Capitolo XXXVII

 

Appena infatti ebbe Renzo passata la soglia del lazzeretto, e preso a diritta, per ritrovar la viottola di dov’era sboccato la mattina sotto le mura, principiò come una grandine di goccioloni radi e impetuosi, che, battendo e risaltando sulla strada bianca e arida, sollevavano un minuto polverìo; in un momento, diventaron fitti; e prima che arrivasse alla viottola, la veniva giù a secchie. Renzo, in vece d’inquietarsene, ci sguazzava dentro, se la godeva in quella rinfrescata, in quel susurrìo, in quel brulichìo dell’erbe e delle foglie, tremolanti, gocciolanti, rinverdite, lustre1; metteva certi respironi larghi e pieni; e in quel risolvimento della natura sentiva come più liberamente e più vivamente quello che s’era fatto nel suo destino2.

Ma quanto più schietto e intero sarebbe stato questo sentimento, se Renzo avesse potuto indovinare quel che si vide pochi giorni dopo: che quell’acqua portava via il contagio; che, dopo quella, il lazzeretto, se non era per restituire ai viventi tutti i viventi che conteneva, almeno non n’avrebbe quasi più ingoiati altri; che, tra una settimana, si vedrebbero riaperti usci e botteghe, non si parlerebbe quasi più che di quarantina; e della peste non rimarrebbe se non qualche resticciolo qua e là; quello strascico che un tal flagello lasciava sempre dietro a sé per qualche tempo3.

Andava dunque il nostro viaggiatore allegramente, senza aver disegnato né dove, né come, né quando, né se avesse da fermarsi la notte, premuroso soltanto di portarsi avanti, d’arrivar presto al suo paese, di trovar con chi parlare, a chi raccontare, soprattutto di poter presto rimettersi in cammino per Pasturo, in cerca d’Agnese. Andava, con la mente tutta sottosopra dalle cose di quel giorno4; ma di sotto le miserie, gli orrori, i pericoli, veniva sempre a galla un pensierino5: l’ho trovata; è guarita; è mia! E allora faceva uno sgambetto, e con ciò dava un’annaffiata all’intorno, come un can barbone uscito dall’acqua; qualche volta si contentava d’una fregatina di mani; e avanti, con più ardore di prima. Guardando per la strada, raccattava, per dir così, i pensieri, che ci aveva lasciati la mattina e il giorno avanti, nel venire6; e con più piacere quelli appunto che allora aveva più cercato di scacciare, i dubbi, le difficoltà, trovarla, trovarla viva, tra tanti morti e moribondi! «E l’ho trovata viva!» concludeva. Si rimetteva col pensiero nelle circostanze più terribili di quella giornata; si figurava con quel martello in mano: ci sarà o non ci sarà? e una risposta così poco allegra; e non aver nemmeno il tempo di masticarla, che addosso quella furia di matti birboni; e quel lazzeretto, quel mare! lì ti volevo a trovarla! E averla trovata! Ritornava su quel momento quando fu finita di passare la processione de’ convalescenti: che momento! che crepacore non trovarcela! e ora non gliene importava più nulla. E quel quartiere delle donne! E là dietro a quella capanna, quando meno se l’aspettava, quella voce, quella voce proprio! E vederla, vederla levata! Ma che? c’era ancora quel nodo del voto, e più stretto che mai. Sciolto anche questo. E quell’odio contro don Rodrigo, quel rodìo continuo che esacerbava tutti i guai, e avvelenava tutte le consolazioni, scomparso anche quello. Talmenteché non saprei immaginare una contentezza più viva, se non fosse stata l’incertezza intorno ad Agnese, il tristo presentimento intorno al padre Cristoforo, e quel trovarsi ancora in mezzo a una peste.

Arrivò a Sesto7, sulla sera; né pareva che l’acqua volesse cessare. Ma, sentendosi più in gambe che mai, e con tante difficoltà di trovar dove alloggiare, e così inzuppato, non ci pensò neppure. La sola cosa che l’incomodasse, era un grand’appetito; ché una consolazione come quella gli avrebbe fatto smaltire altro che la poca minestra del cappuccino. Guardò se trovasse anche qui una bottega di fornaio; ne vide una; ebbe due pani con le molle, e con quell’altre cerimonie8. Uno in tasca e l’altro alla bocca, e avanti.

Quando passò per Monza, era notte fatta: nonostante, gli riuscì di trovar la porta che metteva sulla strada giusta. Ma meno questo, che, per dir la verità, era un gran merito, potete immaginarvi come fosse quella strada, e come andasse facendosi di momento in momento. Affondata (com’eran tutte; e dobbiamo averlo detto altrove)9 tra due rive, quasi un letto di fiume, si sarebbe a quell’ora potuta dire, se non un fiume, una gora davvero; e ogni tanto pozze, da volerci del buono e del bello a levarne i piedi, non che le scarpe. Ma Renzo n’usciva come poteva, senz’atti d’impazienza, senza parolacce, senza pentimenti; pensando che ogni passo, per quanto costasse, lo conduceva avanti, e che l’acqua cesserebbe quando a Dio piacesse, e che, a suo tempo, spunterebbe il giorno, e che la strada che faceva intanto, allora sarebbe fatta.

E dirò anche che non ci pensava se non proprio quando non poteva far di meno. Eran distrazioni queste; il gran lavoro della sua mente era di riandare la storia di que’ tristi anni passati: tant’imbrogli, tante traversìe, tanti momenti in cui era stato per perdere anche la speranza, e fare andata10 ogni cosa; e di contrapporci l’immaginazioni d’un avvenire così diverso: e l’arrivar di Lucia, e le nozze, e il metter su casa e il raccontarsi le vicende passate, e tutta la vita.

Come la facesse quando trovava due strade; se quella poca pratica, con quel poco barlume, fossero quelli che l’aiutassero a trovar sempre la buona, o se l’indovinasse sempre alla ventura, non ve lo saprei dire; ché lui medesimo, il quale soleva raccontar la sua storia molto per minuto, lunghettamente anzi che no (e tutto conduce a credere che il nostro anonimo l’avesse sentita da lui più d’una volta), lui medesimo, a questo punto, diceva che, di quella notte, non se ne rammentava che come se l’avesse passata in letto a sognare11. Il fatto sta che, sul finir di essa, si trovò alla riva dell’Adda.

Non era mai spiovuto; ma, a un certo tempo, da diluvio era diventata pioggia, e poi un’acquerugiola fine fine, cheta cheta, ugual uguale: i nuvoli alti e radi stendevano un velo non interrotto, ma leggiero e diafano; e il lume del crepuscolo12 fece vedere a Renzo il paese d’intorno. C’era dentro il suo; e quel che sentì, a quella vista, non si saprebbe spiegare. Altro non vi so dire, se non che que’ monti, quel Resegone vicino, il territorio di Lecco, era diventato tutto come roba sua13. Diede un’occhiata anche a sé, e si trovò un po’ strano, quale, per dir la verità, da quel che si sentiva, s’immaginava già di dover parere: sciupata ed attaccata addosso ogni cosa: dalla testa alla vita, tutto un fradiciume, una grondaia; dalla vita alla punta de’ piedi, melletta14 e mota: le parti dove non ce ne fosse, si sarebbero potute chiamare esse zacchere e schizzi. E se si fosse visto tutt’intero in uno specchio, con la tesa del cappello floscia e cascante, e i capelli stesi e incollati sul viso, si sarebbe fatto ancor più specie. In quanto a stanco, lo poteva essere, ma non ne sapeva nulla: e il frescolino dell’alba aggiunto a quello della notte e di quel poco bagno, non gli dava altro che una fierezza15, una voglia di camminar più presto.

È a Pescate; costeggia quell’ultimo tratto dell’Adda, dando però un’occhiata malinconica a Pescarenico; passa il ponte; per istrade e campi, arriva in un momento alla casa dell’ospite amico. Questo, che s’era levato allora, e stava sull’uscio, a guardare il tempo, alzò gli occhi a quella figura così inzuppata, così infangata, diciam pure così lercia, e insieme così viva e disinvolta: a’ suoi giorni non aveva visto un uomo peggio conciato e più contento.

– Ohe! – disse: – già qui? e con questo tempo? Com’è andata?

– La c’è, – disse Renzo: – la c’è: la c’è.

– Sana?

– Guarita, che è meglio. Devo ringraziare il Signore e la Madonna fin che campo. Ma, cose grandi, cose di fuoco: ti racconterò poi tutto.

– Ma come sei conciato!

– Son bello eh?

– A dir la verità, potresti adoprare il da tanto in su, per lavare il da tanto in giù. Ma, aspetta, aspetta; che ti faccia un buon fuoco.

– Non dico di no. Sai dove la m’ha preso? proprio alla porta del lazzeretto. Ma niente! il tempo il suo mestiere, e io il mio16.

L’amico andò e tornò con due bracciate di stipa17: ne mise una in terra, l’altra sul focolare, e, con un po’ di brace rimasta della sera avanti, fece presto una bella fiammata. Renzo intanto s’era levato il cappello, e, dopo averlo scosso due o tre volte, l’aveva buttato in terra: e, non così facilmente, s’era tirato via anche il farsetto. Levò poi dal taschino de’ calzoni il coltello, col fodero tutto fradicio, che pareva stato in molle; lo mise su un panchetto, e disse: – anche costui è accomodato a dovere; ma l’è acqua! l’è acqua! sia ringraziato il Signore18... Sono stato lì lì...! Ti dirò poi. – E si fregava le mani. – Ora fammi un altro piacere, – soggiunse: – quel fagottino che ho lasciato su in camera, va a prendermelo, ché prima che s’asciughi questa roba che ho addosso...!

Tornato col fagotto, l’amico disse: – penso che avrai anche appetito: capisco che da bere, per la strada, non te ne sarà mancato; ma da mangiare...

– Ho trovato da comprar due pani, ieri sul tardi; ma per la verità, non m’han­no toccato un dente.

– Lascia fare, – disse l’amico; mise l’acqua in un paiolo, che attaccò poi alla catena; e soggiunse: – vado a mungere: quando tornerò col latte, l’acqua sarà all’ordine; e si fa una buona polenta. Tu intanto fa il tuo comodo.

Renzo, rimasto solo, si levò, non senza fatica, il resto de’ panni, che gli s’eran come appiccicati addosso; s’asciugò, si rivestì da capo a piedi. L’amico tornò, e andò al suo paiolo: Renzo intanto si mise a sedere, aspettando.

– Ora sento che sono stanco – disse: – ma è una bella tirata! Però questo è nulla. Ne ho da raccontartene per tutta la giornata. Com’è conciato Milano! Le cose che bisogna vedere! Le cose che bisogna toccare! Cose da farsi poi schifo a sé medesimo. Sto per dire che non ci voleva meno di quel bucatino che ho avuto. E quel che m’hanno voluto fare que’ signori di laggiù. Sentirai. Ma se tu vedessi il lazzeretto! C’è da perdersi nelle miserie. Basta; ti racconterò tutto... E la c’è, e la verrà qui, e sarà mia moglie; e tu devi far da testimonio, e, peste o non peste, almeno qualche ora, voglio che stiamo allegri.

Del resto mantenne ciò, che aveva detto all’amico, di voler raccontargliene per tutta la giornata; tanto più, che, avendo sempre continuato a piovigginare, questo la passò tutta in casa, parte seduto accanto all’amico, parte in faccende intorno a un suo piccolo tino, e a una botticina, e ad altri lavori, in preparazione della vendemmia19; ne’ quali Renzo non lasciò di dargli una mano; ché, come soleva dire, era di quelli che si stancano più a star senza far nulla, che a lavorare. Non poté però tenersi di non fare una scappatina alla casa d’Agnese, per rivedere una certa finestra, e per dare anche lì una fregatina di mani. Tornò senza essere stato visto da nessuno; e andò subito a letto. S’alzò prima che facesse giorno; e, vedendo cessata l’acqua, se non ritornato il sereno, si mise in cammino per Pasturo.

Era ancor presto quando ci arrivò: ché non aveva meno fretta e voglia di finire, di quel che possa averne il lettore. Cercò d’Agnese; sentì che stava bene, e gli fu insegnata una casuccia isolata dove abitava. Ci andò; la chiamò dalla strada: a una tal voce, essa s’affacciò di corsa alla finestra; e, mentre stava a bocca aperta per mandar fuori non so che parola, non so che suono20, Renzo la prevenne dicendo: – Lucia è guarita: l’ho veduta ier l’altro; vi saluta; verrà presto. E poi ne ho, ne ho delle cose da dirvi.

Tra la sorpresa dell’apparizione, e la contentezza della notizia, e la smania di saperne di più, Agnese cominciava ora un’esclamazione, ora una domanda, senza finir nulla: poi, dimenticando le precauzioni ch’era solita a prendere da molto tempo, disse: – vengo ad aprirvi.

– Aspettate: e la peste? – disse Renzo: – voi non l’avete avuta, credo.

– Io no: e voi?

– Io sì; ma voi dunque dovete aver giudizio. Vengo da Milano; e, sentirete, sono proprio stato nel contagio fino agli occhi. È vero che mi son mutato tutto da capo a piedi; ma l’è una porcheria che s’attacca alle volte come un malefizio. E giacché il Signore v’ha preservata finora, voglio che stiate riguardata fin che non è finito quest’influsso; perché siete la nostra mamma: e voglio che campiamo insieme un bel pezzo allegramente, a conto21 del gran patire che abbiam fatto, almeno io.

– Ma... – cominciava Agnese.

– Eh! – interruppe Renzo: – non c’è ma che tenga. So quel che volete dire; ma sentirete, sentirete, che de’ ma non ce n’è più. Andiamo in qualche luogo all’aperto, dove si possa parlar con comodo, senza pericolo; e sentirete.

Agnese gl’indicò un orto ch’era dietro alla casa; e soggiunse: – entrate lì, e vedrete che c’è due panche, l’una in faccia all’altra, che paion messe apposta. Io vengo subito.

Renzo andò a mettersi a sedere su una: un momento dopo, Agnese si trovò lì sull’altra: e son certo che, se il lettore, informato come è delle cose antecedenti, avesse potuto trovarsi lì in terzo, a veder con gli occhi quella conversazione così animata, a sentir con gli orecchi que’ racconti, quelle domande, quelle spiegazioni, quell’esclamare, quel condolersi, quel rallegrarsi, e don Rodrigo, e il padre Cristoforo, e tutto il resto, e quelle descrizioni dell’avvenire, chiare e positive come quelle del passato, son certo, dico, che ci avrebbe preso gusto, e sarebbe stato l’ultimo a venir via22. Ma d’averla sulla carta tutta quella conversazione, con parole mute, fatte d’inchiostro, e senza trovarci un solo fatto nuovo, son di parere che non se ne curi molto, e che gli piaccia più d’indovinarla da sé. La conclusione fu che s’anderebbe a metter su casa tutti insieme in quel paese del bergamasco dove Renzo aveva già un buon avviamento: in quanto al tempo, non si poteva decider nulla, perché dipendeva dalla peste, e da altre circostanze: appena cessato il pericolo, Agnese tornerebbe a casa, ad aspettarvi Lucia, o Lucia ve l’aspetterebbe: intanto Renzo farebbe spesso qualche altra corsa a Pasturo, a veder la sua mamma, e a tenerla informata di quel che potesse accadere.

Prima di partire, offrì a lei danari, dicendo: – gli ho qui tutti, vedete, que’ tali: avevo fatto voto anch’io di non toccarli, fin che la cosa non fosse venuta in chiaro. Ora, se n’avete bisogno, portate qui una scodella d’acqua e aceto23; vi butto dentro i cinquanta scudi belli e lampanti.

– No, no, – disse Agnese: – ne ho ancora più del bisogno per me: i vostri, serbateli, che saran buoni per metter su casa.

Renzo tornò al paese con questa consolazione di più d’aver trovata sana e salva una persona tanto cara. Stette il rimanente di quella giornata, e la notte, in casa dell’amico; il giorno dopo, in viaggio di nuovo, ma da un’altra parte, cioè verso il paese adottivo.

Trovò Bortolo, in buona salute anche lui, e in minor timore di perderla; ché, in que’ pochi giorni, le cose, anche là, avevan preso rapidamente una bonissima piega. Pochi eran quelli che si ammalavano; e il male non era più quello; non più que’ lividi mortali, né quella violenza di sintomi; ma febbriciattole, intermittenti la maggior parte, con al più qualche piccol bubbone scolorito, che si curava come un fignolo24 ordinario. Già l’aspetto del paese compariva mutato; i rimasti vivi cominciavano a uscir fuori, a contarsi tra loro, a farsi a vicenda condoglianze e congratulazioni. Si parlava già di ravviare25 i lavori: i padroni pensavano già a cercare e a caparrare26 operai, e in quell’arti principalmente dove il numero n’era stato scarso anche prima del contagio, com’era quella della seta. Renzo, senza fare il lezioso27, promise (salve le debite approvazioni)28 al cugino di rimettersi al lavoro, quando verrebbe accompagnato, a stabilirsi in paese. S’occupò intanto de’ preparativi più necessari: trovò una casa più grande; cosa divenuta pur troppo facile e poco costosa; e la fornì di mobili e d’attrezzi, intaccando questa volta il tesoro, ma senza farci un gran buco, ché tutto era a buon mercato, essendoci molta più roba che gente che la comprassero.

Dopo non so quanti giorni, ritornò al paese nativo, che trovò ancor più notabilmente cambiato in bene. Trottò subito a Pasturo; trovò Agnese rincoraggiata affatto, e disposta a ritornare a casa quando si fosse; di maniera che ce la condusse lui: né diremo quali fossero i loro sentimenti, quali le parole, al rivedere insieme que’ luoghi.

Agnese trovò ogni cosa come l’aveva lasciata. Sicché non poté far a meno di non dire che, questa volta, trattandosi d’una povera vedova e d’una povera fanciulla, avevan fatto la guardia gli angioli29. – E l’altra volta, – soggiungeva30 – che si sarebbe creduto che il Signore guardasse altrove, e non pensasse a noi, giacché lasciava portar via il povero fatto nostro; ecco che ha fatto vedere il contrario, perché m’ha mandato da un’altra parte di bei danari, con cui ho potuto rimettere ogni cosa. Dico ogni cosa, e non dico bene; perché il corredo di Lucia che coloro31 avevan portato via bell’e nuovo, insieme col resto, quello mancava ancora; ma ecco che ora ci viene da un’altra parte. Chi m’avesse detto, quando io m’arrapinavo32 tanto a allestir quell’altro: tu credi di lavorar per Lucia: eh povera donna! lavori per chi non sai: sa il cielo, questa tela, questi panni, a che sorte di creature anderanno indosso: quelli per Lucia, il corredo davvero che ha da servire per lei, ci penserà un’anima buona, la quale tu non sai né anche che la sia in questo mondo.

Il primo pensiero d’Agnese fu quello di preparare nella sua povera casuccia l’alloggio il più decente che potesse, a quell’anima buona33: poi andò in cerca di seta da annaspare; e lavorando ingannava il tempo.

Renzo, dal canto suo, non passò in ozio que’ giorni già tanto lunghi per sé: sapeva far due mestieri per buona sorte; si rimise a quello del contadino. Parte aiutava il suo ospite, per il quale era una gran fortuna l’avere in tal tempo spesso al suo comando un’opera34 e un’opera di quell’abilità; parte coltivava, anzi dissodava l’orticello d’Agnese, trasandato affatto nell’assenza di lei. In quanto al suo proprio podere, non se n’occupava punto, dicendo ch’era una partita troppo arruffata, e che ci voleva altro che due braccia a ravviarla. E non ci metteva neppure i piedi; come né anche in casa: ché gli avrebbe fatto male a vedere quella desolazione; e aveva già preso il partito di disfarsi d’ogni cosa, a qualunque prezzo, e d’impiegar nella nuova patria quel tanto che ne potrebbe ricavare.

Se i rimasti vivi erano, l’uno per l’altro, come morti resuscitati, Renzo, per quelli del suo paese, lo era, come a dire, due volte: ognuno gli faceva accoglienze e congratulazioni, ognuno voleva sentir da lui la sua storia. Direte forse: come andava col bando? L’andava benone: lui non ci pensava quasi più, supponendo che quelli i quali avrebbero potuto eseguirlo, non ci pensassero più né anche loro: e non s’ingannava. E questo non nasceva solo dalla peste che aveva fatto monte35 di tante cose; ma era, come s’è potuto vedere anche in vari luoghi di questa storia, cosa comune a que’ tempi, che i decreti, tanto generali quanto speciali, contro le persone, se non c’era qualche animosità privata e potente che li tenesse vivi, e li facesse valere, rimanevano spesso senza effetto, quando non l’avessero avuto sul primo momento; come palle di schioppo, che, se non fanno colpo, restano in terra, dove non danno fastidio a nessuno. Conseguenza necessaria della gran facilità con cui li seminavano que’ decreti. L’attività dell’uomo è limitata; e tutto il di più che c’era nel comandare, doveva tornare in tanto meno nell’eseguire. Quel che va nelle maniche, non può andar ne’ gheroni36.

Chi volesse anche sapere come Renzo se la passasse con don Abbondio, in quel tempo d’aspetto, dirò che stavano alla larga l’uno dall’altro: don Abbondio, per timore di sentire intonar qualcosa di matrimonio: e, al solo pensarci, si vedeva davanti agli occhi don Rodrigo da una parte, co’ suoi bravi, il cardinale dall’altra, co’ suoi argomenti: Renzo, perché aveva fissato di non parlargliene che al momento di concludere, non volendo risicare di farlo inalberar prima del tempo, di suscitar, chi sa mai? qualche difficoltà, e d’imbrogliar le cose con chiacchiere inutili. Le sue chiacchiere, le faceva con Agnese. – Credete voi che verrà presto? – domandava l’uno. – Io spero di sì, – rispondeva l’altra: e spesso quello che aveva data la risposta, faceva poco dopo la domanda medesima. E con queste e con simili furberie, s’ingegnavano a far passare il tempo, che pareva loro più lungo, di mano in mano che n’era più passato.

Al lettore noi lo faremo passare in un momento tutto quel tempo, dicendo in compendio che, qualche giorno dopo la visita di Renzo al lazzeretto, Lucia n’uscì con la buona vedova; che, essendo stata ordinata una quarantina generale, la fecero insieme, rinchiuse nella casa di quest’ultima; che una parte del tempo fu spesa in allestire il corredo di Lucia, al quale, dopo aver fatto un po’ di cerimonie, dovette lavorare anche lei; e che, terminata che fu la quarantina, la vedova lasciò in consegna il fondaco e la casa a quel suo fratello commissario; e si fecero i preparativi per il viaggio. Potremmo anche soggiunger subito: partirono, arrivarono, e quel che segue; ma, con tutta la volontà che abbiamo di secondar la fretta del lettore, ci son tre cose appartenenti a quell’intervallo di tempo, che non vorremmo passar sotto silenzio; e, per due almeno, crediamo che il lettore stesso dirà che avremmo fatto male.

La prima, che, quando Lucia tornò a parlare alla vedova delle sue avventure, più in particolare, e più ordinatamente di quel che avesse potuto in quell’agitazione della prima confidenza, e fece menzione più espressa della signora che l’aveva ricoverata nel monastero di Monza, venne a sapere di costei cose che, dandole la chiave di molti misteri, le riempirono insieme l’animo d’una dolorosa e paurosa maraviglia. Seppe dalla vedova che la sciagurata, caduta in sospetto d’atrocissimi fatti, era stata, per ordine del cardinale, trasportata in un monastero di Milano; che lì, dopo molto infuriare e dibattersi, s’era ravveduta, s’era accusata; e che la sua vita attuale era supplizio volontario tale, che nessuno, a meno di non togliergliela, ne avrebbe potuto trovare un più severo37. Chi volesse conoscere un po’ più in particolare questa trista storia, la troverà nel libro e al luogo che abbiamo citato altrove, a proposito della stessa persona*.

L’altra cosa è che Lucia, domandando del padre Cristoforo a tutti i cappuccini che poté vedere nel lazzeretto, sentì, con più dolore che maraviglia, ch’era morto di peste.

Finalmente, prima di partire, avrebbe anche desiderato di saper qualcosa de’ suoi antichi padroni, e di fare, come diceva, un atto del suo dovere, se alcuno ne rimaneva. La vedova l’accompagnò alla casa, dove seppero che l’uno e l’altra erano andati tra que’ più. Di donna Prassede, quando si dice ch’era morta, è detto tutto38; ma intorno a don Ferrante, trattandosi ch’era stato dotto39, l’anonimo ha creduto d’estendersi un po’ più; e noi, a nostro rischio, trascriveremo a un di presso quello che ne lasciò scritto.

Dice adunque che, al primo parlar che si fece di peste, don Ferrante fu uno de’ più risoluti a negarla, e che sostenne costantemente fino all’ultimo, quell’opinione; non già con ischiamazzi, come il popolo; ma con ragionamenti, ai quali nessuno potrà dire almeno che mancasse la concatenazione.

In rerum natura, – diceva, – non ci son che due generi di cose: sostanze e accidenti40; e se io provo che il contagio non può esser né l’uno né l’altro, avrò provato che non esiste, che è una chimera. E son qui. Le sostanze sono, o spirituali, o materiali. Che il contagio sia sostanza spirituale, è uno sproposito che nessuno vorrebbe sostenere; sicché è inutile parlarne. Le sostanze materiali sono, o semplici41, o composte. Ora, sostanza semplice il contagio non è; e si dimostra in quattro parole. Non è sostanza aerea; perché, se fosse tale, in vece di passar da un corpo all’altro, volerebbe subito alla sua sfera. Non è acquea; perché bagnerebbe, e verrebbe asciugata da’ venti. Non è ignea; perché brucerebbe. Non è terrea; perché sarebbe visibile. Sostanza composta, neppure; perché a ogni modo dovrebbe esser sensibile all’occhio o al tatto; e questo contagio, chi l’ha veduto? chi l’ha toccato? Riman da vedere se possa essere accidente. Peggio che peggio. Ci dicono questi signori dottori che si comunica da un corpo all’altro; ché questo è il loro achille42, questo il pretesto per far tante prescrizioni senza costrutto. Ora, supponendolo accidente, verrebbe a essere un accidente trasportato: due parole che fanno ai calci, non essendoci, in tutta la filosofia, cosa più chiara, più liquida43 di questa: che un accidente non può passar da un soggetto all’altro. Che se, per evitar questa Scilla, si riducono a dire che sia accidente prodotto, danno in Cariddi44: perché, se è prodotto, dunque non si comunica, non si propaga, come vanno blaterando. Posti questi princìpi, cosa serve venirci tanto a parlare di vibici, d’esantemi, d’antraci45...?

– Tutte corbellerie, – scappò fuori una volta un tale.

– No, no, – riprese don Ferrante: – non dico questo: la scienza è scienza; solo bisogna saperla adoprare. Vibici, esantemi, antraci, parotidi, bubboni violacei, furoncoli nigracanti46, son tutte parole rispettabili, che hanno il loro significato bell’e buono47; ma dico che non han che fare con la questione. Chi nega che ci possa essere di queste cose, anzi che ce ne sia? Tutto sta a veder di dove vengano.

Qui cominciavano i guai anche per don Ferrante. Fin che non faceva che dare addosso all’opinioni del contagio, trovava per tutto orecchi attenti e ben disposti: perché non si può spiegare quanto sia grande l’autorità d’un dotto di professione, allorché vuol dimostrare agli altri le cose di cui sono già persuasi. Ma quando veniva a distinguere, e a voler dimostrare che l’errore di que’ medici non consisteva già nell’affermare che ci fosse un male terribile e generale; ma nell’assegnarne la cagione; allora (parlo de’ primi tempi, in cui non si voleva sentir discorrere di peste), allora, in vece d’orecchi, trovava lingue ribelli, intrattabili; allora, di predicare a distesa era finita; e la sua dottrina non poteva più metterla fuori, che a pezzi e bocconi.

– La c’è pur troppo la vera cagione, – diceva; – e son costretti a riconoscerla anche quelli che sostengono poi quell’altra così in aria... La neghino un poco, se possono, quella fatale congiunzione di Saturno con Giove48. E quando mai s’è sentito dire che l’influenze si propaghino...? E lor signori mi vorranno negar l’influenze? Mi negheranno che ci sian degli astri? O mi vorranno dire che stian lassù a far nulla, come tante capocchie di spilli ficcati in un guancialino?... Ma quel che non mi può entrare, è di questi signori medici; confessare che ci troviamo sotto una congiunzione così maligna, e poi venirci a dire, con faccia tosta: non toccate qui, non toccate là, e sarete sicuri! Come se questo schivare il contatto materiale de’ corpi terreni, potesse impedir l’effetto virtuale de’ corpi celesti! E tanto affannarsi a bruciar de’ cenci! Povera gente! brucerete Giove? brucerete Saturno49?

His fretus50, vale a dire su questi bei fondamenti, non prese nessuna precauzione contro la peste; gli s’attaccò; andò a letto, a morire, come un eroe di Metastasio51, prendendosela con le stelle52.

E quella famosa sua libreria? È forse ancora dispersa su per i muriccioli53.

 

 

 

1 lustre: proprio quando guarda alla realtà più modesta, come qui le foglie rinfrescate dopo lunga arsura, l’arte di Manzoni sembra trovare le parole più smaglianti.

2 suo destino: fin dall’inizio del romanzo è costante l’accordo fra gli eventi della natura e quelli umani (si pensi alla descrizione dell’autunno desolato, apportatore di fame, all’apertura del cap. IV). Ora si chiude il ciclo che ha culminato nell’agosto torrido e pestilenziale, in concomitanza con le disavventure dei due protagonisti; ancor più che in altre circostanze (come, ad es., nel risveglio la mattina della fuga, presso l’Adda), l’uomo in spontanea colleganza con le cose che è Renzo, sente risolversi, col nodo della natura, quello del suo destino.

3 per qualche tempo: la notizia della violenta tempesta con la quale, «verso la fine d’agosto et principio di settembre», sarebbero state spazzate insieme la peste e le unzioni, è attinta nel Tadino. In realtà il periodo pestilenziale si protrasse ancora nel 1631, e le unzioni apparvero fino a tutto il maggio di quell’anno. Quanto al temporale, oltre che dal Tadino è ricordato dal Ripamonti, che lo collocava al 23 luglio, e ne rilevava i danni più che il vantaggio. Sulla possibilità di una favorevole influenza climatica nello svolgersi di un’epidemia, oltre che per l’ovvio intervento igienico, cfr. Mazzitelli, I «Pr. Sp.» visti da un medico, op. cit., pp. 147 sgg.

4 dalle cose di quel giorno: la serie di disavventure dei due promessi è finita; ma non è affatto esaurito, come altri vorrebbero, l’impulso poetico del romanzo: che acquista invece, specie in quest’episodio del viaggio tra notturno e diurno di Renzo, una nuova, sommessa bellezza.

5 un pensierino: come a dire un pungente, delizioso pensiero (sottolineare la «fiorentineria» del termine sarebbe non capirne la poeticità).

6 nel venire: comincia con simili notazioni quell’adesione alla natura che darà fresca luce a tutto l’episodio del viaggio.

7 Sesto: Sesto San Giovanni, che è circa a mezza strada fra Milano e Monza.

8 cerimonie: precauzioni.

9 detto altrove: cfr. capp. XI e XX.

10 fare andata: considerare perduta.

11 in letto a sognare: uno dei punti più altamente, ineffabilmente poetici del romanzo. Il personaggio è dislocato nel futuro; qui, nel momento che vive, è infuso di una luce trasognata di presentimento, luce «a posteriori» tra memoria e sogno, che sola sembra rendere il senso dell’attimo.

12 lume del crepuscolo: dell’alba: di un colore appena diurno, infuso di pioggia.

13 come roba sua: nessun altro paesaggio del romanzo, per autunnale e albale trasparenza, è davvero tanto manzoniano come questo, alleviato e addolcito com’è da un naturalismo tutto lombardo, localizzato nella spontanea capacità di immedesimazione con le cose propria di Renzo nei suoi quasi rapiti momenti di solitudine.

14 melletta: belletta, melma.

15 una fierezza: uno stimolo, una animazione.

16 il tempo... il mio: comincia di qui quel gusto di un dialogare quasi ozioso, casuale che sembra diluire le ultime pagine, e in realtà vi conferisce un senso di agio e riposo dopo tanto tumulto di eventi, un divagare e alleggerire controllato che è tra i fascini della narrativa manzoniana.

17 di stipa: cfr. cap. XXIV, n. 24.

18 sia ringraziato il Signore...: «quel coltello era tutto bagnato, ma d’acqua solamente, e Renzo ne ringrazia il Signore, ché il giorno avanti era stato lì lì per bagnarlo di sangue, difendendosi contro la folla che lo inseguiva come untore» (Belloni).

19 della vendemmia: «uno scorcio da cui evapora un profumo autunnale, il fascino sottile di una di quelle allegorie dei mesi di cui la scultura romanica amò fregiare i portali e i capitelli di tante chiese di Lombardia»; «una pagina saporosa di poesia della casa campestre» (G. Getto, Letture manzoniane, Firenze, 1964, p. 563).

20 non so... che suono: forse pensando a quel che s’è frapposto fra i due giovani, a quanto ne sa.

21 a conto: in compenso.

22 l’ultimo a venir via: però, come si è detto, è Manzoni stesso che prende gusto a quel tipo di dialogo; e qui ce ne dà sottilmente spiegazione.

23 scodella d’acqua e aceto: cfr. cap. XXXIII, n. 60.

24 pignolo: foruncolo.

25 ravviare: riprendere le fila dei lavori.

26 caparrare: accaparrare.

27 il lezioso: il difficile e prezioso.

28 le debite approvazioni: di Lucia e Agnese.

29 gli angioli: un’eco, qui, dell’umile religiosità popolare di Agnese.

30 soggiungeva: il discorso avviato con Renzo consente ad Agnese di dare sfogo a tutti i suoi sentimenti, a mo’ di prolungato monologo.

31 coloro: i lanzi e i saccheggiatori.

32 m’arrapinavo: mi davo da fare.

33 quell’anima buona: la mercantessa.

34 un’opera: voce dell’uso agricolo: un lavorante a giornata.

35 che aveva fatto monte: espressione dal giuoco delle carte, dove significa annullare una partita per avviarne un’altra.

36 ne’ gheroni: aggiunte di stoffa che si fanno agli abiti femminili per allungarli. Letteralmente il proverbio toscano dice che quel che non va nelle maniche, va nei gheroni, e vuole alludere al risparmio malinteso, per dire che quel che si risparmia da una parte, si perde poi dall’altra. Manzoni lo intende invece nel senso che un sovrappiù d’applicazione da una parte rende impossibile la cura del resto.

37 più severo: gli atrocissimi fatti narrati, come sappiamo, nei punti salienti nel Fermo e Lucia. In conseguenza dei delitti di cui si era resa complice e della violazione sacrilega dei doveri claustrali, dopo un processo punteggiato anche dalla tortura, le fu inflitta la pena del carcere in una cella murata; ne fu liberata dopo tredici anni, nel 1622. Già abbiamo visto che l’episodio della de Leyva è posticipato nel romanzo di circa trent’anni (cfr. cap. IX, n.12). Il seguito dei casi della Monaca, con la trista conclusione, è indicato nel Fermo e Lucia, tomo II, cap. IX, col rinvio al testo del Ripamonti: «Siccome egli non vi pone alcuna data» aggiunge Manzoni, «così non possiamo dire di quanto sieno posteriori [i casi narrati dal Ripamonti] alle cose già da noi narrate». Ciò non fa che confermare ulteriormente il disinteresse storico e cronologico del Ripamonti, che include l’episodio della de Leyva in un cap. dedicato alla liberalità del Cardinal Federico verso i poveri (in quel caso la Monaca, dopo la condanna abbandonata da tutti a cominciare dalla famiglia). Resta da considerare che il Ripamonti riferiva la trasformazione della de Leyva – dopo l’allontanamento dal monastero di Monza, con la destinazione infamante che ne era seguita e la carcerazione – a un notevole lasso di tempo: «Verum haec aliquanto post facta sunt» scrive («haec», cioè la conversione in tutti i suoi aspetti); ed essendo morto il Borromeo nel 1631, la datazione dell’episodio fra il 1628 e il 1630 – datazione che poi Manzoni, letti gli atti del processo verificò inesatta – era per lo meno improbabile. Valga comunque l’accenno cautelativo del Fermo e Lucia. * Ripamonti, Hist. Pal., Dec. V, lib. VI, cap. III. [Nota dell’A.]

38 è detto tutto: il senso è che non si trattava di personaggio di rilievo. Ma c’è sotteso, lapidario, il giudizio su un’esistenza come quella.

39 dotto: quasi che l’essere stato dotto, e di quella specie, stabilisse seriamente una distinzione fuorché per gli sprovveduti, o, in questo caso, per quel secentista dell’anonimo.

40 sostanze e accidenti: il ragionamento di don Ferrante è ricalcato, almeno nella prima parte, su una lettera da Roma di Claudio Achillini (cfr. cap. XXVIII, n. 59) ad Agostino Mascardi (1590-1640) a Bologna, proprio sulla peste del 1630; gli elementi astrologici che seguono derivano invece dal Ragguaglio del Tadino. La lettera era una confutazione delle teorie correnti intorno alla peste, e voleva essere soprattutto un saggio di «virtuosismo raziocinativo» a sfondo semischerzoso (Nicolini), comunque non a sfondo serio com’è invece in don Ferrante. L’interesse per gli argomenti dell’Achillini è provato anche dalle trascrizioni e diverse redazioni della sua lettera da parte di altri secentisti. Un esplicito richiamo achilliniano c’è anche nelle pagine del Fermo e Lucia. Sostanze e accidenti erano distinzioni tipiche del pensiero aristotelico. «Come termine filosofico, gli «accidenti» sono modificazioni (che possono esserci o non esserci) di una «sostanza», ma non ne determinano la natura. Già sappiamo, per esempio, non essere i nomi se non puri, purissimi accidenti: vedi Introd.» (Pistelli). Dal punto di vista della logica formale il ragionamento di don Ferrante, e dell’Achillini, è senza pecca; né si può accusare, come taluno fa, di «ignorantia elenchi» (e cioè di non prevedere tutte le possibili ipotesi di trasmissione di un contagio oltre quella dell’«accidente trasportato») perché nel Seicento nessuno era in grado di sospettare neppure lontanamente «che “in rerum natura” ci sono, anche, sostanze insensibili alla vista e al tatto, i bacilli» (Nicolini). Per immaginare un rapporto fra sostanze capaci di produrre «accidenti» sarebbe occorsa non una migliore conoscenza della logica, ma una diversa concezione naturalistica e un ben superiore livello scientifico. Ma neppure è giusto accusare Manzoni d’incomprensione del caparbio dialettico. A parte l’esattezza formale del suo ragionamento, quel che Manzoni vuol schernire non è tanto la serie di convinzioni sbagliate imputabili alle conoscenze d’allora, su cui ricade peraltro un’ombra di ridicolo, ma ogni eccesso di ragionamento astratto produttivo di mirabolanti semplicismi con le inevitabili, disastrose conseguenze.

41 semplici: i quattro elementi: terra, acqua, aria, fuoco.

42 il loro achille: il più forte dei loro argomenti. Si noti l’immaginosità secentesca di ogni tratto.

43 più liquida: più ovvia.

44 danno in Cariddi: incappano, per evitare questo scoglio, in un altro peggiore.

45 vibici... antraci: vibici, macchie della pelle; esantemi, eruzioni cutanee; antraci, tumori infiammatorî; e, più avanti, parotidi o parotiti, gonfiori delle ghiandole dietro l’orecchio.

46 nigricanti: di color nerastro.

47 buono: di don Ferrante, come del resto già sappiamo, lo scrittore schernisce non solo gli argomenti e i modi, ma anche quell’habitus di compatente comprensione che è di un dotto di mentalità larga, il quale sia capace di riconoscere liberalmente le altrui ragioni, e puntualizzarle e delimitarle insieme, per amor di scienza; di piegarsi ad ascoltare gli indotti, e di protestare senza altrui offesa i diritti della dottrina. Sembra di vederlo mentre sorride, un po’ pietoso, un po’ sornione. Le sfumature della stolidità umana colorate d’imbecillità, viene da pensare, sono davvero infinite.

48 di Saturno con Giove: cfr. cap. XXII, n. 48.

49 brucerete Saturno?: impennata immaginosa fortunosamente barocca.

50 His fretus: letteralm.: «fondandosi su ciò».

51 come un eroe di Metastasio: «i numi e le stelle entrano molto nelle disperazioni degli eroi metastasiani. Il M., con la sua battuta si burla [...] del povero don Ferrante, e, al tempo stesso, della maniera melodrammatica del Metastasio» (Russo). Si potrebbe ricordare di Manzoni un «biglietto in versi» avente per destinatario il Grossi, parodia dello stile metastasiano (1817).

52 prendendosela con le stelle: battuta allegramente irrisoria, come tutta questa rappresentazione di don Ferrante; destinato sì, lo sappiamo, a morir di peste per coerenza con le proprie idee, ma non per ciò, come vorrebbe il Nicolini, «una delle figure più serie del romanzo». Amabile e serio sarà il protagonista del Cervantes, con la sua fede nelle eroiche illusioni; qui è ottusa credulità nei logori schemi di una dottrina, senza neppure sospettare che ogni scienza attinge alla realtà e deve lasciarsi un margine di dubbio, a meno di ridursi a chiusa astrazione, fanatismo. E coi fanatici e astratti Manzoni ha ragioni per non stare, anche se ne trae motivo d’irriderli: non di stigmatizzarli. Nella quasi incalcolabile serie patologica delle forme di stoltezza, don Ferrante ha, come in altro senso e modo don Abbondio, un posto a parte; ci consente di accompagnarci e magari (don Abbondio) di convivere, non però di colludere e concordare con lui.

53 i muriccioli: conclusione di epico scherno sulla falsa scienza che personifica il secolo e, col secolo, il donchisciottismo accademicamente presuntuoso del suo ridicolo eroe.

Questo ebook appartiene a martina rotta - 91344 Edito da Newton Compton Editori Acquistato il 9/12/2014 7:44:43 AM con numero d'ordine 925062
I magnifici 7 capolavori della letteratura italiana
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