Capitolo XXXIII

 

Una notte, verso la fine d’agosto, proprio nel colmo della peste1, tornava don Rodrigo a casa sua, in Milano, accompagnato dal fedel Griso, l’uno de’ tre o quattro che, di tutta la famiglia2, gli eran rimasti vivi. Tornava da un ridotto3 d’amici soliti a straviziare insieme, per passar la malinconia di quel tempo: e ogni volta ce n’eran de’ nuovi, e ne mancava de’ vecchi. Quel giorno, don Rodrigo era stato uno de’ più allegri; e tra l’altre cose, aveva fatto rider tanto la compagnia, con una specie d’elogio funebre del conte Attilio, portato via dalla peste, due giorni prima4.

Camminando però, sentiva un mal essere, un abbattimento, una fiacchezza di gambe, una gravezza di respiro, un’arsione interna, che avrebbe voluto5 attribuir solamente al vino, alla veglia, alla stagione. Non aprì bocca, per tutta la strada; e la prima parola, arrivati a casa, fu d’ordinare al Griso che gli facesse lume per andare in camera. Quando ci furono, il Griso osservò il viso del padrone, stravolto, acceso, con gli occhi in fuori, e lustri lustri; e gli stava alla lontana: perché, in quelle circostanze, ogni mascalzone6 aveva dovuto acquistar, come si dice, l’occhio medico.

– Sto bene, ve’, – disse don Rodrigo, che lesse nel fare del Griso il pensiero che gli passava per la mente. – Sto benone; ma ho bevuto, ho bevuto forse un po’ troppo. C’era una vernaccia!...7 Ma, con una buona dormita, tutto se ne va. Ho un gran sonno... Levami un po’ quel lume dinanzi, che m’accieca... mi dà una noia...!

– Scherzi della vernaccia, – disse il Griso, tenendosi sempre alla larga. – Ma vada a letto subito, ché il dormire le farà bene.

– Hai ragione: se posso dormire... Del resto, sto bene. Metti qui vicino, a buon conto, quel campanello, se per caso, stanotte avessi bisogno di qualche cosa: e sta attento, ve’, se mai senti sonare. Ma non avrò bisogno di nulla... Porta via quel maledetto lume –, riprese poi, intanto che il Griso eseguiva l’ordine, avvicinandosi meno che poteva. – Diavolo! che m’abbia a dar tanto fastidio!

Il Griso prese il lume, e, augurata la buona notte al padrone, se n’andò in fretta, mentre quello si cacciava sotto.

Ma le coperte gli parvero una montagna. Le buttò via, e si rannicchiò, per dormire; ché infatti moriva dal sonno. Ma, appena velato l’occhio, si svegliava con un riscossone, come se uno, per dispetto, fosse venuto a dargli una tentennata; e sentiva cresciuto il caldo, cresciuta la smania. Ricorreva col pensiero all’agosto, alla vernaccia, al disordine; avrebbe voluto poter dar loro tutta la colpa; ma a queste idee si sostituiva sempre da sé quella che allora era associata con tutte, ch’entrava, per dir così, da tutti i sensi, che s’era ficcata in tutti i discorsi dello stravizio, giacché era ancor più facile prenderla in ischerzo, che passarla sotto silenzio: la peste.

Dopo un lungo rivoltarsi, finalmente s’addormentò e cominciò a fare i più brutti e arruffati sogni del mondo8. E d’uno in un altro, gli parve di trovarsi in una gran chiesa, in su, in su, in mezzo a una folla; di trovarcisi, ché non sapeva come ci fosse andato, come gliene fosse venuto il pensiero, in quel tempo specialmente; e n’era arrabbiato. Guardava i circostanti; eran tutti visi gialli, distrutti, con cert’occhi incantati, abbacinati, con le labbra spenzolate; tutta gente con certi vestiti che cascavano a pezzi; e da’ rotti si vedevano macchie e bubboni9. – Largo canaglia! – gli pareva di gridare, guardando alla porta, ch’era lontana lontana, e accompagnando il grido con un viso minaccioso, senza però moversi, anzi ristringendosi, per non toccar que’ sozzi corpi, che già lo toccavano anche troppo da ogni parte. Ma nessuno di quegl’insensati dava segno di volersi scostare, e nemmeno d’avere inteso; anzi gli stavan più addosso: e sopra tutto gli pareva che qualcheduno di loro, con le gomita o con altro, lo pigiasse a sinistra, tra il cuore e l’ascella, dove sentiva una puntura dolorosa, e come pesante. E se si storceva, per veder di liberarsene, subito un nuovo non so che veniva a puntarglisi al luogo medesimo. Infuriato, volle metter mano alla spada; e appunto gli parve che, per la calca, gli fosse andata in su, e fosse il pomo di quella che lo premesse in quel luogo; ma, mettendoci la mano, non ci trovò la spada, e sentì in vece una trafitta più forte. Strepitava, era tutto affannato, e voleva gridar più forte; quando gli parve che tutti que’ visi si rivolgessero a una parte10. Guardò anche lui; vide un pulpito, e dal parapetto di quello spuntar su un non so che di convesso, liscio e luccicante; poi alzarsi e comparir distinta una testa pelata, poi due occhi, un viso, una barba lunga e bianca, un frate ritto, fuor del parapetto fino alla cintola, fra Cristoforo. Il quale, fulminato uno sguardo in giro su tutto l’uditorio, parve a don Rodrigo che lo fermasse in viso a lui, alzando insieme la mano, nell’attitudine appunto che aveva presa in quella sala a terreno del suo palazzotto. Allora alzò anche lui la mano in furia, fece uno sforzo, come per islanciarsi ad acchiappar quel braccio teso per aria; una voce che gli andava brontolando sordamente nella gola, scoppiò in un grand’urlo; e si destò. Lasciò cadere il braccio che aveva alzato davvero; stentò alquanto a ritrovarsi, ad aprir ben gli occhi; ché la luce del giorno già inoltrato gli dava noia, quanto quella della candela, la sera avanti; riconobbe il suo letto, la sua camera; si raccapezzò11 che tutto era stato un sogno: la chiesa, il popolo, il frate, tutto era sparito; tutto fuorché una cosa, quel dolore dalla parte sinistra. Insieme si sentiva al cuore una palpitazion violenta, affannosa, negli orecchi un ronzìo, un fischìo continuo, un fuoco di dentro, una gravezza in tutte le membra, peggio di quando era andato a letto. Esitò qualche momento, prima di guardar la parte dove aveva il dolore; finalmente la scoprì, ci diede un’occhiata paurosa; e vide un sozzo12 bubbone d’un livido paonazzo.

L’uomo si vide perduto: il terror della morte l’invase, e, con un senso per avventura più forte, il terrore di diventar preda de’ monatti, d’esser portato, buttato al lazzeretto. E cercando la maniera d’evitare quest’orribile sorte, sentiva i suoi pensieri confondersi e oscurarsi, sentiva avvicinarsi il momento che non avrebbe più testa, se non quanto bastasse per darsi alla disperazione. Afferrò il campanello, e lo scosse con violenza. Comparve subito il Griso, il quale stava all’erta. Si fermò a una certa distanza dal letto; guardò attentamente il padrone, e s’accertò di quello che, la sera, aveva congetturato.

– Griso! – disse don Rodrigo, rizzandosi stentatamente a sedere: – tu sei sempre stato il mio fido.

– Sì, signore.

– T’ho sempre fatto del bene.

– Per sua bontà.

– Di te mi posso fidare...!

– Diavolo!

– Sto male, Griso.

– Me n’ero accorto.

– Se guarisco, ti farò del bene ancor più di quello che te n’ho fatto per il passato.

Il Griso non rispose nulla, e stette aspettando dove andassero a parare questi preamboli.

– Non voglio fidarmi d’altri che di te, – riprese don Rodrigo: – fammi un piacere, Griso.

– Comandi, – disse questo, rispondendo con la formola solita a quell’insolita.

– Sai dove sta di casa il Chiodo chirurgo?13

– Lo so benissimo.

– È un galantuomo, che, chi lo paga bene, tien segreti gli ammalati. Va a chiamarlo: digli che gli darò quattro, sei scudi per visita, di più, se di più ne chiede; ma che venga qui subito; e fa la cosa bene, che nessun se n’avveda.

– Ben pensato, – disse il Griso: – vo e torno subito.

– Senti, Griso: dammi prima un po’ d’acqua. Mi sento una arsione, che non ne posso più.

– No, signore, – rispose il Griso: – niente senza il parere del medico. Son mali bisbetici: non c’è tempo da perdere. Stia quieto: in tre salti son qui14 col Chiodo.

Così detto, uscì, raccostando l’uscio.

Don Rodrigo, tornato sotto, l’accompagnava con l’immaginazione alla casa del Chiodo, contava i passi, calcolava il tempo. Ogni tanto ritornava a guardare il suo bubbone; ma voltava subito la testa dall’altra parte, con ribrezzo. Dopo qualche tempo, cominciò a stare in orecchi, per sentire se il chirurgo arrivava: e quello sforzo d’attenzione sospendeva il sentimento del male, e teneva in sesto i suoi pensieri. Tutt’a un tratto, sente uno squillo15 lontano, ma che gli par che venga dalle stanze, non dalla strada. Sta attento; lo sente più forte, più ripetuto, e insieme uno stropiccìo di piedi: un orrendo sospetto gli passa per la mente. Si rizza a sedere, e si mette ancor più attento; sente un rumor cupo16 nella stanza vicina, come d’un peso che venga messo giù con riguardo; butta le gambe fuor del letto, come per alzarsi, guarda all’uscio, lo vede aprirsi, vede presentarsi e venire avanti due logori e sudici vestiti rossi, due facce scomunicate, due monatti, in una parola; vede mezza la faccia del Griso che, nascosto dietro un battente socchiuso, riman lì a spiare17.

– Ah traditore infame!... Via, canaglia! Biondino! Carlotto18! aiuto! son assassinato! – grida don Rodrigo; caccia una mano sotto il capezzale, per cercare una pistola; l’afferra, la tira fuori; ma al primo suo grido, i monatti avevan preso la rincorsa verso il letto; il più pronto gli è addosso, prima che lui possa far nulla; gli strappa la pistola di mano, la getta lontano, lo butta a giacere, e lo tien lì, gridando, con un versaccio di rabbia insieme e di scherno: – ah birbone! contro i monatti! contro i ministri del tribunale! contro quelli che fanno l’opere di misericordia!

– Tienlo bene, fin che lo portiam via, – disse il compagno, andando verso uno scrigno. E in quella il Griso entrò, e si mise con lui a scassinar la serratura.

– Scellerato! – urlò don Rodrigo, guardandolo per di sotto all’altro che lo teneva, e divincolandosi tra quelle braccia forzute. Lasciatemi ammazzar quell’infame, – diceva quindi ai monatti, – e poi fate di me quel che volete. – Poi ritornava a chiamar con quanta voce aveva, gli altri suoi servitori; ma era inutile, perché l’abbominevole19 Griso gli aveva mandati lontano, con finti ordini del padrone stesso, prima d’andare a fare ai monatti la proposta di venire a quella spedizione, e divider le spoglie.

– Sta buono, sta buono, – diceva allo sventurato Rodrigo20 l’aguzzino che lo teneva appuntellato sul letto. E voltando poi il viso ai due che facevan bottino, gridava: – fate le cose da galantuomini!

– Tu! tu! – mugghiava don Rodrigo verso il Griso, che vedeva affaccendarsi a spezzare, a cavar fuori danaro, roba, a far le parti. – Tu! dopo21...! Ah diavolo dell’inferno! Posso ancora guarire! posso guarire! – Il Griso non fiatava, e neppure, per quanto poteva, si voltava dalla parte di dove venivan quelle parole22.

– Tienlo forte, – diceva l’altro monatto: – è fuor di sé. Ed era ormai vero. Dopo un grand’urlo, dopo un ultimo e più violento sforzo per mettersi in libertà, cadde tutt’a un tratto rifinito e stupido: guardava però ancora, come incantato, e ogni tanto si riscoteva, o si lamentava.

I monatti lo presero, uno per i piedi, e l’altro per le spalle, e andarono a posarlo sur una barella che avevan lasciata nella stanza accanto; poi uno tornò a prender la preda; quindi, alzato il miserabil peso23, lo portaron via.

Il Griso rimase a scegliere in fretta quel di più che potesse far per lui; fece di tutto un fagotto, e se n’andò24. Aveva bensì avuto cura di non toccar mai i monatti, di non lasciarsi toccar da loro; ma, in quell’ultima furia del frugare, aveva poi presi, vicino al letto, i panni del padrone, e gli aveva scossi, senza pensare ad altro, per veder se ci fosse danaro. C’ebbe però a pensare il giorno dopo, che, mentre stava gozzovigliando in una bettola, gli vennero a un tratto de’ brividi, gli s’abbagliaron gli occhi, gli mancaron le forze, e cascò. Abbandonato da’ compagni, andò in mano de’ monatti, che, spogliatolo di quanto aveva indosso di buono, lo buttarono sur un carro; sul quale spirò, prima d’arrivare al lazzeretto, dov’era stato portato il suo padrone.

Lasciando ora questo nel soggiorno de’ guai, dobbiamo andare in cerca d’un altro, la cui storia non sarebbe mai stata intralciata con la sua, se lui non l’avesse voluto per forza: anzi si può dir di certo che non avrebbero avuto storia né l’uno né l’altro: Renzo, voglio dire, che abbiam lasciato al nuovo filatoio, sotto il nome d’Antonio Rivolta.

C’era stato cinque o sei mesi, salvo il vero; dopo i quali, dichiarata l’inimicizia tra la repubblica25 e il re di Spagna, e cessato quindi ogni timore di ricerche e d’impegni dalla parte di qui26, Bortolo s’era dato premura d’andarlo a prendere, e di tenerlo ancora con sé, e perché gli voleva bene, e perché Renzo, come giovine di talento, e abile nel mestiere, era, in una fabbrica, di grande aiuto al factotum, senza poter mai aspirare a divenirlo lui, per quella benedetta disgrazia di non saper tener la penna in mano. Siccome anche questa ragione c’era entrata per qualche cosa, così abbiam dovuta accennarla. Forse voi vorreste un Bortolo più ideale: non so che dire: fabbricatevelo. Quello era così27.

Renzo era poi sempre rimasto a lavorare presso di lui. Più d’una volta, e specialmente dopo aver ricevuta qualcheduna di quelle benedette lettere da parte d’Agnese, gli era saltato il grillo di farsi soldato, e finirla: e l’occasioni non mancavano; ché, appunto in quell’intervallo di tempo, la repubblica aveva avuto bisogno di far gente. La tentazione era qualche volta stata per Renzo tanto più forte, che s’era anche parlato d’invadere il milanese; e naturalmente a lui pareva che sarebbe stata una bella cosa, tornare in figura di vincitore a casa sua, riveder Lucia, e spiegarsi una volta con lei. Ma Bortolo, con buona maniera, aveva sempre saputo smontarlo da quella risoluzione.

– Se ci hanno da andare, – gli diceva, – ci anderanno anche senza di te, e tu potrai andarci dopo, con tuo comodo; se tornano col capo rotto, non sarà meglio essere stato a casa tua? Disperati che vadano a far la strada28, non ne mancherà. E, prima che ci possan mettere i piedi...! Per me, sono eretico29: costoro abbaiano; ma sì; lo stato di Milano non è un boccone da ingoiarsi così facilmente. Si tratta della Spagna, figliuolo mio: sai che affare è la Spagna? San Marco è forte a casa sua; ma ci vuol altro. Abbi pazienza: non istai bene qui?... Vedo cosa vuoi dire; ma, se è destinato lassù che la cosa riesca, sta sicuro che, a non far pazzie, riuscirà anche meglio. Qualche santo t’aiuterà. Credi pure che non è mestiere per te. Ti par che convenga lasciar d’incannar seta30, per andare a ammazzare? Cosa vuoi fare con quella razza di gente? Ci vuol degli uomini fatti apposta.

Altre volte Renzo si risolveva d’andar di nascosto, travestito, e con un nome finto. Ma anche da questo, Bortolo seppe svolgerlo31 ogni volta, con ragioni troppo facili a indovinarsi.

Scoppiata poi la peste nel milanese, e appunto, come abbiam detto, sul confine del bergamasco, non tardò molto a passarlo; e... non vi sgomentate, ch’io non vi voglio raccontar la storia anche di questa: chi la volesse, la c’è, scritta per ordine pubblico da un certo Lorenzo Ghirardelli32: libro raro però e sconosciuto, quantunque contenga forse più roba che tutte insieme le descrizioni più celebri di pestilenze: da tante cose dipende la celebrità de’ libri! Quel ch’io volevo dire è che Renzo prese anche lui la peste, si curò da sé, cioè non fece nulla; ne fu in fin di morte, ma la sua buona complessione vinse la forza del male: in pochi giorni, si trovò fuor di pericolo. Col tornar della vita, risorsero più che mai rigogliose nell’animo suo le memorie, i desidèri, le speranze, i disegni della vita; val a dire che pensò più che mai a Lucia. Cosa ne sarebbe di lei, in quel tempo, che il vivere era come un’eccezione? E, a così poca distanza, non poterne saper nulla? E rimaner, Dio sa quanto, in una tale incertezza! E quand’anche questa si fosse dissipata, quando, cessato ogni pericolo, venisse a risaper che Lucia fosse in vita; c’era sempre quell’altro mistero, quell’imbroglio del voto. «Anderò io, anderò a sincerarmi di tutto in una volta,» disse tra sé, e lo disse prima d’essere ancora in caso di reggersi. «Purché sia viva! Trovarla, la troverò io; sentirò una volta da lei proprio, cosa sia questa promessa, le farò conoscere che non può stare, e la conduco via con me, lei e quella povera Agnese, se è viva! che m’ha sempre voluto bene, e son sicuro che me ne vuole ancora. La cattura? eh! adesso hanno altro da pensare, quelli che son vivi. Giran sicuri, anche qui, certa gente, che n’hann’addosso... Ci ha a esser salvocondotto solamente per i birboni? E a Milano, dicono tutti che l’è una confusione peggio. Se lascio scappare una occasion così bella,» (La peste! Vedete un poco come ci fa qualche volta adoprar le parole quel benedetto istinto di riferire e di subordinar tutto a noi medesimi!) «non ne ritorna più una simile!»

Giova sperare33, caro il mio Renzo.

Appena poté strascicarsi, andò in cerca di Bortolo, il quale, fino allora, aveva potuto scansar la peste, e stava riguardato. Non gli entrò in casa, ma, datogli una voce dalla strada, lo fece affacciare alla finestra.

– Ah ah! – disse Bortolo: – l’hai scampata, tu. Buon per te!

– Sto ancora un po’ male in gambe, come vedi, ma, in quanto al pericolo, ne son fuori.

– Eh! vorrei esser io ne’ tuoi piedi. A dire: sto bene, le altre volte, pareva di dir tutto; ma ora conta poco. Chi può arrivare a dire: sto meglio; quella sì è una bella parola34!

Renzo, fatto al cugino qualche buon augurio, gli comunicò la sua risoluzione.

– Va, questa volta, che il cielo ti benedica, – rispose quello: – cerca di schivar la giustizia, com’io cercherò di schivare il contagio; e, se Dio vuole che la ci vada bene a tutt’e due, ci rivedremo.

– Oh! torno sicuro: e se potessi non tornar solo! Basta; spero.

– Torna pure accompagnato; che, se Dio vuole, ci sarà da lavorar per tutti, e ci faremo buona compagnia. Purché tu mi ritrovi, e che sia finito questo diavolo d’influsso35!

– Ci rivedremo, ci rivedremo; ci dobbiam rivedere!

– Torno a dire: Dio voglia!

Per alquanti giorni, Renzo si tenne in esercizio, per esperimentar le sue forze, e accrescerle; e appena gli parve di poter far la strada, si dispose a partire. Si mise sotto panni una cintura, con dentro que’ cinquanta scudi, che non aveva mai intaccati, e de’ quali non aveva mai fatto parola, neppur con Bortolo; prese alcuni altri pochi quattrini, che aveva messi da parte giorno per giorno, risparmiando su tutto; prese sotto il braccio un fagottino di panni; si mise in tasca un benservito, che s’era fatto fare a buon conto, dal secondo padrone, sotto il nome d’Antonio Rivolta; in un taschino de’ calzoni si mise un coltellaccio, ch’era il meno che un galantuomo potesse portare a que’ tempi; e s’avviò, agli ultimi d’agosto, tre giorni dopo che don Rodrigo era stato portato al lazzeretto. Prese verso Lecco, volendo, per non andar così alla cieca a Milano, passar dal suo paese, dove sperava di trovare Agnese viva, e di cominciare a saper da lei qualcheduna delle tante cose che si struggeva di sapere.

I pochi guariti dalla peste erano, in mezzo al resto della popolazione, veramente come una classe privilegiata. Una gran parte dell’altra gente languiva o moriva; e quelli ch’erano stati fin allora illesi dal morbo, ne vivevano in continuo timore; andavan riservati, guardinghi, con passi misurati, con visi sospettosi, con fretta ed esitazione insieme: ché tutto poteva esser contro di loro arme di ferita mortale. Quegli altri all’opposto, sicuri a un di presso del fatto loro (giacché aver due volte la peste era caso piuttosto prodigioso che raro), giravano per mezzo al contagio franchi e risoluti; come i cavalieri d’un’epoca del medio evo, ferrati fin dove ferro ci poteva stare, e sopra palafreni accomodati anche essi, per quanto era fattibile, in quella maniera, andavano a zonzo (donde quella loro gloriosa denominazione d’erranti), a zonzo e alla ventura, in mezzo a una povera marmaglia pedestre di cittadini e di villani, che, per ribattere e ammortire i colpi, non avevano indosso altro che cenci. Bello, savio ed utile mestiere! mestiere, proprio, da far la prima figura in un trattato d’economia politica36.

Con una tale sicurezza, temperata però dall’inquietudini che il lettore sa, e contristata dallo spettacolo frequente, dal pensiero incessante della calamità comune, andava Renzo verso casa sua, sotto un bel cielo e per un bel paese, ma non incontrando, dopo lunghi tratti di tristissima solitudine, se non qualche ombra vagante piuttosto che persona viva, o cadaveri portati alla fossa, senza onor d’esequie, senza canto, senza accompagnamento. A mezzo circa della giornata, si fermò in un boschetto, a mangiare un po’ di pane e di companatico che aveva portato con sé. Frutte, n’aveva a sua disposizione, lungo la strada, anche più del bisogno: fichi, pesche, susine, mele, quante n’avesse volute; bastava ch’entrasse ne’ campi a coglierne, o a raccattarle sotto gli alberi, dove ce n’era come se fosse grandinato; giacché l’anno era straordinariamente abbondante, di frutte specialmente; e non c’era quasi chi se ne prendesse pensiero: anche l’uve nascondevano, per dir così, i pampani37, ed eran lasciate in balìa del primo occupante38.

Verso sera, scoprì il suo paese. A quella vista, quantunque ci dovesse esser preparato, si sentì dare come una stretta al cuore: fu assalito in un punto da una folla di rimembranze dolorose, e di dolorosi presentimenti: gli pareva d’aver negli orecchi que’ sinistri tocchi a martello che l’avevan come accompagnato, inseguito, quand’era fuggito da que’ luoghi; e insieme sentiva, per dir così, un silenzio di morte che ci regnava attualmente. Un turbamento ancor più forte provò allo sboccare sulla piazzetta davanti alla chiesa; e ancora peggio s’aspettava al termine del cammino: ché dove aveva disegnato d’andare a fermarsi, era a quella casa che era stato solito altre volte di chiamar la casa di Lucia. Ora non poteva esser, tutt’al più, che quella d’Agnese; e la sola grazia, che sperava dal cielo era di trovarcela in vita e in salute. E in quella casa si proponeva di chiedere alloggio, congetturando bene che la sua non dovesse esser più abitazione che da topi e da faine.

Non volendo farsi vedere, prese per una viottola di fuori, quella stessa per cui era venuto in buona compagnia, quella notte così fatta, per sorprendere il curato. A mezzo circa, c’era da una parte la vigna, e dall’altra la casetta di Renzo; sicché, passando, potrebbe entrare un momento nell’una e nell’altra, a vedere un poco come stesse il fatto suo.

Andando, guardava innanzi, ansioso insieme e timoroso di veder qualcheduno, e, dopo pochi passi, vide infatti un uomo in camicia, seduto in terra, con le spalle appoggiate a una siepe di gelsomini, in un’attitudine d’insensato: e, a questa, e poi anche alla fisonomia, gli parve di raffigurar quel povero mezzo scemo di Gervaso ch’era venuto per secondo testimonio alla sciagurata spedizione. Ma essendosegli avvicinato, dovette accertarsi ch’era in vece quel Tonio così sveglio che ce l’aveva condotto. La peste, togliendogli il vigore del corpo insieme e della mente, gli aveva svolto in faccia e in ogni suo atto un piccolo e velato germe di somiglianza che aveva con l’incantato fratello39.

– Oh Tonio! – gli disse Renzo, fermandosegli davanti: – sei tu?Tonio alzò gli occhi, senza mover la testa.

– Tonio! non mi riconosci?

– A chi la tocca, la tocca, – rispose Tonio, rimanendo poi con la bocca aperta.

– L’hai addosso eh? povero Tonio; ma non mi riconosci più?

– A chi la tocca, la tocca, – replicò quello, con un certo sorriso sciocco. Renzo, vedendo che non ne caverebbe altro, seguitò la sua strada, più contristato. Ed ecco spuntar da una cantonata, e venire avanti una cosa nera40, che riconobbe subito per don Abbondio. Camminava adagio adagio, portando il bastone come chi n’è portato a vicenda; e di mano in mano che s’avvicinava, sempre più si poteva conoscere nel suo volto pallido e smunto, e in ogni atto, che anche lui doveva aver passata la sua burrasca. Guardava anche lui; gli pareva e non gli pareva: vedeva qualcosa di forestiero nel vestiario; ma era appunto forestiero di quel di Bergamo41.

«È lui senz’altro!» disse tra sé, e alzò le mani al cielo, con un movimento di maraviglia scontenta, restandogli sospeso in aria il bastone che teneva nella destra; e si vedevano quelle povere braccia ballar nelle maniche, dove altre volte stavano appena per l’appunto. Renzo gli andò incontro, allungando il passo, e gli fece una riverenza; ché, sebbene si fossero lasciati come sapete, era però sempre il suo curato.

– Siete qui, voi? – esclamò don Abbondio.

– Son qui, come lei vede. Si sa niente di Lucia?

– Che volete che se ne sappia? Non se ne sa niente. È a Milano, se pure è ancora in questo mondo. Ma voi...

– E Agnese, è viva?

– Può essere; ma chi volete che lo sappia? non è qui. Ma...

– Dov’è?

– E andata a starsene nella Valsassina, da que’ suoi parenti, a Pasturo, sapete bene; ché là dicono che la peste non faccia il diavolo come qui. Ma voi, dico...

– Questa la mi dispiace. E il padre Cristoforo...?

– È andato via che è un pezzo. Ma...

– Lo sapevo; me l’hanno fatto scrivere: domandavo se per caso fosse tornato da queste parti.

– Oh giusto42! non se n’è più sentito parlare. Ma voi...

– La mi dispiace anche questa.

– Ma voi, dico, cosa venite a far da queste parti, per l’amor del cielo! Non sapete che bagattella di cattura...?

– Cosa m’importa? Hanno altro da pensare. Ho voluto venire anch’io una volta a vedere i fatti miei. E non si sa proprio...?

– Cosa volete vedere? che or ora non c’è più nessuno, non c’è più niente. E dico, con quella bagattella di cattura, venir qui, proprio in paese, in bocca al lupo, c’è giudizio? Fate a modo d’un vecchio che è obbligato ad averne più di voi, e che vi parla per l’amore che vi porta; legatevi le scarpe bene, e, prima che nessuno vi veda, tornate di dove siete venuto; e se siete stato visto, tanto più tornatevene di corsa. Vi pare che sia aria per voi, questa? Non sapete che sono venuti a cercarvi, che hanno frugato, frugato, buttato sottosopra...

– Lo so pur troppo, birboni!

– Ma dunque...!

– Ma se le dico che non ci penso. E colui, è vivo ancora? è qui?

– Vi dico che non c’è nessuno; vi dico che non pensiate alle cose di qui; vi dico che...

– Domando se è qui, colui.

– Oh santo cielo! Parlate meglio. Possibile che abbiate ancora addosso tutto quel fuoco, dopo tante cose!

– C’è, o non c’è?

– Non c’è, via. Ma, e la peste, figliuolo, la peste! Chi è che vada in giro, in questi tempi?

– Se non ci fosse altro che la peste in questo mondo... dico per me: l’ho avuta, e son franco.

– Ma dunque! ma dunque! non sono avvisi43 questi? Quando se n’è scampata una di questa sorte, mi pare che si dovrebbe ringraziare il cielo, e...

– Lo ringrazio bene.

– E non andarne a cercar dell’altre, dico. Fate a modo mio.

– L’ha avuta anche lei, signor curato, se non m’inganno.

– Se l’ho avuta! Perfida e infame è stata: son qui per miracolo: basta dire che m’ha conciato in questa maniera che vedete. Ora avevo proprio bisogno d’un po’ di quiete, per rimettermi in tono: via, cominciavo a stare un po’ meglio... In nome del cielo, cosa venite a far qui? Tornate...

– Sempre l’ha con questo tornare, lei. Per tornare, tanto n’avevo a non movermi. Dice: cosa venite? cosa venite? Oh bella! vengo, anch’io, a casa mia.

– Casa vostra...

– Mi dica; ne son morti molti qui?...

– Eh eh! – esclamò don Abbondio; e, cominciando da Perpetua, nominò una filastrocca di persone e di famiglie intere. Renzo s’aspettava pur troppo qualcosa di simile; ma al sentir tanti nomi di persone che conosceva, d’amici, di parenti, stava addolorato, col capo basso, esclamando ogni momento: – poverino! poverina! poverini!

– Vedete! – continuò don Abbondio: – e non è finita. Se quelli che restano non metton giudizio questa volta, e scacciar tutti i grilli dalla testa, non c’è più altro che la fine del mondo.

– Non dubiti; che già non fo conto di fermarmi qui.

– Ah! sia ringraziato il cielo, che la v’è entrata! E, già si intende, fate ben conto di ritornar sul bergamasco.

– Di questo non si prenda pensiero.

– Che! non vorreste già farmi qualche sproposito peggio di questo?

– Lei non ci pensi, dico; tocca a me: non son più un bambino: ho l’uso della ragione. Spero che, a buon conto, non dirà a nessuno d’avermi visto. È sacerdote; sono una sua pecora: non mi vorrà tradire.

– Ho inteso, – disse don Abbondio, sospirando stizzosamente: – ho inteso. Volete rovinarvi voi, e rovinarmi me. Non vi basta di quelle che avete passato voi; non vi basta di quelle che ho passate io. Ho inteso, ho inteso. – E, continuando a borbottar tra i denti quest’ ultime parole, riprese per la sua strada.

Renzo rimase lì tristo e scontento44, a pensar dove anderebbe a fermarsi. In quella enumerazion di morti fattagli da don Abbondio, c’era una famiglia di contadini portata via tutta dal contagio, salvo un giovinotto, dell’età di Renzo a un di presso, e suo compagno fin da piccino; la casa era pochi passi fuori del paese. Pensò d’andar lì.

E andando, passò davanti alla sua vigna; e già dal di fuori poté subito argomentare in che stato la fosse. Una vetticciola45, una fronda d’albero di quelli che ci aveva lasciati, non si vedeva passare il muro; se qualcosa si vedeva, era tutta roba venuta in sua assenza. S’affacciò all’apertura (del cancello non c’eran più neppure i gangheri); diede un’occhiata in giro: povera vigna46! Per due inverni di seguito, la gente del paese era andata a far legna – nel luogo di quel poverino –, come dicevano. Viti, gelsi, frutti d’ogni sorte, tutto era stato strappato alla peggio, o tagliato al piede. Si vedevano però ancora i vestigi dell’antica coltura: giovani tralci, in righe spezzate, ma che pure segnavano la traccia de’ filari desolati; qua e là, rimessiticci47 o getti48 di gelsi, di fichi, di peschi, di ciliegi, di susini; ma anche questo si vedeva sparso, soffogato, in mezzo a una nuova, varia e fitta generazione, nata e cresciuta senza l’aiuto della man dell’uomo. Era una marmaglia d’ortiche, di felci, di logli, di gramigne, di farinelli, d’avene salvatiche, d’amaranti verdi, di radicchielle, di acetoselle, di panicastrelle49, e d’altrettali piante; di quelle, voglio dire, di cui il contadino d’ogni paese ha fatto una gran classe a modo suo, denominandole erbacce, o qualcosa di simile. Era un guazzabuglio di steli, che facevano a soverchiarsi l’uno con l’altro nell’aria, o a passarsi avanti, strisciando sul terreno, a rubarsi in somma il posto per ogni verso; una confusione di foglie, di fiori, di frutti, di cento colori, di cento forme, di cento grandezze: spighette, pannocchiette, ciocche, mazzetti, capolini bianchi, rossi, gialli, azzurri. Tra questa marmaglia di piante ce n’era alcune di più rilevate e vistose, non però migliori, almeno la più parte: l’uva turca50, più alta di tutte, co’ suoi rami allargati, rosseggianti, co’ suoi pomposi foglioni verdecupi, alcuni già orlati di porpora, co’ suoi grappoli ripiegati, guarniti di bacche paonazze al basso, più su di porporine, poi di verdi, e in cima di fiorellini biancastri; il tasso barbasso, con le sue gran foglie lanose a terra, e lo stelo diritto all’aria, e le lunghe spighe sparse e come stellate di vivi fiori gialli51: cardi, ispidi ne’ rami, nelle foglie, ne’ calici, donde uscivano ciuffetti di fiori bianchi o porporini, ovvero si staccavano, portati via dal vento, pennacchioli argentei e leggieri. Qui una quantità di vilucchioni52 arrampicati e avvoltati a’ nuovi rampolli d’un gelso, gli avevan tutti ricoperti delle lor foglie ciondoloni, e spenzolavano dalla cima di quelli le loro campanelle candide e molli: là una zucca salvatica, co’ suoi chicchi vermigli, s’era avviticchiata ai nuovi tralci d’una vite; la quale, cercato invano un più saldo sostegno, aveva attaccati a vicenda i suoi viticci a quella; e, mescolando i loro deboli steli e le loro foglie poco diverse, si tiravan giù, pure a vicenda, come accade spesso ai deboli che si prendon l’uno con l’altro per appoggio. Il rovo era per tutto; andava da una pianta all’altra, saliva, scendeva, ripiegava i rami o gli stendeva, secondo gli riuscisse; e, attraversato davanti al limitare stesso, pareva che fosse lì per contrastare il passo, anche al padrone.

Ma questo non si curava d’entrare in una tal vigna; e forse non istette tanto a guardarla, quanto noi a farne questo po’ di schizzo. Tirò di lungo: poco lontano c’era la sua casa; attraversò l’orto, camminando fino a mezza gamba tra l’erbacce di cui era popolato, coperto, come la vigna. Mise piede sulla soglia d’una delle due stanze che c’era a terreno: al rumore de’ suoi passi, al suo affacciarsi, uno scompiglio, uno scappare incrocchiato di topacci, un cacciarsi dentro il sudiciume che copriva tutto il pavimento: era ancora il letto de’ lanzichenecchi. Diede un’occhiata alle pareti: scrostate, imbrattate, affumicate. Alzò gli occhi al palco53: un parato di ragnateli. Non c’era altro. Se n’andò anche di là, mettendosi le mani ne’ capelli; tornò indietro, rifacendo il sentiero che aveva aperto lui, un momento prima; dopo pochi passi, prese un’altra straducola a mancina, che metteva ne’ campi e senza veder né sentire anima vivente, arrivò vicino alla casetta dove aveva pensato di fermarsi. Già principiava a farsi buio. L’amico era sull’uscio, a sedere sur un panchetto di legno, con le braccia incrociate, con gli occhi fissi al cielo, come un uomo sbalordito dalle disgrazie, e insalvatichito dalla solitudine54. Sentendo un calpestìo, sì voltò a guardar chi fosse, e, a quel che gli parve di vedere così al barlume, tra i rami e le fronde, disse, ad alta voce, rizzandosi e alzando le mani: – non ci son che io? non ne ho fatto abbastanza ieri? Lasciatemi un po’ stare, che sarà anche questa un’opera di misericordia.

Renzo, non sapendo cosa volesse dir questo, gli rispose chiamandolo per nome.

– Renzo...! – disse quello, esclamando insieme e interrogando.

– Proprio, – disse Renzo; e si corsero incontro.

– Sei proprio tu! – disse l’amico, quando furon vicini: – oh che gusto ho di vederti! Chi l’avrebbe pensato? T’avevo preso per Paolin de’ morti, che vien sempre a tormentarmi, perché vada a sotterrare. Sai che son rimasto solo? solo! solo, come un romito!

– Lo so pur troppo, – disse Renzo. E così, barattando e mescolando in fretta saluti, domande e risposte, entrarono insieme nella casuccia. E lì, senza sospendere i discorsi, l’amico sì mise in faccende per fare un po’ d’onore a Renzo, come si poteva così all’improvviso e in quel tempo. Mise l’acqua al fuoco, e cominciò a far la polenta; ma cedé poi il matterello a Renzo, perché la dimenasse; e se n’andò dicendo: – son rimasto solo; ma! son rimasto solo!

Tornò con un piccol secchio di latte, con un po’ di carne secca, con un paio di raveggioli55, con fichi e pesche; e posato il tutto, scodellata la polenta sulla tafferìa56, si misero insieme a tavola, ringraziandosi scambievolmente, l’uno della visita, l’altro dei ricevimento. E, dopo un’assenza di forse due anni, si trovarono a un tratto molto più amici di quello che avesser mai saputo di essere nel tempo che si vedevano quasi ogni giorno; perché all’uno e all’altro, dice qui il manoscritto, eran toccate di quelle cose che fanno conoscere che balsamo sia all’animo la benevolenza; tanto quella che si sente, quanto quella che si trova negli altri57.

Certo, nessuno poteva tenere presso di Renzo il luogo di Agnese, né consolarlo della di lei assenza, non solo per quell’antica e speciale affezione, ma anche perché, tra le cose che a lui premeva di decifrare, ce n’era una di cui essa sola aveva la chiave. Stette un momento tra due, se dovesse continuare il suo viaggio, o andar prima in cerca d’Agnese, giacché n’era così poco lontano; ma, considerato che della salute di Lucia, Agnese non ne saprebbe nulla, restò nel primo proposito d’andare addirittura a levarsi questo dubbio, e aver la sua sentenza, e di portar poi lui le nuove alla madre. Però, anche dall’amico seppe molte cose che ignorava, e di molte venne in chiaro che non sapeva bene, sui casi di Lucia, e sulle persecuzioni che gli avevan fatte a lui, e come don Rodrigo se n’era andato con la coda tra le gambe, e non s’era più veduto da quelle parti; insomma su tutto quell’intreccio di cose. Seppe anche (e non era per Renzo cognizione di poca importanza) come fosse proprio il casato di don Ferrante: ché Agnese gliel aveva bensì fatto scrivere dal suo segretario; ma sa il cielo com’era stato scritto; e l’interprete bergamasco, nel leggergli la lettera, n’aveva fatta una parola tale, che, se Renzo fosse andato con essa a cercar ricapito di quella casa in Milano, probabilmente non avrebbe trovato persona che indovinasse di chi voleva parlare. Eppure quello era l’unico filo che avesse, per andar in cerca di Lucia. In quanto alla giustizia, poté confermarsi sempre più ch’era un periodo abbastanza lontano, per non darsene gran pensiero: il signor podestà era morto di peste: chi sa quando se ne manderebbe un altro; anche la sbirraglia se n’era andata la più parte; quelli che rimanevano, avevan tutt’altro da pensare che alle cose vecchie.

Raccontò anche lui all’amico le sue vicende, e n’ebbe in contraccambio cento storie, del passaggio dell’esercito, della peste, di untori, di prodigi. – Son cose brutte, – disse l’amico, accompagnando Renzo in una camera che il contagio aveva resa disabitata; – cose che non si sarebbe mai creduto di vedere; cose da levarvi l’allegria per tutta la vita; ma però, a parlarne tra amici, è un sollievo.

Allo spuntar del giorno, eran tutt’e due in cucina; Renzo in arnese da viaggio, con la sua cintura nascosta sotto il farsetto, e il coltellaccio nel taschino de’ calzoni: il fagottino, per andar più lesto, lo lasciò in deposito presso all’ospite. – Se la mi va bene, – gli disse, – se la trovo in vita, se... basta... ripasso di qui; corro a Pasturo, a dar la buona nuova a quella povera Agnese, e poi, e poi... Ma se, per disgrazia, per disgrazia che Dio non voglia... allora, non so quel che farò, non so dov’anderò: certo, da queste parti non mi vedete più. – E così parlando, ritto sulla soglia dell’uscio, con la testa per aria, guardava con un misto di tenerezza e d’accoramento, l’aurora del suo paese, che non aveva più veduta da tanto tempo58. L’amico gli disse, come s’usa, di sperar bene; volle che prendesse con sé qualcosa da mangiare; l’accompagnò per un pezzetto di strada, e lo lasciò con nuovi augùri.

Renzo, s’incamminò con la sua pace59, bastandogli d’arrivar vicino a Milano in quel giorno, per entrarci il seguente, di buona ora, e cominciar subito la sua ricerca. Il viaggio fu senza accidenti e senza nulla che potesse distrar Renzo da’ suoi pensieri, fuorché le solite miserie e malinconie. Come aveva fatto il giorno avanti, si fermò a suo tempo, in un boschetto a mangiare un boccone, e a riposarsi. Passando per Monza, davanti a una bottega aperta, dove c’era de’ pani in mostra, ne chiese due, per non rimanere sprovvisto, in ogni caso. Il fornaio, gl’intimò di non entrare, e gli porse sur una piccola pala una scodelletta, con dentro acqua e aceto60, dicendogli che buttasse lì i danari; e fatto questo, con certe molle, gli porse, l’uno dopo l’altro, i due pani, che Renzo si mise uno per tasca.

Verso sera, arriva a Greco61, senza però saperne il nome; ma, tra un po’ di memoria de’ luoghi, che gli era rimasta dell’altro viaggio, e il calcolo del cammino fatto da Monza in poi, congetturando che doveva esser poco lontano dalla città, uscì dalla strada maestra, per andar ne’ campi in cerca di qualche cascinotto62, e lì passar la notte; ché con osterie non si voleva impicciare. Trovò meglio di quel che cercava: vide un’apertura in una siepe che cingeva il cortile d’una cascina; entrò a buon conto. Non c’era nessuno: vide da un canto un gran portico, con sotto del fieno ammontato, e a quello appoggiata una scala a mano; diede un’occhiata in giro, e poi salì alla ventura; s’accomodò per dormire, e infatti s’addormentò subito, per non destarsi che all’alba. Allora, andò carpon carponi verso l’orlo di quel gran letto; mise la testa fuori, e non vedendo nessuno, scese di dov’era salito, uscì di dov’era entrato, s’incamminò per viottole, prendendo per sua stella polare il duomo; e dopo un brevissimo cammino, venne a sbucar sotto le mura di Milano, tra porta Orientale63 e porta Nuova, e molto vicino a questa.

 

 

 

1 nel colmo della peste: cfr. cap. XXXII, n. 34.

2 la famiglia: cfr. cap. VI, n. 8.

3 ridotto: ritrovo (com’era nella prima ed.).

4 due giorni prima: la scomparsa del conte Attilio, di cui è dato conto in modo indiretto, è perfettamente in chiave col personaggio disinvolto ed elusivo. Quanto a don Rodrigo, l’inaspettata versatilità a far dello spirito, visto il temperamento altezzoso e malcerto, ci fa intendere dietro la loquacità un principio di smarrimento. Che in ogni società afflitta da eventi catastrofici si annidi, in chi può, l’ansia di evaderne, ci è provato anche da un’altra estraniazione in tempo di peste, quella della comitiva del Decameron boccacciano. Ma in Manzoni quel rifuggire almeno nel pensiero denota qualcosa molto più complesso; e il fatto che ogni giorno manchi qualcuno, e si faccia per scherno l’elogio funebre degli scomparsi, apre lo spiraglio sulla malcelata paura, il tremebondo scongiuro dei superstiti.

5 che avrebbe voluto: si noti l’affiorare sempre più evidente in don Rodrigo di un orrendo timore.

6 ogni mascalzone: ogni individuo sia pur grossolano e insensibile.

7 una vernaccia: vino pesante a forte dose alcoolica.

8 sogni del mondo: nel sogno si riaffacceranno a don Rodrigo alcuni dei punti più imbarazzanti del passato, ed è significativo che avvenga proprio in questa notte suprema della sua esistenza. Viene da pensare all’ammonimento del coro del Carmagnola, sull’empio destinato al castigo: «Ben talor nel superbo viaggio / Non l’abbatte l’eterna vendetta. / Ma lo segna; ma veglia ed aspetta. / Ma lo coglie all’estremo sospir». Il presagio, che nei versi è proiettato su uno sfondo trascendente, collude qui con l’itinerario emotivo del personaggio.

9 macchie e bubboni: si veda come il sogno corrisponda con le apparizioni orripilanti all’inconfessato, atroce presentimento.

10 a una parte: le alternative del sogno rispondono in modo perfetto all’avvicendarsi di stati fisiologici, e sin ai convulsi movimenti di don Rodrigo.

11 si raccapezzò: si noti la difficoltà e lo stento con cui riemerge alla vita normale; e, nelle righe che seguono, l’avvertimento del dolore fisico che succede alla ripresa della coscienza.

12 sozzo: visto come qualcosa di estraneo a sé e tuttavia inserito a fondo nella propria carne e vita.

13 il Chiodo chirurgo: il nome di uno dei chirurghi ricordati dal Tadino nel suo Raguaglio, fra gli antipestisti. Si tratta di un chirurgo, cioè di chi praticava allora un’arte inferiore a quella medica, e di cui perciò era più facile comprare il silenzio.

14 Stia... salti son qui: la ragione evidente è che il Griso non vuole avvicinarsi troppo al padrone appestato. Ma nel colloquio traspare anche l’immediato istinto sopraffattorio dell’uomo verso l’altro ormai colpito; perciò, nel rifiuto di dargli da bere, non è difficile cogliere una nota di crudeltà che il Griso applica istintivamente nei riguardi di chi è più debole. E si veda il cinismo con cui consuma l’inganno, sotto il pretesto di un riguardo.

15 uno squillo: il suono del campanello che i monatti tenevano legato al piede per annunziare la loro presenza.

16 un rumor cupo: il rumore della barella posata per terra.

17 riman lì a spiare: scena di una turpitudine e di un orrore realisticamente espressi in modo perfetto. Secondo il Russo, con quello spiare dietro la porta il Griso rivelerebbe una punta di pudore che ne sminuirebbe il precedente, totale cinismo. In realtà Manzoni non ha mai pensato per costui a una specie di eroe del male, alla stregua dei diavoli danteschi di Malebolge, che attraggono proprio così la nostra attenzione. Qui si tratta di un tristo figuro in linea coi suoi grotteschi precedenti, la cui «malignità» non è mai andata oltre la vigliaccheria dell’inganno, e che è uguale a sé anche in quest’atto di spiare dalla porta per calcolare il momento di entrare senza inutili controversie e senza pericolo.

18 Biondino! Carlotto!: nomi dei bravi che, com’è detto dopo, il Griso ha allontanati con uno stratagemma.

19 l’abbominevole: nell’aggettivo, ancora un tocco sulla bieca e turpe sfrontatezza di quel malnato strumento della Provvidenza riparatrice che è ora il Griso.

20 sventurato Rodrigo: «Nel momento in cui il soverchiatore è soverchiato [...] il Manzoni lo dice sventurato e non ha cuore d’aggiungere al nome di lui il solito titolo nobilesco» (E. D’Ovidio, La lingua dei «Promessi sposi», Napoli 1923, p. 104).

21 Tu! dopo...!: dopo i benefizi che gli ha fatto, sottraendolo fra l’altro alla giustizia che lo perseguitava per omicidio, col prenderlo al suo servizio (cfr. cap. VII).

22 di dove venivan quelle parole: non vergogna né oscura coscienza nel Griso, ma, anche a questo punto, l’elementare grossolanità di chi bada ad arraffare quanto più può.

23 il miserabil peso: a tanto è ridotto ormai don Rodrigo; e tale resterà probabilmente fino all’ultimo.

24 e se n’andò: qualche moneta tratta dalla suppellettile di un appestato, ecco, a conferma della natura bestialmente terra terra del Griso, il frutto del tradimento. E proprio senza reazione umana lo sapremo poco avanti morto, prima ancora d’essere arrivato a destinazione al lazzeretto. Sono tratti questi in cui Manzoni sanziona con amara veridicità la commedia umana.

25 la repubblica: la repubblica di Venezia.

26 dalla parte di qui: di Milano. Poiché la Spagna aveva troncato i rapporti con Venezia, anche Milano si trovava implicata in quella politica.

27 Quello era così: non è la prima volta che Manzoni fa ironicamente le scuse per voler restare aderente alla verità (si pensi all’ubriacatura di Renzo all’osteria a Milano) contravvenendo all’alone di bugiardo idealismo che si conferiva tradizionalmente ai personaggi di un romanzo.

28 a far la strada: ad aprire la strada verso il milanese.

29 sono eretico: sono incredulo.

30 incannar seta: dipanare la seta su cannelli e rocchetti.

31 svolgerlo: distoglierlo.

32 Lorenzo Ghirardelli: Lorenzo Ghirardelli (1600-1641), cancelliere bergamasco, poeta e storico, fu autore di un’opera sul Memorando contagio seguito in Bergamo l’anno 1630 (ed. postuma nel 1681). Di lui fa cenno P. Petrocchi, nel suo Commento ai «Promessi Sposi» (Firenze, Sansoni, 1893-1902, p. 919) e parla M. C. Penco, in un articolo, «Fonti manzonane: M. e Ghirardelli» in Pubblic. dell’Univers. Catt. del Sacro Cuore – Contributi dell’Ist. di Filol. Moderna, serie cit., vol. II, Milano 1966, pp. 219-264. Manzoni lesse e sottolineò con vivo interesse le pagine del quasi ignoto cronista.

33 Giova sperare: «È augurio di trovar Lucia e di trovarla viva» (Ghisalberti, Annali manzoniani, v, p. 191); ma è anche ironico augurio che non torni più un’occasione di quella sorta!

34 è una bella parola!: era infatti rarissimo che la peste si rifacesse una seconda volta; quindi, chi ne fosse convalescente poteva considerarsi immune.

35 influsso: l’influsso maligno delle stelle asserito dai dotti.

36 in un trattato d’economia politica: molto probabilmente cade, sotto lo scherno dello scrittore l’esaltazione romantica allora in voga delle imprese cavalleresche medioevali, che non trovavano giustificazione agli occhi del Manzoni per una qualche utilità sociale ed economica. Efficace, comunque, l’accostamento, per commentare la franchezza di movimenti degli scampati alla peste. E per incriminare lo spirito di facile e vile sopraffazione di tutte le epoche.

37 i pampani: tanto erano rigogliose ed esuberanti.

38 del primo occupante: è qui l’aria d’idillio stralunato, stonato, che molto probabilmente Manzoni deduce da un passo della cronaca del Ghirardelli; il quale fa sapere che la campagna, «cessata l’opera industre del sollecito Agricoltore, era hormai divenuta quasi tutta selvaggia, così che pareva che spirasse la Terra inculta un mestissimo horrore, e un’horridissima mestitia» (cfr. PENCO, art. cit., pp. 230-231).

39 incantato fratello: si veda anche qui la veridicità della trasformazione del bonario, sensato Tonio in uno scemo, a regola della fatalità ch’egli porta nel sangue. Da un incontro così sconvolgente e assurdo sembra spirare il senso stesso del ritorno di Renzo al suo paese: che è quello di sempre, eppure ai suoi occhi, e all’animo, appare insanabilmente diverso. (E si pensi alla poesia dei ritorni delusivi che suona nei versi di un poeta del Novecento, Piero Jahier: «Son io e quella è la mia casa. / Ma non sono più io, ma non è più la mia casa»).

40 una cosa nera: impietosita caricatura: anche don Abbondio sembra il relitto di un mondo di fantasmi.

41 di quel di Bergamo: e cioè, proveniente da un paese che lo conferma sull’identità di colui che sta avvicinandosi.

42 Oh giusto!: come a dire «ci mancherebbe».

43 avvisi: del cielo.

44 scontento: delle notizie avute, e di quelle che non era stato possibile avere soprattutto su Lucia.

45 Una vetticciola: punta di albero.

46 povera vigna!: famosa descrizione che, a torto, fu giudicata un «pezzo di bravura» linguistica (Russo) nel sorvegliatissimo contesto manzoniano. Qualche studioso ha richiamato un passo biblico (agrum hominis pigri, vineam viri stulti, maceriam lapidum). Ma la verità è che, anche in questo caso, s’insinua in sordina la consueta irridente moralità. La vigna è l’equivalente lussureggiante ma pervertito della invadenza umana; alterazione patologica dunque, anche se lo scrittore, con finezza, evita di scoprire la simmetria, e ci dà uno «schizzo» della vigna che può sembrare eccentrico e marginale. Il senso che si trae dalla pagina non è insomma quello di un’amena gratuità. Senza quasi che il lettore se ne accorga, anche qui Manzoni fa pensare.

47 rimessiticci: polioni spuntati su tronchi o rami tagliati.

48 getti: germogli.

49 panicastrelle: piante parassitarie tipiche; si veda anche qui l’ammiccante puntiglio dell’enumerazione.

50 uva turca: uva selvatica.

51 vivi fiori gialli: e qui si noti la bravura e trasparenza del tratteggiare, disegnare, colorare; (tasso barbasso o verbasco, pianta detta volgarmente labbri d’asino).

52 vilucchioni: convolvoli delle siepi.

53 al palco: al soffitto.

54 insalvatichito dalla solitudine: tratto di profonda, assorta veridicità, che sembra condensare il senso depressivo deivari ambienti dove Renzo è passato. A ciò si aggiunga l’atmosfera vespertina in cui l’uomo rimasto solo appare immerso. Si rammentino invece altri passi quietamente contemplativi del crepuscolo in campagna o nei paesi, come quello, mirabile, sul ritorno dei coltivatori, all’ora di cena, del cap. VII.

55 raveggioli: «specie di cacio schiacciato, tenero, per lo più di latte di capra» (Tommaseo).

56 tafferìa: cfr. cap. VI, n. 21.

57 che si trova negli altri: il colore opaco della sera casalinga si avviva a poco a poco intorno ai due ritrovatisi dopo tanti eventi e dolori. Alla casa dell’amico innominato Renzo farà sosta anche al ritorno da Milano, ritrovata Lucia (cap. XXXVII); e sarà anche allora un rifarsi all’elemento nativo, fuori dagli avvenimenti tumultuosi e pressanti.

58 da tanto tempo: altro tratto poeticissimo perché immesso nella psicologia e nella particolare situazione del personaggio, secondo un’intesa fra natura e viventi che è sempre nei punti alti del romanzo. Sono motivi sempre più frequenti negli ultimi capitoli, e rendono con varie inflessioni quel clima lombardo che è la nota di fondo, il timbro tonale della poesia dei Promessi sposi.

59 con la sua pace: con calma.

60 aceto: poiché si riteneva che l’aceto fosse un efficace immunizzante.

61 Greco: paese a circa quattro chilometri da Milano, sulla strada di Monza.

62 cascinotto: voce lombarda: capanna di deposito della paglia.

63 porta Orientale: cfr. cap. XI, n. 26.

Questo ebook appartiene a martina rotta - 91344 Edito da Newton Compton Editori Acquistato il 9/12/2014 7:44:43 AM con numero d'ordine 925062
I magnifici 7 capolavori della letteratura italiana
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