Capitolo XXXII
Divenendo sempre più difficile il supplire all’esigenze dolorose della circostanza, era stato, il 4 di maggio, deciso nel consiglio de’ decurioni, di ricorrer per aiuto al governatore. E, il 22, furono spediti al campo1 due di quel corpo, che gli rappresentassero i guai e le strettezze della città: le spese enormi, le casse vote, le rendite degli anni avvenire impegnate, le imposte correnti non pagate, per la miseria generale, prodotta da tante cause, e dal guasto militare in ispecie; gli mettessero in considerazione che, per leggi e consuetudini non interrotte, e per decreto speciale di Carlo V, le spese della peste dovevan essere a carico del fisco: in quella del 1576, avere il governatore, marchese d’Ayamonte2, non solo sospese tutte le imposizioni camerali3, ma data alla città una sovvenzione di quaranta mila scudi della stessa Camera; chiedessero finalmente quattro cose: che l’imposizioni fossero sospese, come s’era fatto allora; la Camera desse danari; il governatore informasse il re, delle miserie della città e della provincia; dispensasse da nuovi alloggiamenti militari il paese già rovinato dai passati. Il governatore scrisse in risposta condoglianze, e nuove esortazioni: dispiacergli di non poter trovarsi nella città, per impiegare ogni sua cura in sollievo di quella; ma sperare che a tutto avrebbe supplito lo zelo di que’ signori: questo essere il tempo di spendere senza risparmio, d’ingegnarsi in ogni maniera. In quanto alle richieste espresse, proueeré en el mejor modo que el tiempo y necesidades presentes permitieren4. E sotto, un girigogolo5 che voleva dire Ambrogio Spinola, chiaro come le sue promesse. Il gran cancelliere Ferrer gli scrisse che quella risposta era stata letta dai decurioni, con gran desconsuelo6; ci furono altre andate e venute, domande e risposte; ma non trovo che se ne venisse a più strette conclusioni. Qualche tempo dopo, nel colmo della peste, il governatore trasferì, con lettere patenti7 la sua autorità a Ferrer medesimo, avendo lui, come scrisse, da pensare alla guerra. La quale, sia detto qui incidentemente, dopo aver portato via, senza parlar de’ soldati, un milion di persone, a dir poco, per mezzo del contagio, tra la Lombardia, il Veneziano, il Piemonte, la Toscana, e una parte della Romagna; dopo aver desolati, come s’è visto di sopra, i luoghi per cui passò, e figuratevi quelli dove fu fatta; dopo la presa e il sacco atroce di Mantova8; finì con riconoscerne tutti9 il nuovo duca10 per escludere il quale la guerra era stata intrapresa. Bisogna però dire che fu obbligato a cedere al duca di Savoia11 un pezzo del Monferrato, della rendita di quindici mila scudi, e a Ferrante duca di Guastalla altre terre12 della rendita di sei mila; e che ci fu un altro trattato a parte e segretissimo, col quale il duca di Savoia suddetto cedé Pinerolo alla Francia: trattato eseguito qualche tempo dopo, sott’altri pretesti, e a furia di furberie13.
Insieme con quella risoluzione, i decurioni ne avevan presa un’altra: di chiedere al cardinale arcivescovo, che si facesse una processione solenne, portando per la città il corpo di san Carlo.
Il buon prelato rifiutò, per molte ragioni. Gli dispiaceva quella fiducia in un mezzo arbitrario, e temeva che, se l’effetto non avesse corrisposto, come pure temeva, la fiducia si cambiasse in iscandolo*. Temeva di più, che, se pur c’era di questi untori, la processione fosse un’occasion troppo comoda al delitto: se non ce n’era, il radunarsi tanta gente non poteva che spander sempre più il contagio: pericolo ben più reale**14. Ché il sospetto sopito dell’unzioni s’era intanto ridestato, più generale e più furioso di prima.
S’era visto di nuovo, o questa volta era parso di vedere, unte muraglie, porte d’edifizi pubblici, usci di case, martelli. Le nuove di tali scoperte volavan di bocca in bocca; e, come accade più che mai, quando gli animi son preoccupati, il sentire faceva l’effetto del vedere. Gli animi, sempre più amareggiati dalla presenza de’ mali, irritati dall’insistenza del pericolo, abbracciavano più volentieri quella credenza: ché la collera aspira a punire: e, come osservò acutamente15, a questo stesso proposito, un uomo di ingegno*, le piace più d’attribuire i mali a una perversità umana, contro cui possa far le sue vendette, che di riconoscerli da una causa, con, la quale non ci sia altro da fare che rassegnarsi. Un veleno squisito16, istantaneo, penetrantissimo, eran parole più che bastanti a spiegar la violenza, e tutti gli accidenti più oscuri e disordinati del morbo. Si diceva composto, quel veleno, di rospi, di serpenti, di bava e di materia d’appestati, di peggio, di tutto ciò che selvagge e stravolte fantasie sapessero trovar di sozzo e d’atroce. Vi s’aggiunsero poi le malìe, per le quali ogni effetto diveniva possibile, ogni obiezione perdeva la forza, si scioglieva ogni difficoltà. Se gli effetti non s’eran veduti subito dopo quella prima unzione, se ne capiva il perché; era stato un tentativo sbagliato di venefici17 ancor novizi: ora l’arte era perfezionata, e le volontà più accanite nell’infernale proposito. Ormai chi avesse sostenuto ancora ch’era stata una burla, chi avesse negata l’esistenza d’una trama, passava per cieco, per ostinato; se pur non cadeva in sospetto d’uomo interessato a stornar dal vero l’attenzion del pubblico, di complice, d’untore: il vocabolo fu ben presto comune, solenne, tremendo. Con una tal persuasione che ci fossero untori, se ne doveva scoprire, quasi infallibilmente: tutti gli occhi stavano all’erta; ogni atto poteva dar gelosia18. E la gelosia diveniva facilmente certezza, la certezza furore.
Due fatti ne adduce in prova il Ripamonti, avvertendo d’averli scelti, non come i più atroci tra quelli che seguivano giornalmente, ma perché dell’uno e dell’altro era stato pur troppo testimonio.
Nella chiesa di sant’Antonio, un giorno di non so quale solennità, un vecchio più che ottuagenario, dopo aver pregato alquanto inginocchioni, volle mettersi a sedere; e prima, con la cappa, spolverò la panca. Quel vecchio unge le panche! gridarono a una voce alcune donne che vider l’atto. La gente che si trovava in chiesa (in chiesa!), fu addosso al vecchio; lo prendon per i capelli, bianchi com’erano; lo carican di pugni e di calci; parte lo tirano, parte lo spingon fuori; se non lo finirono, fu per istrascinarlo, così semivivo, alla prigione, ai giudici, alle torture. «Io lo vidi mentre lo strascinavan così,» dice il Ripamonti: «e non ne seppi più altro: credo bene che non abbia potuto sopravvivere più di qualche momento.» L’altro caso (e seguì il giorno dopo) fu ugualmente strano, ma non ugualmente funesto. Tre giovani compagni francesi, un letterato, un pittore, un meccanico19 venuti per veder l’Italia, per istudiarvi le antichità, e per cercarvi occasion di guadagno, s’erano accostati a non so qual parte esterna del duomo, e stavan lì guardando attentamente. Uno che passava, li vede e si ferma; gli accenna a un altro, ad altri che arrivano: si formò un crocchio, a guardare, a tener d’occhio coloro, che il vestiario, la capigliatura, le bisacce, accusavano di stranieri e, quel ch’era peggio, di francesi20. Come per accertarsi ch’era marmo, stesero essi la mano a toccare. Bastò. Furono circondati, afferrati, malmenati, spinti, a furia di percosse, alle carceri. Per buona sorte, il palazzo di giustizia è poco lontano dal duomo; e, per una sorte ancor più felice, furon trovati innocenti, e rilasciati.
Né tali cose accadevan soltanto in città: la frenesia s’era propagata come il contagio. Il viandante che fosse incontrato da de’ contadini, fuor della strada maestra, o che in quella si dondolasse21 a guardar in qua e in là, o si buttasse giù per riposarsi; lo sconosciuto a cui si trovasse qualcosa di strano, di sospetto nel volto, nel vestito, erano untori: al primo avviso di chi si fosse, al grido d’un ragazzo, si sonava a martello, s’accorreva; gl’infelici eran tempestati di pietre, o, presi, venivan menati, a furia di popolo, in prigione. Così il Ripamonti medesimo. E la prigione, fino a un certo tempo, era un porto di salvamento.
Ma i decurioni, non disanimati dal rifiuto del savio prelato, andavan replicando le loro istanze, che il voto pubblico secondava rumorosamente. Federigo resistette ancor qualche tempo, cercò di convincerli; questo è quello che poté il senno d’un uomo, contro la forza de’ tempi, e l’insistenza di molti. In quello stato d’opinioni, con l’idea del pericolo, confusa com’era allora, contrastata, ben lontana dall’evidenza che ci si trova ora, non è difficile a capire come le sue buone ragioni potessero, anche nella sua mente, esser soggiogate dalle cattive degli altri. Se poi, nel ceder che fece, avesse o non avesse parte un po’ di debolezza della volontà, sono misteri del cuore umano. Certo, se in alcun caso par che si possa dare in tutto l’errore all’intelletto, e scusarne la coscienza, è quando si tratti di que’ pochi (e questo fu ben del numero), nella vita intera de’ quali apparisca un ubbidir risoluto alla coscienza, senza riguardo a interessi temporali di nessun genere. Al replicar dell’istanze, cedette egli dunque, acconsentì che si facesse la processione, acconsentì di più al desiderio, alla premura generale, che la cassa dov’eran rinchiuse le reliquie di san Carlo, rimanesse dopo esposta, per otto giorni, sull’altar maggiore del duomo22.
Non trovo che il tribunale della sanità, né altri, facessero rimostranza né opposizione di sorte alcuna23. Soltanto, il tribunale suddetto ordinò alcune precauzioni che, senza riparare al pericolo, ne indicavano il timore. Prescrisse più strette regole per l’entrata delle persone in città; e, per assicurarne l’esecuzione, fece star chiuse le porte: come pure, a fine d’escludere, per quanto fosse possibile, dalla radunanza gli infetti e i sospetti, fece inchiodar gli usci delle case sequestrate: le quali, per quanto può valere, in un fatto di questa sorte, la semplice affermazione d’uno scrittore, e d’uno scrittore di quel tempo, eran circa cinquecento*.
Tre giorni furono spesi in preparativi: l’undici di giugno, che era il giorno stabilito, la processione uscì, sull’alba, dal duomo. Andava dinanzi una lunga schiera di popolo, donne la più parte, coperte il volto d’ampi zendali24, molte scalze, e vestite di sacco. Venivan poi l’arti25, precedute da’ loro gonfaloni, le confraternite, in abiti vari di forme e di colori; poi le fraterie, poi il clero secolare, ognuno con l’insegne del grado, e con una candela o un torcetto26 in mano. Nel mezzo, tra il chiarore di più fitti lumi, tra un rumor più alto di canti, sotto un ricco baldacchino, s’avanzava la cassa, portata da quattro canonici, parati in gran pompa, che si cambiavano ogni tanto. Dai cristalli traspariva il venerato cadavere, vestito di splendidi abiti pontificali, e mitrato il teschio; e nelle forme mutilate e scomposte, si poteva ancora distinguere qualche vestigio dell’antico sembiante, quale lo rappresentano l’immagini, quale alcuni si ricordavan d’averlo visto e onorato in vita. Dietro la spoglia del morto pastore (dice il Ripamonti, da cui principalmente prendiamo questa descrizione), e vicino a lui, come di meriti e di sangue e di dignità, così ora anche di persona, veniva l’arcivescovo Federigo. Seguiva l’altra parte del clero; poi i magistrati, con gli abiti di maggior cerimonia; poi i nobili, quali vestiti sfarzosamente, come a dimostrazione solenne di culto, quali, in segno di penitenza, abbrunati, o scalzi e incappati, con la buffa27 sul viso; tutti con torcetti. Finalmente una coda d’altro popolo misto.
Tutta la strada era parata a festa; i ricchi avevan cavate fuori le suppellettili più preziose; le facciate delle case povere erano state ornate da de’ vicini benestanti, o a pubbliche spese; dove in luogo di parati, dove sopra i parati, c’eran de’ rami fronzuti; da ogni parte pendevano quadri, iscrizioni, imprese28; su’ davanzali delle finestre stavano in mostra vasi, anticaglie, rarità diverse; per tutto lumi. A molte di quelle finestre, infermi sequestrati guardavan la processione, e l’accompagnavano con le loro preci. L’altre strade, mute, deserte; se non che alcuni, pur dalle finestre, tendevan l’orecchio al ronzìo vagabondo29; altri, e tra questi si videro fin delle monache, eran saliti sui tetti, se di lì potessero veder da lontano quella cassa, il corteggio, qualche cosa.
La processione passò per tutti i quartieri della città: a ognuno di que’ crocicchi, o piazzette, dove le strade principali sboccan ne’ borghi, e che allora serbavano l’antico nome di carrobi30, ora rimasto a uno solo, si faceva una fermata, posando la cassa accanto alla croce che in ognuno era stata eretta da san Carlo, nella peste antecedente, e delle quali alcune sono tuttavia in piedi: di maniera che si tornò in duomo un pezzo dopo il mezzogiorno31.
Ed ecco che, il giorno seguente, mentre appunto regnava quella presontuosa fiducia, anzi in molti una fanatica sicurezza che la processione dovesse aver troncata la peste, le morti crebbero, in ogni classe, in ogni parte della città, a un tal eccesso, con un salto così subitaneo, che non ci fu chi non ne vedesse la causa, o l’occasione, nella processione medesima32. Ma, oh forze mirabili e dolorose d’un pregiudizio generale! non già al trovarsi insieme tante persone, e per tanto tempo, non all’infinita moltiplicazione de’ contatti fortuiti, attribuivano i più quell’effetto; l’attribuivano alla facilità che gli untori ci avessero trovata d’eseguire in grande il loro empio disegno. Si disse che, mescolati nella folla, avessero infettati col loro unguento quanti più avevan potuto. Ma siccome questo non pareva un mezzo bastante, né appropriato a una mortalità così vasta, e così diffusa in ogni classe di persone; siccome, a quel che pare, non era stato possibile all’occhio così attento, e pur così travedente33, del sospetto, di scorgere untumi, macchie di nessuna sorte, su’ muri, né altrove; così si ricorse, per la spiegazion del fatto, a quell’altro ritrovato, già vecchio, e ricevuto allora nella scienza comune d’Europa, delle polveri venefiche e malefiche; si disse che polveri tali, sparse lungo la strada, e specialmente ai luoghi delle fermate, si fossero attaccate agli strascichi de’ vestiti, e tanto più ai piedi, che in gran numero erano quel giorno andati in giro scalzi. «Vide pertanto» dice uno scrittore contemporaneo* «l’istesso giorno della processione, la pietà cozzar con l’empietà, la perfidia con la sincerità, la perdita con l’acquisto.» Ed era in vece il povero senno umano che cozzava co’ fantasmi creati da sé.
Da quel giorno, la furia del contagio andò sempre crescendo: in poco tempo, non ci fu quasi più casa che non fosse toccata: in poco tempo la popolazione del lazzeretto, al dir del Somaglia citato di sopra, montò da duemila a dodici mila: più tardi, al dir di quasi tutti, arrivò fino a sedici mila. Il 4 di luglio, come trovo in un’altra lettera de’ conservatori della sanità al governatore, la mortalità giornaliera oltrepassava i cinquecento. Più innanzi, e nel colmo, arrivò, secondo il calcolo più comune, a mille dugento, mille cinquecento; e a più di tremila cinquecento, se vogliam credere al Tadino. Il quale anche afferma che, «per le diligenze fatte», dopo la peste, si trovò la popolazion di Milano ridotta a poco più di sessantaquattro mila anime, e che prima passava le dugento cinquanta mila. Secondo il Ripamonti, era di sole dugento mila: de’, morti, dice che ne risultava cento quaranta mila da’ registri civici, oltre quelli di cui non si poté tener conto. Altri dicon più o meno, ma ancor più a caso34.
Si pensi ora in che angustie dovessero trovarsi i decurioni, addosso ai quali era rimasto il peso di provvedere alle pubbliche necessità, di riparare a ciò che c’era di riparabile in un tal disastro. Bisognava ogni giorno sostituire, ogni giorno aumentare serventi pubblici di varie specie: monatti, apparitori, commissari. I primi erano addetti ai servizi più penosi e pericolosi della pestilenza: levar dalle case, dalle strade, dal lazzeretto, i cadaveri; condurli sui carri alle fosse, e sotterrarli; portare o guidare al lazzeretto gl’infermi, e governarli; bruciare, purgare la roba infetta e sospetta. Il nome, vuole il Ripamonti che venga dal greco monos35; Gaspare Bugatti36 (in una descrizion della peste antecedente), dal latino monere; ma insieme dubita, con più ragione, che sia parola tedesca, per esser quegli uomini arrolati la più parte nella Svizzera e ne’ Grigioni. Né sarebbe infatti assurdo il crederlo una troncatura del vocabolo monathlich (mensuale) giacché, nell’incertezza di quanto potesse durare il bisogno, è probabile che gli accordi non fossero che di mese in mese. L’impiego speciale degli apparitori era di precedere i carri, avvertendo, col suono d’un campanello, i passeggieri, che si ritirassero. I commissari regolavano gli uni e gli altri, sotto gli ordini immediati del tribunale della sanità. Bisognava tener fornito il lazzeretto di medici, di chirurghi, di medicine, di vitto, di tutti gli attrezzi di infermeria; bisognava trovare e preparar nuovo alloggio per gli ammalati che sopraggiungevano ogni giorno. Si fecero a quest’ effetto costruire in fretta capanne di legno e di paglia nello spazio interno del lazzeretto; se ne piantò un nuovo, tutto di capanne, cinto da un semplice assito, e capace di contener quattromila persone. E non bastando, ne furon decretati due altri; ci si mise anche mano; ma, per mancanza di mezzi d’ogni genere, rimasero in tronco. I mezzi, le persone, il coraggio, diminuivano di mano in mano che il bisogno cresceva.
E non solo l’esecuzione rimaneva sempre addietro de’ progetti e degli ordini; non solo, a molte necessità, pur troppo riconosciute, si provvedeva scarsamente, anche in parole; s’arrivò a quest’eccesso d’impotenza e di disperazione, che a molte, e delle più pietose, come delle più urgenti, non si provvedeva in nessuna maniera. Moriva, per esempio, d’abbandono una gran quantita di bambini, ai quali eran morte le madri di peste: la Sanità propose che s’istituisse un ricovero per questi e per le partorienti bisognose, che qualcosa si facesse per loro; e non poté ottener nulla. «Si doueua non di meno», dice il Tadino, «compatire ancora alli Decurioni della Città, li quali si trouauano afflitti, mesti et lacerati dalla Soldatesca senza regola, et rispetto alcuno; come molto meno nell’infelice Ducato, atteso che aggiutto37 alcuno, né prouisione si poteua hauere dal Gouernatore, se non che si trouaua tempo di guerra, et bisognaua trattar bene li Soldati.»* Tanto importava il prender Casale! Tanto par bella la lode del vincere, indipendentemente dalla cagione, dallo scopo per cui si combatta!
Così pure, trovandosi colma di cadaveri un’ampia, ma unica fossa, ch’era stata scavata vicino al lazzeretto; e rimanendo, non solo in quello, ma in ogni parte della città, insepolti i nuovi cadaveri, che ogni giorno eran di più, i magistrati, dopo avere invano cercato braccia per il tristo lavoro, s’eran ridotti a dire di non saper più che partito prendere. Né si vede come sarebbe andata a finire, se non veniva un soccorso straordinario. Il presidente della Sanità ricorse, per disperato, con le lacrime agli occhi, a que’ due bravi frati che soprintendevano al lazzeretto; e il padre Michele38 impegnò a dargli, in capo a quattro giorni, sgombra la città di cadaveri; in capo a otto, aperte fosse sufficienti, non solo al bisogno presente, ma a quello che si potesse preveder di peggio nell’avvenire. Con un frate compagno, e con persone del tribunale, dategli dal presidente, andò fuor della città, in cerca di contadini; e, parte con l’autorità del tribunale, parte con quella dell’abito e delle sue parole, ne raccolse circa dugento, ai quali fece scavar tre grandissime fosse; spedì poi dal lazzeretto monatti a raccogliere i morti; tanto che, il giorno prefisso, la sua promessa si trovò adempita.
Una volta, il lazzeretto rimase senza medici; e, con offerte di grosse paghe e d’onori, a fatica e non subito, se ne poté avere; ma molto men del bisogno39. Fu spesso lì lì per mancare affatto di viveri, a segno di temere che ci s’avesse a morire anche di fame; e più d’una volta, mentre non si sapeva più dove batter la testa per trovare il bisognevole, vennero a tempo abbondanti sussidi, per inaspettato dono di misericordia privata: ché, in mezzo allo stordimento generale, all’indifferenza per gli altri, nata dal continuo temer per sé, ci furono degli animi sempre desti alla carità, ce ne furon degli altri in cui la carità nacque al cessare d’ogni allegrezza terrena; come, nella strage e nella fuga di molti a cui toccava di soprintendere e di provvedere, ce ne furono alcuni, sani sempre di corpo, e saldi di coraggio al loro posto: ci furon pure altri che, spinti dalla pietà, assunsero e sostennero virtuosamente le cure a cui non eran chiamati per impiego.
Dove spiccò una più generale e più pronta e costante fedeltà ai doveri difficili della circostanza, fu negli ecclesiastici. Ai lazzeretti, nella città, non mancò mai la loro assistenza: dove si pativa, ce n’era; sempre si videro mescolati, confusi co’ languenti, co’ moribondi, languenti e moribondi qualche volta loro medesimi; ai soccorsi spirituali aggiungevano, per quanto potessero, i temporali; prestavano ogni servizio che richiedessero le circostanze. Più di sessanta parrochi, della città solamente, moriron di contagio: gli otto noni all’incirca.
Federigo dava a tutti, com’era da aspettarsi da lui, incitamento ed esempio. Mortagli intorno quasi tutta la famiglia arcivescovile, e facendogli istanza parenti, alti magistrati, principi circonvicini, che s’allontanasse dal pericolo, ritirandosi in qualche villa, rigettò un tal consiglio, e resistette all’istanze, con quell’animo, con cui scriveva ai parrocchi: «siate disposti ad abbandonar questa vita mortale, piuttosto che questa famiglia, questa figliolanza nostra: andate con amore incontro alla peste, come a un premio, come a una vita, quando ci sia da guadagnare un’anima a Cristo».* Non trascurò quelle cautele40 che non gl’impedissero di fare il suo dovere (sulla qual cosa diede anche istruzioni e regole al clero); e insieme non curò il pericolo, né parve che se n’avvedesse, quando, per far del bene, bisognava passar per quello. Senza parlare degli ecclesiastici, coi quali era sempre per lodare e regolare il loro zelo, per eccitare chiunque di loro andasse freddo nel lavoro, per mandarli ai posti dove altri eran morti, volle che fosse aperto l’adito a chiunque avesse bisogno di lui. Visitava i lazzeretti, per dar consolazione agl’infermi, e per animare i serventi; scorreva la città, portando soccorsi ai poveri sequestrati nelle case, fermandosi agli usci, sotto le finestre, ad ascoltare i loro lamenti, a dare in cambio parole di consolazione e di coraggio. Si cacciò in somma e visse nel mezzo della pestilenza, maravigliato anche lui alla fine, d’esserne uscito illeso.
Così, ne’ pubblici infortuni, e nelle lunghe perturbazioni di quel qual si sia ordine consueto, si vede sempre un aumento, una sublimazione di virtù; ma, pur troppo, non manca mai insieme un aumento, e d’ordinario ben più generale, di perversità. E questo pure fu segnalato. I birboni che la peste risparmiava e non atterriva, trovarono nella confusion comune, nel rilasciamento d’ogni forza pubblica, una nuova occasione d’attività, e una nuova sicurezza d’impunità a un tempo. Che anzi, l’uso della forza pubblica stessa venne a trovarsi in gran parte nelle mani de’ peggiori tra loro. All’impiego di monatti e d’apparitori non si adattavano generalmente che uomini sui quali l’attrattiva delle rapine e della licenza potesse più che il terror del contagio, che ogni naturale ribrezzo. Erano a costoro prescritte strettissime regole, intimate severissime pene, assegnati posti, dati per superiori de’ commissari, come abbiam detto; sopra questi e quelli eran delegati in ogni quartiere, magistrati e nobili, con l’autorità di provveder sommariamente a ogni occorrenza di buon governo. Un tal ordin di cose camminò, e fece effetto, fino a un certo tempo; ma, crescendo, ogni giorno, il numero di quelli che morivano, di quelli che andavan via, di quelli che perdevan la testa, venner coloro a non aver quasi più nessuno che li tenesse a freno; si fecero, i monatti principalmente, arbitri d’ogni cosa. Entravano da padroni, da nemici nelle case, e, senza parlar de’ rubamenti, e come trattavano gl’infelici ridotti dalla peste a passar per tali mani, le mettevano, quelle mani infette e scellerate, sui sani, figliuoli, parenti, mogli, mariti, minacciando di strascinarli al lazzeretto, se non si riscattavano, o non venivano riscattati con danari. Altre volte, mettevano a prezzo i loro servizi, ricusando di portar via i cadaveri già putrefatti, a meno di tanti scudi. Si disse (e tra la leggerezza degli uni e la malvagità degli altri, è ugualmente malsicuro il credere e il non credere), si disse, e l’afferma anche il Tadino* che monatti e apparitori lasciassero cadere apposta dai carri robe infette, per propagare e mantenere la pestilenza, divenuta per essi un’entrata, un regno, una festa. Altri sciagurati, fingendosi monatti, portando un campanello attaccato a un piede, com’era prescritto a quelli, per distintivo e per avviso del loro avvicinarsi, s’introducevano nelle case a farne di tutte le sorte. In alcune, aperte e vote d’abitanti, o abitate soltanto da qualche languente, da qualche moribondo, entravan ladri, a man salva, a saccheggiare: altre venivan sorprese, invase da birri che facevan lo stesso, e anche cose peggiori.
Del pari con la perversità, crebbe la pazzia: tutti gli errori già dominanti più o meno, presero dallo sbalordimento, e dalla agitazione delle menti, una forza straordinaria, produssero effetti più rapidi e più vasti. E tutti servirono a rinforzare e a ingrandire quella paura speciale dell’unzioni, la quale, ne’ suoi effetti, ne’ suoi sfoghi, era spesso, come abbiam veduto, un’altra perversità. L’immagine di quel supposto pericolo assediava e martirizzava gli animi, molto più che il pericolo reale e presente. «E mentre», dice il Ripamonti, «i cadaveri sparsi, o i mucchi di cadaveri, sempre davanti agli occhi, sempre tra’ piedi, facevano della città tutta come un solo mortorio, c’era qualcosa di più brutto, di più funesto, in quell’accanimento vicendevole, in quella sfrenatezza e mostruosità di sospetti... Non del vicino soltanto si prendeva ombra, dell’amico, dell’ospite; ma que’ nomi, que’ vincoli dell’umana carità, marito e moglie, padre e figlio, fratello e fratello, eran di terrore: e, cosa orribile e indegna a dirsi! la mensa domestica, il letto nuziale, si temevano, come agguati, come nascondigli di venefizio.»
La vastità immaginata, la stranezza della trama turbavan tutti i giudizi, alteravan tutte le ragioni della fiducia reciproca. Da principio, si credeva soltanto che quei supposti untori fosser mossi dall’ambizione e dalla cupidigia; andando avanti, si sognò, si credette che ci fosse una non so quale voluttà diabolica in quell’ungere, un’attrattiva che dominasse le volontà. I vaneggiamenti degl’infermi che accusavan sé stessi di ciò che avevan temuto dagli altri, parevano rivelazioni, e rendevano ogni cosa, per dir così, credibile d’ognuno. E più delle parole, dovevan far colpo le dimostrazioni, se accadeva che appestati in delirio andasser facendo di quegli atti che s’erano figurati che dovessero fare gli untori: cosa insieme molto probabile, e atta a dar miglior ragione della persuasion generale e dell’affermazioni di molti scrittori. Così, nel lungo e tristo periodo de’ processi per stregoneria, le confessioni, non sempre estorte, degl’imputati, non serviron poco a promovere e a mantenere l’opinione che regnava intorno ad essa: ché, quando un’opinione regna per lungo tempo, e in una buona parte del mondo, finisce a esprimersi in tutte le maniere, a tentar tutte l’uscite, a scorrer per tutti i gradi della persuasione; ed è difficile che tutti o moltissimi credano a lungo che una cosa strana si faccia, senza che venga alcuno il quale creda di farla41.
Tra le storie che quel delirio dell’unzioni fece immaginare, una merita che se ne faccia menzione, per il credito che acquistò, e per il giro che fece. Si raccontava, non da tutti nell’istessa maniera (che sarebbe un troppo singolar privilegio delle favole), ma a un di presso, che un tale, il tal giorno, aveva visto arrivare sulla piazza del duomo un tiro a sei, e dentro con altri, un gran personaggio, con una faccia fosca e infocata, con gli occhi accesi, coi capelli ritti, e il labbro atteggiato di minaccia. Mentre quel tale stava intento a guardare, la carrozza s’era fermata; e il cocchiere l’aveva invitato a salirvi; e lui non aveva saputo dir di no. Dopo diversi giri, erano smontati alla porta d’un tal palazzo, dove entrato anche lui, con la compagnia, aveva trovato amenità e orrori, deserti e giardini, caverne e sale; e in esse, fantasime sedute a consiglio. Finalmente, gli erano state fatte vedere gran casse di danaro, e detto che ne prendesse quanto gli fosse piaciuto, con questo però, che accettasse un vasetto d’unguento, e andasse con esso ungendo per la città. Ma non avendo voluto acconsentire, s’era trovato, in un batter d’occhio, nel medesimo luogo dove era stato preso. Questa storia, creduta qui generalmente dal popolo, e, al dir del Ripamonti, non abbastanza derisa da qualche uomo di peso*, girò per tutta Italia e fuori. In Germania se ne fece una stampa42: l’elettore arcivescovo di Magonza scrisse al cardinal Federigo, per domandargli cosa si dovesse credere de’ fatti maravigliosi che si raccontavan di Milano; e n’ebbe in risposta ch’eran sogni43.
D’ugual valore, se non in tutto d’ugual natura, erano i sogni, de’ dotti; come disastrosi del pari n’eran gli effetti. Vedevano, la più parte di loro, l’annunzio e la ragione insieme de’ guai in una cometa apparsa l’anno 1628, e in una congiunzione44 di Saturno con Giove, «inclinando», scrive il Tadino, «la congiontione sodetta sopra questo anno 1630, tanto chiara, che ciascun la poteua intendere. Mortales parat morbos, miranda videntur»45. Questa predizione, cavata, dicevano, da un libro intitolato Specchio degli almanacchi perfetti, stampato in Torino, nel 1623, correva per le bocche di tutti. Un’altra cometa, apparsa nel giugno dell’anno stesso della peste, si prese per un nuovo avviso; anzi per una prova manifesta dell’unzioni. Pescavan ne’ libri, e pur troppo ne trovavano in quantità, esempi di peste, come dicevano, manufatta46: citavano Livio, Tacito, Dione47 che dico? Omero e Ovidio48, i molti altri antichi che hanno raccontati o accennati fatti somiglianti: di moderni ne avevano ancor più in abbondanza. Citavano cent’altri autori che hanno trattato dottrinalmente, o parlato incidentemente di veleni, di malìe, d’unti, di polveri: il Cesalpino, il Cardano, il Grevino, il Salio, il Pareo, lo Schenchio, lo Zachia e, per finirla, quel funesto Delrio49, il quale, se la rinomanza degli autori fosse in ragione del bene e del male prodotto dalle loro opere, dovrebb’ essere uno de’ più famosi; quel Delrio, le cui veglie50 costaron la vita a più uomini che l’imprese di qualche conquistatore: quel Delrio, le cui Disquisizioni Magiche, (il ristretto di tutto ciò che gli uomini avevano, fino a’ suoi tempi, sognato in quella materia), divenute il testo più autorevole, più irrefragabile, furono, per più d’un secolo, norma e impulso potente di legali, orribili, non interrotte carnificine.
Da’ trovati del volgo, la gente istruita prendeva ciò che si poteva accomodar con le sue idee; da’ trovati della gente istruita, il volgo prendeva ciò che ne poteva intendere, e come lo poteva; e di tutto si formava una massa enorme e confusa di pubblica follia.
Ma ciò che reca maggior maraviglia, è il vedere i medici, dico i medici che fin da principio avevan creduta la peste, dico in ispecie il Tadino, il quale l’aveva pronosticata, vista entrare, tenuta d’occhio, per dir così, nel suo progresso, il quale aveva detto e predicato che l’era peste, e s’attaccava col contatto, che non mettendovi riparo, ne sarebbe infettato tutto il paese, vederlo poi, da questi effetti medesimi cavare argomento certo delle unzioni venefiche e malefiche; lui che in quel Carlo Colonna, il secondo che morì di peste in Milano, aveva notato il delirio come un accidente51 della malattia, vederlo poi addurre in prova dell’unzioni e della congiura diabolica, un fatto di questa sorte: che due testimoni deponevano d’aver sentito raccontare da un loro amico infermo, come, una notte, gli eran venute persone in camera, a esibirgli la guarigione e danari, se avesse voluto unger le case del contorno; e come, al suo rifiuto, quelli se n’erano andati, e in loro vece, era rimasto un lupo sotto il letto, e tre gattoni sopra, «che sino al far del giorno vi dimororno».*
Se fosse stato uno solo che connettesse così, si dovrebbe dire che aveva una testa curiosa; o piuttosto non ci sarebbe ragion di parlarne; ma siccome eran molti, anzi quasi tutti, così è storia dello spirito umano, e dà occasion d’osservare quanto una serie ordinata e ragionevole d’idee possa essere scompigliata da una altra serie d’idee, che ci si getti a traverso. Del resto, quel Tadino era qui52 uno degli uomini più riputati del suo tempo.
Due illustri e benemeriti scrittori hanno affermato che il cardinal Federigo dubitasse del fatto dell’unzioni**. Noi vorremmo poter dare a quell’inclita e amabile memoria una lode ancor più intera, e rappresentare il buon prelato, in questo, come in tant’altre cose, superiore alla più parte de’ suoi contemporanei, ma siamo in vece costretti di notar di nuovo in lui un esempio della forza d’un’opinione comune anche sulle menti più nobili. S’è visto, almeno da quel che ne dice il Ripamonti, come da principio, veramente stesse in dubbio: ritenne poi sempre che in quell’opinione avesse gran parte la credulità, l’ignoranza, la paura, il desiderio di scusarsi d’aver così tardi riconosciuto il contagio, e pensato a mettervi riparo; che molto ci fosse d’esagerato, ma insieme, che qualche cosa ci fosse di vero. Nella biblioteca ambrosiana si conserva un’operetta scritta di sua mano intorno a quella peste; e questo sentimento c’è accennato spesso, anzi una volta enunciato espressamente. «Era opinion comune», dice a un di presso, «che di questi unguenti se ne componesse in vari luoghi, e che molte fossero l’arti di metterlo in opera: delle quali alcune ci paion vere, altre inventate***».
Ci furon però di quelli che pensarono fino alla fine, e fin che vissero, che tutto fosse immaginazione: e lo sappiamo, non da loro, ché nessuno fu abbastanza ardito per esporre al pubblico un sentimento così opposto a quello del pubblico; lo sappiamo dagli scrittori che lo deridono o lo riprendono o lo ribattono, come un pregiudizio d’alcuni, un errore che s’attentava di venire a disputa palese, ma che pur viveva; lo sappiamo anche da chi ne aveva notizia per tradizione. «Ho trovato gente savia in Milano,» dice il buon Muratori53, nel luogo sopraccitato, «che aveva buone relazioni dai loro maggiori, e non era molto persuasa che fosse vero il fatto di quegli unti velenosi.» Si vede ch’era uno sfogo segreto della verità, una confidenza domestica: il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune54.
I magistrati, scemati ogni giorno, e sempre più smarriti e confusi, tutta, per dir così, quella poca risoluzione55 di cui eran capaci, l’impiegarono a cercar di questi untori. Tra le carte del tempo della peste, che si conservano nell’archivio nominato di sopra, c’è una lettera (senza alcun altro documento relativo) in cui il gran cancelliere informa, sul serio e con gran premura, il governatore d’aver ricevuto un avviso che, in una casa di campagna de’ fratelli Girolamo e Giulio Monti, gentiluomini milanesi, si componeva veleno in tanta quantità, che quaranta uomini erano occupati en este exercicio56, con l’assistenza di quattro cavalieri bresciani, i quali facevano venir materiali dal veneziano, para la fábrica del veneno57. Soggiunge che lui aveva preso, in gran segreto, i concerti necessari per mandar là il podestà di Milano e l’auditore della Sanità, con trenta soldati di cavalleria; che pur troppo uno de’ fratelli era stato avvertito a tempo per poter trafugare58 gl’indizi del delitto, e probabilmente dall’auditor medesimo59, suo amico; e che questo trovava delle scuse per non partire; ma che non ostante, il podestà co’ soldati era andato a reconocer la casa, y a ver si hallard algunos vestigios60, e prendere informazioni, e arrestar tutti quelli che fossero incolpati.
La cosa dové finire in nulla, giacché gli scritti del tempo che parlano de’ sospetti che c’eran su que’ gentiluomini, non citano alcun fatto. Ma pur troppo, in un’altra occasione, si credé d’aver trovato61. I processi che ne vennero in conseguenza, non erano certamente i primi d’un tal genere: e non si può neppur considerarli come una rarità nella storia della giurisprudenza. Ché, per tacere dell’antichità, e accennar solo qualcosa de’ tempi più vicini a quello di cui trattiamo, in Palermo, del 1526; in Ginevra, del 1530, poi del 1545, poi ancora del 1574; in Casal Monferrato, del 1536; in Padova, del 1555; in Torino, del 1599, e di nuovo, in quel medesim’anno 1630, furon processati e condannati a supplizi, per lo più atrocissimi, dove qualcheduno, dove molti infelici, come rei d’aver propagata la peste, con polveri, o con unguenti, o con malie, o con tutto ciò insieme. Ma l’affare delle così dette unzioni di Milano, come fu il più celebre, così è fors’anche il più osservabile; o, almeno, c’è più campo di farci sopra osservazione, per esserne rimasti documenti più circostanziati e più autentici. E quantunque uno scrittore lodato poco sopra62 se ne sia occupato, pure, essendosi lui proposto, non tanto di farne propriamente la storia, quanto di cavarne sussidio di ragioni, per un assunto di maggiore, o certo di più immediata importanza, c’è parso che la storia potesse esser materia d’un nuovo lavoro63. Ma non è cosa da uscirne con poche parole; e non è qui il luogo di trattarla con l’estensione che merita. E oltre di ciò, dopo essersi fermato su que’ casi, il lettore non si curerebbe più certamente di conoscere ciò che rimane del nostro racconto. Serbando però a un altro scritto* la storia e l’esame di quelli, torneremo finalmente a’ nostri personaggi, per non lasciarli più, fino alla fine.
1 al campo: di Casale.
2 marchese d’Ayamonte: don Antonio de Guzman (1524-1580), governatore di Milano dal 1573 alla morte.
3 le imposizioni camerali: le imposizioni fiscali (ovvero della «Regia Camera», che era il fisco) (cfr. cap. XV, n. 8).
4 ...permitieren: «avrebbe provveduto nel modo migliore che il tempo e le presenti necessità avessero consentito». Nell’ediz. del ’27 la frase era citata in italiano.
5 un girigogolo: un indecifrabile ghirigoro, ovvero intreccio di lettere.
6 con gran desconsuelo: «con grande disappunto».
7 con lettere patenti: con investitura ufficiale.
8 il sacco atroce di Mantova: la presa ebbe luogo il 18 luglio 1630; la città subì il sacco per ben tre giorni.
9 riconoscerne tutti: che tutti riconobbero.
10 nuovo duca: Carlo Gonzaga Nevers, riconosciuto duca del Monferrato dai trattati di Ratisbona e di Cherasco.
11 duca di Savoia: Vittorio Amedeo I, che era morto il 26 luglio 1630.
12 altre terre: alcune terre contigue (Dosolo, Luzzara, Suzzara e Reggiolo), mentre aveva aspirato al possesso di tutto il mantovano.
13 a furia di furberie: risultati, dunque, dannosi o del tutto improduttivi per ciascuno dei contendenti.
14 pericolo ben più reale: Manzoni segue qui le affermazioni del La Croce e del Ripamonti. L’inciso pericolo ben più reale è tradotto letteralmente dal De peste di quest’ultimo (la sottolineatura è manzoniana). Le asserzioni sono discusse, e in parte confutate dal Nicolini (op. cit., pp. 249-258). * Memoria delle cose notabili successe in Milano intorno al mal contaggioso l’anno 1630, ecc. raccolte da Don Pio La Croce, Milano 1730. È tratta evidentemente da scritto inedito d’autore vissuto al tempo della pestilenza: se pure non è una semplice edizione, piuttosto che una nuova compilazione. [Nota dell’A] [Sulla Memoria del La Croce, cfr. cap. XXXI, n. 33]. ** Si unguenta scelerata et unctores in urbe essent... Si non essent... Certiusque adeo malum. Ripamonti, pag. 185 [Nota dell’A.] * P. Verri, Osservazioni sulla tortura: Scrittori italiani d’economia politica; parte moderna, tom. 17, pag. 203. [Nota dell’A.]
15 come osservò acutamente: Pietro Verri (1728-1797), lo storico ed economista lombardo, di cui saranno ricordate le opinioni specie nella Storia della Colonna infame.
16 squisito: sapientemente preparato, d’efficacia infallibile.
17 venefici: manipolatori di veleni.
18 gelosia: acuto sospetto.
19 meccanico: voce già dell’uso secentesco nel significato di esperto di macchine, ingegnere.
20 di francesi: proprio in quei giorni, il 30 luglio, era stato pubblicato un bando contro gli stranieri che, senza ragioni di lavoro, si trovassero a Milano.
21 si dondolasse: indugiasse.
22 sull’altar maggiore del duomo: in realtà, quella solenne dell’11 giugno 1630 fu preceduta da varie processioni propiziatorie, e seguita da altre durante il periodo di esposizione delle reliquie di s. Carlo nel Duomo.
23 né opposizione di sorte alcuna: risulta invece che, fin dal marzo, la stessa Sanità aveva preso la iniziativa d’invitare il Cardinale a promuovere processioni propiziatorie. Solo quando divenne presidente del Tribunale della Sanità l’energico Giambattista Visconti, già capitano di giustizia (settembre 1630), fra altri provvedimenti cautelativi vi fu quello di proibire severamente qualunque riunione. Alleggiamento dello Stato di Milano etc. di C. G. Cavatio della Somaglia, Milano 1653, pag. 482. [Nota dell’A.]
24 zendali: veli.
25 l’arti: le corporazioni delle arti.
26 torcetto: cero formato da quattro candele strette assieme.
27 buffa: voce fiorentina, per indicare un cappuccio che copre tutto il viso, provvisto solo di due buchi per gli occhi.
28 imprese: stemmi gentilizi.
29 al ronzìo vagabondo: di coloro che avanzavano in processione.
30 carrobi: voce lombarda, per «crocicchio» (dal latino «quadrivium»); così è denominato ancora quello ricordato dal Manzoni, a porta Ticinese.
31 dopo il mezzogiorno: la processione durò, infatti, dalle otto del mattino alle due pomeridiane.
32 nella processione medesima: in effetti, un forte incremento di mortalità ebbe luogo all’incirca dopo una decina di giorni dalla processione (intorno al 22 o 23 giugno). Neanche la devozione popolare, agli occhi di Manzoni, può contraddire alla ragione a meno di tradursi in superstizione, al livello di una ritualità magica; documento, dice subito dopo, del «povero senno umano» che cozza coi fantasmi «creati da sé».
33 travedente: incline a travedere. * Agostino Lampugnano, La pestilenza seguita in Milano, l’anno 1630, Milano 1634, pag. 44. [Nota dell’A.]
34 ma ancor più a caso: il colmo della peste fu non già (come dirà il Manzoni) verso la fine d’agosto, ma intorno al 10 luglio, quando il numero giornaliero dei morti giunse quasi al migliaio; una recrudescenza di mortalità ebbe luogo poi verso il 21 agosto. Alla fine della pestilenza la città era ridotta a circa cinquantamila anime; il numero dei morti, secondo recenti calcoli, fu di circa ottantamila.
35 dal greco monos: etimo incerto. Per lo più si fa derivare dal lombardo «monàt», che significa monello, o anche cattivo soggetto (Bianchi). Ma la parola risulta fin dal tardo Cinquecento nell’accezione di «becchino».
36 Gaspare Bugatti: cfr. cap. XXVII, n. 70 (a proposito della biblioteca di don Ferrante).
37 aggiutto: aiuto (cfr. cap. XXXI, n. 38). * Pag. 117. [Nota dell’A.]
38 il padre Michele: Michele Pozzobonelli (cfr. cap. XXXI, n. 33).
39 men del bisogno: di fatto i medici mancarono quasi completamente proprio nel periodo del maggior infuriare dell’epidemia, dall’aprile 1630 alla fine. L’assistenza restò affidata a un protobarbiere, tale Francesco Castello, ad alcuni barbieri subalterni, a un gruppo di balie e ad uno speziale coadiuvato da un aiutante (Nicolini). * Ripamonti, pag. 164 [Nota dell’A.]
40 quelle cautele: tra le cautele sembra usasse quella di fare le sue visite per la città e al lazzeretto in una lettiga chiusa con vetri; cautela che poté fors’anche dispiacere, anche se è vero che il non prenderla «sarebbe stato quasi un donchisciottismo, colpevole in chi aveva verso il suo gregge il dovere di serbare la propria vita, allora più che mai necessaria» (Nicolini, op. cit., p. 165). * Pag. 102. [Nota dell’A.]
41 il quale creda di farla: la nuova unzione, che diede poi luogo al processo di cui nella Storia della Colonna infame, ebbe luogo nella notte dal 20 al 21 giugno 1630. E qui, nota il Nicolini, le circostanze di fatto emerse poi «sono così concordi e circostanziate da non potere assolutamente far pensare a un caso di allucinazione collettiva» (op. cit., p. 259). Da allora le unzioni crebbero senza tregua (in proposito concordano tutti gli storici, i vari corrispondenti di potenze italiane o straniere in atti pubblici ecc.) accompagnando il contagio fino alla sua cessazione; l’ipotesi di scherzo di cattivo genere, formulata inizialmente da alcuni, fu poi abbandonata da tutti, seriamente impauriti di quelle manifestazioni. Impossibile perciò negare la veridicità dei fatti; anche a voler far sussistere l’ipotesi d’interventi beffardi per lo meno in certe fasi. altrettanto e più valida è parsa alla critica storica quella dell’esistenza di «altre due categorie di untori, che si potrebbero chiamare untori allucinati (o untori-stregoni) e untori perversi» (Nicolini, ivi, p. 282). Se è vero infatti, secondo un assioma vichiano che Manzoni mostra di ben conoscere, che non c’è assurdità logica che non si ripercuota nel campo della pratica (Nicolini), è credibile che alle più degradanti superstizioni si accompagnassero allora ossessionanti allucinazioni capaci di spingere a gesta stolte e aberranti come le unzioni. L’analisi manzoniana stessa si appoggia a una amara consapevolezza delle perversioni umane. Per tornare alla credibilità dei fatti, se da una parte sembra assurda l’imputazione che allora fu fatta (contro la Francia e il Richelieu) delle unzioni a scopo politico, attendibile appare un’altra imputazione, che pure si fece, a chi aveva interesse a veder prolungarsi il contagio: i monatti, anche in analogia con quel che era avvenuto sei anni prima, nel 1624, nell’epidemia a Palermo e a Messina. Lo scetticismo manzoniano, che è in grandissima parte giusto quanto alla reale efficacia delle unzioni, sembra invece difficile ad accettare quando coinvolge la veridicità storica delle manifestazioni. In compenso, c’è da credere che, se Manzoni avesse accolto la tesi affermativa, veduti i presupposti, ne avrebbe tratto ulteriore argomento di amara commiserazione. Altro, infine il discorso sulle responsabilità dei giudici, l’iniquità della condotta dei processi e l’atroce irrogazione delle torture e delle pene, di cui la Storia della Colonna infame. * Apud prudentium plerosque, non sicuti debuerat, irrisa. De peste etc., pag. 77. [Nota dell’A.]
42 una stampa: un’incisione.
43 ch’eran sogni: la risposta, inviata il 23 gennaio 1631, fu infatti: «nulla spectra, nulla inferorum imagines, nulla portentosa visa vocesve tartarea Mediolani accidisse» (Nicolini, p. 221; ivi, anche per altri avvenimenti che avevano dato luogo a favole analoghe).
44 congiunzione: cfr. cap. XXVII, n. 48.
45 Mortales... videntur: (esametro) «prepara malattie mortali; appaiono prodigi».
46 manufatta: provocata e diffusa per intervento malvagio.
47 Dione: Dione Cassio, di Nicea in Bitinia (II sec. d.C.), autore di una storia romana in greco, pervenutaci solo in parte.
48 Ovidio: anche Ovidio, infatti, descrive nelle Metamorfosi la peste in Egina (1. VII, cap. XIV).
49 ...quel funesto Delrio: Andrea Cesalpino, di Arezzo (1524-1603), filosofo aristotelico e naturalista, autore di una Daemonum investigatio peripatetica (1580); sul Cardano, cfr. cap. XXVII, nn. 54, 59, 60; Jacques Grévin, o Grevino, francese (1538-1570), autore di un trattato De venenis; Pietro Salio, di Faenza (sec. XVI), autore di un De febri pestilenti et curatione; Ambroise Paré, il Pareo, francese (1577-1590), celebre chirurgo precorritore della scienza moderna, autore anche di un trattato sulla peste (1568); Giovanni Giorgio Schenck, lo Schenchio, di Graffenberg (1531-1598), compilatore di un’enciclopedia medica che conteneva un’apposita trattazione sulla peste; Paolo Zacchia, romano (1584-1598), medico d’Innocenzo X e protomedico degli stati pontifici, autore di rinomate Questioni medicolegali; su Martino Antonio Delrio, cfr. cap. XXVII, n. 68.
50 le cui veglie: le veglie impiegate per scrivere il trattato Disquisitionum magicarum libri VI.
51 accidente: sintomo. * Pag. 123, 124. [Nota dell’A.]
52 era qui: a Milano. ** Muratori, Del governo della peste, Modena 1714, pag. 117 – P. Verri, opuscolo citato, pag. 261. [Nota dell’A.] *** Ecco le sue parole: Unguenta uero haec aiebant componi conficique multivaria, fraudisque uias fruisse complures; quarum sane fraudum et artium, aliis quidem assentimur, alias uero fictas fuisse commentitiasque arbitramur. De Pestilentia quae Mediolani anno 1630 magnam stragem edidit. Cap. V. [Nota dell’A.].
53 il buon Muratori: Ludovico Antonio Muratori (1672-1750), il grande storico ed erudito, caldamente ammirato da Manzoni. Sull’opinione di lui circa le unzioni, ch’era assertiva, Manzoni tornerà anche nella Storia della Colonna infame (VII), considerandola un atteggiamento troppo concessivo di fronte all’altrui errore. Da ciò, il velato rimprovero nel dirlo il buon Muratori.
54 del senso comune: sentenza incisiva: per paura, cioè, di andar confuso con l’opinione e il sentimento del volgo.
55 risoluzione: risolutezza.
56 en este exercicio: «in questo lavoro». L’episodio è uno dei pochissimi aggiunti nell’edizione definitiva del romanzo. L’archivio a cui ha alluso lo scrittore è quello di San Fedele.
57 para la fábrica del veneno: «per la fabbricazione del veleno».
58 trafugare: sottrarre indebitamente.
59 dell’auditor medesimo: l’uditore della Sanità, Gaspare Alfieri, «così bene informato, a causa della sua attiva partecipazione ai processi, di quanto concernesse untori e unzioni» (Nicolini).
60 ...algunos vestigios: «a perquisire la casa, e a vedere se vi trovasse qualche indizio».
61 si credé d’aver trovato: è l’episodio d’unzione già ricordato, che ebbe luogo nella notte dal 20 al 21 giugno 1630.
62 uno scrittore lodato poco sopra: Pietro Verri: che nelle Osservazioni si era occupato del processo conseguente a quell’episodio, per trarne argomento contro la tortura.
63 d’un nuovo lavoro: il lavoro preannunziato è la Storia della Colonna infame, scritta nel ’29, di sette capitoli preceduti da un’introduzione, pubblicata nel ’40 come appendice all’edizione definitiva del romanzo. Manzoni vi ricostruisce minutamente il processo per unzione svolto contro il commissario del tribunale della Sanità, Guglielmo Piazza, e un barbiere, Giacomo Mora. La tesi manzoniana è che i giudici, oltre ad aver deviato dal retto senso morale, avrebbero compiuto un misfatto giuridico, distorcendo a svantaggio degli accusati le norme esistenti e perfino l’uso della tortura. Sulla fondatezza storica e giuridica dell’assunto manzoniano sono da tenere in conto le contestazioni e riserve del Nicolini (op. cit., pp. 297-341). Indiscutibilmente legittimo è lo sdegno del Manzoni contro una società dove leggi, prove giudiziarie e costumi, sullo sfondo di un’autentica barbarie intellettuale, seppero produrre quasi per «ferrea logica di cose» (Nicolini) – una logica, però, da riprovare – simili storture. Possiamo anche concordare che le unzioni avessero luogo; ed è vero che Manzoni s’implica nelle prove di fatto, e così tenta di trascendere il punto dolente dell’oscurantismo del tempo; resta fermo a ogni modo, fossero quelle unzioni più o meno efficaci, che chi le eseguiva riassumeva, a un livello elementarmente terroristico i malanni di tutta una società, legislatori compresi; epperciò Manzoni non ha torto di rivolgere una dolente commiserazione a chi, compartecipe di quella «rea progenie», ne subiva anche il peso di «sventura». * V. l’opuscolo in fine del volume. [Nota dell’A. L’«opuscolo» a cui l’A. si riferisce è la Storia della colonna infame.]