Capitolo XXXI
La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c’era entrata davvero, com’è noto; ed è noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò una buona parte d’Italia1. Condotti dal filo della nostra storia, noi passiamo a raccontar gli avvenimenti principali di quella calamità; nel milanese, s’intende, anzi in Milano quasi esclusivamente: ché della città quasi esclusivamente trattano le memorie del tempo, come a un di presso accade sempre e per tutto, per buone e per cattive ragioni. E in questo racconto, il nostro fine non è, per dir la verità, soltanto di rappresentar lo stato delle cose nel quale verranno a trovarsi i nostri personaggi; ma di far conoscere insieme, per quanto si può in ristretto, e per quanto si può da noi, un tratto di storia patria più famoso che conosciuto.
Delle molte relazioni contemporanee, non ce n’è alcuna che basti da sé a darne un’idea un po’ distinta e ordinata; come non ce n’è alcuna che non possa aiutare a formarla. In ognuna di queste relazioni, senza eccettuarne quella del Ripamonti*, la quale le supera tutte, per la quantità e per la scelta de’ fatti, e ancor più per il modo d’osservarli, in ognuna sono omessi fatti essenziali, che son registrati in altre; in ognuna ci sono errori materiali, che si posson riconoscere e rettificare con l’aiuto di qualche altra, o di que’ pochi atti della pubblica autorità, editi e inediti, che rimangono; spesso in una si vengono a trovar le cagioni di cui nell’altra s’eran visti, come in aria, gli effetti2. In tutte poi regna una strana confusione di tempi e di cose; è un continuo andare e venire, come alla ventura, senza disegno generale, senza disegno né particolari: carattere, del resto, de’ più comuni e de’ più apparenti ne’ libri di quel tempo, principalmente in quelli scritti in lingua volgare, almeno in Italia; se anche nel resto d’Europa, i dotti lo sapranno, noi lo sospettiamo. Nessuno scrittore d’epoca posteriore s’è proposto d’esaminare e di confrontare quelle memorie, per ritrarne una serie concatenata degli avvenimenti, una storia di quella peste; sicché l’idea che se ne ha generalmente, dev’essere, di necessità, molto incerta, e un po’ confusa: un’idea indeterminata di gran mali e di grand’errori (e per verità ci fu dell’uno e dell’altro, al di là di quel che si possa immaginare), un’idea composta più di giudizi che di fatti, alcuni fatti dispersi, non di rado scompagnati dalle circostanze più caratteristiche, senza distinzion di tempo, cioè senza intelligenza di causa e d’effetto, di corso, di progressione. Noi, esaminando e confrontando, con molta diligenza se non altro, tutte le relazioni stampate, più d’una inedita, molti (in ragione del poco che ne rimane) documenti, come dicono, ufiziali, abbiam cercato di farne non già quel che si vorrebbe, ma qualche cosa che non è stato ancor fatto.
Non intendiamo di riferire tutti gli atti pubblici, e nemmeno tutti gli avvenimenti degni, in qualche modo, di memoria. Molto meno pretendiamo di rendere inutile a chi voglia farsi un’idea più compita della cosa, la lettura delle relazioni originali: sentiamo troppo che forza viva, propria e, per dir così, incomunicabile, ci sia sempre nell’opere di quel genere, comunque concepite e condotte. Solamente abbiam tentato di distinguere e di verificare i fatti più generali e più importanti, di disporli nell’ordine reale della loro successione, per quanto lo comporti la ragione e la natura d’essi, d’osservare la loro efficienza reciproca, e di dar così, per ora e finché qualchedun altro non faccia meglio, una notizia succinta, ma sincera e continuata, di quel disastro.
Per tutta adunque la striscia di territorio percorsa dall’esercito, s’era trovato qualche cadavere nelle case, qualcheduno sulla strada. Poco dopo, in questo e in quel paese, cominciarono ad ammalarsi, a morire, persone, famiglie, di mali violenti, strani, con segni sconosciuti alla più parte de’ viventi. C’era soltanto alcuni a cui non riuscissero nuovi: que’ pochi che potessero ricordarsi della peste che, cinquantatré anni avanti3, aveva desolata pure una buona parte d’Italia, e in ispecie il milanese, dove fu chiamata, ed è tuttora, la peste di san Carlo. Tanto è forte la carità! Tra le memorie così varie e così solenni d’un infortunio generale, può essa far primeggiare quella d’un uomo, perché a quest’uomo ha ispirato sentimenti e azioni più memorabili ancora de’ mali; stamparlo nelle menti, come un sunto di tutti que’, guai, perché in tutti l’ha spinto e intromesso, guida, soccorso, esempio, vittima volontaria; d’una calamità per tutti, far per quest’uomo come un’impresa; nominarla da lui, come una conquista, o una scoperta.
Il protofisico Lodovico Settala4, che, non solo aveva veduta quella peste, ma n’era stato uno de’, più attivi e intrepidi, e, quantunque allor giovinissimo, de’ più riputati curatori; e che ora, in gran sospetto di questa, stava all’erta e sull’informazioni, riferì, il 20 d’ottobre, nel tribunale della sanità, come, nella terra di Chiuso (l’ultima del territorio di Lecco, e confinante col bergamasco), era scoppiato indubitabilmente il contagio. Non fu per questo presa veruna risoluzione, come si ha dal Ragguaglio5 del Tadino*.
Ed ecco sopraggiungere avvisi somiglianti da Lecco e da Bellano. Il tribunale allora si risolvette e si contentò di spedire un commissario che, strada facendo, prendesse un medico a Como, e si portasse con lui a visitare i luoghi indicati. Tutt’e due, «o per ignoranza o per altro, si lasciarno persuadere da un vecchio et ignorante barbiero6 di Bellano, che quella sorte de’ mali non era Peste»**; ma, in alcuni luoghi, effetto consueto dell’emanazioni autunnali delle paludi e negli altri, effetto de’ disagi e degli strapazzi sofferti, nel passaggio degli alemanni. Una tale assicurazione fu riportata al tribunale, il quale pare che ne mettesse il cuore in pace.
Ma arrivando senza posa altre e altre notizie di morte da diverse parti, furono spediti due delegati a vedere e a provvedere: il Tadino suddetto, e un auditore del tribunale7. Quando questi giunsero, il male s’era già tanto dilatato, che le prove si offrivano, senza che bisognasse andarne in cerca. Scorsero il territorio di Lecco, la Valsassina, le coste del lago di Como, i distretti denominati il Monte di Brianza, e la Gera d’Adda; e per tutto trovarono paesi chiusi da cancelli all’entrature, altri quasi deserti, e gli abitanti scappati e attendati alla campagna, o dispersi; «et ci parevano», dice il Tadino, «tante creature seluatiche, portando in mano chi l’herba menta, chi la ruta, chi il rosmarino et chi una ampolla d’aceto8». S’informarono del numero de’ morti: era spaventevole; visitarono infermi e cadaveri, e per tutto trovarono le brutte e terribili marche della pestilenza. Diedero subito, per lettere, quelle sinistre nuove al tribunale della sanità, il quale, al riceverle, che fu il 30 d’ottobre, «si dispose», dice il medesimo Tadino, a prescriver le bullette9, per chiuder fuori dalla Città le persone provenienti da’paesi dove il contagio s’era manifestato; «et mentre si compilaua la grida», ne diede anticipatamente qualche ordine sommario a’ gabellieri.
Intanto i delegati presero in fretta e in furia quelle misure che parver loro migliori; e se ne tornarono, con la trista persuasione che non sarebbero bastate a rimediare e a fermare un male già tanto avanzato e diffuso.
Arrivati il 14 di novembre, dato ragguaglio, a voce e di nuovo in iscritto, al tribunale, ebbero da questo commissione di presentarsi al governatore, e d’esporgli lo stato delle cose. V’andarono, e riportarono: aver lui di tali nuove provato molto dispiacere, mostratone un gran sentimento10; ma i pensieri della guerra esser più pressanti: sed belli graviores esse curas11. Così il Ripamonti, il quale aveva spogliati i registri della Sanità, e conferito col Tadino, incaricato specialmente della missione: era la seconda, se il lettore se ne ricorda, per quella causa, e con quello esito.
Due o tre giorni dopo, il 18 di novembre, emanò il governatore una grida, in cui ordinava pubbliche feste, per la nascita del principe Carlo12 primogenito del re Filippo IV, senza sospettare o senza curare il pericolo d’un gran concorso, in tali circostanze: tutto come in tempi ordinari, come se non gli fosse stato parlato di nulla.
Era quest’uomo, come già s’è detto13 – il celebre Ambrogio Spinola, mandato per raddirizzar quella guerra e riparare agli errori di don Gonzalo, e incidentemente, a governare; e noi pure possiamo qui incidentemente rammentar che morì dopo pochi mesi, in quella stessa guerra che gli stava tanto a cuore; e morì, non già di ferite sul campo, ma in letto, d’affanno e di struggimento, per rimproveri, torti, disgusti d’ogni specie ricevuti da quelli a cui serviva. La storia ha deplorata la sua sorte, e biasimata l’altrui sconoscenza; ha descritte con molta diligenza le sue imprese militari e politiche, lodata la sua previdenza, l’attività, la costanza: poteva anche cercare cos’abbia fatto di tutte queste qualità, quando la peste minacciava, invadeva una popolazione datagli in cura, o piuttosto in balìa.
Ma ciò che, lasciando intero il biasimo, scema la maraviglia di quella sua condotta, ciò che fa nascere un’altra e più forte maraviglia, è la condotta della popolazione medesima, di quella, voglio dire, che, non tocca ancora dal contagio, aveva tanta ragion di temerlo. All’arrivo di quelle nuove de’ paesi che n’erano così malamente imbrattati, di paesi che formano intorno alla città quasi un semicircolo, in alcuni punti distante da essa non più di diciotto o venti miglia; chi non crederebbe che vi si suscitasse un movimento generale, un desiderio di precauzioni bene o male intese, almeno una sterile inquietudine? Eppure, se in qualche cosa le memorie di quel tempo vanno d’accordo, è nell’attestare che non ne fu nulla. La penuria dell’anno antecedente, le angherie della soldatesca, le afflizioni d’animo, parvero più che bastanti a render ragione della mortalità: sulle piazze, nelle botteghe, nelle case, chi buttasse là una parola del pericolo, chi motivasse peste14, veniva accolto con beffe incredule, con disprezzo iracondo. La medesima miscredenza, la medesima, per dir meglio, cecità e fissazione prevaleva nel senato, nel Consiglio de’ decurioni, in ogni magistrato15. Trovo che il cardinal Federigo, appena si riseppero i primi casi di mal contagioso, prescrisse, con lettera pastorale a’ parrochi, tra le altre cose, che ammonissero più e più volte i popoli dell’importanza e dell’obbligo stretto di rivelare ogni simile accidente, e di consegnar le robe infette o sospette*; e anche questa può essere contata tra le sue lodevoli singolarità.
Il tribunale della sanità chiedeva, implorava cooperazione, ma otteneva poco o niente. E nel tribunale stesso, la premura era ben lontana da uguagliare l’urgenza: erano, come afferma più volte il Tadino, e come appare ancor meglio da tutto il contesto della sua relazione, i due fisici che, persuasi della gravità e dell’imminenza del pericolo, stimolavan quel corpo, il quale aveva poi a stimolare gli altri.
Abbiam già veduto, come, al primo annunzio della peste, andasse freddo nell’operare, anzi nell’informarsi: ecco ora un altro fatto di lentezza non men portentosa, se però non era forzata, per ostacoli frapposti da magistrati superiori. Quella grida per le bullette, risoluta il 30 d’ottobre, non fu stesa che il dì 23 del mese seguente, non fu pubblicata che il 2916. La peste era già entrata in Milano.
Il Tadino e il Ripamonti vollero notare il nome di chi ce la portò il primo, e altre circostanze della persona e del caso: e infatti, nell’osservare i princìpi d’una vasta mortalità, in cui le vittime, non che esser distinte per nome, appena si potranno indicare all’incirca, per il numero delle migliaia, nasce una non so quale curiosità di conoscere que’ primi e pochi nomi che poterono essere notati e conservati: questa specie di distinzione, la precedenza nell’esterminio, par che faccian trovare in essi, e nelle particolarità, per altro più indifferenti, qualche cosa di fatale e di memorabile.
L’uno e l’altro storico dicono che fu un soldato italiano al servizio di Spagna; nel resto non sono ben d’accordo, neppur sul nome. Fu, secondo il Tadino, un Pietro Antonio Lovato, di quartiere nel territorio di Lecco; secondo il Ripamonti, un Pier Paolo Locati, di quartiere a Chiavenna. Differiscono anche nel giorno della sua entrata in Milano: il primo la mette al 22 d’ottobre, il secondo ad altrettanti del mese seguente: e non si può stare né all’uno né all’altro.
Tutte due l’epoche17 sono in contraddizione con altre ben più verificate18. Eppure il Ripamonti, scrivendo per ordine del Consiglio generale de’ decurioni, doveva avere al suo comando molti mezzi di prender l’informazioni necessarie; e il Tadino, per ragione del suo impiego, poteva, meglio d’ogn’altro, essere informato d’un fatto di questo genere. Del resto, dal riscontro d’altre date che ci paiono, come abbiam detto, più esatte, risulta che fu, prima della pubblicazione della grida sulle bullette; e, se ne mettesse conto, si potrebbe anche provare o quasi provare, che dovette essere ai primi di quel mese; ma certo, il lettore ce ne dispensa.
Sia come si sia, entrò questo fante sventurato e portator di sventura, con un gran fagotto di vesti comprate o rubate a soldati alemanni; andò a fermarsi in una casa di suoi parenti, nel borgo di porta orientale, vicino ai cappuccini; appena arrivato, s’ammalò; fu portato allo spedale; dove un bubbone che gli si scoprì sotto un’ascella, mise chi lo curava in sospetto di ciò che era infatti; il quarto giorno morì.
Il tribunale della sanità fece segregare e sequestrare in casa la di lui famiglia; i suoi vestiti e il letto in cui era stato allo spedale, furon bruciati. Due serventi che l’avevano avuto in cura, e un buon frate19 che l’aveva assistito, caddero anch’essi ammalati in pochi giorni, tutt’e tre di peste. Il dubbio che in quel luogo s’era avuto, fin da principio, della natura del male, e le cautele usate in conseguenza, fecero sì che il contagio non vi si propagasse di più.
Ma il soldato ne aveva lasciato di fuori un seminìo20 che non tardò a germogliare. Il primo a cui s’attaccò, fu il padrone della casa dove quello aveva alloggiato, un Carlo Colonna sonator di liuto. Allora tutti i pigionali di quella casa furono, d’ordine della Sanità, condotti al lazzeretto, dove la più parte s’ammalarono; alcuni morirono, dopo poco tempo, di manifesto contagio.
Nella città, quello che già c’era stato disseminato da costoro, da’ loro panni, da’ loro mobili trafugati da parenti, da pigionali, da persone di servizio, alle ricerche e al fuoco prescritto dal tribunale, e di più quello che c’entrava di nuovo, per l’imperfezion degli editti, per la trascuranza nell’eseguirli, e per la destrezza nell’eluderli, andò covando e serpendo lentamente, tutto il restante dell’anno, e ne’ primi mesi del susseguente 1630. Di quando in quando, ora in questo, ora in quel quartiere, a qualcheduno s’attaccava, qualcheduno ne moriva: e la radezza stessa de’ casi allontanava il sospetto della verità, confermava sempre più il pubblico in quella stupida e micidiale fiducia che non ci fosse peste, né ci fosse stata neppure un momento. Molti medici ancora, facendo eco alla voce del popolo (era, anche in questo caso, voce di Dio?), deridevan gli augùri sinistri, gli avvertimenti minacciosi de’ pochi; e avevan pronti nomi di malattie comuni, per qualificare ogni caso di peste che fossero chiamati a curare; con qualunque sintomo, con qualunque segno fosse comparso21.
Gli avvisi di questi accidenti, quando pur pervenivano alla Sanità, ci pervenivano tardi per lo più e incerti. Il terrore della contumacia22 e del lazzeretto aguzzava tutti gl’ingegni: non si denunziavan gli ammalati, si corrompevano i becchini e i loro soprintendenti; da subalterni del tribunale stesso, deputati da esso a visitare i cadaveri, s’ebbero, con danari, falsi attestati.
Siccome però, a ogni scoperta che gli riuscisse fare, il tribunale ordinava di bruciar robe, metteva in sequestro case, mandava famiglie al lazzeretto, così è facile argomentare quanta dovesse essere contro di esso l’ira e la mormorazione del pubblico, «della Nobiltà, delli Mercanti et della plebe», dice il Tadino; persuasi, com’eran tutti, che fossero vessazioni senza motivo e senza costrutto. L’odio principale cadeva sui due medici; il suddetto Tadino, e Senatore Settala, figlio del protofisico: a tal segno, che ormai non potevano attraversar le piazze senza essere assaliti da parolacce, quando non eran sassi. E certo fu singolare, e merita che ne sia fatta memoria, la condizione in cui, per qualche mese, si trovaron quegli uomini, di veder venire avanti un orribile flagello, d’affaticarsi in ogni maniera a stornarlo, d’incontrare ostacoli dove cercavano aiuti, volontà, e d’essere insieme bersaglio delle grida, avere il nome di nemici della patria: pro patriae hostibus dice il Ripamonti.
Di quell’odio ne toccava una parte anche agli altri medici che, convinti come loro, della realtà del contagio, suggerivano precauzioni, cercavano di comunicare a tutti la loro dolorosa certezza. I più discreti li tacciavano di credulità e d’ostinazione: per tutti gli altri, era manifesta impostura, cabala ordita per far bottega sul pubblico spavento.
Il protofisico Lodovico Settala, allora poco men che ottuagenario, stato professore di medicina all’università di Pavia, poi di filosofia morale a Milano, autore di molte opere riputatissime allora, chiaro per inviti a cattedre d’altre università, Ingolstadt23, Pisa, Bologna, Padova, e per il rifiuto di tutti questi inviti, era certamente uno degli uomini più autorevoli del suo tempo. Alla riputazione della scienza s’aggiungeva quella della vita, e all’ammirazione la benevolenza, per la sua gran carità nel curare e nel beneficare i poveri. E, una cosa che in noi turba e contrista il sentimento di stima ispirato da questi meriti, ma che allora doveva renderlo più generale e più forte, il pover’uomo partecipava de’ pregiudizi più comuni e più funesti de’ suoi contemporanei: era più avanti di loro, ma senza allontanarsi dalla schiera, che è quello che attira i guai, e fa molte volte perdere l’autorità acquistata in altre maniere. Eppure quella grandissima che godeva, non solo non bastò a vincere, in questo caso, l’opinion di quello che i poeti chiamavan volgo profano, e i capocomici, rispettabile pubblico; ma non poté salvarlo dall’animosità e dagli insulti di quella parte di esso, che corre più facilmente da’ giudizi alle dimostrazioni e ai fatti24.
Un giorno che andava in bussola a visitare i suoi ammalati, principiò a radunarglisi intorno gente, gridando esser lui il capo di coloro che volevano per forza che ci fosse la peste; lui che metteva in ispavento la città, con quel suo cipiglio, con quella sua barbaccia: tutto per dar da fare ai medici. La folla e il furore andavan crescendo: i portantini, vedendo la mala parata, ricoverarono il padrone in una casa d’amici, che per sorte era vicina25. Questo gli toccò per aver veduto chiaro, detto ciò che era, e voluto salvar dalla peste molte migliaia di persone: quando, con un suo deplorabile consulto, cooperò a far torturare, tanagliare e bruciare, come strega, una povera infelice sventurata, perché il suo padrone pativa dolori strani di stomaco, e un altro padrone di prima era stato fortemente innamorato di lei*, allora ne avrà avuta presso il pubblico nuova lode di sapiente e, ciò che è intollerabile a pensare, nuovo titolo di benemerito26.
Ma sul finire del mese dì marzo, cominciarono, prima nel borgo di porta orientale, poi in ogni quartiere della città, a farsi frequenti le malattie, le morti, con accidenti strani di spasimi, di palpitazioni, di letargo, di delirio, con quelle insegne funeste di lividi e di bubboni; morti per lo più celeri, violente, non di rado repentine, senza alcun indizio antecedente di malattia. I medici opposti alla opinion del contagio, non volendo ora confessare ciò che avevan deriso, e dovendo pur dare un nome generico alla nuova malattia, divenuta troppo comune e troppo palese per andarne senza, trovarono quello di febbri maligne, di febbri pestilenti: miserabile transazione, anzi trufferia di parole, e che pur faceva gran danno; perché, figurando di riconoscere la verità, riusciva ancora a non lasciar credere ciò che più importava di credere, di vedere, che il male s’attaccava per mezzo del contatto. I magistrati, come chi si risente da un profondo sonno, principiarono a dare un po’ più orecchio agli avvisi, alle proposte della Sanità27, a far eseguire i suoi editti, i sequestri ordinati, le quarantene prescritte da quel tribunale. Chiedeva esso di continuo anche danari per supplire alle spese giornaliere, crescenti, del lazzeretto, di tanti altri servizi; e li chiedeva ai decurioni intanto che fosse deciso (che non fu, credo, mai, se non col fatto) se tali spese toccassero alla città, o all’erario regio. Ai decurioni faceva pure istanza il gran cancelliere, per ordine anche del governatore, ch’era andato di nuovo a metter l’assedio a quel povero Casale; faceva istanza il senato, perché pensassero alla maniera di vettovagliar la città, prima che dilatandovisi per isventura il contagio, le venisse negato pratica dagli altri paesi28; perché trovassero il mezzo di mantenere una gran parte della popolazione, a cui eran mancati i lavori. I decurioni cercavano di far danari per via d’imprestiti, d’imposte; e di quel che ne raccoglievano, ne davano un po’ alla Sanità, un po’ a’ poveri; un po’ di grano compravano: supplivano a una parte del bisogno. E le grandi angosce non erano ancor venute.
Nel lazzeretto, dove la popolazione, quantunque decimata ogni giorno, andava ogni giorno crescendo, era un’altra ardua impresa quella d’assicurare il servizio e la subordinazione29 di conservar le separazioni prescritte, di mantenervi in somma o, per dir meglio, di stabilirvi il governo ordinato dal tribunale della sanità: ché, fin da’ primi momenti, c’era stata ogni cosa in confusione, per la sfrenatezza di molti rinchiusi, per la trascuratezza e per la connivenza de’ serventi. Il tribunale e i decurioni, non sapendo dove battere il capo, pensaron di rivolgersi ai cappuccini, e supplicarono il padre commissario della provincia, il quale faceva le veci del provinciale, morto poco prima, acciò volesse dar loro de’ soggetti abili a governare quel regno desolato. Il commissario propose loro per principale30, un padre Felice Casati31, uomo d’età matura, il quale godeva una gran fama di carità, d’attività, di mansuetudine insieme e di fortezza d’animo, a quel che il seguito fece vedere, ben meritata; e per compagno e come ministro di lui, un padre Michele Pozzobonelli, ancor giovane, ma grave e severo, di pensieri come d’aspetto. Furono accettati con gran piacere; e il 30 di marzo, entrarono nel lazzeretto. Il presidente della Sanità li condusse in giro, come per prenderne il possesso; e, convocati i serventi e gl’impiegati d’ogni grado, dichiarò, davanti a loro, presidente di quel luogo il padre Felice, con primaria e piena autorità. Di mano in mano poi che la miserabile32 radunanza andò crescendo, v’accorsero altri cappuccini; e furono in quel luogo soprintendenti, confessori, amministratori, infermieri, cucinieri, guardarobi, lavandai, tutto ciò che occorresse33. Il padre Felice, sempre affaticato e sempre sollecito, girava di giorno, girava di notte, per i portici, per le stanze, per quel vasto spazio interno, talvolta portando un’asta34 talvolta non armato che di cilizio; animava e regolava ogni cosa; sedava i tumulti, faceva ragione35 alle querele, minacciava, puniva, riprendeva, confortava, asciugava e spargeva lacrime. Prese, sul principio, la peste; ne guarì, e si rimise, con nuova lena, alle cure di prima. I suoi confratelli ci lasciarono la più parte la vita, e tutti con allegrezza.
Certo, una tale dittatura era uno strano ripiego; strano come la calamità, come i tempi; e quando non ne sapessimo altro, basterebbe per argomento, anzi per saggio d’una società molto rozza e mal regolata, il veder che quelli a cui toccava un così importante governo, non sapesser più farne altro che cederlo, né trovassero a chi cederlo, che uomini, per istituto, i più alieni da ciò. Ma è insieme un saggio non ignobile della forza e dell’abilità che la carità può dare in ogni tempo, e in qualunque ordin di cose, il veder quest’uomini sostenere un tal carico così bravamente. E fu bello lo stesso averlo accettato, senz’altra ragione che il non esserci chi lo volesse, senz’altro fine che di servire, senz’altra speranza in questo mondo, che d’una morte molto più invidiabile che invidiata; fu bello lo stesso esser loro offerto, solo perché era difficile e pericoloso e si supponeva che il vigore e il sangue freddo, così necessario e raro in que’ momenti, essi lo dovevano avere. E perciò l’opera e il cuore di que’ frati meritano che se ne faccia memoria, con ammirazione, con tenerezza, con quella specie di gratitudine che è dovuta, come in solido36, per i gran servizi resi da uomini a uomini, e più dovuta a quelli che non se la propongono per ricompensa37. «Che se questi Padri iui non si ritrouauano» dice il Tadino, «al sicuro tutta la Città annichilata si trouaua; puoiché fu cosa miracolosa l’hauer questi Padri fatto in così puoco spatio di tempo tante cose per benefitio pubblico, che non hauendo hauuto agiutto38 o almeno puoco dalla Città, con la sua industria et prudenza haueuano mantenuto nel Lazeretto tante migliaia de poueri». Le persone ricoverate in quel luogo, durante i sette mesi che il padre Felice n’ebbe il governo, furono circa cinquantamila, secondo il Ripamonti; il quale dice con ragione, che d’un uomo tale avrebbe dovuto ugualmente parlare, se in vece di descriver le miserie d’una città, avesse dovuto raccontar le cose che posson farle onore.
Anche nel pubblico, quella caparbietà di negar la peste andava naturalmente cedendo e perdendosi, di mano in mano che il morbo si diffondeva, e si diffondeva per via del contatto e della pratica; e tanto più quando, dopo esser qualche tempo rimasto solamente tra’ poveri, cominciò a toccar persone più conosciute. E tra queste, come allora fu il più notato, così merita anche adesso un’espressa menzione il protofisico Settala. Avranno almeno confessato che il povero vecchio aveva ragione? Chi lo sa? Caddero infermi di peste, lui, la moglie, due figliuoli, sette persone di servizio. Lui e uno de’ figliuoli n’usciron salvi; il resto morì39. «Questi casi» dice il Tadino, «occorsi nella Città in case Nobili, disposero la Nobiltà, et la plebe a pensare, et gli increduli Medici, et la plebe ignorante et temeraria cominciò stringere le labra, chiudere li denti, et inarcare le ciglia.»
Ma l’uscite, i ripieghi, le vendette, per dir così, della caparbietà convinta, sono alle volte tali da far desiderare che fosse rimasta ferma e invitta, fino all’ultimo, contro la ragione e l’evidenza: e questa fu bene una di quelle volte. Coloro i quali avevano impugnato così risolutamente, e così a lungo, che ci fosse vicino a loro, tra loro, un germe di male, che poteva, per mezzi naturali, propagarsi e fare una strage; non potendo ormai negare il propagamento di esso, e non volendo attribuirlo a que’ mezzi (che sarebbe stato confessare a un tempo un grand’inganno e una gran colpa), erano tanto più disposti a trovarci qualche altra causa, a menar buona qualunque ne venisse messa in campo. Per disgrazia, ce n’era una in pronto nelle idee e nelle tradizioni comuni allora, non qui soltanto40, ma in ogni parte d’Europa: arti venefiche, operazioni diaboliche, gente congiurata a sparger la peste, per mezzo di veleni contagiosi, di malìe41. Già cose tali, o somiglianti, erano state supposte e credute in molte altre pestilenze, e qui segnatamente, in quella di mezzo secolo innanzi. S’aggiunga che, fin dall’anno antecedente, era venuto un dispaccio, sottoscritto dal re Filippo IV, al governatore, per avvertirlo ch’erano scappati da Madrid quattro francesi, ricercati come sospetti di spargere unguenti velenosi, pestiferi: stesse all’erta, se mai coloro fossero capitati a Milano. Il governatore aveva comunicato il dispaccio al senato e al tribunale della sanità; né, per allora, pare che ci si badasse più che tanto42. Però, scoppiata e riconosciuta la peste, il tornar nelle menti quell’avviso poté servir di conferma al sospetto indeterminato d’una frode scellerata; poté anche essere la prima occasione di farlo nascere.
Ma due fatti, l’uno di cieca e indisciplinata paura, l’altro di non so quale cattività43, furon quelli che convertirono quel sospetto indeterminato d’un attentato possibile, in sospetto, e per molti in certezza, d’un attentato positivo, e d’una trama reale. Alcuni, ai quali era parso di vedere, la sera del 17 di maggio, persone in duomo andare ungendo un assito, che serviva a dividere gli spazi assegnati a’ due sessi, fecero, nella notte, portar fuori della chiesa l’assito e una quantità di panche rinchiuse in quello; quantunque il presidente della Sanità, accorso a far la visita, con quattro persone dell’ufizio, avendo visitato l’assito, le panche, le pile dell’acqua benedetta, senza trovar nulla che potesse confermare l’ignorante sospetto d’un attentato venefico, avesse, per compiacere all’immaginazioni altrui, e più tosto per abbondare in cautela, che per bisogno, avesse, dico, deciso che bastava dar una lavata all’assito. Quel volume di roba accatastata produsse una grand’impressione di spavento nella moltitudine, per cui un oggetto diventa così facilmente un argomento. Si disse e si credette generalmente che fossero state unte in duomo tutte le panche, le pareti, e fin le corde delle campane. Né si disse soltanto allora: tutte le memorie de’ contemporanei che parlano di quel fatto (alcune scritte molt’anni dopo), ne parlano con ugual sicurezza: e la storia sincera di esso, bisognerebbe indovinarla, se non si trovasse in una lettera del tribunale della sanità al governatore, che si conserva nell’archivio detto di san Fedele; dalla quale l’abbiamo cavata, e della quale sono le parole che abbiam messe in corsivo44.
La mattina seguente, un nuovo e più strano, più significante spettacolo colpì gli occhi e le menti de’ cittadini. In ogni parte della città, si videro le porte delle case e le muraglie, per lunghissimi tratti, intrise di non so che sudicerìa, giallognola, biancastra, sparsavi come con delle spugne. O sia stato un gusto sciocco di far nascere uno spavento più rumoroso e più generale, o sia stato un più reo disegno d’accrescer la pubblica confusione, o non saprei che altro; la cosa è attestata di maniera, che ci parrebbe men ragionevole l’attribuirla a un sogno di molti, che al fatto d’alcuni: fatto, del resto, che non sarebbe stato, ne’ il primo ne’ l’ultimo di tal genere. Il Ripamonti, che spesso, su questo particolare dell’unzioni, deride, e più spesso deplora la credulità popolare, qui afferma d’aver veduto quell’impiastramento, e lo descrive*. Nella lettera sopraccitata, i signori della Sanità raccontan la cosa ne’ medesimi termini; parlan di visite, d’esperimenti fatti con quella materia sopra de’ cani, e senza cattivo effetto; aggiungono, esser loro opinione, che cotale temerità sia più tosto proceduta da insolenza, che da fine scelerato: pensiero che indica in loro, fino a quel tempo, pacatezza d’animo bastante per non vedere ciò che non ci fosse stato. L’altre memorie contemporanee, raccontando la cosa, accennano anche, essere stata, sulle prime, opinion di molti, che fosse fatta per burla, per bizzarria; nessuna parla di nessuno che la negasse; e n’avrebbero parlato certamente, se ce ne fosse stati; se non altro, per chiamarli stravaganti. Ho creduto che non fosse fuor di proposito il riferire e il mettere insieme questi particolari, in parte poco noti, in parte affatto ignorati, d’un celebre delirio; perché, negli errori e massime negli errori di molti, ciò che è più interessante e più utile a osservarsi, mi pare che sia appunto la strada che hanno fatta, l’apparenze, i modi con cui hanno potuto entrar nelle menti, e dominarle.
La città già agitata ne fu sottosopra: i padroni delle case, con paglia accesa, abbruciacchiavano gli spazi unti; i passeggieri45 si fermavano, guardavano, inorridivano, fremevano. I forestieri, sospetti per questo solo, e che allora si conoscevan facilmente al vestiario, venivano arrestati nelle strade dal popolo, e condotti alla giustizia. Si fecero interrogatòri, esami d’arrestati, d’arrestatori, di testimoni; non si trovò reo nessuno: le menti erano ancor capaci di dubitare, d’esaminare, d’intendere. Il tribunale della sanità pubblicò una grida, con la quale prometteva premio e impunità a chi mettesse in chiaro l’autore o gli autori del fatto. Ad ogni modo non parendoci conueniente, dicono que’ signori nella citata lettera, che porta la data del 21 di maggio, ma che fu evidentemente scritta il 19, giorno segnato nella grida stampata46, che questo delitto in qualsiuoglia modo resti impunito, massime in tempo tanto pericoloso e sospettoso, per consolatione e quiete di questo Popolo, e per cauare indicio del fatto, habbiamo oggi publicata grida, etc. Nella grida stessa però, nessun cenno almen chiaro, di quella ragionevole e acquietante congettura, che partecipavano al governatore: silenzio che accusa a un tempo una preoccupazione furiosa nel popolo, e in loro una condiscendenza, tanto più biasimevole, quanto più poteva esser perniciosa47.
Mentre il tribunale cercava, molti nel pubblico, come accade, avevan già trovato. Coloro che credevano essere quella un’unzione velenosa, chi voleva che la fosse una vendetta di don Gonzalo Fernandez de Cordova, per gl’insulti ricevuti nella sua partenza, chi un ritrovato del cardinal di Richelieu, per spopolar Milano, e impadronirsene senza fatica; altri, e non si sa per quali ragioni, ne volevano autore il conte di Collalto, Wallenstein, questo, quell’altro gentiluomo milanese48. Non mancavan, come abbiam detto, di quelli che non vedevano in quel fatto altro che uno sciocco scherzo, e l’attribuivano a scolari, a signori, a ufiziali che s’annoiassero all’assedio di Casale. Il non veder poi, come si sarà temuto, che ne seguisse addirittura un infettamento, un eccidio universale, fu probabilmente cagione che quel primo spavento si andasse per allora acquietando, e la cosa fosse o paresse messa in oblìo.
C’era, del resto, un certo numero di persone non ancora persuase che questa peste ci fosse. E perché, tanto nel lazzaretto, come per la città, alcuni pur ne guarivano, «si diceua» (gli ultimi argomenti d’una opinione battuta dall’evidenza son sempre curiosi a sapersi), «si diceua dalla plebe, et ancor da molti medici partiali49, non essere vera peste, perché tutti sarebbero morti»*. Per levare ogni dubbio, trovò il tribunale della sanità un espediente proporzionato al bisogno, un modo di parlare agli occhi, quali i tempi potevano richiederlo o suggerirlo. In una delle feste della Pentecoste, usavano i cittadini di concorrere al cimitero di san Gregorio50, fuori di Porta Orientale, a pregar per i morti dell’altro contagio, ch’eran sepolti là; e, prendendo dalla divozione opportunità di divertimento e di spettacolo, ci andavano, ognuno più in gala che potesse. Era in quel giorno morta di peste, tra gli altri, un’intera famiglia. Nell’ora del maggior concorso, in mezzo alle carrozze, alla gente a cavallo, e a piedi, i cadaveri di quella famiglia furono, d’ordine della Sanità, condotti al cimitero suddetto, sur un carro, ignudi, affinché la folla potesse vedere in essi il marchio manifesto della pestilenza. Un grido di ribrezzo, di terrore, s’alzava per tutto dove passava il carro; un lungo mormorìo regnava dove era passato; un altro mormorìo lo precorreva. La peste fu più creduta: ma del resto andava acquistandosi fede da sé, ogni giorno più; e quella riunione medesima non dové servir poco a propagarla51.
In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste; vale a dire peste sì, ma in un certo senso: non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s’è attaccata un’altra idea, l’idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l’idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro.
Non è, credo, necessario d’esser molto versato nella storia dell’idee e delle parole, per vedere che molte hanno fatto un simil corso. Per grazia del cielo, che non sono molte quelle d’una tal sorte, e d’una tale importanza, e che conquistino la loro evidenza a un tal prezzo, e alle quali si possono attaccare accessori52 d’un tal genere. Si potrebbe però, tanto nelle cose piccole, come nelle grandi, evitare, in gran parte, quel corso così lungo e così storto, prendendo il metodo proposto da tanto tempo, d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare53.
Ma parlare, questa cosa così sola, è talmente più facile di tutte quell’altre insieme, che anche noi, dico noi uomini in generale54. siamo un po’ da compatire.
1 La peste... una buona parte d’Italia: l’appellativo terrificante dell’antico e sempre reiterato flagello apre il capitolo. A breve distanza da un’altra epidemia, quella, avanti ricordata, del 1576 – detta dai contemporanei «esterminio», lenita dalla pietà e carità di Carlo Borromeo – la peste del 1630, parte di una ininterrotta serie di contagi dall’antichità romana in poi, colpì, con la Lombardia, gran parte dell’Italia settentrionale. Fonti essenziali furono per Manzoni, com’egli dichiara, «tutte le relazioni stampate, più d’una inedita, molti [...] documenti». Questi ultimi annoverano il processo agli untori (di cui si vedano oggi la trascrizione e il commento, «cronaca e atti giudiziari», a cura di S. Farinelli e E. Paccagnini, Garzanti, Milano, 1988), alcune lettere ufficiali, e un incarto dell’Archivio Storico Civile di Milano. Andarono invece omessi altri documenti di archivi pubblici e privati. Fra le relazioni inedite, lo scrittore attinse a un opuscolo – citato – di Federico Borromeo (De pestilentia quae Mediolani anno 1630 magnam stragem edidit). Di recente tradotto e prefazionato da A. Torno (La peste di Milano, Milano 1987 – con interessanti osservazioni sullo spirito di inquieto sconforto che fu proprio del Borromeo); fra le stampate, a qualche altro scritto borromeano, nonché a un gruppo di sette opere: del Lampugnano, del Ripamonti, del Tadino, del Cavatio della Somaglia, dei Rivola, del Torre, dei La Croce, nonché ad altri contributi non milanesi. Tra essi, fondamentali per il Manzoni i cinque libri De peste quae fuit anno MDCXXX del Ripamonti (Malatesta, Milano, 1641; trad. it. Francesco Cusani, Pirotta, Milano, 1841) ed il Ragguaglio ecc. di Alessandro Tadino (Ghisolfi, Milano, 1648). Sull’intera materia, cfr. in generale il saggio del Nicolini Peste e untori nei «Promessi Sposi» e nella realtà storica, Bari 1937. * Josephi Ripamonti, canonici scalensis, chronistae urbis Mediolani, De peste quae fuit anno 1630, Libri V, Mediolani, 1640, apud Malatestas. [Nota dell’A.]
2 s’eran visti, come in aria, gli effetti: perché senza esposizione delle cause.
3 cinquantatré anni avanti: la peste, cui accennavamo, del 1576.
4 Lodovico Settala: Lodovico Settàla (1552-1633), professore di medicina pratica all’università di Pavia, esercitò poi la professione a Milano, ricoprendo vari incarichi pubblici. Fu autore di svariate opere di medicina e storia naturale; si occupò anche di dottrina politica e filosofia morale. Tra i suoi scritti, da ricordare un De peste et pestiferis affectibus, dedicato al Borromeo.
5 Ragguaglio: il titolo completo dell’opera, in una nota dell’A. al cap. XXVIII. Quanto alla frequente mancanza di veridicità delle notizie fornite dal Tadino, riprese da Manzoni, cfr. Nicolini, op. cit., p. 80. sgg. Però, lo stesso Manzoni, in qualche accenno del Fermo e Lucia, come, e più, nella prima stesura della Storia della Colonna infame, aveva rilevato del Ragguaglio l’oscurità e le gravi deficienze, che sovente corresse (cfr. F. Vono, «Fonti manzoniane, l’opera di Aless. Tadino» in Pubblicazioni dell’Univ. Cattolica del Sacro Cuore, Contributi dell’Ist. di Fil. moderna, serie ital. vol. II, Milano 1966, pp. 266-330). Pag. 24. [Nota dell’A.]
6 barbiero: i barbieri esercitarono, fino al sec. XIX, la bassa chirurgia. Tadino, ivi [Nota dell’A.]
7 auditore del tribunale: l’auditore del tribunale era un tale Giovanni Visconti, dottore in legge (persona diversa da G. B. Visconti, capitano di giustizia). La partenza del Tadino e del Visconti avvenne fra il 26 e il 27 ottobre, e l’inchiesta si effettuò fino al 13 novembre.
8 una ampolla d’aceto: erano i rimedi allora creduti efficaci contro la peste. Circa altri simili rimedi, cfr. cap. XXXIV, n. 28.
9 bullette: le fedi o bollette di sanità erano rilasciate dalle autorità mediche per consentire il passaggio da un luogo a un altro in tempi di peste. Dallo spoglio dei documenti risulta, però, che il tribunale intervenne con più estesi provvedimenti: che, diversamente da quanto dice Manzoni più avanti, ebbero luogo proprio dal 29 ottobre in poi.
10 sentimento: preoccupazione.
11 sed belli graviores esse curas: «ma che erano più gravi le faccende della guerra». Sulla scarsa credibilità della notizia, così com’è riportata testualmente dal Ripamonti, cfr. Nicolini, op. cit., pp. 96-98.
12 la nascita del principe Carlo: in effetti, il 17 ottobre 1629 era nato a Filippo IV non il futuro Carlo II, ma un Baldassarre Carlo, morto infante. I festeggiamenti non potevano mancare, per non confessare la paura della peste (Nicolini).
13 come già s’è detto: cfr. cap. XXVIII, n. 72.
14 motivasse peste: nominasse la peste come causa della mortalità.
15 in ogni magistrato: sulle deficienze frequenti dei documenti a cui Manzoni attinge, e specialmente del Tadino, si rinvia anche qui, una volta di più, al Nicolini (op. cit., p. 104 sgg.). Però, anch’egli finisce per confermare quel che più importa, e cioè la tendenza che prevalse presso Sanità, autorità pubblica e privati, per diverse ragioni, a tacere o a sdrammatizzare la paura del contagio (p. 128 sgg.). * Vita di Federigo Borromeo, compilata da Francesco Rivola, Milano 1666, p. 582. [Nota dell’A.]
16 fu... il 29: cfr. n. 9. In effetti, il 29 novembre furono confermate le gride antecedenti.
17 l’epoche: le date.
18 ben più verificate: nel Fermo e Lucia lo scrittore si attiene invece all’unica fonte del Tadino; che in realtà, come è stato appurato col rinvenimento di alcuni documenti inediti, è questa volta la sola verace quanto alla data della morte del Lovato e relative circostanze.
19 un buon frate: un infermiere, un chirurgo barbiere e il frate camilliano G. C. Terzaghi, che guarirono tutti e tre (sul Terzaghi, cfr. Annali manzoniani, IV, pp. 183-184).
20 un seminìo: una quantità di germi.
21 fosse comparso: diagnosi complessiva, storicamente confermata delle prevalenti trascuratezza e superficialità.
22 contumacia: segregazione.
23 Ingolstadt: città dell’alta Baviera.
24 alle dimostrazioni e ai fatti: il Nicolini (op. cit., p. 138) attribuisce il pubblico risentimento al fatto, tra gli altri, che ai primi di dicembre il Settàla aveva diffusa, manoscritta, una sua relazione dove, stando a testimonianze del tempo, si preconizzavano grossi guai «a tempo nuovo», e cioè nella primavera del 1630; da ciò la fama di guastafeste, profeta di sciagure.
25 era vicina: l’episodio, che ebbe luogo alla fine del marzo 1630, fu rielaborato con particolari di fantasia dal Ripamonti, al quale attinge Manzoni. * Storia di Milano del conte Pietro Verri, Milano 1825, Tom. 4, pag. 155. [Nota dell’A.]
26 nuovo titolo di benemerito: si tratta del tragico caso di Caterina de’ Medici, una cameriera originaria del pavese, incolpata di malefici amorosi ai danni del senatore Luigi Melzi (il padre del vicario manzoniano); trascinata davanti al capitano di giustizia, subì la tortura; il Settàla, chiamato come perito nel processo, la definì «strega famosa e professa». Ne seguì la condanna a morte sul rogo, dopo essere stata nuovamente torturata e dilaniata per strada con tenaglia infuocata; condanna eseguita a Milano il 4 marzo 1617. Sull’episodio è intervenuto un racconto-saggio (La strega e il capitano, 1986, di Leonardo Sciascia). Oggi, vedasi: G. Farinelli – E. Paccagnini, Processo per stregoneria a Caterina de’ Medici. 1616-1617, Milano 1990; è l’approfondita revisione del problema della stregoneria nel contesto secentesco, seguita dalla pubblicazione del manoscritto – un riassunto – del processo originario. Pietro Verri, che si occupò per primo del caso nella sua Storia di Milano (tomo IV) equivocò circa l’identità della donna, seguito, nella rapida notizia che ne dà, da Manzoni.
27 alle proposte della Sanità: in realtà, fu la Sanità stessa a imporre restrizioni e cautele che non aveva applicato prima; infatti, il primo gennaio 1630 era terminata la presidenza del senatore G. N. Arconati, incredulo della peste, e gli era succeduto il senatore Marcantonio Monti; che, pur spregiatore dei pericoli del contagio, consentì ad alcune delle provvidenze proposte dal Tadino e dal figlio del Settàla, Senatore, fisico della Sanità. Si trattava, comunque, di provvedimenti tardivi. Fra il marzo e l’aprile, le altre Sanità italiane decretarono il bando di Milano e dei principali centri lombardi.
28 pratica dagli altri paesi: rapporti e scambi con gli altri paesi.
29 subordinazione: la disciplina.
30 per principale: soprintendente con pieni poteri amministrativi e anche giudiziari.
31 un padre Felice Casati: la scelta di un cappuccino rispondeva a un’analoga esperienza della peste del 1576. Il padre Felice Casati, milanese, era allora quarantasettenne; prese possesso dell’incarico al lazzeretto il 31 marzo; e fu contagiato due volte. La sua morte avvenne il 3 maggio 1656 nell’infetta Livorno, probabilmente di pestilenza.
32 miserabile: miseranda, compassionevole.
33 tutto ciò che occorresse: il governo del Casati al lazzeretto durò in realtà, non sette mesi, ma ventitré. Oltre al padre Michele Pozzobonelli, anch’egli milanese, accorsero alla cura degli infermi due teatini e una ventina di cappuccini, nonché due frati laici. Tra essi, fu anche il già ricordato padre Cristoforo Picenardi da Cremona (cfr. cap. IV, n. 7), destinato a morire di peste il 10 giugno 1630. Le notizie relative furono attinte da Manzoni dalla Memoria di don Pio La Croce, edita nel 1730 a Milano, forse desunta da qualche cronaca manoscritta di archivio conventuale (G. Bognetti, «Il lazzaretto di Milano e la peste milanese del 1630» in Archivio Storico Lombardo, 1923; Nicolini, op. cit., pp.153-156).
34 un’asta: bastoncello.
35 faceva ragione: giudicava.
36 come in solido: collettivamente, per comune obbligo.
37 per ricompensa: si noti l’affiorare nel discorso della commozione umanitaria e religiosa.
38 agiutto: aiuto.
39 il resto morì: notizie anche qui non esatte, desunte al solito dal Tadino.
40 non qui soltanto: non soltanto a Milano.
41 di veleni contagiosi, di malìe: comincia qui il discorso manzoniano concernente gli untori e le unzioni, a cui lo scrittore nega in gran parte fede storica, come nega l’effettiva capacità di diffondere il contagio. Comunque, contrariamente ad altre città funestate dalla peste (Venezia, Firenze, Napoli), a Milano il bassissimo livello di cultura, la cieca fede nelle stregonerie e magie, nello strapotere del demonio sulle faccende umane ecc., accreditarono quella credenza. La paura delle unzioni si era già diffusa a Milano nella precedente pestilenza (la cosi detta peste di san Carlo). Le contestazioni del Nicolini a Manzoni (op. cit., p. 194) sono accettabili quando riguardano, documentariamente, la veridicità di alcuni di quei fatti (in ogni modo, cfr. qui avanti); inaccoglibili quando imputano antistoricismo e moralismo a chi, come Manzoni, non intendeva abdicare in nome della componente storicistica del romanticismo (il Nicolini muove dallo storicismo crociano) ai principi inderogabili della sua etica religiosamente e superiormente romantica.
42 più che tanto: risulta invece che il dispaccio non fu mai spedito; la voce popolare relativa fu dovuta alla concomitanza dell’arresto, ai primi del febbraio, di due francesi in abito del terz’ordine francescano e di un ex frate, certo Girolamo Buonincontro, che portava nel bagaglio barattoli contenti alcune sostanze medicamentose.
43 cattività: qui nel senso d’inclinazione malvagia, perversione.
44 in corsivo: lettera che si trova ora nell’Archivio di Stato di Milano, e che grazie a un’altra lettera di un anonimo dell’Archivio di Stato di Firenze consente di precisare meglio i dati qui esposti (Nicolini). ...et nos quoque ivimus visere. Maculae erant sparsim inaequaliter manantes, veluti si quis haustam spongia saniem ad spersisset, impressissetve parieti: et ianuae passim, ostiaque aedium eadem adspergine contaminata cernebantur. Pag. 175. [Nota dell’A.]
45 passeggieri: passanti.
46 nella grida stampata: la grida, allestita il 19 e stampata il 20, fu pubblicata verosimilmente la mattina del 21, qualche ora prima della stesura della lettera, e confermata poi dal governatore, allora fuori sede, il 26.
47 poteva esser perniciosa: l’ipotesi inversa è che anche la Sanità, vista l’impressione causata dalle unzioni, né solo sul pubblico più sprovveduto, cominciasse a sua volta a nutrire serie apprensioni (Nicolini); probabile è che agissero insieme i diversi motivi.
48 gentiluomo milanese: su altre voci altrettanto e più mirabolanti messe in giro, cfr. anche qui il Nicolini, op. cit., pp. 242-249.
49 medici partiali: medici che si conformavano con mentalità partigiana (partiali) all’opinione della plebe che non ci fosse la peste. Tadino, pag. 93. [Nota dell’A.]
50 cimitero di san Gregorio: il cimitero di S. Gregorio al Foppone, fuori porta Orientale; fu ampliato nel 1787 e soppresso nel 1883; i cittadini vi si recavano a pregare durante le feste della Pentecoste, e cioè il 19, 20 e 21 maggio.
51 a propagarla: il racconto della macabra esposizione è nel Tadino, ed è ripetuto dal Ripamonti. Si sarebbe trattato della famiglia di un tintore, Lorenzo Turati. Le ricerche d’archivio hanno dimostrato che, in effetti, la famiglia del Turati era già scomparsa una sessantina di giorni prima della Pentecoste, nel marzo, e che ormai tutti erano convinti della realtà della peste. «La verità è, invece, che, sin dalla seconda quindicina di maggio, l’aumento della morìa costringeva la Sanità a derogare alla norma, applicata ancora verso la metà dell’aprile, di far trasportare i cadaveri degli appestati soltanto nelle ore notturne, e di cominciare a esibire anche in quelle diurne lo spettacolo orroroso di quelle lunghe file di carri ripieni di cadaveri sovente nudi» (Nicolini, op. cit., p. 172). Resta, però, l’effetto sul pubblico.
52 accessòri: cioè «l’idea del venefizio e del malefizio».
53 prima di parlare: è il metodo dell’aderenza delle parole alle cose, frutto del pensiero razionalistico. Ma lo sviluppo del germe razionalistico in analitica, penetrante lievitazione morale è inequivocabilmente manzoniano.
54 uomini in generale: di tutti i tempi, e non solo del Seicento lombardo.