Capitolo XXVII

 

Già più d’una volta1 c’è occorso di far menzione della guerra che allora bolliva, per la successione agli stati del duca Vincenzo Gonzaga2, secondo di quel nome; ma c’è occorso sempre in momenti di gran fretta: sicché non abbiam mai potuto darne più che un cenno alla sfuggita. Ora però, all’intelligenza del nostro racconto si richiede proprio d’averne qualche notizia più particolare. Son cose che chi conosce la storia le deve sapere; ma siccome, per un giusto sentimento di noi medesimi, dobbiam supporre che quest’opera non possa esser letta se non da ignoranti, così non sarà male che ne diciamo qui quanto basti per infarinarne chi n’avesse bisogno.

Abbiam detto che, alla morte di quel duca, il primo chiamato, in linea di successione, Carlo Gonzaga, capo d’un ramo cadetto trapiantato in Francia, dove possedeva i ducati di Nevers e di Rhétel, era entrato al possesso di Mantova3; e ora aggiungiamo, del Monferrato: che la fretta appunto ce l’aveva fatto lasciar nella penna. La corte di Madrid, che voleva a ogni patto (abbiam detto anche questo) escludere da que’ due feudi il nuovo principe, e per escluderlo aveva bisogno d’una ragione (perché le guerre fatte senza una ragione sarebbero ingiuste4), s’era dichiarata sostenitrice di quella che pretendevano avere, su Mantova un altro Gonzaga, Ferrante5, principe di Guastalla; sul Monferrato Carlo Emanuele I6, duca di Savoia, e Margherita Gonzaga7, duchessa vedova di Lorena. Don Gonzalo8, ch’era della casa del gran capitano9, e ne portava il nome, e che aveva già fatto la guerra in Fiandra10, voglioso oltremodo di condurne una in Italia, era forse quello che faceva più fuoco, perché questa si dichiarasse; e intanto, interpretando l’intenzioni e precorrendo gli ordini della corte suddetta, aveva concluso col duca di Savoia un trattato d’invasione e di divisione del Monferrato11: e n’aveva poi ottenuta facilmente la ratificazione dal conte duca12, facendogli creder molto agevole l’acquisto di Casale, ch’era il punto più difeso della parte pattuita al re di Spagna. Protestava però, in nome di questo, di non volere occupar paese, se non a titolo di deposito, fino alla sentenza dell’imperatore13; il quale, in parte per gli ufizi altrui, in parte per suoi propri motivi, aveva intanto negata l’investitura al nuovo duca, e intimatogli che rilasciasse a lui in sequestro gli stati controversi: lui poi, sentite le parti, li rimetterebbe a chi fosse di dovere. Cosa alla quale il Nevers non s’era voluto piegare.

Aveva anche lui amici d’importanza: il cardinale di Richelieu14, i signori veneziani, e il papa, ch’era, come abbiam detto, Urbano VIII. Ma il primo, impegnato allora nell’assedio della Roccella15 e in una guerra con l’Inghilterra, attraversato dal partito della regina madre, Maria de’ Medici16, contraria, per certi suoi motivi, alla casa di Nevers, non poteva dare che delle speranze. I veneziani non volevan moversi, e nemmeno dichiararsi, se prima un esercito francese non fosse calato in Italia; e, aiutando il duca17 sotto mano, come potevano, con la corte di Madrid e col governatore di Milano, stavano sulle proteste, sulle proposte, sull’esortazioni, placide o minacciose, secondo i momenti. Il papa raccomandava il Nevers agli amici, intercedeva in suo favore presso gli avversari, faceva progetti d’accomodamento; di metter gente in campo non ne voleva saper nulla.

Così i due alleati alle offese18 poterono, tanto più sicuramente, cominciar l’impresa concertata. Il duca di Savoia era entrato, dalla sua parte, nel Monferrato; don Gonzalo aveva messo, con gran voglia, l’assedio a Casale; ma non ci trovava tutta quella soddisfazione che s’era immaginato: che non credeste che nella guerra sia tutto rose. La corte19 non l’aiutava a seconda de’ suoi desidèri, anzi gli lasciava mancare i mezzi più necessari; l’alleato l’aiutava troppo: voglio dire che, dopo aver presa la sua porzione, andava spilluzzicando quella assegnata al re di Spagna. Don Gonzalo se ne rodeva20 quanto mai si possa dire; ma temendo, se faceva appena un po’ di rumore, che quel Carlo Emanuele, così attivo ne’ maneggi e mobile ne’ trattati, come prode nell’armi, si voltasse alla Francia, doveva chiudere un occhio, mandarla giù, e stare zitto. L’assedio poi andava male, in lungo, ogni tanto all’indietro, e per il contegno saldo, vigilante, risoluto degli assediati, e per aver lui poca gente, e, al dire di qualche storico, per i molti spropositi che faceva. Su questo noi lasciamo la verità a suo luogo, disposti anche, quando la cosa fosse realmente così, a trovarla bellissima, se fu cagione che in quell’impresa sia restato morto, smozzicato, storpiato qualche uomo di meno, e, ceteris paribus21, anche soltanto un po’ meno danneggiati i tegoli di Casale22. In questi frangenti ricevette la nuova della sedizione di Milano, e ci accorse in persona.

Qui, nel ragguaglio che gli si diede, fu fatta anche menzione della fuga ribelle e clamorosa di Renzo, de’ fatti veri e supposti ch’erano stati cagione del suo arresto; e gli si seppe anche dire che questo tale s’era rifugiato sul territorio di Bergamo. Questa circostanza fermò l’attenzione di don Gonzalo. Era informato da tutt’altra parte, che a Venezia avevano alzata la cresta, per la sommossa di Milano; che da principio avevan creduto che sarebbe costretto a levar l’assedio da Casale, e pensavan tuttavia che ne fosse ancora sbalordito, e in gran pensiero: tanto più che, subito dopo quell’avvenimento, era arrivata la notizia, sospirata da que’ signori e temuta da lui, della resa della Roccella23. E scottandogli molto, e come uomo e come politico, che que’ signori avessero un tal concetto de’ fatti suoi, spiava ogni occasione di persuaderli, per via d’induzione, che non aveva perso nulla dell’antica sicurezza; giacché il dire espressamente: non ho paura, è come non dir nulla. Un buon mezzo è di fare il disgustato, di querelarsi, di reclamare; e perciò, essendo venuto il residente di Venezia a fargli un complimento, e ad esplorare insieme nella sua faccia e nel suo contegno, come stesse dentro di sé (notate tutto; ché questa è politica di quella vecchia fine24), don Gonzalo, dopo aver parlato del tumulto, leggermente e da uomo che ha già messo riparo a tutto, fece quel fracasso che sapete a proposito di Renzo; come sapete anche quel che ne venne in conseguenza. Dopo, non si occupò più d’un affare così minuto e, in quanto a lui, terminato; e quando poi, che fu un pezzo dopo, gli arrivò la risposta, al campo sopra Casale25, dov’era tornato, e dove aveva tutt’altri pensieri, alzò e dimenò la testa, come un baco da seta che cerchi la foglia: stette lì un momento, per farsi tornar vivo nella memoria quel fatto, di cui non ci rimaneva più che un’ombra; si rammentò della cosa, ebbe un’idea fugace e confusa del personaggio; passò ad altro, e non ci pensò più.

Ma Renzo, il quale, da quel poco che gli s’era fatto veder per aria, doveva supporre tutt’altro che una così benigna noncuranza, stette un pezzo senz’altro pensiero o, per dir meglio, senz’altro studio, che di viver nascosto. Pensate se si struggeva di mandar le sue nuove alle donne, e d’aver le loro; ma c’eran due gran difficoltà. Una, che avrebbe dovuto anche lui confidarsi a un segretario, perché il poverino non sapeva scrivere, e neppur leggere, nel senso esteso della parola; e se, interrogato di ciò, come forse vi ricorderete, dal dottor Azzecca-garbugli, aveva risposto di sì, non fu un vanto, una sparata, come si dice; ma era la verità che lo stampato lo sapeva leggere, mettendoci il suo tempo: lo scritto è un altro par di maniche. Era dunque costretto a mettere un terzo a parte de’ suoi interessi, d’un segreto così geloso: e un uomo che sapesse tener la penna in mano, e di cui uno si potesse fidare, a que’ tempi non si trovava così facilmente; tanto più in un paese dove non s’avesse nessuna antica conoscenza. L’altra difficoltà era d’avere anche un corriere; un uomo che andasse appunto da quelle parti, che volesse incaricarsi della lettera, e darsi davvero il pensiero di recapitarla; tutte cose, anche queste, difficili a trovarsi in un uomo solo.

Finalmente, cerca e ricerca, trovò chi scrivesse per lui. Ma, non sapendo se le donne fossero ancora a Monza, o dove, credé bene di fare accluder la lettera per Agnese in un’altra diretta al padre Cristoforo. Lo scrivano prese anche l’incarico di far recapitare il plico: lo consegnò a uno che doveva passare non lontano da Pescarenico; costui lo lasciò, con molte raccomandazioni, in un’osteria sulla strada, al punto più vicino; trattandosi che il plico era indirizzato a un convento, ci arrivò; ma cosa n’avvenisse dopo, non s’è mai saputo26. Renzo, non vedendo comparir risposta, fece stendere un’altra lettera, a un di presso come la prima, e accluderla in un’altra a un suo amico di Lecco, o parente che fosse. Si cercò un altro latore, sì trovò; questa volta la lettera arrivò a chi era diretta. Agnese trottò a Maggianico, se la fece leggere e spiegare da quell’Alessio suo cugino: concertò con lui una risposta, che questo mise in carta; si trovò il mezzo di mandarla ad Antonio Rivolta nel luogo del suo domicilio: tutto questo però non così presto come noi lo raccontiamo. Renzo ebbe la risposta, e fece riscrivere. In somma, s’avviò tra le due parti un carteggio, né rapido né regolare, ma pure, a balzi e ad intervalli, continuato.

Ma per avere un’idea di quel carteggio, bisogna sapere un poco come andassero allora tali cose, anzi come vadano; perché, in questo particolare, credo che ci sia poco o nulla di cambiato.

Il contadino che non sa scrivere, e che avrebbe bisogno di scrivere, si rivolge a uno che conosca quell’arte, scegliendolo, per quanto può, tra quelli della sua condizione, perché degli altri si perita27, o si fida poco; l’informa, con più o meno ordine e chiarezza, degli antecedenti: e gli espone, nella stessa maniera, la cosa da mettere in carta. Il letterato28, parte intende, parte frantende, dà qualche consiglio, propone qualche cambiamento, dice: – lasciate fare a me –; piglia la penna, mette come può in forma letteraria i pensieri dell’altro, li corregge, li migliora, carica la mano, oppure smorza, lascia anche fuori, secondo gli pare che torni meglio alla cosa: perché non c’è rimedio, chi ne sa più degli altri non vuol essere strumento materiale nelle loro mani; e quando entra negli affari altrui, vuol anche fargli andare un po’ a modo suo. Con tutto ciò, al letterato suddetto non gli riesce sempre di dire tutto quel che vorrebbe; qualche volta gli accade di dire tutt’altro: accade anche a noi altri, che scriviamo per la stampa29. Quando la lettera così composta arriva alle mani del corrispondente, che anche lui non abbia pratica dell’abbiccì, la porta a un altro dotto di quel calibro, il quale gliela legge e gliela spiega. Nascono delle questioni sul modo d’intendere; perché l’interessato, fondandosi sulla cognizione de’ fatti antecedenti, pretende che certe parole voglian dire una cosa; il lettore, stando alla pratica che ha della composizione, pretende che ne vogliano dire un’altra. Finalmente bisogna che chi non sa si metta nelle mani di chi sa, e dia a lui l’incarico della risposta: la quale, fatta sul gusto della proposta30, va poi soggetta a un’interpretazione simile. Che se, per di più, il soggetto della corrispondenza è un po’ geloso; se c’entrano affari segreti, che non si vorrebbero lasciar capire a un terzo, caso mai che la lettera andasse persa; se, per questo riguardo, c’è stata anche l’intenzione positiva di non dir le cose affatto chiare; allora, per poco che la corrispondenza duri, le parti finiscono a intendersi tra di loro come altre volte due scolastici31 che da quattr’ore disputassero sull’entelechia32: per non prendere una similitudine da cose vive; che ci avesse poi a toccare qualche scappellotto33.

Ora, il caso de’ nostri due corrispondenti era appunto quello che abbiam detto. La prima lettera scritta in nome di Renzo conteneva molte materie. Da principio, oltre un racconto della fuga, molto più conciso, ma anche più arruffato di quello che avete letto, un ragguaglio delle sue circostanze attuali; dal quale, tanto Agnese quanto il suo turcimanno34 furono ben lontani di ricavare un costrutto chiaro e intero: avviso segreto, cambiamento di nome, esser sicuro, ma dovere star nascosto; cose per sé non troppo famigliari a’ loro intelletti, e nella lettera dette anche un po’ in cifra35. C’era poi delle domande affannose, appassionate, su’ casi di Lucia, con de’ cenni oscuri e dolenti, intorno alle voci che n’erano arrivate fino a Renzo. C’erano finalmente speranze incerte, e lontane, disegni lanciati nell’avvenire, e intanto promesse e preghiere di mantener la fede data, di non perder la pazienza né il coraggio, d’aspettar migliori circostanze.

Dopo un po’ di tempo, Agnese trovò un mezzo fidato di far pervenire nelle mani di Renzo una risposta, co’ cinquanta scudi assegnatigli da Lucia. Al veder tant’oro, Renzo non sapeva cosa si pensare; e con l’animo agitato da una maraviglia e da una sospensione che non davan luogo a contentezza, corse in cerca del segretario, per farsi interpretar la lettera, e aver la chiave d’un così strano mistero.

Nella lettera, il segretario d’Agnese, dopo qualche lamento sulla poca chiarezza della proposta36, passava a descrivere, con chiarezza a un di presso uguale, la tremenda storia di quella persona37 (così diceva); e qui rendeva ragione de’ cinquanta scudi; poi veniva a parlar del voto, ma per via di perifrasi, aggiungendo, con parole più dirette e aperte, il consiglio di mettere il cuore in pace, e di non pensarci più.

Renzo, poco mancò che non se la prendesse col lettore interprete: tremava, inorridiva, s’infuriava, di quel che aveva capito, e di quel che non aveva potuto capire. Tre o quattro volte si fece rileggere il terribile scritto, ora parendogli d’intender meglio, ora divenendogli buio ciò che prima gli era parso chiaro. E in quella febbre di passioni, volle che il segretario mettesse subito mano alla penna, e rispondesse. Dopo l’espressioni più forti che si possano immaginare di pietà e di terrore per i casi di Lucia, – scrivete, – proseguiva dettando, – che io il cuore in pace non lo voglio mettere, e non lo metterò mai; e che non son pareri da darsi a un figliuolo par mio; e che i danari non li toccherò; che li ripongo, e li tengo in deposito, per la dote della giovine; che già la giovine dev’esser mia; che io non so di promessa; e che ho ben sempre sentito dire che la Madonna c’entra per aiutare i tribolati, e per ottener delle grazie, ma per far dispetto e per mancar di parola, non l’ho sentito mai; e che codesto non può stare; e che, con questi danari, abbiamo a metter su casa qui; e che, se ora sono un po’ imbrogliato, l’è una burrasca che passerà presto –; e cose simili.

Agnese ricevé poi quella lettera, e fece riscrivere; e il carteggio continuò, nella maniera che abbiam detto.

Lucia, quando la madre ebbe potuto, non so per qual mezzo, farle sapere che quel tale era vivo e in salvo e avvertito, sentì un gran sollievo, e non desiderava più altro, se non che si dimenticasse di lei; o, per dir la cosa proprio a un puntino, che pensasse a dimenticarla38. Dal canto suo, faceva cento volte al giorno una risoluzione simile riguardo a lui; e adoprava anche ogni mezzo, per mandarla ad effetto. Stava assidua al lavoro, cercava d’occuparsi tutta in quello: quando l’immagine di Renzo le si presentava, e lei a dire o a cantare orazioni a mente. Ma quell’immagine, proprio come se avesse avuto malizia, non veniva per lo più, così alla scoperta; s’introduceva di soppiatto dietro all’altre, in modo che la mente non s’accorgesse d’averla ricevuta, se non dopo qualche tempo che là c’era. Il pensiero di Lucia stava spesso con la madre: come non ci sarebbe stato? e il Renzo ideale veniva pian piano a mettersi in terzo, come il reale aveva fatto tante volte. Così con tutte le persone, in tutti i luoghi, in tutte le memorie del passato, colui si veniva a ficcare39. E se la poverina si lasciava andar qualche volta a fantasticar sul suo avvenire, anche lì compariva colui, per dire, se non altro: io a buon conto non ci sarò. Però, se il non pensare a lui era impresa disperata, a pensarci meno, e meno intensamente che il cuore avrebbe voluto, Lucia ci riusciva fino a un certo segno: ci sarebbe anche riuscita meglio, se fosse stata sola a volerlo. Ma c’era donna Prassede, la quale, tutta impegnata dal canto suo a levarle dall’animo colui, non aveva trovato miglior espediente che di parlargliene spesso40. – Ebbene? – le diceva: – non ci pensiam più a colui?

– Io non penso a nessuno, – rispondeva Lucia.

Donna Prassede non s’appagava d’una risposta simile; replicava che ci volevan fatti e non parole; si diffondeva a parlare sul costume delle giovani, le quali, diceva, – quando hanno nel cuore uno scapestrato (ed è lì che inclinano sempre), non se lo staccan più. Un partito onesto, ragionevole, d’un galantuomo, d’un uomo assestato, che, per qualche accidente, vada a monte, son subito rassegnate; ma un rompicollo, è piaga incurabile. – E allora principiava il panegirico del povero assente, del birbante venuto a Milano, per rubare e scannare; e voleva far confessare a Lucia le bricconate che colui doveva aver fatte sicuramente, anche al suo paese.

Lucia, con la voce tremante di vergogna, di dolore, e di quello sdegno che poteva aver luogo nel suo animo dolce e nella sua umile fortuna41, assicurava e attestava, che, al suo paese, quel poveretto non aveva mai fatto parlar di sé, altro che in bene; avrebbe voluto, diceva, che fosse presente qualcheduno di là, per fargli far testimonianza. Anche sull’avventure di Milano, delle quali non era ben informata, lo difendeva, appunto con la cognizione che aveva di lui e de’ suoi portamenti fino dalla fanciullezza. Lo difendeva o si proponeva di difenderlo, per puro dovere di carità, per amore del vero, e, a dir proprio la parola con la quale spiegava a sé stessa il suo sentimento, come prossimo. Ma da queste apologie donna Prassede ricavava nuovi argomenti per convincer Lucia, che il suo cuore era ancora perso dietro a colui. E per verità, in que’ momenti, non saprei ben dire come la cosa stesse. L’indegno ritratto che la vecchia42 faceva del poverino, risvegliava, per opposizione, più viva e più distinta che mai, nella mente della giovine l’idea che vi s’era formata in una così lunga consuetudine; le rimembranze compresse a forza, si svolgevano in folla; l’avversione e il disprezzo43 richiamavano tanti antichi motivi di stima; l’odio cieco e violento faceva sorger più forte la pietà: e con questi affetti, chi sa quanto ci potesse essere o non essere di quell’altro che dietro ad essi s’introduce così facilmente negli animi; figuriamoci cosa farà in quelli, donde si tratti di scacciarlo per forza. Sia come si sia, il discorso, per la parte di Lucia, non sarebbe mai andato molto in lungo; ché le parole finivan presto in pianto.

Se donna Prassede fosse stata spinta a trattarla in quella maniera da qualche odio inveterato contro di lei, forse quelle lacrime l’avrebbero tocca e fatta smettere; ma parlando a fin di bene, tirava avanti, senza lasciarsi smovere: come i gemiti, i gridi supplichevoli, potranno ben trattenere l’arme d’un nemico, ma non il ferro d’un chirurgo. Fatto però bene il suo dovere per quella volta, dalle stoccate e da’ rabbuffi veniva all’esortazioni, ai consigli, conditi anche di qualche lode, per temperar così l’agro col dolce, e ottener meglio l’effetto, operando sull’animo in tutti i versi. Certo, di quelle baruffe (che avevan sempre a un di presso lo stesso principio, mezzo e fine), non rimaneva alla buona Lucia propriamente astio contro l’acerba predicatrice, la quale poi nel resto la trattava con gran dolcezza; e anche in questo, si vedeva una buona intenzione44. Le rimaneva bensì un ribollimento, una sollevazione di pensieri e d’affetti tale, che ci voleva molto tempo e molta fatica per tornare a quella qualunque calma di prima.

Buon per lei, che non era la sola a cui donna Prassede avesse a far del bene; sicché le baruffe non potevano esser così frequenti. Oltre il resto della servitù, tutti cervelli che avevan bisogno, più o meno, d’esser raddirizzati e guidati; oltre tutte l’altre occasioni di prestar lo stesso ufizio, per buon cuore, a molti con cui non era obbligata a niente: occasioni che cercava, se non s’offrìvan da sé; aveva anche cinque figlie; nessuna in casa, ma che le davan più da pensare, che se ci fossero state. Tre eran monache, due maritate; e donna Prassede si trovava naturalmente aver tre monasteri e due case a cui soprintendere: impresa vasta e complicata, e tanto più faticosa, che due mariti, spalleggiati da padri, da madri, da fratelli, e tre badesse, fiancheggiate da altre dignità e da molte monache, non volevano accettare la sua soprintendenza. Era una guerra, anzi cinque guerre, coperte, gentili, fino a un certo segno, ma vive e senza tregua: era in tutti que’ luoghi una attenzione continua a scansare la sua premura, a chiuder l’adito a’ suoi pareri, e eludere le sue richieste, a far che fosse al buio, più che si poteva, d’ogni affare. Non parlo de’ contrasti, delle difficoltà che incontrava nel maneggio d’altri affari anche più estranei: si sa che agli uomini il bene bisogna, le più volte, farlo per forza. Dove il suo zelo poteva esercitarsi liberamente, era in casa: lì ogni persona era soggetta, in tutto e per tutto, alla sua autorità, fuorché don Ferrante, col quale le cose andavano in un modo affatto particolare.

Uomo di studio, non gli piaceva né di comandare né d’ubbidire45. Che, in tutte le cose di casa, la signora moglie fosse la padrona, alla buon’ora; ma lui servo, no. E se, pregato, le prestava a un’occorrenza l’ufizio della penna, era perché ci aveva il suo genio46; del rimanente, anche in questo sapeva dir di no, quando non fosse persuaso di ciò che lei voleva fargli scrivere. – La s’ingegni, – diceva in que’ casi; – faccia da sé, giacché la cosa le par tanto chiara. – Donna Prassede, dopo aver tentato per qualche tempo, e inutilmente, di tirarlo dal lasciar fare al fare, s’era ristretta a brontolare spesso contro di lui, a nominarlo uno schivafatiche, un uomo fisso nelle sue idee, un letterato; titolo nel quale, insieme con la stizza, c’entrava anche un po’ di compiacenza.

Don Ferrante passava di grand’ore nel suo studio, dove aveva una raccolta di libri considerabile, poco meno di trecento volumi47: tutta roba scelta, tutte opere delle più riputate, in varie materie; in ognuna delle quali era più o meno versato. Nell’astrologia, era tenuto, e con ragione, per più che un dilettante; perché non ne possedeva soltanto quelle nozioni generiche, e quel vocabolario comune, d’influssi, d’aspetti, di congiunzioni48; ma sapeva parlare a proposito, e come dalla cattedra, delle dodici case del cielo49, de’ circoli massimi50, de’ gradi lucidi e tenebrosi51, d’esaltazione e di deiezione, di transiti e di rivoluzioni52, de’ princìpi in somma più certi e più reconditi della scienza53. Ed eran forse vent’anni che, in dispute frequenti e lunghe, sosteneva la domificazione del Cardano54 contro un altro dotto attaccato ferocemente a quella dell’Alcabizio55, per mera ostinazione, diceva don Ferrante; il quale, riconoscendo volentieri la superiorità degli antichi, non poteva però soffrire quel non voler dar ragione a’ moderni, anche dove l’hanno chiara che la vedrebbe ognuno56. Conosceva anche, più che mediocremente, la storia della scienza; sapeva a un bisogno citare le più celebri predizioni avverate, e ragionar sottilmente ed eruditamente sopra altre celebri predizioni andate a vòto, per dimostrar che la colpa non era della scienza, ma di chi non l’aveva saputa adoprar bene.

Della filosofia antica aveva imparato quanto poteva bastare, e n’andava di continuo imparando di più, dalla lettura di Diogene Laerzio57. Siccome però que’ sistemi, per quanto sian belli, non si può adottarli tutti; e, a voler esser filosofo, bisogna scegliere un autore, così don Ferrante aveva scelto Aristotele58, il quale, come diceva lui, non è né antico né moderno; è il filosofo. Aveva anche varie opere de’ più savi e sottili seguaci di lui, tra i moderni: quelle de’ suoi impugnatori non aveva mai voluto leggerle, per non buttar via il tempo, diceva; né comprarle, per non buttar via i danari. Per eccezione però, dava luogo nella sua libreria a que’ celebri ventidue libri De subtilitate59, e a qualche altr’opera antiperipatetica del Cardano, in grazia del suo valore in astrologia; dicendo che chi aveva potuto scrivere il trattato De restitutione temporum et motuum coelestium, e il libro Duodecim geniturarum60, meritava d’essere ascoltato, anche quando spropositava; e che il gran difetto di quell’uomo era stato d’aver troppo ingegno; e che nessuno si può immaginare dove sarebbe arrivato, anche in filosofia, se fosse stato sempre nella strada retta. Del rimanente, quantunque, nel giudizio de’ dotti, don Ferrante passasse per un peripatetico consumato, non ostante a lui non pareva di saperne abbastanza; e più d’una volta disse, con gran modestia, che l’essenza, gli universali, l’anima del mondo, e la natura delle cose non eran cose tanto chiare, quanto si potrebbe credere61.

Della filosofia naturale s’era fatto più un passatempo che uno studio; l’opere stesse d’Aristotile su questa materia62, e quelle di Plinio63 le aveva piuttosto lette che studiate: non di meno, con questa lettura, con le notizie raccolte incidentemente da’ trattati di filosofia generale, con qualche scorsa data alla Magia naturale del Porta64, alle tre storie lapidum, animalium, plantarum, del Cardano, al Trattato dell’erbe, delle piante, degli animali, d’Alberto Magno65, a qualche altr’opera di minor conto, sapeva a tempo trattenere una conversazione ragionando delle virtù più mirabili e delle singolari di molti semplici66; descrivendo esattamente le forme e l’abitudini delle sirene e dell’unica fenice67; spiegando come la salamandra stia nel fuoco senza bruciare; come la remora, quel pesciolino, abbia la forza e l’abilità di fermare di punto in bianco, in alto mare, qualunque gran nave; come le gocciole della rugiada diventin perle in seno delle conchiglie; come il cameleonte si cibi d’aria; come dal ghiaccio lentamente indurato, con l’andar de’ secoli, si formi il cristallo; e altri de’ più maravigliosi segreti della natura.

In quelli della magia e della stregoneria s’era internato di più, trattandosi, dice il nostro anonimo, di scienza molto più in voga e più necessaria, e nella quale i fatti sono di molto maggiore importanza, e più a mano, da poterli verificare. Non c’è bisogno di dire che, in un tale studio, non aveva mai avuta altra mira che d’istruirsi e di conoscere a fondo le pessime arti de’ maliardi, per potersene guardare, e difendere. E, con la scorta principalmente del gran Martino Delrio68 (l’uomo della scienza69), era in grado di discorrere ex professo del maleficio amatorio, del maleficio sonnifero, del maleficio ostile, e dell’infinite specie che, pur troppo, dice ancora l’anonimo, si vedono in pratica alla giornata, di questi tre generi capitali di malìe, con effetti così dolorosi. Ugualmente vaste e fondate eran le cognizioni di don Ferrante in fatto di storia, specialmente universale: nella quale i suoi autori erano il Tarcagnota, il Dolce, il Bugatti, il Campana, il Guazzo70, i più riputati in somma.

Ma cos’è mai la storia, diceva spesso don Ferrante, senza la politica? Una guida che cammina, cammina, con nessuno dietro che impari la strada, e per conseguenza butta via i suoi passi; come la politica senza la storia è uno che cammina senza guida. C’era dunque ne’ suoi scaffali un palchetto assegnato agli statisti; dove, tra molti di piccola mole, e di fama secondaria, spiccavano il Bodino, il Cavalcanti, il Sansovino, il Paruta, il Boccalini71. Due però erano i libri che don Ferrante anteponeva a tutti, e di gran lunga, in questa materia; due che, fino a un certo tempo, fu solito di chiamare i primi, senza mai potersi risolvere a qual de’ due convenisse unicamente quel grado: l’uno, il Principe e i Discorsi del celebre segretario fiorentino72; mariolo sì, diceva don Ferrante, ma profondo: l’altro, la Ragion di Stato del non men celebre Giovanni Botero73; galantuomo sì, diceva pure, ma acuto74. Ma, poco prima del tempo nel quale è circoscritta la nostra storia, era venuto fuori il libro che terminò la questione del primato, passando avanti anche all’opere di que’ due matadori75, diceva don Ferrante; il libro in cui si trovan racchiuse e come stillate tutte le malizie, per poterle conoscere, e tutte le virtù, per poterle praticare; quel libro piccino, ma tutto d’oro; in una parola, lo Statista Regnante di don Valeriano Castiglione76, di quell’uomo celeberrimo, di cui si può dire, che i più gran letterati lo esaltavano a gara, e i più gran personaggi facevano a rubarselo; di quell’uomo, che il papa Urbano VIII onorò, come è noto, di magnifiche lodi: che il cardinal Borghese e il viceré di Napoli, don Pietro di Toledo77, sollecitarono a descrivere, il primo i fatti di papa Paolo V78, l’altro le guerre del re cattolico in Italia79, l’uno e l’altro invano; di quell’uomo, che Luigi XIII, re di Francia, per suggerimento del cardinal di Richelieu, nominò suo istoriografo; a cui il duca Carlo Emanuele di Savoia conferì la stessa carica; in lode di cui, per tralasciare altre gloriose testimonianze, la duchessa Cristina80, figlia del cristianissimo re Enrico IV, poté in un diploma, con molti altri titoli, annoverare «la certezza della fama ch’egli ottiene in Italia, di primo scrittore de’ nostri tempi81».

Ma se, in tutte le scienze suddette, don Ferrante poteva dirsi addottrinato, una ce n’era in cui meritava e godeva il titolo di professore: la scienza cavalleresca82. Non solo ne ragionava con vero possesso, ma pregato frequentemente d’intervenire in affari d’onore, dava sempre qualche decisione. Aveva nella sua libreria, e si può dire in testa, le opere degli scrittori più riputati in tal materia: Paride dal Pozzo, Fausto da Longiano, l’Urrea, il Muzio, il Romei, l’Albergato, il Forno primo e il Forno secondo di Torquato Tasso, di cui aveva anche in pronto, e a un bisogno sapeva citare a memoria tutti i passi così della Gerusalemme Liberata, come della Conquistata, che possono far testo in materia di cavalleria83. L’autore però degli autori, nel suo concetto, era il nostro celebre Francesco Birago, con cui si trovò anche, più d’una volta, a dar giudizio sopra casi d’onore; e il quale, dal canto suo, parlava di don Ferrante in termini di stima particolare. E fin da quando84 venner fuori i Discorsi Cavallereschi di quell’insigne scrittore, don Ferrante pronosticò, senza esitazione, che quest’opera avrebbe rovinata l’autorità dell’Olevano85, e sarebbe rimasta, insieme con l’altre sue nobili sorelle, come codice di primaria autorità presso ai posteri: profezia, dice l’anonimo, che ognun può vedere come si sia avverata.

Da questo passa86 poi alle lettere amene; ma noi cominciamo a dubitare se veramente il lettore abbia una gran voglia d’andar avanti con lui in questa rassegna, anzi a temere di non aver già buscato il titolo di copiator servile per noi, e quello di seccatore da dividersi con l’anonimo sullodato, per averlo bonariamente seguito fin qui, in cosa estranea al racconto principale, e nella quale probabilmente non s’è tanto disteso, che per isfoggiar dottrina, e far vedere che non era indietro del suo secolo. Però, lasciando scritto quel che è scritto, per non perder la nostra fatica, ometteremo il rimanente, per rimetterci in istrada: tanto più che ne abbiamo un bel pezzo da percorrere, senza incontrare alcun de’ nostri personaggi, e uno più lungo ancora, prima di trovar quelli ai fatti de’ quali certamente il lettore s’interessa di più, se a qualche cosa s’interessa in tutto questo.

Fino all’autunno del seguente anno 1629, rimasero tutti, chi per volontà, chi per forza, nello stato a un di presso in cui gli abbiam lasciati, senza che ad alcuno accadesse, né che alcun altro potesse far cosa degna d’esser riferita. Venne l’autunno, in cui Agnese e Lucia avevan fatto conto di ritrovarsi insieme: ma un grande avvenimento pubblico mandò quel conto all’aria: e fu questo certamente uno de’ suoi più piccoli effetti. Seguiron poi altri grandi avvenimenti, che però non portarono nessun cambiamento notabile nella sorte de’ nostri personaggi. Finalmente nuovi casi, più generali, più forti, più estremi, arrivarono anche fino a loro, fino agli infimi di loro, secondo la scala del mondo: come un turbine vasto, incalzante, vagabondo, scoscendendo e sbarbando alberi, arruffando tetti, scoprendo campanili, abbattendo muraglie, e sbattendone qua e là i rottami, solleva anche i fuscelli nascosti tra l’erba, va a cercare negli angoli le foglie passe e leggieri87, che un minor vento vi aveva confinate, e le porta in giro involte nella sua rapina88.

Ora, perché i fatti privati che ci rimangon da raccontare, riescan chiari, dobbiamo assolutamente premettere un racconto alla meglio di quei pubblici, prendendola anche un po’ da lontano.

 

 

 

1 Già più d’una volta: cfr. capp. V e XII.

2 Vincenzo Gonzaga: cfr. cap. V, n. 26.

3 di Mantova: cfr. cap. V, n. 27. Era il candidato sostenuto dalla Francia, dal papa e dalla Repubblica veneta.

4 ... ingiuste: è chiaro che per Manzoni ragione (letteralm., motivo giuridicamente fondato) equivale in questo caso a “pretesto”.

5 Ferrante: secondo di quel nome, divenne principe di Guastalla nel 1575; morì nel 1630.

6 Carlo Emanuele I: figlio di Emanuele Filiberto (1562-1630).

7 Margherita Gonzaga: figlia di Carlo Emanuele I, vedova di Enrico di Lorena.

8 Don Gonzalo: Gonzalo Fernandez de Córdoba (c. 1594-1635), generale spagnuolo, governatore di Milano dal 1627. Contrariamente al giudizio manzoniano, ricerche storiche del Nicolini ne hanno rivendicato la capacità e integrità (cfr. in Arte e storia nei Promessi sposi, Milano, 1958, pp. 87-263). Risulta ch’egli fu contrario alla guerra del Monferrato, e costretto a proseguire contro la sua volontà l’assedio a Casale. Manzoni aveva tratto le sue notizie da fonti antispagnole. Resta comunque il fatto che il giudizio manzoniano, sempre responsabilmente elaborato, mira anzitutto a cogliere la stoltezza e l’assurdità radicale di «una condizione umana tutta affidata alla politica, alle arti della diplomazia e alle operazioni della guerra» (Getto).

9 gran capitano: il Gran Capitano, detto anche il «gran Consalvo» (1452-1515), del quale don Gonzalo portava il nome. Ne discendeva in linea femminile.

10 la guerra in Fiandra: l’attività militare del Fernandez de Córdoba in Fiandra era andata dal 1620 al 1626. Tra i fatti d’arme da lui diretti con onore, è la battaglia di Fleurus (29 agosto 1622) che salvava il Belgio tra i possessi imperiali nei Paesi Bassi. La vittoria fu celebrata da un dramma di Lope de Vega.

11 del Monferrato: trattato concluso il 25 dicembre 1627.

12 conte duca: l’Olivares. Cfr. cap. V, n. 27.

13 imperatore: Ferdinando II d’Asburgo.

14 il cardinale di Richelieu: anche qui, cfr. cap. V, n. 28.

15 Roccella: fortezza tenuta dagli ugonotti con l’aiuto dell’Inghilterra, e assediata dalle truppe francesi.

16 Maria de’ Medici: Maria de’ Medici (1573-1642), figlia di Francesco granduca di Toscana, moglie di Enrico IV re di Francia; alla morte del marito divenne reggente in nome del figlio minorenne, Luigi XIII. Gelosa della potenza del Richelieu, lottò a lungo contro di lui.

17 il duca: il duca di Nevers.

18 alle offese: Carlo Emanuele e don Gonzalo, che, secondo il trattato stipulato, s’erano associati per prendere l’offensiva.

19 La corte: la corte di Madrid.

20 se ne rodeva: «il contegno dell’alleato scemava e comprometteva il merito che dall’andamento della guerra di Casale don Gonzalo s’era ripromesso, dando occasione con la sua lentezza a far persuasi i signori di Venezia che le cose del Monferrato andassero male» (Barbi, Annali manzoniani, IV, p. 170).

21 ceteris paribus: «a parità di condizioni per tutto il resto», cioè restando uguale il resto.

22 i tegoli di Casale: espressione divenuta celebre dell’animus manzoniano a proposito di guerre e spregiudicate ambizioni.

23 resa della Roccella: capitolò il 25 ottobre 1628; la notizia arrivò in Italia nel novembre.

24 politica... vecchia fine: nessuna particolare ironia verso i sistemi della diplomazia veneziana o, di rimando, verso don Gonzalo; ma il consueto radicale sarcasmo contro l’ipocrisia e l’agonismo congeniti alla politica «vecchia fine».

25 al campo sopra Casale: solo a patto di siffatti cenni ironicamente informativi dell’ambiente dove si svolgono gli eventi, «la storia non vi appare estranea e sovrabbondante; tra storia e favola l’Autore compone una sottile opera di adattamento dell’una all’altra; e dall’una passa liberamente all’altra, senza scadere mai e senza elevarsi nel tono del suo narrare» (V. Monzini, «La critica dei “venticinque”» in Convivium, XXXIII, n. 4, agosto 1965, p. 378).

26 s’è mai saputo: per spiegare come la rammenti l’ordine di proibire a padre Cristoforo di mantenere corrispondenza con gente del paese (cfr. Barbi, Annali manzoniani, II, p. 279).

27 si perita: diffida.

28 Il letterato: da notare nell’appellativo l’addebito ironico alla classe di siffatti esperti, anch’essi a loro modo “letterati”.

29 la stampa: l’addebito investe invece qui direttamente i letterati di professione.

30 della proposta: della prima missiva.

31 due scolastici: due filosofi aristotelici.

32 entelechia: termine aristotelico di significato discusso, che serve per lo più a designare la realtà che ha raggiunto il suo pieno sviluppo (in contrapposizione a “potenza”). Qui vale come concetto oscuro, astruso.

33 qualche scappellotto: allusione che va forse alle polemiche in corso (1816, 1826) fra romantici e classici.

34 turcimanno: interprete (dall’arabo “targuman”, dragomanno, interprete addetto alle ambasciate dei paesi orientali).

35 un po’ in cifra: in linguaggio oscuro, come fosse cifrato per prudenza.

36 proposta: la lettera di Renzo (cfr. n. 30).

37 quella persona: Lucia.

38 a dimenticarla: «Lucia desiderava che Renzo, non tanto la dimenticasse, quanto pensasse a dimenticarla, perché intanto, così facendo, avrebbe continuato a pensar a lei» (Belloni).

39 colui si veniva a ficcare: cfr. per un’analoga situazione, «gl’irrevocati dì» di Ermengarda (Adelchi, IV, coro, v. 30).

40 di parlargliene spesso: il Barbi, in discussione col Pistelli, nega in donna Prassede un’effettiva volontà di affliggere Lucia (e ciò è vero) ed esclude un atteggiamento indispettito dell’Autore verso la figura della vecchia dama (Annali manzoniani, I, pp. 223-224). Ma a parte il soggetto in sé – di cui il Manzoni irride, si è visto, il basso discernimento e la presunzione – la satira assurge qui chiaramente a livello rappresentativo; donna Prassede impersona, pur senza averne coscienza, certa stolta arroganza e bacchettoneria e, in genere, certe storture mentali tipiche della sua classe; classe, oggi si direbbe, di borghesi, o di mezzo nobili (e si vedano anche le accuse di lei al birbante venuto a Milano, per rubare e scannare).

41 umile fortuna: la condizione di ospite e, in apparenza, di beneficata in quella casa. Tanto più indiscreta e indelicata, perciò, la dama.

42 la vecchia: vecchia e, peggio, incapace d’immedesimarsi ai sentimenti d’una giovine, per mancanza d’elasticità di spirito e di carità. È in casi analoghi che la condizione senile si fa vituperosa (si pensi al vecchio mal vissuto durante l’assalto alla casa del vicario: cap. XIII) o disgustosa (e si pensi alla vecchia del castello) e avvilente. Nel qual senso è vero che, come nota il Pistelli, Manzoni «non ha indulgenza per i vecchi cattivi».

43 l’avversione e il disprezzo: oppure, più sotto, l’odio cieco e violento, non denotano in donna Prassede soltanto un risentimento moralistico, ma una reazione malvagia, che fa balenare perversioni di fondo e timbra inesorabilmente il personaggio.

44 una buona intenzione: una gran dolcezza, dunque, di proposito, di testa.

45 né... d’ubbidire: definizione perfetta del pacifico anarchismo del letterato.

46 il suo genio: il suo gusto personale.

47 di trecento volumi: biblioteca privata, per l’epoca, di notevole entità.

48 ...congiunzioni: gli influssi esercitati dagli astri sul destino degli uomini; gli aspetti con cui gli astri si presentano agli osservatori che ne traggono gli oroscopi; le congiunzioni, ovvero gli incontri degli astri su uno stesso meridiano celeste, dai quali gli astrologi desumono i presagi.

49 case del cielo: le dodici parti (dette anche “fusi”) in cui, mediante i circoli massimi, gli astrologi dividevano la sfera celeste.

50 circoli massimi: che sono: l’equatore, il meridiano, l’orizzonte, il coluro (ovvero cerchio orario) equinoziale.

51 ...lucidi e tenebrosi: divisioni delle orbite degli astri: lucide quelle del sole, tenebrose quelle delle stelle e dei pianeti che sono visibili soltanto di notte.

52 ...rivoluzioni: esaltazione era detta la posizione più alta di un astro nel cielo; deiezione la più bassa; transiti i passaggi di un astro al meridiano dell’osservatore; rivoluzioni i movimenti di un astro intorno ad un altro. Si noti l’insinuazione comica e parodistica nella vecchia terminologia astrologica e astronomica.

53 più... scienza: l’irrisione in forma parodistica si esercita sulla falsa dottrina e su tutta la parte vieta e degradata del secolo; ma lo strale manzoniano mira oltre l’abnorme secentesco per cogliere quel che c’è d’effimero in ogni tempo negli umani giudizi. Di quel tessuto caduco d’opinioni che i posteri si occupano regolarmente a sfatare, don Ferrante è l’incarnazione per eccellenza, ormai proverbiale. Nulla vieta che agli occhi di un certo apprezzamento psicologico e morale, il personaggio possa sembrare degno di rispetto, tenuto conto della sua «fede in quella ch’egli credeva scienza»; fede tanto ostinata che, come vedremo aìla fine del romanzo, «non si guarda dalla peste, la prende e ne muore» (Nicolini). Ma, a parte la considerazione che si può andare incontro anche alla morte per indiscutibile cecità, resta il fatto che Manzoni lo tratta con una specie di sorniona ambiguità che vale come una forma corrosiva, di scherno. Agli occhi di Manzoni, anche la scienza che ci attribuiamo non può essere mai idolatrata fino ad attribuirle un valore definitivo. Ciò, a parte le storture tipiche del Seicento.

54 la domificazione del Cardano: la dottrina della divisione del cielo in case, dovuta a Gerolamo Cardano (1501-76): medico, matematico e filosofo, ma soprattutto celebre come astrologo.

55 Alcabizio: astrologo arabo del X sec. (Abdel Haziz Al-Cabiti, latin. detto «Alcabitius»). Il suo Opus ad servanda stellarum magisteria isagogicum (Opera introduttiva alla conoscenza degli influssi delle stelle) era stimato fondamentale negli studi d’astrologia.

56 la vedrebbe ognuno: non manca neppure, a perfezionare lo scherno del dotto, il riconoscimento di un certo suo spirito di progresso.

57 Diogene Laerzio: storico e filosofo greco del III sec. d.C., autore di un’opera enciclopedica sulla vita e le massime dei filosofi.

58 Aristotele: com’è noto, la tradizione aristotelica fu tra il Cinque e il Seicento il punto di maggior resistenza al diffondersi delle nuove idee, specie nel campo delle scienze naturali. Di questa cultura conservatrice e obiettivamente retriva, don Ferrante è convinto assertore.

59 De subtilitate: «Del conoscer sottile», specie d’enciclopedia scientifica a sfondo antiaristotelico (antiperipatetica), pubblicata nel 1547; è l’opera principale del Cardano.

60 ...geniturarum: «Della restituzione dei tempi e dei moti celesti» (e cioè, della rettificazione del calcolo delle stagioni e dei moti dei corpi celesti) e «Delle dodici specie di nascimenti» (secondo l’influsso del pianeta sotto il quale si nasce).

61 potrebbe credere: «L’essenza è l’insieme delle qualità essenziali delle cose, gli universali sono i concetti che designano ogni singola classe di cose, l’anima del mondo è il principio unico della vita, la natura delle cose il complesso delle essenze di tutte le cose» (Bianchi). Si tratta di concetti ripetutamente dibattuti nella tradizione aristotelica dal Medioevo in poi. Si noti, nell’ammettere che fa don Ferrante che non eran cose tanto chiare ecc., la ricchezza d’inflessioni della sua intenzionalmente modesta illusione di sapere.

62 l’opere stesse... materia: la Fisica, Della generazione e della corruzione, la Storia degli animali, le Parti degli animali.

63 Plinio: Plinio il Vecchio (27-79 d.C.), il celebre naturalista e scrittore, morto mentre studiava l’eruzione del Vesuvio che distrusse Pompei, Ercolano e Stabia; è l’autore dell’enciclopedia Naturalis Historia in 37 libri.

64 Porta: Giambattista della Porta (1535-1615), napoletano, cultore dell’alchimia, dell’astrologia, della magia; autore di Magiae naturalis sive de miraculis rerum naturalium libri XX (1589).

65 Alberto Magno: santo e dottore della Chiesa (1193-1280); domenicano, maestro di s. Tommaso d’Aquino, fu teologo, filosofo e studioso di scienze naturali.

66 semplici: erbe medicinali.

67 unica fenice: l’araba fenice che, secondo la leggenda, rinasceva dalle proprie ceneri. Quel che segue è uno sfrenato repertorio de’ più maravigliosi segreti della natura e cioè delle credenze più stravaganti, a partire dalla Naturalis Historia di Plinio, perdurate fino all’avvento del metodo sperimentale.

68 Martino Delrio: Martino Antonio Delrio, nato ad Anversa nel 1551, morto a Lovanio nel 1608; era autore, fra l’altro, di Disquisitionum magicarum libri VI (1559), donde attingevano i giudici nei processi di stregoneria. Manzoni ne parla senza più ironia, ma con severità, nel cap. XXXII. Ironia e severità non ricorrono nell’addebitare a Federigo Borromeo la credenza nella stregoneria essa pure inclusa fra le “strane opinioni” (cap. XXVII, 37). Ma il Delrio non era soltanto un succube passivo di quelle opinioni: ne era bensì l’ideologo.

69 (l’uomo della scienza): come a dire che si tratta, non di voci superstiziose del volgo, ma di veri e propri asserti di dotti (o presunti tali).

70 ...il Guazzo: Giovanni Tarcagnota, di Gaeta (m. 1566), autore di una storia universale (Delle historie del mondo ecc.) (1580); Lodovico Dolce, veneziano (1508-1568), poligrafo, noto soprattutto come scrittore d’arte, che fu tra l’altro traduttore dal greco delle Historie di Giovanni Zonara dal cominciamento del mondo fino ad Alessio Commeno (1564) e del seguito di dette storie (1569); Gaspare Bugatti, milanese (della seconda metà del sec. XVI), che scrisse una Historia universale dal principio del mondo al 1569 (1571); Cesare Campana, aquilano (m. 1606), scrisse una Historia del mondo dal 1576 al 1596 (1627), sulla guerra di Fiandra, sulla vita di Filippo II, ecc.; Matteo Guazzo, di Padova (m. 1556), autore di una Historia di tutte le cose degne di memoria dal 1524 al presente (1540) di cui scrisse poi la continuazione (1552), e di altre storie e cronache. È tutta una serie di compilatori farraginosi e vaniloquenti, che dovrebbe indurre a riflettere sulla vanità di tanti giudizi.

71 ...il Boccalini: Jean Bodin, di Angers (Francia) (1503-1596), scrittore politico di cui sono noti i Six livres de la république (1577); Bartolomeo Cavalcanti, fiorentino (1503-1562), che scrisse Degli ottimi reggimenti delle repubbliche antiche, e moderne (1559); Francesco Sansovino figlio di Jacopo, il grande scultore e architetto, romano, poligrafo, autore fra l’altro di una Cronologia del mondo (1555); Paolo Paruta, veneziano (1540-1598), autore di una Perfezione della vita politica (1579) e di Discorsi politici (1609); Traiano Boccalini, di Loreto (1556-1613), ricordato qui per la sua Pietra del paragone politico ecc. (1615), che è la raccolta postuma degli ultimi trentun Ragguagli di Parnaso: d’idee liberali e, com’è noto, antispagnole qual era, si può supporre ch’egli figuri nella biblioteca di don Ferrante in virtù della spregiudicatezza di cui, come sappiamo, il personaggio manzoniano ama fregiarsi.

72 celebre segretario fiorentino: Niccolò Machiavelli.

73 Giovanni Botero: piemontese (1544-1717), autore di svariate opere di carattere politico e sociale, fra cui preminenti i dieci libri Della Ragion di Stato (1589), dove fa acerba critica dello «scellerato» Machiavelli. Fu molto accreditato quale teorico politico nel periodo della Controriforma.

74 ma acuto: i giudizi di don Ferrante vengono a compierne il tratto di sottesa bonomia di cui il dotto si compiace, e che Manzoni schernisce. Perciò, nel parlare di Machiavelli, pur sapendolo mariolo, si protesta costretto ad ammettere che è profondo; e del Botero che, pur galantuomo, contro ogni possibile giudizio volgare non solo non è ingenuo, ma acuto. I due giudizi son perfettamente coerenti fra loro (diversamente li considera il De Michelis); e s’immaginano scambiati con ascoltatori in grado di apprezzare la spregiudicatezza dello studioso, nonché la disinvoltura dell’uomo di mondo. Per di più si tratta di opinioni, in sostanza, attendibili; perciò l’irrisione manzoniana non viene a cadere sul contenuto di quei giudizi ma sul tono di scientifica indipendenza, unita a cogitabonda serietà, che don Ferrante si arroga e che lo scrittore maliziosamente deride, colpendo in lui le attigue presunzioni che tanto spesso ci distinguono. Don Ferrante è un cretino con lampi di acutezza; ed è, sì, una maschera della falsa scienza: ma una maschera autenticamente umana.

75 matadori: dallo spagnolo «matadores» (coloro che uccidono il toro nelle corride) nel senso di campioni.

76 Valeriano Castiglione: milanese (1593-1668), monaco benedettino; scrisse Lo statista regnante applicato al governo del Duca Carlo Emanuele I (1628), che esponeva delle massime di comportamento (il principe sia avveduto nel maritarsi, non lasci comandare le donne, non sia crudele, e simili). Il libretto uscì nell’anno in cui si svolge l’azione dei romanzo; era dunque un autentico «vient-de-paraître»; e la stima che ne fa don Ferrante sfata ogni illusione sull’avvedutezza di tutti i suoi giudizi.

77 Pietro di Toledo: in realtà, era allora viceré di Napoli, non don Pietro, ma don Antonio Alvarez de Toledo, duca d’Alba.

78 papa Paolo V: Camillo Borghese, papa dal 1605 al 1621.

79 re cattolico in Italia: Ferdinando II d’Aragona, re di Napoli dal 1503.

80 la duchessa Cristina: Cristina di Francia, figlia di Enrico IV e di Maria de’ Medici, moglie di Vittorio Amedeo I.

81 de’... tempi: notizie attinte da Manzoni nel particolareggiato elogio del Castiglione composto da Filippo Argelati nella sua Biblioteca Scriptorum Mediolanesium (I, pp. 387-393).

82 la scienza cavalleresca: sull’importanza della scienza cavalleresca nel sec. XVII, cfr. capp. IV e V.

83 cavalleria: Paride dal Pozzo, di Castellammare (1413-1493), giureconsulto, autore dell’opera Duello, libro de’re, imperatori, principi, signori ecc., contenente disfide, concordie, paci ecc. (1523); Sebastiano Fausto da Longiano, in Romagna (sec. XVI), noto per alcune opere sul duello; Gerolamo Urrea, spagnuolo (sec. XVI), autore di un Dialogo del vero onore militare, trad. in ital. da Alfonso Ulloa (1569); Girolamo Muzio, padovano (1496-1576), autore, fra l’altro, di trattati di carattere cavalleresco; Annibale Pocaterra Romei, ferrarese (sec. XVI), scrisse dei Discorsi divisi in cinque giornate (1585), dove nella terza giornata si trattano questioni cavalleresche (a lui il Tasso intitolò dapprima il suo Dialogo del giuoco, mutato poi in Gonzaga secondo); Fabio Albergati, bolognese (sec. XVI), autore di un Trattato del modo di ridurre a pace l’inimicizie private (1583). Sul Tasso quale scrittore di materia cavalleresca, nonché sul Birago, cfr. cap. V, n. 12.

84 fin da quando: nel 1623.

85 Olevano: Giovan Battista Olevano scrisse un Trattato del modo di ridurre a pace ogni privata inimicizia nata per cagion d’onore (1606; 2a ed. accresciuta 1620).

86 Da questo passa: l’anonimo.

87 passe e leggieri: appassite e leggere.

88 come un turbine... involte nella sua rapina: paragone, come si vede, di splendida evidenza analitica: che chiude con un ricordo dantesco (Inf., V, 32).

Questo ebook appartiene a martina rotta - 91344 Edito da Newton Compton Editori Acquistato il 9/12/2014 7:44:43 AM con numero d'ordine 925062
I magnifici 7 capolavori della letteratura italiana
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