ai libri, non sente il bisogno di regolarsi ancora secondo fini scientifici o programmi scolastici. Perciò egli pareva spesso non seguire altro nella vita che il suo generoso cuore ardente, le sue inclinazioni appassionate, le impressioni vivaci, gli impeti della sua natura leale, ferita da ogni viltà, da ogni menzogna, intollerante d’ogni contraddizione e incapace di infingersi.
Aveva appena suggellata la lettera quando si bussò all’uscio. La signora marchesa faceva dire a don Franco di scendere per il rosario. In casa Maironi si recitava il rosario tutte le sere fra le sette e le otto, e i servi avevan l’obbligo di assistervi. Lo intuonava la marchesa, troneggiando sul canapè, girando gli occhi sonnolenti sulle schiene e sulle gambe dei fedeli prosternati per diritto e per traverso, quale nella luce più opportuna ad un devoto atteggiamento e quale nell’ombra più propizia ad un sonnellino proibito. Franco entrò in sala mentre la voce nasale diceva le soavi parole «Ave Maria, gratia plena» con quella flemma, con quella untuosità, che sempre gli mettevano in corpo una tentazione indiavolata di farsi turco. Il giovane andò a cacciarsi in un angolo scuro e non aperse mai bocca. Gli era impossibile di rispondere con divozione a quella voce irritante. Non fece che immaginare un probabile interrogatorio imminente, e masticare risposte sdegnose.
Finito il rosario, la marchesa aspettò un momento in silenzio e poi disse le sacramentali parole:
«Carlotta, Friend!»
Carlotta, la vecchia cameriera, aveva l’incarico di pigliare, finito il rosario, Friend in braccio e di portarlo a dormire.
«È qui, signora marchesa», disse Carlotta.
Ma Friend, se era lì, si trovò altrove quando colei, chinatasi, allungò le mani. Era di buon umore, quella sera, il vecchio Friend, e gli piacque di giuocare a non lasciarsi prendere, provocando Carlotta, sgusciandole sempre di mano, scappando sotto il piano o sotto il tavolino a guardar con un ironico scodinzolamento la povera donna che gli diceva «ven, cara, ven, cara», con la bocca e «brütt moster»10 con il cuore.
«Friend!», fece la marchesa. «Andiamo! Friend! Da bravo!»
Franco bolliva. Venutogli tra le gambe l’antipatico mostricino infetto dell’egoismo e della superbia della sua padrona, lo scosse da sé, lo fece ruzzolare tra le unghie di Carlotta che gli diede per proprio conto una rabbiosa stretta e se lo portò via rispondendo perfidamente ai suoi guaiti: «Cossa t’han faa, poer Friend, cossa t’han faa, di’ sü!»11.
La marchesa non disse parola né il suo viso marmoreo tradì il suo cuore. Diede al cameriere l’ordine di dire al prefetto della Caravina, se venisse, e anche a qualsiasi altro, che la padrona era andata a letto. Franco si mosse per uscire anche lui dietro ai servi, ma si trattenne subito onde non aver l’aria di fuggire. Prese sulla caminiera un numero della I.R. Gazzetta di Milano, sedette presso sua nonna e si mise a leggere, aspettando.
«Mi congratulo tanto», cominciò subito la voce sonnacchiosa, «della bella educazione e dei bei sentimenti che ci avete fatto vedere oggi.»
«Accetto», rispose Franco senza levar gli occhi dal giornale.
«Bene, caro», replicò la nonna imperturbata. E soggiunse:
«Ho piacere che quella signorina vi abbia conosciuto; così, se mai sapeva di qualche progetto, sarà ben contenta che non se ne parli più».
«Contenti tutt’e due», disse Franco.
«Voi non sapete niente affatto se sarete contento. Specialmente se avete ancora le idee d’una volta.»
Udito questo, Franco posò il giornale e guardò la nonna in faccia.
«Cosa succederebbe», diss’egli, «se avessi ancora le idee d’una volta?»
Non parlò stavolta in tono di sfida, ma con serietà tranquilla.
«Ecco, bravo», rispose la marchesa. «Spieghiamoci chiaro. Spero e credo bene che un certo caso non succederà mai, ma, se succedesse, non state a credere che alla mia morte ci sarà qualche cosa per voi, perché io ho già pensato in modo che non ci sarà niente.»
«Figùrati!», fece il giovine, indifferente.
«Questi sono i conti che dovrete fare con me», proseguì la marchesa. «Poi ci sarebbero quelli da fare con Dio.»
«Come?», esclamò Franco. «I conti con Dio li farò prima che con te e non dopo!»
Quando la marchesa era côlta in fallo tirava sempre diritto nel suo discorso come se niente fosse.
«E grossi», diss’ella.
«Ma prima!», insistette Franco.
«Perché», continuò la vecchia formidabile, «se si è cristiani si ha il dovere d’obbedire a suo padre e a sua madre e io rappresento vostro padre e vostra madre.»
Se l’una era tenace, l’altro non l’era meno.
«Ma Dio vien prima!», diss’egli.
La marchesa suonò il campanello e chiuse la discussione così:
«Adesso siamo intesi».
Si alzò dal canapè all’entrar della Carlotta e disse placidamente:
«Buona notte».
Franco rispose «buona notte» e riprese la Gazzetta di Milano.
Appena uscita la nonna, gittò via il foglio, strinse i pugni, si sfogò senza parole, con un furibondo sbuffo, e saltò in piedi, dicendo forte:
«Ah, meglio, meglio, meglio! Meglio così», fremeva in sé. «Meglio non condurla mai, la mia Luisa, in questa maledetta casa, meglio non farle soffrir mai questo impero, questa superbia, questa voce, questo viso, meglio viver di pane e d’acqua e aspettar il resto da qualunque lavoro cane, piuttosto che dalle mani della nonna: meglio far l’ortolano, maledetto sia, far il barcaiuolo, far il carbonaio!»
Salì nella sua camera, risoluto di romperla con tutti i riguardi. «I conti con Dio?», esclamò sbattendosi l’uscio dietro. «I conti con Dio se sposo Luisa? Ah vada tutto, cosa me ne importa, mi vedano, mi sentano, mi facciano la spia, glielo dicano, glielo contino, gliela cantino che mi fanno un piacerone!»
Si vestì in fretta e in furia, urtando nelle seggiole, aprendo e chiudendo il cassettone a colpi. Mise un abito nero, per sfida; discese le scale rumorosamente, chiamò il vecchio domestico, gli disse che sarebbe stato fuori tutta la notte, e senza badare alla faccia tra sbalordita e sgomenta del pover’uomo, a lui molto devoto, si slanciò in istrada, si perdette nelle tenebre.
Egli era fuori da due o tre minuti, quando la marchesa, già coricata, mandò Carlotta a vedere chi fosse venuto giù correndo dalle scale. Carlotta riferì ch’era stato don Franco e dovette subito ripartire con una seconda missione. «Cosa voleva don Franco?». Stavolta la risposta fu che don Franco era uscito per un momento. Questo momento fu pietosamente aggiunto dal vecchio servitore. La marchesa ordinò a Carlotta di andarsene lasciando il lume acceso. «Ritornate quando suonerò», diss’ella.
Dopo mezz’ora ecco il campanello.
La cameriera corre dalla padrona.
«È ancora fuori don Franco?»
«Sì, signora marchesa.»
«Spegnete il lume, prendete la calza, mettetevi in anticamera e quando sarà rientrato venite a dirmelo.»
Ciò detto la marchesa si girò sul fianco verso la parete, voltando all’attonita e malcontenta cameriera l’enigma bianco, uguale, impenetrabile del suo berretto da notte.
3. Il gran passo
Quella stessa sera, alle dieci in punto, l’ingegnere Ribera batteva due colpi discreti alla porta del signor Giacomo Puttini in Albogasio Superiore. Poco dopo si apriva una finestra sopra il suo capo e vi compariva al chiaro di luna il vecchio visetto imberbe del «sior Zacomo».
«Ingegnere pregiatissimo, mia riverenza», disse egli. «Vien subito la servente a verzeghe»12.
«Non occorre», rispose l’altro. «Non salgo. È ora di partire. Venga giù Lei addirittura.»
Il signor Giacomo cominciò a soffiare e battere le palpebre.
«La mi perdoni», diss’egli nel suo linguaggio misto di tutti gl’ingredienti. «La mi perdoni, ingegnere pregiatissimo. Gavarìa13 propramente necessità...»
«Di cosa?», fece l’ingegnere seccato. La porta si aperse e comparve la gialla faccia grifagna della serva.
«Oh scior parent!», diss’ella rispettosamente. Vantava non so quale affinità con la famiglia dell’ingegnere, e lo chiamava sempre così. «A sti òr chì? L’è staa forsi a trovà la sciora parenta?»14
La «sciora parenta» era la sorella dell’ingegnere, la signora Rigey.
L’ingegnere si contentò di rispondere: «Oh Marianna, vi saluto, neh?», e salì le scale seguito da Marianna col lume.
«Mia riverenza», cominciò il signor Giacomo venendogli incontro con un altro lume. «Capisco e riconosco la inconvenienza grande, ma propramente...»
Il visetto raso e roseo del signor Giacomo, posato sopra un cravattone bianco e una piccola smilza personcina chiusa in un soprabitone nero, esprimeva nei moti convulsi delle labbra e delle sopracciglia, negli occhi dolenti, la più comica inquietudine.
«Cosa c’è di nuovo?», chiese l’ingegnere alquanto brusco. Egli, l’uomo più retto e schietto che fosse al mondo, compativa poco le esitazioni del povero timido signor Giacomo.
«La permetta», cominciò il Puttini; e, voltosi alla serva, le disse aspramente:
«Andè via, vu; andè in cusina; vegnì quando che ve ciamarò; andè, digo! Obedì! Abiè rispeto! Comando mi! Son paron mi!»
Era la curiosità della serva, la sua noncuranza impertinente delle istruzioni superiori che accendevano nel «sior Zacomo» questo furore dispotico.
«Euh, che diavol d’on omm!», rispose colei, alzando rabbiosamente il lume in aria. «L’ha de vosà15 a quela manera lì? Coss’el dis, scior parent?»
«Sentite», fece l’ingegnere. «Invece di menar la lingua, non fareste meglio ad andar fuori dei piedi?»
Marianna se n’andò brontolando e il signor Giacomo si fece a informare l’ingegnere pregiatissimo con molti ma, se, digo, e propramente, degl’intimi suoi pensieri. Egli aveva promesso di assistere come testimonio alle nozze segrete di Luisa, ma ora, sul punto di andar a Castello, gli era venuta una gran paura di compromettersi.
Era primo deputato politico, come si chiamava allora la suprema autorità comunale. Se il riveritissimo I.R. Commissario di Porlezza venisse a sapere di questo pasticcio, come la intenderebbe? E quella signora marchesa? «Una donna cattiva, ingegnere pregiatissimo; una donna vendicativa.» Ed egli aveva già tanti altri fastidi. «Ghe xe anca quel maledeto toro!» Questo toro, soggetto d’una questione fra il comune d’Albogasio e l’alpador o appaltatore dell’Alpe, dei pascoli alti, era da due anni un incubo mortale per il povero signor Giacomo che, quando parlava delle sue disgrazie, incominciava sempre con la «perfida servente» e finiva col toro: «Ghe xe anca quel maledeto toro!». E così dicendo alzava il suo visetto, i suoi occhi pieni di una esecrazione dolorosa, scoteva le mani su verso il ciglione della montagna imminente alla sua casa, verso il domicilio del bestione diabolico. Ma l’ingegnere che mostrava in quella sua bella faccia d’impavido galantuomo una disapprovazione continua, un disgusto crescente dell’ometto pusillanime che gli si contorceva davanti, dopo parecchi «oh povero me!» che avevano per sottinteso “in che compagnia sono!” perdette ogni pazienza, e inarcando le braccia con i gomiti in fuori e scotendole come se tenesse le redini di un ronzino poltrone, esclamò: «Ma cosa mai, ma cosa mai! Pare impossibile! Questi son discorsi da fatuo, caro signor Giacomo. Non avrei mai creduto che un uomo, dirò così...».
Qui l’ingegnere, non sapendo veramente come dire, come definire il suo interlocutore, non fece che gonfiar le gote, mettendo un lungo mormorio, una specie di rantolo, come se avesse in bocca un epiteto troppo grosso e non potesse sputarlo. Intanto il signor Giacomo, rosso rosso, si affannava a protestare: «Basta, basta, La scusa, son qua, vegno, no La se scalda, no go fato che esprimer un dubio; ingegnere pregiatissimo, Ela conosse el mondo, mi lo go conossuto ma no lo conosso più».
Si ritirò e ricomparve subito tenendo in mano una tuba mostruosa, a larghe tese, che aveva visto l’ingresso di Ferdinando a Verona nel così detto «anno dell’imperatore», nel 1838.
«Credo conveniente», diss’egli, «un tal segno di rispetto e di compiacenza.»
L’ingegnere, vedendo quel coso, esclamò ancora: «Cosa mai, cosa mai?». Ma l’ometto, cerimonioso nell’anima, tenne duro: «Il mio dovere, il mio dovere», e chiamò la Marianna che facesse lume. Costei, quando vide il padrone con quello spettacoloso segno di compiacenza in capo, incominciò a far le meraviglie. «La tasa!», sbuffò il disgraziato signor Giacomo. «Tasì!»16, e appena fuori dell’uscio si sfogò. «No ghe xe ponto de dubio17; quela maledetissima servente sarà la me morte.»
«E perché non la manda via?», chiese l’ingegnere.
Il signor Giacomo aveva posto un piede sul primo scalino della viottola che sale a fianco della casa Puttini, quando quest’acuta interrogazione, penetrandogli come un pugnale nella coscienza, lo fermò di botto.
«Eh!», rispose sospirando.
«Ah!», fece l’ingegnere.
«Cossa vorla?», riprese l’altro dopo una breve pausa. «Questo xe quelo.»
Pronunciata in via di epilogo, secondo un vecchio uso veneto, tale disgraziata identità dei due aggettivi indicativi, il signor Giacomo fece le guance grosse, soffiò con vivacità e si decise a rimettersi in via.
Salirono per alcuni minuti, egli davanti e l’ingegnere dietro, per la stradicciuola faticosa, mal rischiarata da un chiaror di luna perduta fra le nuvole. Non si udivano che i passi lenti, il picchiar delle mazze sul ciottolato e i soffi regolari del signor Giacomo: apff! apff! A piedi della lunga scalinata di Pianca, l’ometto si fermò, si levò il cappello, si asciugò il sudore con un fazzolettone bianco e guardando su al gran noce, alle stalle di Pianca, cui bisognava salire, mise un soffio straordinario.
«Corpo de sbrio baco!»18, diss’egli.
L’ingegnere gli fece coraggio. «Su, signor Giacomo! Per amore della Luisina!»
Il signor Giacomo s’incamminò senz’altro e, guadagnate le stalle, oltre le quali la viottola diventa più umana, parve dimenticare gli scalini e gli scrupoli, la perfida servente e l’I.R. Commissario, la marchesa vendicativa e il maledetto toro, e si mise a parlar con entusiasmo della signorina Rigey.
«No ghe xe ponto de dubio, quando go l’onor de trovarme con So nezza, con la signorina Luisina, digo, me par giusto, La se figura, de trovarme ancora ai tempi de la Baretela, de le Filipuzze, de le tre sorelle Spàresi da S. Piero Incarian e de tante altre de na volta che per so grazia me compativa. Vado giusto de tempo in tempo da la signora marchesa, vedo là qualche volta ste putele del dì d’ancò. No... no... no; no gavemo propramente quel contegno che m’intendo mi; o che semo durete o che semo spuzzete. La varda invece la signorina Luisina come che la sa star con tuti, col zovene e col vecio, col rico e col poareto, co la serva e col piovan. No capisso propramente, come la marchesa...»19
L’ingegnere l’interruppe.
«La marchesa ha ragione», diss’egli. «Mia nipote non è nobile, mia nipote non ha un soldo; come si fa a pretendere che la marchesa sia contenta?»
Il signor Giacomo si fermò alquanto sconcertato, e guardò l’ingegnere battendo i suoi occhi dolenti.
«Ma», diss’egli. «Ela no ghe darà miga rason sul serio?»
«Io?», rispose l’ingegnere. «Io non approvo mai che si vada contro la volontà dei genitori o di chi tiene le loro veci. Ma io, caro signor Giacomo, sono un uomo antiquato come Lei, un uomo del tempo di Carlo V, come si dice qui. Adesso il mondo va diversamente e bisogna lasciarlo andare. Dunque io le mie ragioni le ho dette e poi ho detto: adesso, fate vobis; del resto poi quando avrete deciso, in qualunque modo, ditemi quel che occorre fare e son qua.»
«E cossa dise la signora Teresina?»
«Mia sorella? Mia sorella, poveretta, dice: se li vedo a posto non mi dispiace più di morire.»
Il signor Giacomo soffiò forte come sempre quando udiva quest’ultima sgradevole parola.
«Ma no semo miga a sti passi?»20, diss’egli.
«Eh!», fece l’ingegnere, molto serio. «Speriamo in Domeneddio.»
Toccavano allora quel gomito della viottola che svoltando dagli ultimi campicelli del tenere di Albogasio ai primi del tenere di Castello, gira a sinistra sopra un ciglio sporgente, nell’improvviso cospetto di un grembo precipitoso del monte, del lago in profondo, dei paeselli di Casarico e di S. Mamette, accovacciati sulla riva come a bere, di Castello seduto poco più su, a breve distanza, e là di fronte, del nudo fiero picco di Cressogno, tutto scoperto dai valloni di Loggio al cielo. È un bel posto, anche di notte, al chiaro di luna, ma se il signor Giacomo vi si fermò in attitudine contemplativa e senza soffiare, non fu già perché la scena gli paresse degna dell’attenzione di chicchessia, figurarsi di un primo deputato politico, ma perché avendo una considerazione grave da mettere in luce, sentiva il bisogno di richiamare tutte le sue forze al cervello, di sospendere ogni altro moto, anche quello delle gambe.
«Bela massima», diss’egli. «Speremo in Domenedio. Sissignor. Ma La me permeta de osservar che ai nostri tempi se sentìa parlar ogni momento de grazie ricevute, de conversion, de miracoli, adesso La me diga Ela. El mondo no xe più quelo e me par che Domenedio sia stomegà21. El mondo d’adesso el xe come la nostra ciesa de Albogasio de sora che sti ani Domenedio el ghe vegneva una volta al mese e adesso el ghe vien una volta a l’ano.»
«Senta, caro signor Giacomo», osservò l’ingegnere, impaziente di arrivare a Castello: «se si trasporta la parrocchia da una chiesa all’altra, Domeneddio non c’entra; del resto lasciamo fare a Domeneddio e camminiamo.»
Ciò detto prese un’andatura così lesta che il signor Giacomo, fatti pochi passi, si fermò soffiando come un mantice.
«La perdona», diss’egli, «se obedisso tanto quanto a la natural curiosità de l’omo. Se podaria saver la Sua riverita età?»22
L’ingegnere capì l’antifona e fermatosi un momento si voltò a rispondere quasi sottovoce, con ironica mansuetudine trionfante:
«Più vecchio di Lei».
E riprese spietatamente la via.
«Sono dell’ottantotto, sa!», gemette il Puttini.
«Ed io dell’ottantacinque!», ribatté l’altro senza fermarsi. «Avanti!»
Per fortuna del Puttini non c’erano più che pochi passi a fare. Ecco il muraglione che sostiene il sagrato della chiesa di Castello, ecco la scaletta che mette all’entrata del villaggio. Ora bisognava svoltare nel sottoportico della canonica, cacciarsi alla cieca in un buco nero dove l’immaginazione del signor Giacomo gli rappresentava tanti iniqui sassi sdrucciolevoli, tanti maledetti scalini traditori, ch’egli si piantò sui due piedi e, incrociate le mani sopra il pomo della mazza, parlò in questi termini:
«Corpo de sbrio baco! No, ingegnere pregiatissimo. No, no, no. Propramente mi no posso, mi resto qua. Le vegnarà ben in ciesa23. La ciesa xe qua. Mi speto qua. Corpo de sbrio baco!»
Questo secondo «corpo» il signor Giacomo se lo masticò privatamente in bocca come la chiusa d’un monologo interno sugli accessori dell’impiccio principale in cui s’era messo.
«Aspetti», fece l’ingegnere.
Un fil di luce usciva dalla porta della chiesa. L’ingegnere vi entrò e ne uscì subito col sagrestano che stava preparando gl’inginocchiatoi per gli sposi. Costui recò in soccorso del Puttini la lunga pertica col cerino acceso sulla punta, che serve per accender le candele degli altari. Poté così, fermo sull’entrata del sottoportico, porger via via, quanto era lunga la pertica, il suo lumicino davanti ai piedi del signor Giacomo che, malissimo contento di questa illuminazione religiosa, procedeva brontolando contro le pietre, le tenebre, il moccolo sacro e chi lo teneva, sinché, abbandonato dal sagrestano e abbrancato dall’ingegnere, fu tratto, malgrado il suo muto resistere, come un luccio alla lenza, sulla soglia di casa Rigey.
A Castello, le case che si serrano in fila sul ciglio tortuoso del monte a godersi il sole e la veduta del lago in profondo, tutte bianche e ridenti verso l’aperto, tutte scure verso quell’altra disgraziata fila di case che si attrista dietro a loro, somigliano certi fortunati del mondo che di fronte alla miseria troppo vicina prendono un sussiego ostile, si stringono l’uno all’altro, si aiutano a tenerla indietro. Fra queste gaudenti, casa Rigey è una delle più scure di fronte alla poveraglia delle case villane, una delle più chiare di fronte al sole. Dalla porta di strada un andito stretto e lungo mette ad una loggetta aperta da cui si cala per pochi scalini sulla piccola terrazza bianca che, fra il salotto di ricevimento e un’alta muraglia senza finestre, si affaccia all’orlo del monte, spia giù i burroni ond’esce il Soldo, spia il lago fino ai golfi verdi dei Birosni e del Dòi, fino alle distese serene di là da Caprino e da Gandria.
Il signor Rigey, nato a Milano da padre francese e professore di lingua francese nel collegio di madame Berra, perduto il posto, perduta gran parte delle lezioni private per la fama cresciutagli attorno d’uomo irreligioso, aveva comperato la casetta nel 1825 per ridurvisi da Milano a vivere in quiete e con poca spesa, aveva sposato la sorella dell’ingegnere Ribera ed era morto nel 1844 lasciando a sua moglie una figliuola di quindici anni e poche migliaia di svanziche oltre la casa.
Appena l’ingegnere ebbe bussato alla porta, non tanto piano, si udì un correr leggero nell’andito, fu aperto e una voce non sottile, non argentina, ma inesprimibilmente armoniosa, sussurrò: «Che strepito, zio!». «Oh bella!», fece patriarcalmente l’ingegnere, «ho da picchiar col naso?» La nipote gli turò la bocca con una mano, lo tirò dentro con l’altra, fece un saluto grazioso al signor Giacomo e chiuse la porta; tutto ciò in un attimo, mentre lo stesso signor Giacomo andava soffiando: «Padrona mia riveritissima... me consolo24 propramente...». «Grazie, grazie», fece Luisa, «passi, La prego, devo dire una parola allo zio.»
L’ometto passò con il suo cappellone in mano, e la giovane abbracciò teneramente il suo vecchio zio, lo baciò, gli posò il viso sul petto, tenendogli le braccia al collo.
«Ciao, neh», fece l’ingegnere quasi resistendo a quelle carezze perché vi sentiva una gratitudine di cui non avrebbe sopportate le parole. «Sì, là, basta. Come va la mamma?». Luisa non rispose che con una nuova stretta delle sue braccia. Lo zio era più che un padre per lei, era la Provvidenza della casa, benché nella sua gran bontà semplice neppur sognasse di aver il menomo merito verso sua sorella e sua nipote. Che avrebbero mai fatto senza di lui, povere donne, con quelle magre dodici o quindici migliaia di svanziche lasciate da Rigey? Egli godeva, come ingegnere delle Pubbliche Costruzioni, di un buon stipendio. Viveva parcamente a Como con una vecchia governante e i suoi risparmi passavano a casa Rigey. Aveva sulle prime apertamente e solennemente disapprovata la inclinazione di Luisa per Franco parendogli quello un matrimonio troppo disuguale; ma poiché i giovani erano stati fermi e sua sorella aveva consentito, egli tenendosi la sua opinione per sé, s’era messo ad aiutare in tutto che poteva.
«La mamma?», ripeté.
«Sta benino, stasera, per la consolazione, ma ora è agitata perché mezz’ora fa è venuto Franco e ha raccontato che c’è stata una mezza scena con la nonna.»
«Oh povero me!», fece l’ingegnere, che quando udiva di qualche sproposito altrui soleva commiserarne, con questa esclamazione, se stesso.
«No, zio; Franco ha ragione.»
Luisa pronunziò queste parole con fierezza subitanea. «Ma sì!», esclamò perché lo zio aveva messo un lungo «hm!» dubitativo. «Ha cento ragioni! Ma», soggiunse piano, «dice di essere partito di casa in modo che la nonna verrà molto probabilmente a scoprir tutto.»
«Meglio», disse lo zio, incamminandosi verso la terrazza.
La luna era tramontata, faceva buio. Luisa, sussurrò: «Mamma è qui».
La signora Teresa, tribolata dalla mancanza di respiro, si era fatta trascinare sulla terrazza, nella sua poltrona, per avere un po’ d’aria, un po’ di sollievo.
«Cosa vi pare, Piero?», disse con voce simile nel timbro a quella di Luisa, ma stanca e più dolce: la voce di un cuor mite cui il mondo è amaramente avverso e che cede. «Cosa vi pare che tutte le nostre prudenze non serviranno a niente?»
«Ma no, mamma, questo non si sa ancora, questo non si può dire!»
Mentre Luisa parlava così, Franco che stava nel salotto col curato ne uscì per abbracciar lo zio.
«Dunque?», disse questi stendendogli la mano, perché gli abbracciamenti non erano di suo gusto. «Cosa è successo?»
Franco raccontò l’accaduto velando un poco le espressioni della nonna che potevano riuscire troppo offensive ai Rigey, tacendo affatto la minaccia di non lasciargli un soldo, accusando quasi più la suscettibilità propria che l’insolenza della vecchia, confessando finalmente di aver fatto conoscere, di proposito, la sua intenzione di star fuori tutta la notte. Ciò non poteva a meno di condurre la nonna a scoprir tutto subito, perché lo avrebbe interrogato su quest’assenza, ed egli non voleva mentire, e tacere era come confessare.
«Senti!», esclamò lo zio con l’accento vibrato e con la faccia spanta25 del galantomone che, soffocando in un viluppo di cautele e di dissimulazioni, vi mena dentro due gran gomitate, se ne disbriga e respira: «Vedo che hai avuto torto d’irritar la nonna perché, cosa mai! Bisogna rispettare i vecchi anche nei loro errori; capisco che le conseguenze saranno pessime; ma son più contento così e sarei più contento ancora se tu avessi già detto a tua nonna le cose chiare e tonde. Questo segreto, questo infingersi, questo nascondersi non mi sono mai piaciuti un corno. Cosa mai! L’onest’uomo quello che fa lo dice, alla papale. Tu vuoi ammogliarti contro la volontà della nonna. Bene, almeno non ingannarla!»
«Ma Piero!», esclamò la signora Teresa che, insieme ad uno squisito sentimento della vita come dovrebb’essere, possedeva un senso acuto della vita com’è realmente, e data molto più di suo fratello agli esercizi di pietà, molto più familiare con Dio, riusciva più facilmente a persuadersi di aver ottenuta da Lui, per amor di un bene sostanziale, qualche concessione di forma.
«Ma Piero! Voi non riflettete.» (La signora Teresa, molto più giovane di suo fratello, gli parlava sempre col voi e ne pigliava il tu). «Se la marchesa viene a conoscere il matrimonio in un modo simile e, naturalmente, non vuol saperne di prender Luisa in casa, cosa fanno questi ragazzi? Dove vanno? Qui non c’è posto e quand’anche vi fosse posto non è preparato nulla. In casa vostra nemmeno. Bisogna riflettere. Se si voleva tener la cosa segreta per un mese o due, non era mica per ingannare; era per aver tempo di disporvi la nonna e, se la nonna non volesse piegarsi, di preparar un paio di stanze a Oria.»
«Oh povero me!», fece l’ingegnere. «Ci voglion due mesi per questo? Non par vero.»
Un soffio prolungato, nell’ombra, ricordò in quel punto la presenza del signor Giacomo che stava in un angolo, appoggiato al muro, non osando scostarsene per l’oscurità.
La signora Teresa non l’aveva ancora salutato.
«Oh, signor Giacomo!», diss’ella con grande premura. «Scusi. La ringrazio tanto, sa. Venga qua. Ha sentito quel che si diceva? Dica anche Lei; cosa Le pare?»
«La mia servitù», disse il signor Giacomo dal suo angolo. «Propramente non me movo, perché, con la mia povera vista...»
«Luisa!», fece la signora Teresa. «Porta fuori un lume. Ma ha sentito, signor Giacomo; cosa Le pare? Dica.»
Il signor Giacomo mise nella sua sapienza tre o quattro piccoli soffi frettolosi che significavano: «ahi, questo è un imbarazzo»
«No so», cominciò titubante, «no so, digo adesso, se trovandome a scuro...»26
«Luisa!», chiamò da capo la signora Teresa.
«Eh nossignora, nossignora. M’intendo a scuro de tante cosse che no so. Vogio dir che ne la mia ignoranza no me posso pronunciar. Però, digo, me par che forse se podaria... adesso, digo, mi son qua per el servizio Suo e de la rispettabilissima famegia27, sì ben che no me faria maravegia28 che l’Imperial Regio Commissario, ottima persona ma sustosèta29... ben, basta, no discoremo, mi son qua, però me pararia, digo, che se podesse tirar avanti un pocheto e intanto qua el nostro nobilissimo signor don Franco podaria forse co le bone, cole molesine30... Ben ben ben, per mi, come che Le comanda.»
Furono le proteste violente di Franco che fecero voltare così precipitosamente strada al signor Giacomo. Luisa le appoggiò e la signora Teresa, che forse adesso avrebbe pure inclinato a una dilazione, non osò contraddire.
«Luisa, Franco», diss’ella. «Riconducetemi in salotto.»
I due giovani spinsero insieme, seguiti dallo zio e dal signor Giacomo, la poltrona nel salotto.
Nel passar la soglia Luisa si chinò, baciò la mamma sui capelli e le sussurrò: «Vedrai che tutto andrà bene». Ella credeva di trovar il curato in salotto, ma il curato se l’era svignata per la cucina.
Appena Franco e Luisa ebbero accostata la mamma al tavolo dov’era il lume, capitò il sagrestano ad avvertire che tutto era pronto. Allora la signora Teresa lo pregò di annunciare al curato che gli sposi sarebbero andati in chiesa fra mezz’ora.
«Luisa», diss’ella, fissando sua figlia con uno sguardo significante.
«Sì, mamma», rispose questa; e riprese a voce più alta volgendosi al suo fidanzato: «Franco, la mamma desidera parlarti.»
Il signor Giacomo capì e uscì sulla terrazza. L’ingegnere non capì nulla e sua nipote dovette spiegargli che bisognava lasciar la mamma sola con Franco. L’uomo semplice non ne intendeva bene il perché: allora ella gli prese sorridendo un braccio e lo condusse fuori.
La signora Teresa stese in silenzio la sua bella mano ancora giovane, a Franco, che s’inginocchiò per baciarla.
«Povero Franco!», diss’ella dolcemente.
Lo fece alzare e sedere vicino a sé. Doveva parlargli, disse; e si sentiva tanto poca lena! Ma egli capirebbe molto, anche da poche parole: «Minga vera?»31.
Così dicendo la voce fioca ebbe una soavità infinita.
«Sai», cominciò, «questo non avevo pensato a dirtelo, ma mi è venuto in mente quando tu raccontavi del piatto che hai rotto a tavola. Ti prego di avere riguardo alla situazione dello zio Piero. Egli pensa, nel suo cuore, come te. Se tu avessi veduto le lettere che mi scriveva nel 1848! Ma è impiegato del Governo. Vero che si sente tranquillo nella sua coscienza perché, occupandosi di strade e di acque, sa che serve il suo paese e non i tedeschi; ma certi riguardi vuole e deve averli. Fino a un dato punto bisogna che li abbiate anche voi per amor suo.»
«I tedeschi andranno via presto, mamma», rispose Franco, «ma sta tranquilla, sarò prudente, vedrai.»
«Oh caro, io non ho più niente da vedere. Non ho che a vedervi voi altri due uniti e benedetti dal Signore. Quando i tedeschi saranno andati via, verrete a dirmelo a Looch.»
Portano il nome di Looch i praticelli ombrati di grandi noci dove sta il piccolo camposanto di Castello.
«Ma ti devo parlare di un’altra cosa», proseguì la signora Teresa senza lasciar a Franco il tempo di far proteste. Egli le prese le mani, gliele strinse trattenendo a fatica il pianto.
«Bisogna che ti parli di Luisa», diss’ella. «Bisogna che tu la conosca bene tua moglie.»
«La conosco, mamma! La conosco quanto la conosci tu e più ancora!»
Egli ardeva e fremeva tutto, così dicendo, nell’appassionato amore per lei ch’era la vita della sua vita, l’anima dell’anima sua.
«Povero Franco!», fece la signora Teresa teneramente, sorridendo. «No, ascoltami, vi è qualche cosa che non sai e che devi sapere. Aspetta un poco.»
Aveva bisogno di una sosta, l’emozione le rendeva il respiro difficile e più difficile il parlare. Fece un gesto negativo a Franco che avrebbe pur voluto adoperarsi, aiutarla in qualche modo. Le bastava un po’ di riposo e lo prese appoggiando il capo alla spalliera della poltrona.
Si rialzò presto. «Avrai inteso parlar male», disse, «del povero mio marito, a casa tua. Avrai inteso dire ch’era un uomo senza principii e che ho avuto un gran torto a sposarlo. Infatti egli non era religioso e questa fu la ragione per cui esitai molto prima di decidermi. Sono stata consigliata di cedere perché potevo forse influire bene sopra di lui che aveva un’anima nobile. È morto da cristiano, ho tanta fede di trovarlo in paradiso se il Signore mi fa questa grazia di prendermi con sé; ma fino all’ultima ora parve che non ottenessi nulla. Bene, temo che la mia Luisa, in fondo, abbia le tendenze del suo papà. Me le nasconde, ma capisco che le ha. Te la raccomando, studiala, consigliala, ha un gran talento e un gran cuore, se io non ho saputo far bene con lei, tu fa meglio, sei un buon cristiano, guarda che lo sia anche lei, proprio di cuore; promettimelo, Franco.»
Egli lo promise sorridendo, come se stimasse vani i timori di lei e facesse, per compiacenza, una promessa superflua.
L’ammalata lo guardò, triste. «Credimi, sai», soggiunse, «non sono fantasie. Non posso morire in pace se non la prendi come una cosa seria.» E poi che il giovane ebbe ripetuta la sua promessa senza sorridere, soggiunse:
«Una parola ancora. Quando parti di qua, vai a Casarico dal professor Gilardoni, non è vero?»
«Ma, questo era il piano di prima. Dovevo dire alla nonna che andavo a dormire da Gilardoni per fare poi una gita insieme alla mattina; adesso lo sai come sono venuto via.»
«Vacci lo stesso. Ho piacere che tu ci vada. E poi ti aspetta, non è vero? Dunque ci devi andare. Povero Gilardoni, non è più venuto dopo quella pazzia di due anni or sono. Lo sai, non è vero? Luisa te l’avrà detto?»
«Sì, mamma.»
Questo professor Gilardoni che viveva a Casarico, da eremita, si era molto romanticamente innamorato, qualche anno prima, della signora Teresa e le si era timidamente, reverentemente proposto per marito, ottenendo un tale successo di stupore da togliergli poi il coraggio di ricomparirle davanti.
«Povero uomo!», riprese la signora Rigey. «Quella è stata una stupidità grande, ma è un cuor d’oro, un buon amico, tenetevelo caro. Il giorno prima che gli venisse quell’accesso di pazzia, mi ha fatto una confidenza. Non te la posso ripetere, e anzi ti prego di non parlargliene se non te ne parla lui; ma insomma è una cosa che potrà, in certi casi, aver molta importanza per voi altri, specialmente se avrete figli. Se Gilardoni te ne parla, pensaci prima di dirlo a Luisa. Luisa potrebbe prender la cosa non come va presa. Delibera tu, consigliati con lo zio Piero e poi parla o non parla, secondo la strada che vorrai prendere.»
«Sì, mamma.»
Si picchiò all’uscio, sommessamente, e la voce di Luisa disse:
«È finito?»
Franco guardò l’ammalata. «Avanti», diss’ella. «È ora di andare?»
Luisa non rispose, cinse con un braccio il collo di Franco. S’inginocchiarono insieme davanti alla mamma, le piegarono il capo in grembo. Luisa faceva ogni sforzo per trattenere il pianto, sapendo bene che bisognava evitare alla mamma ogni emozione troppo forte, ma le spalle la tradivano.
«No, Luisa», disse la mamma, «no, cara, no», e le accarezzava il capo. «Ti ringrazio che sei sempre stata una buona figliuola, sai; tanto buona; quietati; son così contenta; vedrai che starò meglio. Andate dunque; datemi un bacio e poi andate, non fate aspettare il signor curato. Dio ti benedica, Luisa; e anche te, Franco.»
Chiese il suo libro di preghiere, si accostò il lume, fece aprire le finestre e l’uscio della terrazza per respirar meglio e mandò via la fantesca che si preparava a tenerle compagnia. Usciti gli sposi, entrò l’ingegnere per salutar sua sorella prima di andare in chiesa.
«Ciao, neh, Teresa.»
«Addio, Piero. Un altro peso sulle vostre spalle, povero Piero.»
«Amen», rispose pacificamente l’ingegnere.
Rimasta sola, la signora Rigey stette ascoltando il rumor dei passi che si allontanavano. Quelli gravi di suo fratello e del signor Giacomo, la coda della colonna, non le lasciavano udire gli altri ch’ella avrebbe voluto accompagnar con l’orecchio quanto era possibile.
Un momento ancora e non intese più nulla. Ebbe l’idea che Luisa e Franco si allontanavano insieme nell’avvenire dove a lei non era dato seguirli che per pochi mesi o forse per pochi giorni; e che non poteva indovinar niente, presentir niente del loro destino. «Poveri ragazzi», pensò. «Chi sa cosa avranno passato fra cinque anni, fra dieci anni!» Stette ancora in ascolto, ma il silenzio era profondo; non entrava per le finestre aperte che il fragor lontano lontano della cascata di Rescia, di là dal lago. Allora, supponendo che fossero già in chiesa, prese il suo libro di preghiere e lesse con fervore.
Si stancò presto, si sentì una gran confusione in testa, le si confusero alla vista anche i caratteri del libro.
La sua mente si assopiva, la volontà era perduta. Presentiva una visione di cose non vere e sapeva di non dormire, comprendeva che non era sogno, ch’era uno stato prodotto dal suo male. Vide aprirsi l’uscio che metteva in cucina ed entrare il vecchio Gilardoni di Dasio, detto «el Carlin de Dàas», padre del professore, agente di casa Maironi per i possessi di Valsolda, morto da venticinque anni. La figura entrò e disse in tono naturale: «Oh sciora Teresa, la sta ben?». Ella credette di rispondere: «Oh Carlin! Bene e voi?», ma in fatto non aperse bocca. «Ghe l’hoo chì la lettra», riprese la figura agitando trionfalmente una lettera. «L’hoo portada chì per Lee»32. E posò la lettera sul tavolo.
La signora Teresa vide chiaramente e con un senso di vivo piacere questa lettera sudicia e ingiallita dal tempo, senza busta e con la traccia di una piccola ostia rossa. Le parve dire: «Grazie, Carlin. E adesso andate a Dasio?». «Sciora no», rispose il Carlin. «Voo a Casarech dal me fioeu»33.
L’ammalata non vide più il Carlin, ma vide ancora la lettera sul tavolo. La vedeva chiaramente eppure non era certa che vi fosse; nel suo cervello inerte durava l’idea vaga di altre allucinazioni passate, l’idea della malattia sua nemica, sua padrona violenta. Aveva l’occhio vitreo, la respirazione penosa e frequente.
Un suono di passi affrettati la scosse, la richiamò quasi del tutto in sé. Quando Luisa e Franco si precipitarono in camera dalla terrazza, non si accorsero, causa il paralume della lucerna, che la fisionomia della mamma fosse stravolta. Inginocchiati accanto a lei, la coprirono di baci, attribuirono all’emozione quel respiro affannoso. A un tratto l’ammalata sollevò il capo dalla spalliera della poltrona, tese le mani avanti, guardando e indicando qualche cosa.
«La lettera», diss’ella.
I due giovani si voltarono e non videro niente.
«Che lettera, mamma?», disse Luisa. Nello stesso punto notò l’espressione del viso di sua madre, diede un’occhiata a Franco per avvertirlo. Non era la prima volta, durante la sua malattia, che la mamma soffriva di allucinazioni. All’udirsi domandare «che lettera?» ella capì, fece «oh!», ritirò le mani, se ne coperse il viso e pianse silenziosamente.
Confortata dalle carezze de’ suoi figli, si ricompose, li baciò, stese la mano a suo fratello e al signor Giacomo, che non avevano inteso affatto cosa fosse accaduto e accennò a Luisa di andar a pigliar qualche cosa. Si trattava di una torta e di una bottiglia preziosa di vino del Niscioree, regalata con altre parecchie, tempo addietro, dal marchese Bianchi che aveva per la signora Rigey una singolare venerazione.
Il signor Giacomo, non vedendo l’ora di svignarsela, incominciava a dimenarsi, a soffiare, guardando l’ingegnere.
«Signora Luisina», diss’egli vedendo uscire la novella sposa. «La scusa, son propramente per domandar licenza...»
«No, no», lo interruppe con un fil di voce la signora Teresa, «aspetti un poco.»
Luisa scomparve e Franco scivolò pure fuori dalla stanza dietro sua moglie. La signora Teresa parve presa da uno scrupolo, accennò a richiamarlo.
«Ma cosa mai!», fece l’ingegnere.
«Ma, Piero!»
«Ma cosa?»
Le antiche tradizioni austere della sua famiglia, un sottile senso di dignità, forse anche uno scrupolo religioso perché gli sposi non avevano ancora assistito alla messa della benedizione nuziale, impedivano alla signora Teresa di approvare che i giovani si appartassero e insieme di spiegarsi. Le sue reticenze e la bonarietà patriarcale dello zio diedero agio a Franco di sottrarsi ai richiami senza rimedio alcuno. La signora Teresa non insistette.
«Per sempre!», mormorò dopo un momento come parlando fra sé. «Uniti per sempre!»
«Nualtri», disse l’ingegnere rivolgendosi in dialetto veneto al suo collega nel celibato, «nualtri, sior Giacomo, de ste buzare34 no ghe ne femo.»
«Sempre de bon umor, Ela, ingegnere pregiatissimo», rispose il signor Giacomo a cui la coscienza diceva che aveva fatto delle «buzare» peggiori.
Gli sposi non ritornavano.
«Signor Giacomo», riprese l’ingegnere, «per questa notte, niente letto.»
L’infelice si contorse, soffiò e batté le palpebre senza rispondere.
E gli sposi non ritornavano.
«Piero», disse la signora, «suonate il campanello.»
«Signor Giacomo», fece l’ingegnere senza scomporsi, «dobbiamo suonare il campanello?»
«L’idea de la signora Teresa pare propramente questa», rispose l’omino navigando alla meglio tra il fratello e la sorella. «Però mi no digo gnente.»
«Piero!», insistette la signora.
«Ma insomma», riprese suo fratello senza muoversi. «Lei, cosa farebbe? Lo suonerebbe, questo campanello, o non lo suonerebbe?»
«Oh Dio!», gemette il Puttini. «La me dispensa.»
«Non La dispenso un corno.»Gli sposi non ritornavano e la mamma, sempre più inquieta, ricominciava:
«Ma suonate, dunque, Piero!»
Il signor Giacomo, che moriva dalla voglia di andarsene e non poteva andarsene senza salutar gli sposi, incoraggiato dall’insistere della signora, fece uno sforzo, diventò rosso rosso e buttò fuori la sua sentenza: «Mi sonaria.»
«Caro signor Giacomo», disse l’ingegnere, «mi stupisco, mi sorprendo e mi meraviglio.» Chi sa perché, quando era di buon umore e gli capitava in bocca uno di quei sinonimi, li infilzava tutti e tre. «Però», conchiuse, «suoniamo.»
E suonò molto discretamente.
«Sentite, Piero», disse la signora Teresa. «Ricordatevi bene che adesso, quando partite voi, deve partire anche Franco. Ritornerà alle cinque e mezzo per la messa.»
«Oh povero me!», fece lo zio Piero. «Quante miserie! Insomma, sono marito e moglie, sì o no? Bene bene bene», soggiunse, perché sua sorella si inquietava. «Fate tutto quello che volete, ecco.»
Invece degli sposi entrò la fantesca portando la torta e la bottiglia e disse all’ingegnere che la signora Luisina lo pregava di uscire un momento sulla terrazza.
«Adesso che viene un po’ di grazia di Dio, mi mandate fuori», disse l’ingegnere. Egli scherzava, con la solita serenità di spirito, forse non comprendendo bene lo stato grave di sua sorella, forse per certa sua naturale disposizione pacifica verso tutto che fosse ineluttabile.
Uscì sulla terrazza dove Luisa lo aspettava con Franco. «Senti, zio», diss’ella, «mio marito dice che certo la nonna scoprirà tutto subito, ch’egli non potrà più stare a Cressogno, che se la mamma fosse in buone condizioni si potrebbe venire da te a Oria, ma che così, pur troppo, non è possibile. Allora dice che si potrebbe mettere all’ordine una camera qui, in fretta, alla meglio; lo studio del povero papà, si diceva noi. Cosa ti pare?»
«Hm!», fece lo zio, che non accettava facilmente le novità. «Mi pare una risoluzione molto precipitosa. Fate una spesa, mettete la casa sossopra per una cosa che non può durare.»
La sua idea fissa era quella di aver tutta la famiglia a Oria, e questo ripiego della camera gli faceva ombra. Temeva che se gli sposi si accomodavano a Castello finissero con restarvi. Luisa si studiò di persuaderlo che non si poteva fare altrimenti, che né la spesa né l’incomodo sarebbero stati grandi, che suo marito, quando avesse a uscir di casa, andrebbe difilato a Lugano e ritornerebbe con i pochi mobili strettamente necessari. Lo zio domandò se Franco non potrebbe invece mettersi a Oria e starvi fino a quando vi potessero scendere la mamma e lei. «Oh, zio!», fece Luisa. S’ella avesse saputo del campanello, si sarebbe ancor più meravigliata di una proposta simile. Ma il buon uomo aveva qualche volta di queste idee ingenue che facevano sorridere sua sorella. Luisa non durò fatica a trovare argomenti contro l’esilio di Franco e ad adoperarli con calore. «Basta», fece lo zio non persuaso, ma placido, allargando le braccia in arco, nell’atto di un Dominus vobiscum più caritatevole, più disposto a cinger di tenerezza le povere creature umane. «Fiat. Oh, e se occorre», soggiunse volgendosi a Franco, «come stai a quattrini?»
Franco trasalì, s’imbarazzò.
«È il nostro papà, sai», gli disse sua moglie.
«Papà niente affatto», osservò lo zio, sempre placidamente. «Papà niente affatto, ma quel ch’è mio è vostro, ecco; vuol dire dunque che vi munirò un poco secondo le mie forze.»
E ricevette l’abbraccio commosso de’ suoi nipoti senza corrispondervi, quasi seccato da una dimostrazione superflua, seccato che non accogliessero più semplicemente una cosa tanto semplice e naturale. «Sì, sì», diss’egli, «andiamo a bere ch’è meglio.»
Il vino del Niscioree, rosso chiaro come un rubino, delicato e gagliardo, blandì e pacificò le viscere dell’impaziente signor Giacomo, che in quegli anni di oïdium35 ben di rado bagnava le labbra nel vin pretto e beveva cupamente vin Grimelli di acquosa memoria.
«Est, est, non è vero, signor Giacomo?», disse lo zio Piero vedendo il Puttini guardar devotamente nel bicchiere che teneva in mano. «Qui almeno non c’è pericolo di crepare come quel tale: et propter nimium est dominus meus mortuus est36.»
«A mi me par de resussitar», rispose il signor Giacomo, adagio adagio, quasi sottovoce, guardando sempre nel bicchiere.
«Allora, un brindisi agli sposi!», riprese l’altro, alzandosi. «Se non lo fa Lei, lo farò io:
Viva lü e viva lee
E nün andèm foeura d’i pee37.»
Il signor Giacomo vuotò il bicchiere, soffiò molto e batté molto le palpebre in segno dei vari sentimenti che tumultuavano nell’animo suo mentre l’ultimo aroma e l’ultimo sapor del vino gli si perdevano in bocca; offerse la sua servitù alla signora Teresa riveritissima, la sua devozione alla sposina amabilissima, la sua osservanza allo sposo compitissimo; si schermì, menando le braccia e la testa, dai ringraziamenti che gli fioccavano addosso, e preso il cappellone, presa la mazza, si avviò umilmente, soffiando con un misto di compiacenza e di rammarico, dietro la mole placida dell’ingegnere pregiatissimo.
«E tu, Franco?», chiese subito la signora Teresa.
«Vado», rispose Franco.
«Vien qua», diss’ella. «Vi ho accolto così male, poveri figliuoli, quando siete ritornati dalla chiesa. Sai, m’era venuto uno de’ miei accessi; lo avete ben capito. Adesso mi sento tanto benino, tanto in pace. Signore, Vi ringrazio. Mi pare d’avere messa la casa in ordine, d’avere spento il fuoco, d’aver dette un po’ di orazioni e di andar a dormire, tutta bella contenta; ma non così presto, sai, caro, non così subito. Ti lascio la mia Luisa, caro, ti lascio lo zio Piero; so che li amerai tanto, vero? Ricordati anche di me, però. Ah Signore, come mi rincresce di non vedere i vostri figli! Quello sì. Hai da dar loro un bacio per la povera nonna, tutti i giorni. E adesso va’, figlio mio; ritorni alle cinque e mezzo, non è vero? Sì, addio, va’.»
Gli parlava carezzevole, come a un bambino che non capisce ancora ed egli piangeva di tenerezza silenziosamente, le baciava e ribaciava le mani, godendo che Luisa fosse presente e vedesse; perché nella sua immensa tenerezza per la mamma vi era la immensa gioia di essere divenuto un solo con la figlia e come un’avidità di amar tutto che sua moglie amava, con la stessa forza.
«Va’», ripeteva mamma Teresa, temendo anche la commozione propria: «va’, va’.»
Egli obbedì, finalmente; e uscì con Luisa. Anche stavolta Luisa tardò molto a ritornare, ma le anime più sante hanno le loro lievi debolezze e quantunque la fantesca non facesse che andare e venire dalla cucina al salotto, la signora Teresa, tocca dalle dimostrazioni d’affetto che le aveva prodigate Franco, non le disse mai di suonare il campanello.
4. La lettera del Carlin
Franco discese il monte adagio adagio, tutto chiuso nel suo mondo interiore così pieno di cose, di pensieri, di sentimenti nuovi, fermandosi ogni tratto a guardar la strada biancastra e i campicelli scuri, a toccar le foglie d’una vite o i sassi d’un muricciuolo per sentire la realtà del mondo esterno, persuadersi che non sognava. Solamente a Casarico, nella contrada dei Mal’ari, davanti alla porticina della villetta Gilardoni, si ricordò delle parole oscure di mamma Teresa circa la confidenza fattale dal Gilardoni e si domandò quale potesse mai essere l’arcano che non conveniva rivelare a Luisa. A dir il vero questo consiglio della mamma non gli era piaciuto interamente. «Come mai», pensò bussando all’uscio, «nasconderei qualche cosa a mia moglie?»
Il professore Beniamino Gilardoni, figlio del «Carlin de Dàas», era stato fatto studiare dal vecchio don Franco Maironi, dal marito della marchesa Orsola, uomo bizzarro, lunatico, violento, ma generoso. Quando il Carlin morì, si vide che la generosità del Maironi non sarebbe stata necessaria. Beniamino ereditò un discreto gruzzoletto e ciò fece andare in bestia don Franco che lo tenne responsabile dell’ipocrisia paterna, gli voltò le spalle né volle più saperne di lui nel poco tempo che visse ancora dopo la morte del suo agente. Il giovane entrò nell’insegnamento, fu professore di latino nel ginnasio di Cremona e di filosofia nel liceo di Udine. Cagionevole di salute e timoroso assai del male fisico, alquanto misantropo, piantò nel 1842 la cattedra e venne a godersi la modesta eredità paterna in Valsolda. Il natio paesello di Dasio, seduto sotto le rocce dolomitiche dell’Arabione, era troppo alto e troppo incomodo per lui. Vendette i suoi beni di lassù, si comperò l’uliveto del Sedorgg sopra Casarico e una villetta in Casarico stesso, sulla riva del lago; un gingillo di villetta che egli chiamava per la sua forma «pi greco» a immagine del diagramma di Ugo Foscolo. Dalla contrada dei Mal’ari un andito breve metteva nel cortiletto addossato a un portico minuscolo e aperto verso il lago, fra grandi oleandri, di fronte a sei miglia d’acqua verde o grigia o azzurra, secondo i momenti, fino al monte S. Salvatore inclinato là in fondo, sotto il peso della sua gobba malinconica, ai sottoposti colli umidi di Carona. A levante della casina si stendeva un orto favolosamente spazioso per quei paesi le cui pianure l’ingegnere Ribera soleva definire con questa citazione censuaria: campo grande, detto il campone, tavol sett. Sette tavole son venti o ventidue metri quadrati. Il professore lo coltivava con l’aiuto del suo servitorello Giuseppe, detto il Pinella, e d’una bibliotechina di trattati francesi. Si faceva venire di Francia i semi delle qualità d’ortaggi più celebrate, che talvolta gli spuntavano ignobilmente diversi dalla loro fede di battesimo e magari da qualunque onesta famiglia battezzata. Accadeva allora che filosofo e famiglio, curvi sull’aiuola con le mani alle ginocchia, levassero gli occhi dai germogli beffardi per guardarsi in faccia, il primo sinceramente, il secondo ipocritamente compunto. In un canto dell’orto viveva, nella sua stalletta costrutta con tutte le regole dell’arte, una vaccherella svizzera comperata dopo tre mesi di assidui studi e riuscita magra e cagionevole quanto il padrone; al quale, malgrado la mucca svizzera e quattro galline padovane, capitava spesso di non potersi preparare in casa un latte all’ovo. Nel muro di sostegno verso il lago, battuto al piede dall’onda piena della breva, egli aveva praticati dei fori e piantato, per consiglio di Franco Maironi, alquante agavi americane, alquanti rosai e capperi, fasciando così, come soleva dire, con una elegante forma poetica il sostanzioso contenuto dell’orto. E per amore di poesia aveva lasciato incolto un breve angolo dell’orto stesso. Vi era cresciuto un canneto altissimo e a questo canneto il professore aveva addossato una specie di belvedere, un alto palco di legno, molto rustico e primitivo, dove nella buona stagione passava qualche gradevole ora leggendo, al fresco della breva, al mormorio del canneto e delle onde, i libri mistici che amava. Da lontano il colore del palco si confondeva con quello del canneto ed il professore pareva seduto in aria col suo libro in mano, come un mago. Teneva nel salotto la bibliotechina d’orticoltura; i libri mistici, i trattati di negromanzia, di gnosticismo, gli scritti sulle allucinazioni e sui sogni li teneva in uno studiolo vicino alla camera da letto, in una specie di cabina di nave dove il lago o il cielo parevano entrare dalla finestra.
Dopo la morte del vecchio Maironi il professore aveva ripigliato a visitare la famiglia, ma la marchesa Orsola gli piaceva poco e don Alessandro suo figlio, padre di Franco, meno ancora. Finì con andarci una volta l’anno. Quando il giovinetto entrò in liceo, il Gilardoni fu pregato dalla nonna, ché il padre era morto da un pezzo, di dargli qualche lezione durante l’autunno. Maestro e scolaro si somigliavano nei facili entusiasmi, nelle collere veementi e fugaci, ed erano caldi patrioti ambedue. Cessato il bisogno delle lezioni si rividero come amici benché il professore avesse oltre a vent’anni più di Franco. Questi ammirava l’ingegno del suo allievo; Franco invece stimava assai poco la filosofia mezzo cristiana mezzo razionalista del maestro, le sue tendenze mistiche; rideva della sua passione per i libri e per le teorie d’orticoltura e giardinaggio, scompagnata da qualsiasi senso pratico. Lo aveva tuttavia molto caro per la sua bontà, per il suo candore, per il suo calor d’animo. N’era stato il confidente al tempo dell’infelice amore concepito dal Gilardoni per la signora Teresa Rigey e lo aveva poi ricambiato con le confidenze proprie. Il Gilardoni ne fu molto commosso; disse a Franco che avendo nel cuore quel tale culto gli sarebbe parso di diventar un poco suo padre anche se la signora Teresa non volesse saperne di lui. Franco non mostrò di apprezzare questa paternità metafisica; l’amore per la signora Rigey gli pareva un’aberrazione; ma insomma si confermò nell’idea che la testa del professore non valeva gran cosa e che il cuore era d’oro.
Bussò, dunque, all’uscio e venne ad aprirgli il professore in persona portando un lumicino a olio. «Bravo», diss’egli. «Credevo che non venissi più.»
Il Gilardoni era in veste da camera e pantofole, aveva in testa una specie di turbante ed esalava un forte odore di canfora. Pareva un turco, un Gilardoni bey; ma la faccia magra e giallognola che sorrideva sotto il turbante nulla aveva di turchesco. Contornata d’una barbetta rossastra, fiorita pomposamente, nel mezzo, d’un bel nasone bitorzoluto e vermiglio, luceva per due begli occhi azzurri, molto giovanili, pieni d’ingenua bontà e poesia.
Appena Franco ebbe chiuso l’uscio dietro di sé, l’amico gli sussurrò: «È fatto?». «È fatto», rispose Franco. L’altro lo abbracciò e lo baciò silenziosamente. Poi lo fece salire nello studiolo. Gli spiegò strada facendo che s’era applicato sulla testa delle compresse d’acqua sedativa, secundum Raspail, per una minaccia di emicrania. Egli era un apostolo di Raspail e aveva convertito anche Franco, molto soggetto alle infiammazioni di gola, dalle sanguisughe alla sigaretta di canfora.
Nello studiolo, nuovo amplesso, molto stretto e molto lungo. «Tanto, tanto, tanto!», esclamò Gilardoni sottintendendo un mondo di cose.
Povero Gilardoni, gli occhi gli luccicavano. Aveva sperato invano una felicità simile a quella dell’amico suo! Franco intese, s’imbarazzò, non seppe dirgli nulla, e ne seguì un silenzio così significativo che il Gilardoni non poté sopportarlo e si mise ad accendere un po’ di fuoco per riscaldare il caffè che aveva preparato. Franco si offerse per questa bisogna e il professore accettò allegando il suo mal di capo, si mise a disfare il turbante davanti a una scodella d’acqua sedativa. «Dunque», diss’egli, dominando la propria emozione con uno sforzo di volontà, «mi racconti.» Franco gli raccontò ogni cosa dal pranzo della nonna fino alla cerimonia nuziale nella chiesa di Castello, eccetto, naturalmente, il colloquio segreto con mamma Teresa. Il professore Beniamino, che intanto si era rimesso il turbante, si fece coraggio a mezzo. «E...», diss’egli sostituendo al nome amato una specie di gemito sordo, «come sta?» Udito dell’allucinazione, esclamò: «Una lettera? Le pareva di vedere una lettera? Ma che lettera?». Questo, Franco non lo sapeva. Uno stridore sulla brace interruppe la conversazione; il caffè bolliva a scroscio e si versava.
Il Gilardoni somigliava al suo giovane amico pure in questo che gli si leggeva il cuore in faccia. Il giovane amico, ch’era del resto un lettore di facce infinitamente più sagace e pronto di lui, capì subito ch’egli aveva pensato ad una data lettera e gli chiese, mentre il caffè stava posando, se fosse in grado di spiegar quell’allucinazione. Il professore si affrettò a rispondere di no, ma tosto pronunciato il no lo attenuò con parecchi altri no misti a inarticolati brontolii: «eh no – no già – non saprei – insomma no». Franco non insistette e ne seguì un altro silenzio alquanto significativo. Preso il caffè con molti involontari segni d’inquietudine, il professore propose bruscamente d’andare a letto. Franco, dovendo ripartire prima di giorno, preferì non coricarsi ma volle che si coricasse l’amico, e l’amico, dopo infinite proteste e cerimonie, dopo aver esitato fin sulla soglia della porta con la sua scodella d’acqua sedativa in mano, fece di colpo un volta faccia, si gittò alle spalle un «addio» e scomparve.
Rimasto solo, Franco spense il lume e si distese sulla poltrona con la buona intenzione di dormire, cercando il sonno in qualche pensiero indifferente, se gli fosse possibile di fermarvisi. Non erano passati cinque minuti quando fu picchiato all’uscio e subito entrò precipitosamente, senza lume, il professore dicendo: «Insomma sono qui!». «Cosa c’è?», esclamò Franco. «Mi rincresce che ho spento.» Si sentì in pari tempo le braccia del buon Beniamino intorno al collo, la sua barba, la canfora e la voce sul viso.
«Caro caro caro caro don Franco, io ho un peso enorme sul cuore, non volevo parlare adesso, volevo lasciarla quieto ma non posso, non posso, poss no, poss no, poss no!»
«Ma parli, si quieti, si quieti!», disse Franco sciogliendosi dolcemente da quell’abbraccio.
Il professore lo lasciò e si portò le mani alle tempie gemendo: «Oh che animale, che animale, che animale! Potevo ben lasciarla tranquillo, potevo ben aspettare domani! o posdomani! Ma ormai è fatta, è fatta».
Afferrò le mani di Franco. «Creda, avevo cominciato a spogliarmi quando mi ha preso come una vertigine e lì, andiamo, metti su da capo le vesta, e via, corri qua come un matto, senza lume! Nella furia ho persin rovesciato la scodella dell’acqua sedativa!»
«Accendiamo il lume?», chiese Franco.
«No no no! Meglio parlare al buio, meglio parlare al buio! Guardi, mi metto persino qui, io!» Andò a sedere al suo scrittoio fuori del chiaror debole ch’entrava dalla finestra, e parlò. Parlava sempre nervoso e disordinato; figurarsi adesso con l’agitazione che aveva in corpo.
«Comincio, neh? Chi sa cosa dirà, caro don Franco! Tutte chiacchiere inutili, queste; ma cosa vuole, là, pazienza. Comincio dunque; di dove comincio? Ah Signore, vede che bestia sono che non so nemmeno più dove cominciare? Ah, quell’allucinazione! Sì, Le ho detto una bugia poco fa, posso benissimo sospettare l’origine di quell’allucinazione. Si tratta d’una lettera, proprio d’una lettera che io ho fatto vedere due anni sono alla signora Teresa. Una lettera del povero don Franco Suo nonno. Bene, adesso cominciamo dal principio.
Il mio povero papà, negli ultimi giorni della sua vita mi parlò di una lettera di don Franco che avrei trovato nel cassettone dov’erano tutte le carte da conservarsi. Mi disse di leggerla, di custodirla e di regolarmi, a suo tempo, secondo la mia coscienza. “Però”, disse, “è quasi certo che non vi sarà niente da fare.” Il povero papà viene a mancare, io cerco la lettera nel cassettone, non la trovo. Frugo tutta la casa, non la trovo. Cosa vuole? Mi do pace con l’idea che non ci sarà niente da fare e non ci penso più. Bestia, vero? Animale? Me lo dica pure, me lo merito, me lo son detto tante volte io. Schiavo, andiamo avanti. Lei sa com’è stata regolata la successione di Suo nonno? Sa come sono andati gli affari di casa Sua? Mi perdona, neh, se Le parlo di queste cose?»
«So che mio nonno morì senza testamento e che non ho niente», rispose Franco. «Passiamo, andiamo avanti.»
Era un argomento penoso davvero, per Franco. Alla morte del vecchio Maironi non s’era trovato testamento. La vedova e il figlio don Alessandro si erano divisi la sostanza per metà, d’amore e d’accordo. Per riuscire a questo il figlio aveva fatto alla madre una donazione assai grossa dichiarando d’interpretare la volontà paterna cui era mancato il modo d’esprimersi. Il giovane, vizioso, giuocatore, prodigo, era già impigliato, alla morte di suo padre, nei lacci degli usurai. Nei sette anni che visse ancora si governò per modo da non lasciare un soldo al suo unico figlio Franco, il quale rimase con una ventina di mila svanziche, la sostanza di sua madre, morta nel metterlo alla luce.
«Sì, sì, andiamo avanti», riprese il Gilardoni. «Tre anni fa, dico tre anni fa, ricevo una Sua lettera. Ricordo ch’era il due novembre, il giorno dei morti. Cose strane, cose misteriose. Senta bene. La sera vado a letto e faccio un sogno. Sogno la lettera di Suo nonno. Noti che non ci avevo mai più pensato. Sogno di cercarla e di trovarla in una vecchia cassa che tengo in granaio. La leggo, sempre in sogno. Cosa dice? Dice che nella cantina di casa Maironi a Cressogno c’è un tesoro e che questo tesoro è destinato a Lei. Mi sveglio con una emozione straordinaria, con la convinzione che si tratta di un sogno veridico. Mi alzo e vado a guardare nella cassa. Non trovo niente. Ma due giorni dopo, volendo vendere certi fondi che avevo ancora a Dasio, piglio in mano un vecchio atto di compera che papà teneva nel suo cassettone, lo sfoglio e me ne casca fuori una lettera. Guardo la sottoscrizione, vedo, “nobile Franco Maironi”. La leggo; è quella! Ecco, dico, il sogno che...»
«Ebbene?», interruppe Franco. «Questa lettera, cosa diceva?»
Il professore si alzò, prese uno zolfino lungo mezzo braccio, lo cacciò nella brace del caminetto e accese il lume.
«L’ho qui», diss’egli con un gran sospiro sconsolato. «Legga.»
Si cavò di tasca e porse a Franco una lettera giallognola, di piccolo formato, senza busta, con le tracce d’un’ostia rossa. Le linee nero-giallastre dello scritto interno trasparivano qua e là quasi in rilievo.
Franco la prese, l’accostò al lume e lesse ad alta voce:
Caro Carlin,
Troverai dentro la presente il mio testamento.
Ne ho fatto due copie. Una è presso di me. L’altra è questa che io t’incarico di pubblicare se la prima non viene fuori. Hai capito? Basta, e quando mi vedrai ti è assolutamente proibito di rompermi... col darmi consigli secondo il tuo maledetto vizio. Tu sei la sola persona di cui mi fido, ma del resto io non ho che a comandare e tu non hai che a obbedire; dunque tutti i rompimenti sono inutili e intollerabili. Ciao.
Il tuo aff. padrone
Nob. Franco Maironi
Cressogno, 22 settembre 1828
«Ecco il testamento, adesso», disse il Gilardoni, lugubre, porgendo a Franco un altro foglietto giallognolo. «Ma questo non lo legga ad alta voce.»
Il foglietto diceva:
Io sottoscritto, nobile Franco Maironi, intendo disporre delle mie sostanze, con questo atto d’ultima volontà.
Essendoché donna Orsola Maironi nata marchesa Scremin si è degnata di accettare insieme a molti altri omaggi anche i miei, le lascio in segno di gratitudine lire di Milano diecimila per una volta tanto e il gioiello per lei più prezioso della casa ossia don Alessandro Maironi, debitamente inscritto nei registri della parrocchia della Cattedrale in Brescia come mio figlio.
Lascio al detto mio figlio la porzione legittima che gli spetta della mia facoltà e tre parpagliole al giorno in più, in segno della particolare mia stima.
Lascio al mio agente di Brescia signor Grisi, se si troverà al mio servizio al momento della mia morte, tutto quello che mi ha preso.
Lascio al mio agente di Valsolda, Carlino Gilardoni, colla condizione come sopra, lire di Milano quattro al giorno, sua vita natural durante.
Intendo che sia celebrata nella Cattedrale di Brescia una messa quotidiana finché sarà in vita donna Orsola Maironi Scremin, per la salute dell’anima sua. – Di tutta la restante mia sostanza istituisco e nomino erede il mio nipotino don Franco Maironi di don Alessandro.
Fatto, scritto e sottoscritto il 15 aprile 1828.
Nob. Franco Maironi
Franco lesse e restituì la carta come trasognato, senza dir nulla. Era commosso e sentiva confusamente di doversi dominare, di dover reprimere la propria commozione e raccogliersi, veder chiaro nella cosa e in se stesso.
«Ha visto?», fece il professore.
A questo punto la sovraeccitazione del Gilardoni salì al colmo.
«Perché non parlare prima, eh?», riprese. «È ben qui la storia che un perché positivo, là, chiaro, preciso, non c’è caso, io non lo posso dire! Queste carte mi hanno fatto orrore. Se si fosse trattato di me, di mio padre, di mia madre, avrei lasciato andare un milione piuttosto di domandarlo con queste carte alla mano. Adesso sono ancora una bestia di dir questo, metta ch’io non abbia detto, perché al posto Suo, tutt’altro! Dicevo al posto mio, Signore! Si sa! Dunque mi pareva, guardi che asino, che la nonna Le volesse un gran bene, che la roba del nonno finirebbe a ogni modo nelle Sue mani; e con quest’idea!... Passa un po’ di tempo, mi consiglio con la signora Teresa, le mostro lettera e testamento. Mi dice che avrei dovuto informar Lei subito, appena fatta la scoperta, ma che oramai, essendovi di mezzo, in qualche maniera, sua figlia, non mi vuol dare alcun consiglio. Del resto, dice... Bene, questo non importa. Capisco insomma che il testamento le fa orrore anche a lei. Cosa vuole, io mi metto in testa che già la nonna finirà con accettare il matrimonio e non parlo. Stasera Lei mi dice che la nonna minaccia; si figuri! Adesso capisce che non ho potuto aspettare, che non ho potuto tenere un momento ancora queste carte; ecco, a Lei, le prenda!»
Franco, assorto nei propri pensieri, non udì che queste ultime parole. «No», diss’egli, «non le prendo. Mi conosco. Se le ho in mano posso fare troppo presto qualche cosa di troppo grave. Le tenga Lei, per ora.» Il Gilardoni non voleva saperne di tenerle, e Franco ebbe uno de’ suoi scatti di impazienza. Niente gl’irritava i nervi, del resto, come gli sfoghi sconclusionati della gente di buon cuore e di cattiva testa. Si riscaldò perché il Gilardoni resisteva, gli fece intendere che quel volersi sbarazzare a ogni costo delle carte era egoismo bell’e buono e che quando si fanno degli spropositi bisogna subirne le conseguenze. Le parole furono presso a poco queste; la faccia irritata e dura diceva molto peggio. Il Gilardoni, rosso rosso, fremeva tutto per quell’accusa di egoismo, ma si contenne; e fatto anche lui un fiero cipiglio, ripetendo «bene bene bene bene», intascò frettolosamente le carte e uscì senz’altro. Subito Franco, per soddisfazione della propria coscienza, si mise a persuader se stesso che il signor Beniamino aveva tutti i torti possibili; torto di non avergli consegnato le carte molto prima, torto di essersi fatto pregare adesso per tenerle ancora, torto di essersi offeso. Sicuro di far la pace con lo sconclusionato filosofo, non pensò più a lui, spense il lume e, ritornato alla sua poltrona, ripiombò nelle riflessioni di prima.
Adesso cominciava a vederci chiaro. Non poteva servirsi con dignità di quel testamento disonorante per la nonna nella forma e nella sostanza, nel sospetto che generava, considerata la lettera, di una soppressione delittuosa; poco onorevole anche per suo padre. No, mai. Conveniva dire al professore di bruciar tutto. Così, signora nonna, trionferò di te, facendoti grazia della roba e dell’onore senza curarmi di dirtelo! Assaporandosi questo proposito, Franco si sentì quasi alzar da terra, respirò a pieni polmoni, contento di sé come un principe, illuminato e pacificato nell’anima da un sentimento misto di generosità e d’orgoglio. Malgrado tutta la sua fede e le sue pratiche cristiane, egli era lontanissimo dal sospettare che un tale sentimento non fosse interamente buono e che una magnanimità meno conscia di se stessa sarebbe stata più nobile.
Si lasciò cadere sulla spalliera della poltrona, disposto, meglio che prima nol fosse, al riposo, pensando tranquillamente alle cose lette, alle cose udite, come uno che per poco non si è lasciato prendere in una speculazione rischiosa e ne considera le angustie, i guai evitati per sempre. Avveniva pure in fondo all’anima sua un sommovimento di vecchie memorie. Gli tornò a mente la storia di un certo discorso fatto da una vecchia cameriera sulla ricchezza di casa Maironi che sarebbe stata rubata ai poveri. Egli era bambino, allora, e la donna non s’era fatto riguardo di parlare in presenza sua. Ma il bambino ne aveva riportato una impressione profonda, risvegliatagli più tardi, a mezza l’adolescenza, da un certo prete che gli avea raccontato in aria di segreto, con solennità e forse non senza intenzione, come la roba Maironi provenisse da una lite vinta, contro giustizia, all’Ospitale Maggiore di Milano.
«Così per me», pensò Franco, «tutto è ritornato al diavolo.»
Gli venne in mente che potesse esser tardi, riaccese il lume e guardò l’orologio. Erano le tre e mezzo. Oramai gli sarebbe stato impossibile di riposare. Era troppo vicino il momento di ritrovarsi con Luisa, la sua immaginazione era troppo accesa. Ancora un’ora e mezzo! Egli guardava l’orologio tutti i momenti; questo benedetto tempo non passava mai. Prese un libro e non poté leggere. Aperse la finestra; l’aria era mite, il silenzio profondo, il lago chiaro verso il San Salvatore, il cielo stellato. A Oria si vedeva un lume. Il suo destino era forse di vivere colà, in casa dello zio. Si mise, guardando distrattamente il punto luminoso, a immaginar l’avvenire, fantasmi che sempre mutavano. Verso le quattro e mezzo udì un tocco di campanello al piano inferiore, e poco dopo, il Pinella venne ad avvertirlo a nome del padrone, che, se voleva far la salita del Boglia, era tempo di mettersi in cammino. Il padrone aveva un gran dolor di capo e non poteva muoversi, né riceverlo. Franco cercò sulla scrivania un pezzo di carta e vi scrisse:
«Parce mihi, domine, quia brixiensis sum»38.
Poi uscì, fu accompagnato dal Pinella col lume fino al sottoportico tenebroso dove mette capo la strada di Castello e scomparve.
La marchesa Orsola suonò il campanello alle sei e mezzo e ordinò alla cameriera di portare il solito cioccolatte. Ne inghiottì una buona metà e poi domandò con tutta flemma a che ora don Franco fosse ritornato.
«Non è ritornato, signora marchesa.»
Le viscere della vecchia dovettero turbarsi un poco, ma neppure un muscolo del suo viso si mosse. Ella posò le labbra sull’orlo della tazza di cioccolatte, guardò la cameriera e disse pacatamente:
«Portatemi uno di quei biscottini di ieri.»
Verso le otto la cameriera ritornò per annunciarle che don Franco era venuto e non aveva fatto che salire in camera, pigliarvi il suo passaporto, ridiscendere e incaricare il cameriere di trovargli un barcaiuolo che lo conducesse a Lugano. La marchesa non fiatò, ma più tardi mandò ad avvertire il suo confidente Pasotti che lo aspettava. Pasotti capitò subito e si trattenne con lei una buona mezz’ora. La dama voleva assolutamente sapere dove e come suo nipote avesse passata la notte. Pasotti aveva già raccolte e poté offrire certe voci vaghe intorno a una visita notturna di don Franco in casa Rigey; ma si desideravano notizie esatte e sicure. Il sagace Tartufo, curioso per natura come un bracco che va fiutando tutte le puzze, ficcando il muso in tutti i buchi e strofinandolo a tutti i calzoni, promise di fornirle alla signora marchesa dentro un paio di giorni, e se ne andò con gli occhi scintillanti, fregandosi le mani nell’aspettazione di una piacevole caccia.
5. Il «bargnìf» all’opera
La mattina seguente, Pasotti, preso il caffè e latte e meditato il piano di caccia fino alle dieci e mezzo, fece venire la signora Barborin, che dormiva in un’altra camera perché al Controllore, ella lo chiamava umilmente così, dava noia il suo russare. «El ga reson», diceva la povera sorda, «l’è on gran malarbetto vizi che goo»39. Ella era più vecchia di suo marito, lo aveva sposato in seconde nozze, per tenerezza di cuore, portandogli alcuni quattrini cui egli aveva mirato da un pezzo e che ora si godeva. Il Controllore le voleva bene a modo suo, la costringeva a visite, a gite in barca, a passeggiate sui monti, ch’erano un supplizio per lei, si burlava della sua sordità, la mandava fuori coperta di seta e di piume e in casa la faceva lavorare come una fantesca. Malgrado tutto ella riveriva e serviva «el Controlòr» come una schiava, con gran timore eppure non senza affetto. Quando non lo chiamava «el Controlòr» lo chiamava «Pasott». Mai non si permise appellativi più familiari.
Pasotti le ordinò a gesti, con una faccia dura da satrapo, di levar dal cassettone una camicia di bucato, dall’armadio un abito di mezza gala, da un canterano un paio di stivali; e quando sua moglie, frugando di qua e di là, trepidando, voltandosi ogni momento per seguir gli occhi e i gesti del padrone, pigliandosi spesso della bestia e spalancando allora la bocca per cercar di udire la parola veduta, ebbe approntato ogni cosa, Pasotti cacciò le gambe dal letto e disse:
«Togli».
La signora Barborin gli s’inginocchiò davanti e cominciò a tirargli su le calze, mentre il Controllore, allungata la mano al tavolino da notte, si pigliò la tabacchiera e, apertala, continuò, con due dita affondate nel tabacco, le meditazioni di prima. Intendeva di fare alcune visite di esplorazione, ma in quale ordine? A quanto gliene aveva detto il suo mezzadro, pareva che la Marianna del signor Giacomo Puttini e forse il signor Giacomo stesso dovessero saper qualche cosa di don Franco; e qualche cosa certo se ne doveva sapere a Castello. Mentre la signora Barborin gli allacciava il secondo legaccio, Pasotti si ricordò ch’era martedì. Il signor Giacomo andava ogni martedì con altri amici al mercato di Lugano e più propriamente alla trattoria del Lordo, con lo scopo di interpolare un bicchiere settimanale di vin pretto al vin Grimelli quotidiano; e ritornava spesso a casa in una disposizione affettuosa e sincera. Conveniva dunque andare da lui sul tardi, fra le quattro e le cinque. Pasotti si figurava già di tenerselo fra le unghie, di maneggiarlo a sua posta. Alzò le dita dalla tabacchiera con un sorriso maligno, e scosso giù, a colpettini misurati, il soverchio della presa, se la fiutò a suo grande agio, si fece dar il fazzoletto dalla moglie e la ricompensò borbottando con una faccia benigna, nel raggomitolar il fazzoletto: «Povera donna! Povera diavola!»
Infilato e abbottonato l’abito dopo mezz’ora di lavoro, esclamò sul serio: «Corpo, che fatica!», e andò allo specchio. Sua moglie osò di allora svignarsela alla sorda, sì, ma non alla muta, e disse timidamente:
«Vado, neh?»
Pasotti si voltò accigliato, imperioso, le accennò col dito di venir da lui e le disegnò sopra e intorno alla persona, con quattro colpi di mimica, un cappello e uno scialle. Ella lo guardava a bocca aperta, non capiva; gli puntò l’indice al petto, interrogandolo con gli occhi, con le sopracciglia inarcate, come se dubitasse che questa roba occorresse a lui; al che Pasotti rispose allo stesso modo con tre puntate d’indice: «tu, tu, tu». Poi, menando in taglio la mano distesa, le significò che doveva uscir di casa con lui. Ella ebbe due o tre sussulti di sorpresa e di protesta, allargò gli occhi smisuratamente e domandò con quella voce che pareva venire dalla cantina:
«Dove?»
Il Controllore non rispose che con un’occhiata fulminea e un gesto: marche! Non voleva dare altre spiegazioni.
La signora Barborin si dibatté ancora un poco.
«Non ho ancora fatto colazione», diss’ella. Suo marito la prese per le spalle e, tiratala a sé, le gridò in bocca:
«La farai dopo».
Solo ad Albogasio Inferiore, sul sagrato dell’Annunziata, le fece sapere, indicando il luogo con la mazza, che andavano a Cadate, alla deserta vecchia casa signorile piantata nel lago fra Casarico ed Albogasio e detta popolarmente «el Palazz» dove vivevano solitari, nelle stanzette dell’ultimo piano, il prete don Giuseppe Costabarbieri e la sua serva Maria, detta la Maria del Palazz. Pasotti che li conosceva pronti ambedue a tender gli orecchi ma cauti assai nel parlare, desiderava tastarli uno per volta, senza parere, e, se trovasse molle, dare una strizzatina. Aveva preso seco la moglie perché gli giovasse in questa delicata bisogna dell’uno per volta; e lei, povera innocentona, gli trotterellava dietro a passettini corti giù pei centoventinove scalini che chiamano la Calcinera, senza sospetto della perfida parte che avrebbe fatto.
Il lago era quieto come un olio e don Giuseppe, un bel pretazzuolo, piccolo, grosso, dai capelli bianchi e dalla faccia vermiglia, dagli occhietti lucenti, se ne stava presso al fico del suo giardino con un cappello di paglia nero in capo e un fazzoletto bianco al collo, a pescare i cavedini, certi cavedinacci di libbra, vecchioni e furbacchioni, che si vedevano aggirarsi lì sotto per amor de’ fichi, lenti lenti, curiosi e cauti come il prete e la serva. Costei, chi sa dove fosse. Pasotti, trovata aperta la porta di strada, entrò, chiamò don Giuseppe, chiamò Maria. Poiché nessuno rispondeva, piantò sua moglie sopra una seggiola e discese in giardino, andò diritto al fico dove don Giuseppe, al vederlo, fu preso da un accesso di convulsioni cerimoniose. Buttò via la canna da pescare e gli andò incontro vociferando: «Oh Signor, oh Signor! Oh poer a mi! In sto stat chì!40 Car el me scior Controlòr! Andem sü! Andem sü! Car el me scior Controlòr! In sto stat chì! Ch’el scüsa tant, neh? Ch’el scüsa tant!». Ma Pasotti non voleva saperne di «andar su»; voleva a forza restar lì. Don Giuseppe si mise a vociare: «Maria! Maria!». Ecco il faccione della Maria ad un finestrino dell’ultimo piano.
Don Giuseppe le gridò di portar giù una seggiola. Allora il signor Controllore rivelò la presenza di sua moglie, onde il faccione scomparve e don Giuseppe ebbe un altro accesso.
«Comè? Comè? La sciora Barborin? L’è chì? Ah Signor! Andem sü!» E si mosse con un impeto di ossequio, ma Pasotti lo ridusse all’obbedienza, prima trattenendolo addirittura per le braccia e poi protestando di volergli veder prendere due o tre di quei mostri di cavedini; e don Giuseppe, per quanto protestasse alla sua volta: «Oh dess! Se ciapa nient! Hin baloss! Hin caveden! ga veden!»41, dovette gittar l’amo. Pasotti finse sulle prime di star attento e poi gittò egli pure il suo.
Cominciò con domandare a don Giuseppe da quanto tempo non fosse andato a Castello. Udito che vi era stato il giorno prima a salutar l’amico curato Introini, il buon Tartufo, che non poteva soffrire l’Introini, si mise a farne il panegirico. Che perla quel curato di Castello! Che cuor d’oro! E a casa Rigey c’era andato, don Giuseppe? No, la signora Teresa stava troppo male. Altri panegirici, della signora Teresa e di Luisa. Che rare creature! Che saggezza, che nobiltà, che sentimento! E l’affare Maironi? Andava avanti, non è vero? Molto avanti?
«So nient so nient so nient!», fece bruscamente don Giuseppe.
A quel precipitoso negare, gli occhi di Pasotti brillarono. Egli fece un passo avanti. Era impossibile che don Giuseppe non sapesse niente, diavolo! Era impossibile che non avesse parlato di ciò con l’Introini! Non lo sapeva l’Introini, che don Franco aveva passato la notte in casa Rigey?
«So nient», ripeté don Giuseppe.
Pasotti sentenziò allora che il voler nascondere certe cose note era un far pensar male. Diamine! Don Franco era certamente andato in casa Rigey con fini onestissimi e...
«Pécia, pécia, pécia!»42, fece sottovoce, frettolosamente, don Giuseppe curvandosi tutto sul parapetto, stringendo la canna della lenza e ficcando gli occhi nell’acqua come se un pesce fosse per abboccare. «Pécia!»
Pasotti guardò anche lui nell’acqua, seccato, e disse che non vedeva niente.
«El se l’è cavada, el pütasca, ma el gaveva propri su el müson; l’avarà sentì a spongg»43, fece sospirando e raddrizzandosi don Giuseppe che intanto, avendo sentito egli pure il punger dell’amo, cercava di cavarsela come il pesce.
L’altro ritornò all’assalto, ma invano. Don Giuseppe non aveva veduto niente, non aveva udito niente, non aveva parlato di niente, non sapeva niente. Pasotti tacque e il prete non tardò molto a metter fuori anche lui una punta di timida malizia:
«Bochen propi minga, incoeu, non boccano; gh’è come vent in aria»44.
Intanto, in casa, il dialogo fra la Maria e la signora Barborin, dopo il primo affettuoso scambio di saluti riuscito benissimo, procedeva malissimo. La Maria propose, a gesti, di scendere in giardino, ma la Pasotti implorò a mani giunte d’esser lasciata sulla sua seggiola. Allora la grossa Maria prese un’altra seggiola, le si pose accanto, cercò rivolgerle qualche parola, e non arrivando, per quanto vociasse, a farsi intendere, vi rinunciò, si prese il suo gattone in grembo e parlò a quello.
La povera signora Barborin, rassegnata, guardava il gatto con i suoi grandi occhioni neri, velati di vecchiaia e tristezza. Ecco finalmente Pasotti, ecco don Giuseppe che ricomincia a sbuffare:
«Ah Signor! Cara la mia sciora Barborin! Che la scüsa tant!» Avendo la Maria confessato al «scior Controlòr» che sua moglie e lei non erano riuscite a capirsi, il padrone le diede, per ossequio alla Pasotti, del «salamm» e poiché ella voleva pur difendersi, la fece prudentemente chetare con un imperioso agitar di mano e un «ta ta ta ta!». Poi le accennò misteriosamente del capo ed ella uscì. Pasotti le tenne dietro e le disse che sua moglie, dovendo recarsi a visitare i Rigey e non sapendo, per le voci che correvano, come regolarsi, desiderava qualche informazione dalla Maria, perché «la Maria sa sempre tutto».
«Quante chiacchiere!», fece la Maria, lusingata. «Io non so mai niente. Sa da chi deve andare la Sua “sciora”? Dal signor Giacomo Puttini. È il signor Giacomo che le sa tutte.»
«Bene!», pensò Pasotti collegando questo discorso con quello del mezzadro e fiutando una buona traccia. Fece in pari tempo una spallata d’incredulità. Il signor Giacomo sapeva forse le cose che succedevano nel mondo della luna, ma basta; altro non sapeva mai! La Maria insistette, il volpone cominciò a lavorar di domande, alla lontana, con cautela, ma trovò duro, capì ch’era fatica gittata e che doveva accontentarsi di quell’accenno. Allora tacque, ritornò, tra soddisfatto e preoccupato, nella stanza dove don Giuseppe stava spiegando alla signora Barborin, con gesti appropriati, che la Maria le avrebbe portato qualche cosa da mangiare. La donna comparve infatti con un certo vaso quadrato di vetro, pieno di ciliege allo spirito, speciale e celebrata cura di don Giuseppe che soleva presentarlo agli ospiti con solennità, parlando il suo particolare italiano: «Posso fare un poco di sporgimento? Quattro delle mie ciliege? Magara con un tocchello di pane? Maria, tajee giò on poo de pan».
La signora Barborin pigliò solamente il pane per consiglio del mefistofelico marito che pigliò solamente le ciliege. Poi se ne andarono insieme ed ella ebbe licenza di ritornare ad Albogasio mentre il Controllore prese la via di casa Gilardoni.
«L’è on bargnìf, el scior Pasotti», disse la Maria quand’ebbe dato il chiavistello all’uscio di strada.
«L’è on bargnifòn, minga on bargnìf», esclamò don Giuseppe, pensando all’amo. E con quell’appellativo di «bargnìf» che designa il diavolo considerato nella sua astuzia, le due mansuete creature si sfogarono, si ripagarono di tanta roba data malvolentieri, cerimonie, sorrisi e ciliege.
Il professor Gilardoni stava leggendo sul suo belvedere dell’orto, quando vide Pasotti che veniva dietro il Pinella, fra le rape e le barbabietole. Non sentiva simpatia per il Controllore col quale aveva scambiato un paio di visite in tutto e che aveva fama di «tedescone». Però, essendo inclinato a pensar bene di tutti coloro che conosceva poco, non gli pesava usare anche con lui la cortesia cordiale ch’era solito usar con tutti. Gli andò incontro col suo berretto di velluto in mano, e dopo una scaramuccia di complimenti in cui Pasotti ebbe facilmente la meglio, ritornò insieme a costui sul belvedere.
Pasotti, dal canto suo, sentiva per il professore Gilardoni un’antipatia profonda, non tanto perché lo sapesse liberale, quanto perché il Gilardoni, quantunque non andasse a messa come lui, viveva da puritano, non amava la tavola né la bottiglia né il tabacco né certi discorsi liberi, e non giuocava a tarocchi. Discorrendo una sera nell’orto con don Franco delle solenni scorpacciate e trincate che Pasotti e gli amici suoi facevano spesso alle cantine di Bisgnago, il professore aveva detta una parola severa ed era stato udito dal curatone, uno dei mangiatori, che passava in barca rasente i muri, piano piano, pescando. «Villanaccio!», aveva esclamato, all’udirselo riferire, il Controllore gentilissimo con una faccia da «bargnìf» bilioso; aveva poi fatto tener dietro alla parola un ringhio spregiativo e uno sputo. Ciò non gl’impedì però adesso di stemperarsi in iscuse per aver indebitamente ritardata la sua visita, come non gl’impedì di sbirciar subito il volume posato sul tavolino rustico del belvedere. Il Gilardoni notò quell’occhiata e siccome si trattava di un libro proibito dal Governo, appena avviata la conversazione, lo prese quasi per istinto e se lo tenne sulle ginocchia in modo che colui non potesse leggerne il titolo. Questa precauzione turbò Pasotti che stava magnificando la villetta e l’orto in tutte le loro parti col tono appropriato a ciascuna, le barbabietole con amabile familiarità, le agavi con ammirazione grave e accigliata. Un lampo di sdegno gli brillò negli occhi e si spense subito.
«Fortunato Lei!», diss’egli sospirando. «Se i miei affari lo permettessero, vorrei vivere anch’io in Valsolda.»
«È un paese di pace», fece il professore.
«Sì, è un paese di pace; e poi adesso, nelle città, chi ha servito il Governo, è inutile, non si trova bene. La gente non sa distinguere fra un buon impiegato che si occupi solamente del proprio ufficio come ho fatto io, e un poliziotto. Siamo esposti a certi sospetti, a certe umiliazioni...»
Il professore diventò rosso e si pentì d’aver levato il libro dal tavolino. Davvero Pasotti, malgrado le sue smancerie di umiltà, era troppo orgoglioso per far mai la spia, e sia per questo, sia per qualche buona fibra del suo cuore, mai non la fece. Vi fu dunque nelle sue parole un grammo di sincerità, un grammo d’oro che bastò a dar loro il suono del buon metallo. Il Gilardoni ne fu tocco, offerse al suo visitatore un bicchier di birra e si affrettò a scendere in cerca di Pinella onde aver un pretesto di lasciar il volume sul tavolino.
Appena partito il professore, Pasotti ghermì il libro, gli diede una curiosa occhiata, lo rimise a posto e si piantò in capo alla scala con la tabacchiera aperta in mano, frugando nel tabacco e sorridendo, tra l’ammirazione e la beatitudine, ai monti, al lago, al cielo. Il libro era un Giusti, stampato colla falsa data di Bruxelles, anzi di Brusselle e con il titolo Poesie italiane tratte da una stampa a penna. In un angolo del frontespizio si leggeva scritto per isghembo: «Mariano Fornic». Non occorreva l’acume di Pasotti per indovinar subito in quel nome eteroclito l’anagramma di Franco Maironi.
«Che bellezza! Che paradiso!», diss’egli a mezza voce mentre il professore saliva la scala seguito dal Pinella con la birra.
Confessò poi, tra un sorso e l’altro, che la sua visita era un pochino interessata. Si disse innamorato della muraglia fiorita che sosteneva l’orto Gilardoni a fronte del lago, e desideroso di imitarla ad Albogasio Superiore dove, se il lago mancava, i muri nudi eran troppi. Come s’era procurato il professore quelle agavi, quei capperi, quelle rose?
«Ma!», rispose candidamente il professore. «Me li ha donati Maironi.»
«Don Franco?», esclamò Pasotti. «Benissimo. Allora, siccome don Franco ha molta bontà per me, mi rivolgerò a lui.»
E trasse la tabacchiera. «Povero don Franco!», diss’egli, guardando il tabacco e palpandolo con la tenerezza di un bargnìf commosso. «Povero figliuolo! Qualche volta si riscalda ma è un gran buon figliuolo! Gran bel cuore! Povero figliuolo! Lei lo vede spesso?»
«Sì, abbastanza.»
«Almeno potesse riuscire nei suoi desideri, povero figliuolo! Lo dico per lui e anche per lei! Non sarà mica una cosa sfumata?»
Pasotti disse questa interrogazione da grande artista, con interesse affettuoso ma discreto, senza esprimere più curiosità che non convenisse, volendo ungere e ammollire un poco il cuore chiuso del Gilardoni onde si aprisse, poco a poco, da sé. Ma il cuore del Gilardoni, invece di aprirsi a quel tocco delicato, si contrasse, si rinchiuse.
«Non lo so», rispose il professore sentendosi, con dispetto, diventar rosso; e diventò scarlatto. Pasotti notò subito nel suo taccuino mentale la risposta imbarazzata e il colore. «Farebbe male», diss’egli, «ad abbandonare la partita. La marchesa si capisce che abbia delle difficoltà, ma poi è buona, gli vuole un gran bene. Ha preso una paura, l’altra notte, povera donna!»
Guardò il professore che taceva inquieto, accigliato, e pensò: non parli? allora sai. «Capisce!», riprese. «Non dire dove si va! Non Le pare?»
«Ma io non so niente, io non capisco niente!», esclamò il Gilardoni, sempre più accigliato, sempre più inquieto.
Qui Pasotti sapendo che il professore aveva cessato da lungo tempo di visitare le Rigey e ignorandone la cagione, arrischiò un passo avanti, da bargnìf novizio.
«Bisognerebbe domandarne a Castello», diss’egli con un sorriso malignetto.
A questo punto il Gilardoni, che già bolliva, traboccò.
«Mi faccia il piacere», diss’egli impetuosamente, «lasciamo stare questo discorso, lasciamo stare questo discorso!»
Pasotti si rabbuiò. Cerimonioso, adulatore, sdolcinato, non era però mai disposto, nell’orgoglio suo, a prendersi pacificamente in faccia una parola spiacevole, e s’impermaliva d’ogni ombra. Non parlò più, e passato un paio di minuti prese congedo con dignitosa freddezza, si ritirò masticando rabbia attraverso le barbabietole e le rape. Quando si trovò da capo nella contrada dei Mal’ari, il bargnìf stette un pezzetto a pensare col mento in mano, poi si avviò verso la riva di Casarico, a passi lenti, molto curvo, ma con gli occhi brillanti del barbone che ha fiutato in aria l’indirizzo recondito di un tartufo. Le spaventate difese di don Giuseppe, le difese ostinate della Maria, l’imbarazzo e lo scatto del professore gli dicevano che il tartufo c’era e grosso. Gli era venuta l’idea di andare a Loggio dove abitavano il Paolin e il Paolon, gente bene informata; poi aveva pensato ch’era martedì e che probabilmente non li avrebbe trovati. No, era meglio salir direttamente da Casarico a Castello, fiutare e frugare nell’abitazione di certa signora Cecca, ottima donna, tutta cuore, famosa per l’assidua vigilanza che esercitava dalle sue finestre, per mezzo di un formidabile cannocchiale, sulla Valsolda intiera. Ella poteva dire ogni giorno chi fosse andato a Lugano col barcaiuolo Pin o col barcaiuolo Panighèt, notava i colloqui del povero Pinella con una certa Mochèt sul sagrato di Albogasio, lontano un chilometro; sapeva in quanti giorni il signor ingegnere Ribera avesse bevuto il bariletto di vino che la sua barca riportava vuoto dalla casa d’Oria alla cantina di S. Margherita. Se Franco era stato in casa Rigey, la signora Cecca doveva saperlo.
Nel sottoportico che da Casarico mette alla stradicciuola di Castello, Pasotti si sentì venir dietro a precipizio qualcuno che gli passò accanto nel buio, e credette di conoscere un tale detto «légora fügada (lepre cacciata)» per la sua andatura sempre furiosa. Era costui un egregio galantuomo ancora più curioso di Pasotti, un’ottima persona che amava di saper le cose semplicemente per saperle, senz’altri fini, e andava sempre solo, si trovava dappertutto, compariva e scompariva in un baleno, quando in un luogo quando nell’altro, come certi insettoni alati che danno un guizzo, un frullo, un colpo e poi, zitti, non si odono, non si vedono più sino a un altro guizzo, a un altro frullo, a un altro colpo. Egli aveva scorti i Pasotti entrare al «Palazz» e si era insospettito di qualche cosa per l’ora insolita. Appiattato in un campicello aveva visto la signora Barborin ritornare e il Controllore avviarsi a Casarico, quindi, seguito costui alla lontana, s’era appostato, durante la sua visita al Gilardoni, dietro un pilastro del portico di Casarico; e ora gli era scivolato accanto approfittando dell’oscurità per correre a Castello e aspettarlo, sorvegliarlo da qualche buon posto di osservazione. Lo vide infatti entrare dalla signora Cecca.
La vecchia e gozzuta signora stava nel suo salotto tenendosi in collo un marmocchio col braccio sinistro e reggendo con la mano libera uno sperticato tubo di cartone infilato per isghembo nella finestra, come una spingarda, con la mira giù al lago scintillante, a una vela bianca, gonfia di breva. All’entrar di Pasotti che veniva avanti con la persona inclinata, con il cappello in mano, con un viso ilare ilare, dolce dolce, la buona ospitale donna posò in fretta quel lungo naso mostruoso di cartone che le piaceva metter nelle faccende più lontane degli altri, dove il suo proprio naso di cartapecora, benché smisurato, non arrivava. Ell’accolse il Controllore, come avrebbe accolto un Santo taumaturgo che fosse venuto a portarle via il gozzo.
«Oh che brao scior Controlòr! Oh che brao scior Controlòr! Oh che piasè! Oh che piasè!»
E lo fece sedere, lo soffocò di offerte.
«On poo de torta! On poo de crocant! Car el me scior Controlòr! On poo de vin! On poo de rosoli! – Ch’el me scüsa neh», soggiunse perché il marmocchio s’era messo a miagolare. «L’è el me nevodin. L’è el me biadeghin»45.
Pasotti fece molte cerimonie, avendo già nello stomaco, oltre alle ciliege di don Giuseppe, anche la birra del Gilardoni; ma dovette finire col rassegnarsi a rosicchiare una dannata torta di mandorle, mentre il piccino si attaccava al gozzo della nonna.
«Povera signora Cecca! Due volte madre!», disse pateticamente, a quella vista, il sarcastico bargnìf, ridendo nello stomaco. Dopo averle chiesto notizie del marito e dei discendenti fino alla terza generazione, mise in campo la signora Teresa Rigey. Come stava quella povera donna? Male! Proprio tanto male? Ma da quando? E c’era stata qualche cagione? Qualche commozione? Qualche dispiacere? Gli antichi si conoscevano, ma ce n’erano stati dei nuovi? Forse per la Luisina? Per quel matrimonio? E don Franco non veniva mai a Castello? Di giorno, no, va bene; ma...?
Come quando il chirurgo va interrogando e tastando un paziente in cerca dell’occulto posto doloroso, che il paziente risponde tanto più breve e trepido quanto più la mano indagatrice si appressa al punto e, appena essa vi arriva, trasalendo si sottrae; così la signora Cecca andò rispondendo al Pasotti sempre più breve e cauta, e a quel ma, posto delicatamente dove le doleva, scattò:
«On poo de torta ancamò! Scior Controlòr! L’è roba d’i tosann!»46.
Pasotti sacramentò in cuor suo contro i «tosann» e la loro torta di miele, creta e olio di mandorle, ma credette utile d’ingoiarne un altro boccone e tornò poi a toccare, anzi a premere, il tasto di prima.
«So de nagott, so de nagott, so de nagott!», esclamò la signora Cecca. «Ch’el proeuva a ciamagh al Pütin! Al scior Giacom! E a mi ch’el me ciama pü nient!»47 Ancora! Pasotti brillò in viso all’idea di avere il malcapitato sior Zacomo nelle granfie. Così brillerebbero gli occhi di un falco allegro all’idea di ghermir un ranocchio e di tenerselo fra gli artigli per giuoco e spasso. Egli se ne andò poco dopo, contento di tutto fuorché della torta di creta che aveva sullo stomaco.
Casa Puttini, simile nella sua piccola faccia signorile al piccolo vecchio padrone che la governava in abito nero e cravattone bianco, stava poco più giù della orgogliosa mole di casa Pasotti, sulla via di Albogasio Inferiore. Il falco vi andò dopo pranzo, verso le cinque, con una faccia maligna. Bussò all’uscio e stette in ascolto. C’era, c’era il ranocchio disgraziato, litigava, secondo il solito, con la perfida servente. Pasotti bussò più forte. «Verzì!», disse il signor Giacomo, ma la Marianna non voleva saperne di scendere ad aprire. «Verzì! Verzì! Son paron mi!» Tutto inutile. Pasotti bussò da capo, picchiò come una catapulta. «Chi xelo sto maledeto?», vociferò il Puttini; e venne giù soffiando «apff! apff!» ad aprire. «Oh, Controllore gentilissimo!», diss’egli, battendo le palpebre e alzando pateticamente le sopracciglia. «La perdona! Quela fatal servente! No go più testa! No ghe digo gnente cossa che nasse in sta casa.»48
«L’è minga vera!», gridò Marianna dall’alto.
«Tasì!» E qui il signor Giacomo incominciò a raccontare i suoi guai, rimbeccando a ogni tratto le proteste della serva invisibile.
«Stamatina, La s’imagina, vado a Lugan. Vegno a casa zirconzirca a le tre. Su la porta, La varda qua, che xe de le giozze. Tasì! – No ghe bado, tiro drito. Son sul pato de la scala per andar in cusina; ghe xe de le giozze. Zito! – Cossa gala spanto? digo. Me sbasso, meto un deo in tera; tasto; xe onto; snaso, el xe ogio. Alora ghe vado drio a le giozze. Tasto, snaso, tasto, snaso. Tutto ogio, Controllore gentilissimo. O ’l xe vegnudo, digo, o ’l xe andà via. Se el xe vegnudo lo gà portà el massaro e alora le giozze co semo fora dela porta le gà d’andar in suso, se el xe andà via vol dir che quela maledetissima... La tasa!... Lo gà portà a vender a San Mamette e alora le giozze le gà d’andar in zoso. E mi torna in drio e vaghe drio a ste giozze e drio e drio, e rivo a la porta; Controllore mio gentilissimo, le giozze le va in zoso. Quela b...»49
A questo punto la voce della serva scattò come la sveglia d’un orologio e non ci fu più «tasì!» che valesse a fermare quello stridente getto continuo di parole rabbiose. Ci si provò Pasotti e, non riuscendo, uscì dai gangheri anche lui con un «O fiolonona!» e proseguì a tirarle improperi, a ciascuno dei quali il signor Giacomo faceva un sommesso accompagnamento di gratitudine. «Sì, linguazza, bravo, ghe son obligà. Sì, stria50, bravo. Impiastro, sì signor. Ghe son obligà, Controllore gentilissimo, ghe son propramente obligà.»
Quando la Marianna parve sopraffatta e chetata, Pasotti disse al signor Giacomo che aveva bisogno di parlargli. «No go testa», rispose l’ometto. «La me perdona, me sento mal.»
«Eh no go testa, no go testa!», vociò la Marianna rediviva. «Ch’el ghe disa inscì ch’el coo el’avarà perduu a andà de nott a trovà i tosann a Castell!»51
«Tasì!», urlò il Puttini; e Pasotti, con un ghigno diabolico: «Come come come?». Visto ch’egli entrava in furore, lo afferrò per un braccio, con parole di pace e d’affetto, lo trascinò via, se lo portò a casa, chiamò sua moglie; e per chetare il povero ranocchio, per pigliarselo comodamente fra gli artigli, intavolò un tarocchino in tre.
Se la signora Barborin giuocava male, il signor Giacomo, meditando, ponderando e soffiando, giuocava peggio. Era un giuocatore timidissimo, non si metteva mai solo contro gli altri due. Stavolta si trovò in mano, appena seduto, carte così straordinarie che fu preso da un accesso di coraggio e, come dice il linguaggio del giuoco, entrò. «Chi sa che giuocone ha!», brontolò Pasotti.
«No digo... no digo... ghe xe dei frati che spasseza in pantofole.»
Il «no digo» del signor Giacomo significava ch’egli teneva in mano carte miracolose; e i frati in pantofole erano, nel suo gergo, i quattro re del giuoco. Mentre si accingeva a giuocare palpando ciascuna carta e aguzzandovi gli occhi su, Pasotti colse il suo momento, sperando, per giunta, fargli perdere il giuoco. «Dunque», diss’egli, «mi racconti un poco. Quando è andato a Castello di notte?»
«Oh Dio, oh Dio, lassemo star», rispose il signor Giacomo, rosso rosso, palpando le carte più che mai.
«Sì, sì, adesso giuochi. Parleremo dopo. Tanto, io so tutto.»
Povero signor Giacomo, sì, giuocare con quello spino in gola! Palpò, soffiò, uscì dove non avrebbe dovuto, sbagliò a contare i tarocchi, perdette un paio di frati con le relative pantofole, e malgrado il giuocone, lasciò alcune marchette negli artigli di Pasotti che ghignava e nel piattino della signora Barborin che ripeteva a mani giunte: «Cos’ha mai fatto, signor Giacomo, cos’ha mai fatto?».
Pasotti raccolse le carte e si mise a scozzarle guardando con una faccia sardonica il signor Giacomo che non sapeva dove guardare.
«Sicuro», diss’egli. «So tutto. La signora Cecca mi ha raccontato tutto. Del resto, caro deputato politico, Lei ne renderà conto all’I.R. Commissario di Porlezza.»
Così dicendo, Pasotti porse il mazzo al Puttini perché alzasse. Ma il Puttini, udito quel nome minaccioso, si mise a gemere:
«Oh Dio, oh Dio, cossa disela, no so gnente... oh Dio... l’Imperial Regio Commissario?... Digo... no savaria per cossa... apff!»
«Sicuro!», ripeté Pasotti. Aspettava una parola che gli facesse un po’ di lume; e significò a sua moglie, additando col pollice prima l’uscio e poi la propria sua bocca, che andasse a pigliar da bere.
«Anca quel benedeto ingegner!», esclamò, quasi parlando tra sé, il signor Giacomo.
Come un pescatore raccoglie stentatamente a sé la lunga lenza pesante, scossa, egli crede, dal grosso pesce lungamente insidiato, e tira e tira e finalmente scorge venir su dal fondo due grandi ombre di pesci invece d’una sola, palpita, raddoppia di cautela e d’arte; così Pasotti, all’udir nominare l’ingegnere, si meravigliò, palpitò e si dispose a estrarre con la più squisita delicatezza di mano il segreto del signor Giacomo e del Ribera.
«Sicuro», diss’egli. «Ha fatto male.»
Silenzio del signor Giacomo.
Pasotti insistette:
«Ha fatto malissimo.»
Ecco la signora Barborin che tutta sorridente porta vassoio, bottiglia e bicchieri. Il vino è rosso cupo, con trasparenze di rubino in corpo e il signor Giacomo gli fa un viso non ancora tenero ma benevolo. Il vino ha un aroma di austera virtù ed il signor Giacomo lo fiuta amorosamente, lo guarda commosso, lo torna a fiutare. Il vino ha una pastosa pienezza ch’empie palato e anima di sapore, il vino è appunto quel giusto, virtuoso amarone che l’aroma annuncia e il signor Giacomo lo sorseggia nel desiderio che non sia liquido e fuggevole, lo mastica, lo pacchia, se lo spalma per la bocca; e quando di tanto in tanto posa il bicchiere sul tavolino, non lo lascia però né con la mano né con gli occhi imbambolati.
«Povero ingegnere!», esclamò Pasotti. «Povero Ribera! È un buon galantuomo, ma...»
E tira e tira, il disgraziato signor Giacomo cominciò a venir su, dietro all’amo e al filo.
«Mi propramente», diss’egli, «no volea. El me gà fato zo. “Vegnì”, el dise, “percossa mo no volìo vegner? Mal no se fa, la cossa xe onesta.” Sì, digo, me par anca a mi; ma sto secreto! “Ma! La nona!” el dise. Capisso, digo, ma no me comoda. “Gnanca a mi”, el dise. Ma alora, digo, che figura fémoi, Ela e mi? “Quela del m...”, el dise con quel so far de bon omo a la vecia, “che cossa vorla?, el xe propramente per el mio temperamento.” Alora vegno, digo.»52
Qui si fermò. Pasotti aspettò un poco e poi, con prudenza, tirò il filo. «Il male si è», diss’egli, «che a Castello se ne sia parlato.»
«Sì signor; e me lo son imaginà. Tase la famegia, tase l’ingegner, taso mi che s’intende, ma no taserà el piovan, no taserà el nonzolo53.»
Il parroco? Il sacrestano? Adesso Pasotti capì. Trasecolò; non si aspettava un affare così grosso. Versò da bere al malcapitato signor Giacomo, gli cavò facilmente tutti i particolari del matrimonio e cercò di cavargli pure i progetti degli sposi; ma questo non gli riusciva. Si mise a scozzar le carte per continuar il giuoco e il signor Giacomo guardò l’orologio, trovò che mancavano nove minuti alle sette, ora in cui era solito caricare il suo pendolo. Tre minuti di strada, due minuti di scale, non aveva più che quattro minuti per congedarsi. «Controllore gentilissimo, La ghe fazza el conto, la xe cussì, no ghe xe ponto de dubio.»
La signora Barborin, vedendo un contrasto, ne domandò a suo marito. Pasotti si accostò le mani alla bocca e le gridò sul viso: «El voeur andà a trovà la morosa!». «Cossa mai! Cossa mai!», fece il povero signor Giacomo diventando di tutti i colori; e la Pasotti che per un miracolo aveva udito, aperse una bocca smisurata, non sapeva se dovesse credere o no. «La morosa? Oh! Quanti ciàcer54! Minga vera, sür Giacom, che hin ciàcer? El podarìss ben avèghela per quell, disi minga, l’è minga vècc55, ma insomma!» Capito che voleva proprio andarsene, cercò trattenerlo, aveva dei marroni di Venegono che stavan cuocendo, li offerse. Ma né i marroni né gl’improperi di Pasotti valsero a vincere il signor Giacomo che partì con lo spettro dell’I.R. Commissario nel cuore e insieme con una sensazione molesta nella coscienza, con un vago malcontento di sé ch’egli non sapeva spiegare a se stesso, col dubbio istintivo che le ingiurie della perfida servente fossero preferibili, in fin de’ conti, alle moine di Pasotti.
Invece costui aveva gli occhi ancora più brillanti dell’usato. Pensava di andar a Cressogno subito. Camminatore instancabile, contava di potervi arrivare alle otto. L’idea di andare dalla marchesa con la sua grossa scoperta in pectore, di fare il misterioso, di metter fuori un po’ alla volta le paroline più suggestive e di farsi strappare il resto, lo divertiva moltissimo. E preparava già per il proprio piacere un discorsetto blando, ammolliente, da posare poi sulla ferita della impassibile dama per modo ch’ella non potesse dissimularla e che nessuno avesse a lagnarsi di lui, neppure Franco. Andò in cucina, si fece accendere la lanterna perché la notte era molto scura, e partì.
Incontrò sulla porta il suo mezzadro ch’entrava. Il mezzadro lo salutò, portò in cucina un gran canestro di frutta, aiutò la serva a metterle a posto, sedette al fuoco e disse placidamente:
«È mort adess la sciora Teresa de Castell».
6. La vecchia signora di marmo
L’uscio si aperse un poco, pian piano, la fantesca porse il capo nella camera e chiamò Franco che pregava inginocchiato a una seggiola, presso il letto della morta. Franco non udì e fu Luisa che si alzò. Andò ad ascoltar la sommessa richiesta della donna, le rispose qualche cosa e, ritrattasi colei, stette lì ad aspettare. Non comparendo nessuno, spinse l’uscio e disse forte: «Venga, venga dentro». Un singhiozzo violento le rispose. Luisa stese ambedue le mani e il professor Gilardoni gliele afferrò. Stettero così alquanto tempo, immobili, lottando, a labbra serrate, con l’emozione, lui più di lei. Luisa si mosse la prima, ritirò dolcemente una mano e trasse con l’altra il professore nella camera della morta.
La signora Teresa era spirata in salotto, sulla poltrona che non aveva più potuto lasciare dopo la notte del matrimonio. L’avevano poi adagiata sul divano disposto a letto funebre. Il dolce viso era là nella luce di quattro candele, cereo, sul guanciale, con un sorriso trasparente dalle palpebre chiuse, con la bocca semiaperta. Il letto e l’abito erano sparsi di fiori d’autunno, ciclamini, dalie, crisantemi. «Guardi com’è bella», disse Luisa con voce tenera e serena da spezzar il cuore. Il professore s’appoggiò singhiozzando a una sedia lontana dal letto.
«Lo senti, mamma», disse Luisa sottovoce, «come ti vogliono bene?»
S’inginocchiò, e presa la mano della morta, si mise a baciarla, ad accarezzarla, a dirle dolcezze, piano; poi tacque, posò la mano, si alzò, baciò la fronte, contemplò a mani giunte il viso. Pensò ai rimproveri che la mamma le aveva fatti negli anni andati, dall’infanzia in poi, di cui ella si era risentita amaramente. S’inginocchiò da capo, impresse da capo le labbra sulla mano di ghiaccio con un più ardente spasimo d’amore che se avesse ricordate le carezze. Poi tolse un ciclamino dalla spalla della morta, si alzò, lo porse al professore. Questi lo prese piangendo, s’accostò a Franco che rivedeva per la prima volta dopo quella notte, l’abbracciò e ne fu abbracciato con una commozione silenziosa, e uscì, in punta di piedi, dalla camera.
Suonarono le otto. La signora Teresa era morta alle sei della sera precedente; in ventisei ore Luisa non aveva mai riposato un momento, non era uscita che quattro o cinque volte, per pochi minuti. Chi usciva spesso e stava fuori anche a lungo, era Franco.
Avvertito segretamente, era giunto a Castello, appena in tempo di trovar viva la povera mamma, e tutti i tristi uffici che la morte impone eran toccati a lui, perché lo zio Piero, malgrado i suoi molti anni, non aveva la menoma esperienza di queste cose e vi si trovava impacciatissimo.
Adesso, udite suonar le otto, si avvicinò a sua moglie, la pregò dolcemente di andar a riposare un poco, ma Luisa gli rispose subito in modo da levargli il coraggio d’insistere. Il funerale doveva seguire l’indomani mattina alle nove. Ell’aveva desiderato che si differisse il più possibile e voleva star con la mamma fino all’ultimo. Vi era nella sua sottile persona una indomita vigoria, eguale a ben altre prove. Per lei la mamma era tutta lì su quel lettuccio, tra i fiori. Non pensava che una parte di lei fosse altrove, non la cercava per la finestra di ponente nelle stelline che tremolavano sopra i monti di Carona. Pensava soltanto che la mamma cara, vissuta da tanti anni per lei sola, non d’altro sollecita in terra che della felicità sua, dormirebbe fra poche ore e per sempre sotto i grandi noci di Looch, nella solitudine ombrosa dove tace il piccolo cimitero di Castello, mentre ella si godrebbe la vita, il sole, l’amore. Aveva risposto a Franco quasi aspramente come se l’affetto del vivo offendesse in qualche modo l’affetto della morta. Poi le parve averlo mortificato, si pentì, gli diede un bacio e sapendo di far cosa a lui grata, di far cosa che la mamma si era certo attesa da lei, volle pregare. Si mise a recitar macchinalmente dei Pater, degli Ave e dei Requiem, senza provarne soddisfazione alcuna, sentendo anzi una segreta contrarietà, uno sgradito disseccarsi del dolore. Ell’aveva praticato sempre ma, spenti i fervori della prima comunione, non aveva più partecipato con l’anima al culto. Sua madre era vissuta piuttosto per il mondo futuro che per questo, si era governata in ogni azione, in ogni parola, in ogni pensiero secondo quel fine. Le idee e i sentimenti di Luisa, nel suo precoce sviluppo intellettuale, avevano preso un altro corso con la risolutezza vigorosa ch’era del carattere di lei; ella li copriva però di certa dissimulazione, parte conscia, parte inconscia, sia per amore della mamma, sia per la resistenza di germi religiosi seminati dalla parola materna, coltivati dall’esempio, rinvigoriti dall’abitudine. Dai quattordici anni in poi s’era venuta inclinando a non guardare oltre la vita presente, e insieme a non guardare a sé, a vivere per gli altri, per il bene terreno degli altri, però secondo un forte e fiero senso di giustizia. Andava in chiesa, compiva gli atti esterni del culto, senza incredulità e senza persuadersi che facessero piacere a Dio. Aveva confusamente il concetto di un Dio talmente alto e grande che non vi potesse essere contatto immediato fra gli uomini e Lui. Se dubitava qualche volta d’ingannarsi, il suo errore le pareva tale da non poterlo un Dio infinitamente buono punire. Come fosse venuta a pensare così, non lo sapeva ella stessa.
L’uscio si aperse ancora, pian piano, una voce sommessa chiamò «il signor don Franco». Luisa, rimasta sola, cessò di pregare, piegò il capo sul guanciale della mamma, le posò le labbra sulla spalla, chiuse gli occhi raccogliendo in sé la corrente di memorie che veniva da quel tocco, da un odor noto di lavanda. L’abito della mamma era di seta, il suo migliore, un dono dello zio Piero. Ella lo aveva portato una volta sola, qualche anno addietro, andando a visitare la marchesa Maironi. Anche questo pensiero venne coll’odor di lavanda, vennero lagrime brucianti, acri di tenerezza e di un sentimento che non era propriamente odio, che non era propriamente collera, ma che aveva un amaro dell’uno e dell’altra.
Franco, quando s’intese chiamare, trasalì, ne indovinò subito la cagione. Lo zio Piero aveva scritto, la mattina per tempo, alla marchesa, annunciandole, in termini semplici ma pieni di ossequio, la morte di sua sorella; e Franco stesso aveva aggiunto alla lettera dello zio un biglietto con queste parole:
Cara nonna, mi manca il tempo di scriverti perché son qui; te lo dirò a voce domani sera e confido che tu mi ascolterai come mi avrebbero ascoltato mio padre e mia madre.
Nessuna risposta era ancora venuta da Cressogno. Adesso un uomo di Cressogno aveva portato una lettera. Dov’è quest’uomo? «Partito; non s’è voluto fermare un momento.» Franco prese la lettera, ne lesse l’indirizzo: “Al preg. signor ingegnere Pietro Ribera”, e conobbe la mano della figlia del fattore. Salì subito dallo zio Piero che, stanco, era andato a letto.
Lo zio Piero, quando Franco gli recò la lettera, non fece atto di sorpresa né di curiosità; disse placidamente:
«Apri».
Franco posò il lume sul cassettone e aperse la lettera voltando le spalle al letto. Parve pietrificato; non fiatò, non si mosse.
«Dunque?», chiese lo zio.
Silenzio.
«Ho capito», fece il vecchio. Allora Franco lasciò cader la lettera, alzò le mani in aria, mise un «ah!» lungo, profondo e fioco, pieno di stupore e d’orrore.
«Insomma», riprese lo zio, «si può sapere?»
Franco si scosse, si precipitò ad abbracciarlo, reprimendo a stento i singhiozzi.
L’uomo pacifico sopportò sulle prime in silenzio, senza commuoversi, questa tempesta. Poi cominciò a difendersene chiedendo la lettera: «Da qua, da qua, da qua». E pensava: «Cosa diavolo avrà scritto questa benedetta donna?». Franco prese il lume e la lettera, gliela porse. La nonna non aveva scritto niente, neppure una sillaba; aveva semplicemente rimandata la lettera dell’ingegnere e il biglietto di Franco. Lo zio ci mise un pezzo a capirla: non capiva mai le cose prontamente e questa era per lui tanto inconcepibile! Quando l’ebbe capita non poté fare a meno di dire: «Già, l’è un po’ grossa». Ma poi, veduto Franco tanto fuori di sé, esclamò col vocione solenne che usava per giudicar toto corde le cose umane: «Senti. L’è, dirò così», (e cercava la parola in un suo particolar modo, gonfiando le gote e mettendo una specie di rantolo), «... una iniquità; ma tutte queste meraviglie che fai tu, io non le faccio per niente affatto. Tutti i torti, caro, non sono dalla parte sua; e allora? Del resto, me ne rincresce per voialtri che mangerete di magro e dovrete vivere in questo miserabile paese; ma per me? Per me ci guadagno e son pronto dirò così a ringraziare tua nonna. Vedi bene, io non ho fatto famiglia, ho sempre contato su questa. Adesso la mia povera sorella è morta; se la nonna vi apriva le braccia io restavo come un torso di cavolo. Dunque!».
Franco si guardò dal raccontar la cosa a sua moglie, ed ella, benché sapesse delle lettere spedite a Cressogno, non domandò che dopo il funerale, parecchie ore dopo, se la nonna avesse risposto. Il piccolo salotto, la piccola terrazza, la piccola cucina erano stati pieni di gente tutto il giorno, dalle nove della mattina alle nove della sera. Alle dieci Luisa e Franco uscirono di casa senza lanterna, presero a destra, attraversarono pian piano, silenziosamente, le tenebre del villaggio, toccarono la svolta chiara e ventosa cui sale il fragor profondo del fiume di S. Mamette, entrarono nelle ombre, nel forte odore dei noci di Looch. Poco prima di giungere al cimitero, Luisa domandò sottovoce a suo marito: «Sai niente di Cressogno?». Egli avrebbe pur voluto nasconderle almeno in parte il vero e non lo poté. Disse che il suo biglietto gli era stato rimandato e Luisa volle sapere se almeno la nonna avesse scritto allo zio una parola di condoglianza. Il «no» di Franco fu così incerto, quasi trepidante, che, non subito, ma pochi passi dopo, Luisa ebbe un lampo di sospetto e si fermò di colpo, afferrò il braccio di suo marito. Franco, prima ch’ella aprisse bocca, intese, l’abbracciò come aveva abbracciato lo zio, con impeto ancor maggiore, le disse di prender il suo cuore, l’anima sua, la sua vita, di non cercar altro al mondo, se la sentì tremar tutta fra le braccia. Né allora né poi una sola parola ne fu più detta fra loro. Al cancello del cimitero s’inginocchiarono insieme. Franco pregò con impeto di fede. Luisa trapassò con gli occhi avidi la terra smossa presso all’entrata, trapassò la bara, si affissò mentalmente nel volto mansueto e grave della mamma; mentalmente ancora ma con tanto gagliardo impulso da scuotere le sbarre del cancello, si chinò, si chinò, fisse le labbra sulle labbra della morta, v’impresse una violenza d’amore più forte che tutti gli insulti, che tutte le bassezze odiose del mondo.
Si staccò a stento di là verso le undici. Discendendo adagio a fianco di suo marito lo sdrucciolevole ciottolato del sentiero, le sorse improvvisa in mente la visione di un incontro futuro con la marchesa. Si fermò, si eresse, stringendo i pugni; e il suo bel viso intelligente spirò una fierezza tale che se la vecchia signora di marmo l’avesse realmente veduta, realmente incontrata in quel punto, si sarebbe senz’altro, piegata no, impaurita no, ma posta in difesa.
1 «Taci tu»; «una bella tinca».
2 Cattivo soggetto.
3 Giovinetta.
4 «È un’Austria p...». Si sottintende forse «porca» o «pütasca».
5 «Non è mica il corso di Porta Renza, ma neppure, disgraziatamente, la strada che porta al paradiso».
6 «Niente affatto! Le dico che una simile buggeratura non mi era mai toccata in vita mia».
7 «Ah! È un po’ forte».
8 «Non capisco nulla».
9 «Cosa ha mai da capire, Lei?».
10 «Vieni, caro, vieni»; «brutto mostro».
11 «Di’, povero Friend, che t’hanno fatto, che t’hanno fatto».
12 Ad aprire.
13 Avrei.
14 «A quest’ora? È stato forse a far visita alla signora parente?».
15 Urlare.
16 «Taccia!»; «tacete».
17 Non v’è alcun dubbio.
18 «Corpo di Bacco!».
19 «Non v’è dubbio, quando ho l’onore di trovarmi con sua nipote, dico con la signorina Luisina, mi pare proprio, si figuri, di essere ancora ai tempi della Barretela, delle Filippuzze, delle tre sorelle Spàresi da S. Piero Incarian, e di tante altre che, per loro grazia, mi trattavano bene. Ogni tanto vado dalla signora marchesa e là qualche volta vedo queste ragazze d’oggi. No... no... no, non abbiamo il contegno che dico io: o siamo durette o smorfiosette. Guardi invece la signorina Luisina come sa trattare con tutti, col giovane e col vecchio, col ricco e col povero, con la serva e col piovano. Proprio non capisco come la marchesa...».
20 «Ma, siamo a questo punto?».
21 Disgustato.
22 «Mi perdoni se cedo in questo modo alla naturale curiosità dell’uomo. Si potrebbe sapere la sua riverita età?».
23 Chiesa.
24 Mi rallegro.
25 Franca, aperta.
26 «Non so... ora, se essendo all’oscuro...».
27 Famiglia.
28 Meraviglia.
29 Piuttosto incline ad arrabbiarsi.
30 Con le maniere delicate.
31 «Vero?».
32 «Ho qui la lettera»; «L’ho portata qui per Lei».
33 «Vado da mio figlio a Casarico».
34 Pazzie.
35 Malattia delle viti.
36 Per il troppo est [vino buono] il mio signore è morto.
37 Evviva lui, evviva lei, e noi andiam fuori dai piedi.
38 «Perdonami Signore perché sono bresciano».
39 «Ha ragione, il mio è un gran maledetto vizio».
40 In questo stato!
41 «Oh!, proprio ora! Non si prende nulla! Sono dei bricconi, sono cavèdini: ci vedono».
42 «Aspetta...».
43 «Se l’è cavata, lo zozzone, ma c’era proprio su col muso, si sarà sentito pungere».
44 «Proprio non abboccano, oggi; c’è come vento in aria».
45 «È il mio nipotino, il mio nipotuccio».
46 «Ancora un po’ di torta, è roba delle ragazze».
47 «Non so niente di niente. Provi a chiedere al Puttini! Al signor Giacomo! E a me non chieda più nulla!».
48 «Aprite... aprite, sono il padrone. Chi è: sto maledetto... Oh mi perdoni, Controllore gentilissimo, quella fatal servente! Non ho più testa, non le dico cosa accade in questa casa».
49 «Stamattina, pensi, vado a Lugano; torno a casa alle tre circa. Sulla porta, guardi, ci sono delle gocce. State zitta! Non ci bado, tiro dritto. Arrivo sul pianerottolo per andare in cucina, ancora gocce. Zitta! Che ha fatto cadere?, dico. Mi abbasso, metto un dito in terra, tasto: è unto; annuso: è olio. Allora seguo le gocce, tasto, annuso. Tutto olio, Controllore gentilissimo. Dico: o è venuto o è andato via. Se è venuto, l’ha portato il massaro e allora le gocce, subito fuori della porta, debbono andare in su; se è andato via vuol dire che quella maledettissima... Zitta! l’ha portato a vendere a S. Mamette e allora le gocce devono andare in giù. Allora torno indietro e seguo le gocce e passo passo arrivo alla porta. Controllore mio gentilissimo, le gocce vanno in giù. Quella b...».
50 Strega.
51 «Gli dica che la testa l’avrà persa ad andare di notte a trovare le ragazze a Castello!».
52 «Veramente non volevo, lui mi ha convinto... “Venite”, dice, “perché non volete venire? Male non si fa, è una cosa onesta”. Sì, dico, sembra anche a me, ma questo segreto! “Ma! La nonna!”, dice lui. Capisco, dico, ma non mi piace. “Neanche a me”, dice. Ma allora che figura ci facciamo? “Quella del m...”, dice con quel suo fare da buon uomo all’antica, “cosa vuole? Si confà proprio al mio temperamento”. Allora vengo, dico».
53 Il sagrestano.
54 Chiacchiere.
55 ...mica è vecchio...