I PRAECEPTA MILITARIA DELL'IMPERATORE NICEFORO II FOCA
Il manuale da campo convenzionalmente noto come Praecepta militaria, il cui titolo greco è «Presentazione e composizione dell'arte della guerra dell'imperatore Niceforo» è in effetti attribuito all'imperatore soldato Niceforo II Foca dall'ultimo, autorevole, curatore dell'opera.
Il contesto del libro è la guerra offensiva contro i musulmani, e in particolare contro un guerriero islamico le cui fortune stavano declinando, Ali ibn Hamdan Sayf al-Dawla, sovrano indipendente di un territorio che copriva tutta l'area della Siria attuale e parte dei paesi confinanti, sottoposto all'autorità, nominale, del califfo abbaside. Sayf al-Dawla, che era stato un jihadista di grande successo e si era spinto nel cuore dell'Anatolia con le sue incursioni, era poi stato sconfitto ripetutamente da Niceforo e dal suo comandante sul campo, e successore, Giovanni Zimisce, perdendo le terre fertili della Cilicia e l'importante città di Antiochia.
Quest'opera, pertanto, è l'esatta controparte del De Velitatione: ha la stessa ambientazione geografica, l'Anatolia orientale e la fertile Cilicia, e anche gli stessi antagonisti, ma è interamente orientata alla strategia difensiva, pur proponendo a volte vigorose tattiche offensive.
I Praecepta si aprono con l'elenco di tutto ciò che è necessario per avere una buona fanteria − la fanteria pesante, per il combattimento corpo a corpo, cioè, come dice il testo, gli opliti: reclute romane o armene, al di sotto dei quarant'anni, alte e robuste, opportunamente addestrate all'uso dello scudo e della lancia, che prestano servizio al comando di un ufficiale di dieci (decarca), cinquanta (pentacontarca) e cento (ecatonarca). L'ecatonarca corrisponde quindi al nostro comandante di compagnia, anche se per i Bizantini era forse più un sergente, benché non si possa escludere che fosse di grado superiore.
Ci si preoccupa anche, giustamente, della coesione dell'unità: gli uomini dovrebbero stare con gli amici e i parenti nei kontubernia, un gruppo di otto tende tipico del vecchio esercito romano, che nell'uso bizantino variava nel numero, da un minimo di cinque a un massimo di sedici, mantenendo però lo stesso principio, che cioè gli uomini dovessero vivere, marciare e combattere sempre insieme.
L'autore ha in mente un esercito da campagna molto preciso, che conta esattamente 11.200 soldati di fanteria pesante. L',equipaggiamento, in realtà è molto economico: non sono previste protezioni al petto in metallo o cuoio bollito, ma tuniche imbottite (kabadia); gli stivali alti andrebbero bene, se possibile, «ma altrimenti» si usino sandali, cioè mouzakia o tzerboulia, noti per essere le calzature leggere dei poveri, delle donne e dei monaci. Non si parla di elmi in metallo, ma solo di berretti di feltro spesso. Questa peculiare fanteria «pesante» insomma è tale solo per il suo impiego tattico, non perché sia corazzata, dato che evidentemente non lo è, a differenza per esempio della truppa legionaria romana.
Non si lesina però sulle armi. Le forze Hamdanidi, che qui sono il nemico designato, disponevano di una cavalleria più potente, sia quella leggera, per i piccoli scontri e le incursioni (arabitai per la loro origine beduina), sia corazzata (kataphraktoi) per la carica. Di conseguenza, i Praecepta prescrivono che la fanteria pesante debba essere armata di lance robuste e lunghe [kontaria], di 25-30 spithamai (da 5,95 a 7,02 metri). Il curatore ritiene queste lunghezze «improbabili», il che è certamente vero per quanto riguarda l'estremità superiore dello schieramento, ma, come accadeva con la sarissa ai tempi di Filippo e Alessandro, una lancia lunga riesce a tenere lontana la cavalleria alla carica e, d'altra parte, il problema di portarsi dietro un'arma simile durante la marcia potrebbe essere mitigato dividendo la lancia in due pezzi (come la sarissa) da assemblare al momento dell'uso, grazie a un grosso anello centrale − cui potrebbe riferirsi la già citata kouspia. L'elenco delle armi prescritte continua: «Spade agganciate alla vita, asce o mazze di ferro, in modo che un uomo possa combattere con un'arma e il suo vicino con l'altra, secondo le capacità di ciascuno». Viene anche specificato che gli uomini dovrebbero tenere delle fionde appese alla cintura, in modo da poter colpire i nemici, prima di entrare in contatto diretto con le lance e le spade. Le fionde in genere erano complementari agli archi dei tiratori della fanteria e risultavano particolarmente utili in condizioni climatiche di grande umidità. L'autore prescrive scudi grandi, «sei spithamai [= 1,40 metri] e se possibile anche di più», senz'altro a causa della mancanza di un'armatura per garantire una qualche protezione dalle frecce che gli uomini di Sayf al-Dawla avrebbero potuto scagliare.
Con tutto questo equipaggiamento la fanteria pesante sarebbe stata pesante davvero, anche troppo. Di conseguenza il testo prescrive che «per ogni gruppo di quattro [fanti pesanti] deve esserci un uomo [anthropon], che, durante la battaglia, ha la responsabilità di sorvegliare animali, bagagli e provviste».
Oltre agli 11.200 fanti, l'esercito deve anche avere 4800 «arcieri esperti». Nei Praecepta la fanteria leggera si identifica, in pratica, con gli arcieri arcieri esperti ovviamente e viene specificato anche che costoro devono avere «due faretre ciascuno, una con quaranta frecce, l'altra con sessanta, come pure due archi ciascuno, con quattro corde, e un piccolo scudo da tenere in mano, spade agganciate alla vita e asce e, come gli altri, fionde appese alla cintura».
Nonostante il suo significato letterale, questo passo descrive l'equipaggiamento complessivo assegnato, non quello che gli uomini dovevano realmente portare con sé durante il combattimento: con spada e ascia, due archi e cento frecce lunghe poco meno di un metro questi fanti leggeri non sarebbero stati né leggeri né agili. E molto più probabile che parte di questo equipaggiamento venisse trasportata dagli animali da soma e dagli addetti al convoglio dei bagagli.
A questo punto l'autore cita una disposizione tattica mista, cavalleria-fanteria, in uso sin dall'antichità, nella quale dodici formazioni separate di fanteria si dispongono in modo da lasciare tra loro dei corridoi che permettano a piccole unità di cavalieri, di dieci-quindici uomini, di partire per una sortita e rientrare. Inoltre, i lanciatori di giavellotto − che, come si è già notato, sono reclute straniere e quindi in genere sacrificabili − possono schierarsi con prontezza dietro un quadrato di fanteria, nel caso in cui ci fosse da chiudere un corridoio agli incursori della cavalleria nemica. Arcieri e frombolieri non sono opzionali − perché senza di loro non ci potrebbe essere lancio a distanza di proiettili − e devono stare dietro alla fanteria pesante di ciascuna formazione. Quando la cavalleria nemica insegue quella bizantina tra le formazioni della fanteria, i lanciatori di giavellotto devono subito intervenire e bloccare il nemico, col supporto degli arcieri e dei frombolieri. In tal modo, la cavalleria bizantina può attaccare senza doversi preoccupare della propria difesa, perché è la fanteria a garantirle protezione, quando c'è bisogno.
Le colonne sono formate da sette file di soldati, con tre arcieri interposti tra due fanti pesanti a ciascuna delle due estremità, in modo da mantenere lo stesso assetto anche invertendo il fronte. Le formazioni in capo ai taxiarchi comandanti di mille uomini hanno un centinaio di queste colonne; gli altri trecento uomini si dividono in cento lanciatori di giavellotto e frombolieri − un tipo di fanteria leggera meno specializzata, di profilo più basso, come le armi che usa − e in cento fanti del tipo opposto, cioè soldati selezionatissimi, forniti di un'arma speciale che aveva avuto grande importanza presso gli antichi Romani: la grande lancia pesante, o picca, hasta in latino, menavlion in greco (plurale menavlia)..
La sua funzione specifica era proteggere le formazioni di fanteria dalle cariche della cavalleria − un ruolo che i picchieri della fanteria europea avrebbero conservato sino all'introduzione della baionetta.
In generale, invece, serviva come arma robusta per uomini particolarmente robusti, inquadrati in formazioni di menavlatoi per tenere serrati i ranghi anche sotto un duro attacco, o, al contrario, per spingere le proprie lance contro un'ostinata resistenza nemica. Per questo il menavlion, come successivamente la picca, era l'arma dei soldati d'élite, uomini pronti a sostenere una carica di cavalleria pesante rimanendo immobili, e che avrebbero potuto avere una posizione sociale superiore a quella dei comuni soldati, come spesso accadeva per i picchieri. Nell'Enrico V di Shakespeare un robusto bevitore, Pistol, chiede al re, che si è travestito, chi sia. «Sono un gentiluomo e appartengo a una compagnia» risponde il re, intendendo dire che è un volontario. «Trascini tu la possente picca?» chiede Pistol. Il re risponde: «Proprio così». Era l'arma degli uomini più forti e duri, e anche dei gentiluomini, molto più prestigiosa del moschetto.
Come l' hasta, aveva armato gli uomini del terzo scaglione (triarii), i più maturi, nelle legioni dell'antica Repubblica, e sotto il nome inappuntabilmente classico, ma anche fuorviante, di sarissa era menzionata tra le armi in dotazione alla fanteria bizantina già nel VI secolo:" ma sono i Praecepta militaria a magnificarla, sostenendo che il menavlion non deve essere fatto di legno tagliato in sezioni, ma ricavato dal fusto di una giovane quercia o corniolo o dalla cosiddetta atzekidia. Se non si riesce a trovare un alberello che vada bene, allora che lo si faccia di legno tagliato in sezioni, ma che lo si faccia di legno duro e così spesso da riempire esattamente il cavo della mano I menavlatoi, poi, devono essere coraggiosi, forti e fidati.
La lunghezza delle armi viene riferita nel cinquantaseiesimo capitolo dell'opera enciclopedica Taktika di Niceforo Urano: l'asta in legno, misurata in ourguiai, da uno e mezzo a due, la punta, in spithamai, da uno e mezzo a due − cioè da 2,7 a 3,6 metri la prima e, in centimetri, da 35 a 47 per la seconda.
Lo scopo specifico dell'arma, come abbiamo detto, era resistere alle cariche della cavalleria pesante, in questo caso quella dell'esercito hamdanide; i passi, fra l'altro, illustrano anche la differenza tra queste lance più massicce e quelle ordinarie (kontaria):
I menavlatoi debbono prendere posizione nella prima linea della fanteria […] se dovesse accadere, e speriamo che non accada, che le […] [lance] della fanteria vengano spezzate dai kataphraktoi nemici, allora i menavlatoi, saldamente disposti, debbono tenere coraggiosamente il terreno per ricevere la carica dei kataphraktoi e respingerli.
Lo scopo più generale era aggiungere forza agli attacchi frontali (la «spinta della picca» che poteva ancora essere decisiva nella Guerra civile inglese, nel XVII secolo) oppure evitare gli sbandamenti di intere formazioni di fanteria in circostanze avverse:
Quando il combattimento ha inizio […] [le unità] possono formarsi senza ostacolo o alcun disturbo [dietro la protezione dei menavlatoi] […] d'altro canto, gli uomini esausti per la fatica e i feriti tornano [a] trovare sollievo sotto la [loro] protezione.
Ancora una volta, appare qui evidente come il menavlion fosse un'arma deterrente e da spingere, non certo da lanciare, e fosse quindi totalmente diversa dal pilum dei Romani, un'arma pesante, ma da getto, senza nemmeno parlare, poi, dei giavellotti, qualsiasi nome avessero. Ci sono inevitabili distinzioni tra le armi lunghe da spinta, troppo pesanti per essere scagliate (picca, menavlion, hasta), le armi da getto troppo sottili per reggere l'urto della spinta o allontanare una carica di cavalleria (contus eccetera) e la lancia pesante di corta gittata che veniva scagliata dai legionari romani (pilum), e che solo marginalmente veniva usata premendola contro il nemico avanzante − in genere solo perché il gladium era molto corto.
Nello schieramento prescritto per la battaglia, solo tre uomini su dieci erano arcieri, e nell'esercito, come abbiamo visto, erano previsti 4800 arcieri contro 11.200 fanti pesanti − le stesse proporzioni che si ritrovano per l'accampamento in «Organizzazione e tattica di campagna».
Si tratta evidentemente di forze pesanti organizzate per un'offensiva, portata avanti soprattutto grazie all'azione d'urto della cavalleria, con un impiego degli arcieri minore di quello consueto delle forze sulla difensiva. Nelle forze imperiali romane, l'uso degli arcieri era solo marginale proprio per questo motivo, e naturalmente gli archi in uso non erano molto potenti. Ma gli archi, anche se nel X secolo contavano molto meno che nel VI, per l'esercito bizantino rimanevano comunque importanti a tal punto da preoccuparsi di dare particolari disposizioni per garantire il rifornimento di frecce. Dati i tempi di tiro degli arcieri meglio addestrati, le cento frecce di dotazione individuale non sarebbero certo durate a lungo. Di conseguenza il testo prevede che altre 15.000, cioè 50 per ogni arciere, debbano essere trasportate da animali che restano al seguito delle truppe anche in battaglia (non cioè dal convoglio principale dei rifornimenti), ed è rivelatore il fatto che un chiliarca (comandante di mille uomini), un ufficiale cioè che ha il grado di un nostro tenente-colonnello, sia incaricato di contarle attentamente prima, quindi di legarle assieme in fasci di cinquanta, infine metterle nei loro contenitori. Otto o dieci uomini di ciascuna unità [di mille] dovrebbero essere distaccati al rifornimento degli arcieri, in modo da non portarli via dalla loro [posizione di combattimento].
Cinquanta frecce extra per ogni uomo non sembrano molte, in rapporto alle cento in dotazione iniziale, ma in battaglia non accadeva mai che tutti gli arcieri lanciassero per tutto il tempo − dovevano prendere posizione quando il nemico era a portata di tiro, il che per qualcuno, o anche molti, di loro poteva anche non avvenire mai. Le 15.000 frecce aggiuntive, quindi, non erano poche, se si considera che dovevano essere distribuite solo agli arcieri attivi in quel momento, e non a tutti indistintamente.
Veniamo ora alle armi speciali che il comandante dell'esercito deve avere: «Piccoli cheiromangana, tre elakatia, un tubo girevole con fuoco liquido e una pompa a mano…». Queste armi di supporto non sono l'equivalente delle mitragliatrici o dei mortai moderni, che hanno la stessa versatilità dei fucili della fanteria; sono invece paragonabili ad armi come i razzi controcarro e i lancia-granate, quindi armi d'impiego molto specifico, usate in certe situazioni particolari, ma che per buona parte del combattimento restano inutilizzate. Il fuoco greco, che l'acqua non poteva estinguere, poteva bruciare e terrorizzare i nemici solo nel breve raggio della portata dei sifoni o delle pompe a mano con cui veniva eiettato: al massimo a dieci metri di distanza; quindi poteva essere impiegato solo quando i nemici, nel loro attacco, erano vicini alla prima linea dei difensori − e anche in quel caso riusciva a colpire solo quelli che si trovavano nel raggio della sua gittata.
Quanto ai cheiromangana, l'autorevole curatore azzarda l'ipotesi che si potesse trattare di un lancia-frecce portatile, del tipo di un gastrafete, ossia una balestra pesante. Ma, come è noto, la nomenclatura dell'artiglieria romana e bizantina non era fissa − nel corso del IV secolo le catapulte passarono dall'essere «macchine per il lancio delle pietre» a «lancia-frecce», mentre la ballista seguiva la traiettoria opposta, se mi si consente il gioco di parole − e quindi è più probabile che i cheiromangana fossero trabucchi a trazione, mobili e di ridotte dimensioni. Poiché quest'arma ha la virtù della specificità del suo impiego, la più tarda espressione francese (trebuchet)73 è divenuta il termine convenzionale per indicare uno strumento che i testi bizantini indicano con una varietà di nomi, alcuni dei quali derivati da strumenti d'artiglieria a torsione e tensione che proprio il trabucco rese in buona parte obsoleti: helopolis, petrobolos, lithobolos, alakation, lambdarea, manganon, manganokon, petrarea, tetrarea e, infine, cheiromangana. I trabucchi possono essere abbastanza grandi da demolire la cinta muraria in pietra meglio costruita dalla distanza, tatticamente molto utile, di duecento metri, o anche di più, cioè fuori della portata degli archi, oppure abbastanza piccoli da essere manovrati da un solo uomo, come è probabile che si verificasse nel caso dei cheiromangana. Gli esperti più autorevoli in materia hanno ipotizzato che i Bizantini abbiano compreso l'utilità di poter disporre di cheiromangana piccoli, portatili, dopo la battaglia di Anzen, nel luglio dell'838, nella quale le forze abbasidi impiegarono trabucchi a trazione per lanciare pietre sulle truppe bizantine, che si dispersero in preda al panico, dopo che un pesante temporale aveva messo fuori uso gli archi dei loro cavalieri turchi.
Comunque stiano le cose, quest'arma consisteva in una trave che ruotava su un perno sostenuto da una struttura abbastanza alta, con due bracci di diversa lunghezza. Il proiettile poteva venir collocato in un apposito ricettacolo o su una corda elastica attaccata all'estremità del braccio più lungo, mentre a quello più corto erano attaccate delle corde per poterlo tirare. Per poter lanciare un proiettile, il braccio corto veniva d'un sol colpo spinto in basso, o per trazione umana o per effetto della forza di gravità, grazie al rilascio d'un contrappeso, o per una combinazione delle due forze. In genere si ritiene che i trabucchi bizantini del X secolo venissero attivati a trazione, oppure fossero ibridi, mentre quelli più potenti, che usavano solo la forza di gravità, entrarono nell'uso comune solo grazie a Giovanni II Comneno (1118-1143).
Fu un'evoluzione faticosa e lunga, o almeno un caso di diffusione molto lenta, seè vero che i Cinesi usavano trabucchi di questo tipo già da molto tempo − in effetti il primo caso di impiego di questo tipo di trabucco registrato dalle nostre fonti si verifica con gli Avari, che potrebbero aver imparato dai Cinesi l'arte di costruirlo, prima di muovere verso occidente. Anche se Teofilatto Simocatta (Historiae II, 16,10, 11) riferisce la storia di un certo Busas, soldato bizantino fatto prigioniero dagli Avari, ai quali avrebbe insegnato come si costruisce un helopolis e gli esperti più autorevoli traducono helopolis con trebuchet, trabucco. Ma in realtà quel termine potrebbe indicare qualsiasi macchina bellica, a cominciare dall' helopolis, originario, che era una torre d'assedio mobile. Inoltre Simocatta ci presenta gli Avari come incompetenti sul piano tecnologico, mentre, come abbiamo visto, lo Strategikon consiglia più volte il ricorso alla tecnologia avara. In ogni modo, gli Avari usarono cinquanta trabucchi nell'assedio di Tessalonica del 597, producendo effetti devastanti. La prima testimonianza in merito è la celebre memoria dell'arcivescovo della città, Giovanni I:
Questi petroboloi [lancia-pietre = trebuchets o trabucchi] avevano [una struttura] a quadrilatero, che era larga alla base e si restringeva progressivamente verso la sommità. Attaccate a queste macchine c'erano grosse assi con lastre di ferro alle estremità, e su loro erano inchiodati pezzi di legno, come travi di una casa. Alla fine di questi pezzi di legno c'erano delle corde e all'altra estremità delle robuste funi, grazie alle quali, una volta che venivano tirate giù e la corda veniva rilasciata, le travi spingevano le pietre molto in alto, con un forte rumore. E nel venire scaricate esse lanciavano molte grandi pietre, sì che né la terra né le costruzioni degli uomini potevano reggerne l'impatto.
Essi provvidero anche a coprire questi petroboloi a forma di quadrilatero con tavole protettive su tre lati, in modo che gli uomini addetti al lancio delle pietre non venissero feriti dalle frecce [tirate] dai difensori della città. E siccome una di queste macchine, con le sue tavole protettive, era stata consumata dal fuoco prodotto da una freccia incendiaria, essi si ritirarono, portandole via. Il giorno dopo tornano con i loro trabucchi [petroboloi], coperti con pelli scuoiate da poco e tavole, e li collocarono più vicino alle mura della città, tirando, essi lanciarono contro di noi montagne e colline. In quale altro modo potremmo chiamare quelle pietre immensamente grandi?
Poi l'autore ritorna sugli opliti (la fanteria pesante) per osservare che sarebbe opportuno avere un mulo ogni due uomini per il trasporto dell'equipaggiamento, e un uomo di servizio (proprio così: un uomo, anthropou, non un servo) ogni quattro a sorvegliare le loro cose quando sono impegnati nel combattimento. Col commento successivo ricorda che le battaglie si devono combattere nei pressi di un corso d'acqua. Questa serie di osservazioni disparate è esemplare del carattere del testo: un elenco di annotazioni che un uomo del mestiere lascia ai suoi successori.
La cavalleria che compare nel testo, quella del X secolo, non ha più il ruolo predominante che aveva quella del VI, nell'epoca dello Strategikon. La ragione è semplice: un esercito strutturato per vincere e guadagnare territorio, più che per irretire il nemico con la sua superiorità di manovra e fermarlo, deve disporre di fanteria pesante, in grado di reggere sul campo. Inoltre la cavalleria del X secolo era molto più diversificata di quella composta di arcieri-lancieri dello Strategikon, che era versatile, sl, nelle sue funzioni, ma sostanzialmente omogenea nella struttura. E anche qui la ragione è semplice: a oriente i Bizantini si trovavano davanti una cavalleria nemica molto differenziata. C'erano i beduini, cavalieri leggeri, armati di spade e lance, agili ed efficaci nelle incursioni, ma meno affidabili per esplorazione e ricognizione, gli arcieri turchi a cavallo, che progressivamente stavano strappando agli arabi e ai Beduini il ruolo di protagonisti del jihad e la cavalleria corazzata ereditata dai Sassanidi, che già i Romani avevano imitato con i loro clibanarii.
Il primo tipo di cavalleria menzionato nei Praecepta militaria sono i prokoursatores, cioè, nel linguaggio dell'epoca, gli uomini della cavalleria leggera incaricati di esplorare, fare incursioni e opera di ricognizione − e, naturalmente, di ostacolare i nemici delegati a svolgere le stesse funzioni. Si parla specificamente del loro equipaggiamento e del vestiario e torna la parola klibania, che evidentemente doveva aver cambiato significato, nel corso dei secoli, perché qui non indica un'armatura a piastre o lamelle in metallo, o comunque pesante, ma un corpetto protettivo di cuoio o di tessuto fittamente intrecciato, o comunque un'armatura leggera, perché dei prokoursores si dice che non sono «massicciamente corazzati e ben piantati a terra, ma agili e leggeri».
L'esplorazione, per definizione, si limita alla sola osservazione, con l'esclusione del combattimento, ed era il ruolo implicito dei prokoursores, comunque importante. Il loro compito più impegnativo, però, era la ricognizione in avanscoperta, da intendere in senso moderno, cioè una missione volta deliberatamente a cercare lo scontro con le forze nemiche, anche se con un minimo di cautela, per indurle a rivelarsi così da saggiare la loro forza, catturare prigionieri per interrogarli, indebolirle con attacchi di sorpresa o imboscate − o combattere i prokoursores nemici, impegnati nelle stesse operazioni. In ogni caso, se si fossero trovati davanti a una forza decisamente superiore, o allo svolgimento di una grande manovra organizzata, il loro compito non era quello di battersi e morire sul posto, ma di cercare di tirarsi fuori dai guai, perché il loro contributo al complesso delle sinergie dell'esercito era tenerlo bene informato − e far sì che il nemico lo fosse meno.
Possiamo essere certi di quello che abbiamo appena detto, perché ci viene confermato dall'equipaggiamento prescritto dall'autore. La forza cui pensa è di circa 500 uomini, dei quali 110-120 debbono essere ottimi arcieri, con armatura al torace ed elmi (klibania o lorikia), più spade e mazze, mentre tutti gli altri sono lancieri − l'arma ottimale per chi cavalca una monta leggera. Ogni uomo deve avere con sé un cavallo di scorta, quando esce per incursioni, non quando è schierato in battaglia campale. Era un'abitudine acquisita, molto tempo prima, dai nomadi delle steppe, che risultava particolarmente utile quando si doveva fuggire dopo un combattimento. Quella che l'autore descrive è una formazione tattica, che, all'occorrenza, può combattere al completo, come unità operativa sotto un unico comandante. Non si tratta di un'unità solo amministrativa − e in effetti si dice che deve adattarsi alle dimensioni dell'esercito: se questo è un po' più piccolo, la squadra dei prokoursores deve ridursi a 300 uomini, con 60 arcieri.
Il secondo tipo di cavalleria è ancora più specializzato: si tratta dei kataphraktoi, cavalieri corazzati su cavalli forniti di protezione, che pertanto venivano tenuti in un gruppo compatto per produrre il massimo impatto d'urto.
Nel caso in cui l'esercito fosse abbastanza grande, il testo raccomanda una formazione triangolare a cuneo di 504 uomini, con colonne di profondità dodici, e 20 uomini nella prima linea, 24 nella seconda, 28 nella terza, 32 nella quarta, 36 nella quinta e via di seguito sino alla dodicesima, che, naturalmente ha 64 cavalieri, per un totale di 504. Se fosse possibile solo una formazione più piccola, l'autore propone un cuneo più ridotto, di 384 cavalieri, specificando, come in precedenza, esatte dimensioni di file e ranghi.
Non sono cifre da poco, non trattandosi di uomini di truppa comune. Soldati di cavalleria corazzati su grandi e costosi cavalli sono l'equivalente dei veicoli corazzati dei nostri tempi: nel momento in cui scrivo l'intero esercito britannico dispone di 382 tank. Su un terreno favorevole, la carica di 504 cavalieri corazzati e determinati può essere terrificante, tale da dissolvere nella fuga qualunque formazione non sia composta da uomini d'una risolutezza assoluta, solo per l'impatto prodotto dalla sua vista, che non cambierebbe di molto se fossero solo in 384, prima ancora che si sia giunti al cozzare delle armi.
I kataphraktoi, però, erano pienamente equipaggiati anche per la forma più ravvicinata di combattimento, perché il primo posto, nell'elenco delle armi, non è occupato dalla lancia, ma dallo strumento classico della mischia corpo a corpo:
Mazze di ferro [sidhrorabdia = bastoni di ferro] con punte di solo ferro − le punte devono avere angoli affilati − o altrimenti altre mazze [diritte] o sciabole [parameria]. Tutti loro devono avere spade [spathia]. Devono tenere in pugno le mazze di ferro e le sciabole e tenere altre mazze alla cintura o sulla sella […] la prima linea, cioè il fronte della formazione, e poi la seconda, terza e quarta linea debbono avere questa dotazione, ma a partire dalla quarta linea sino al fondo, i kataphraktoi sui fianchi debbono essere disposti così: un uomo armato di lancia e un uomo armato di mazza, oppure uno che porta la sciabola.
Tutto questo ha, tatticamente, un senso preciso: delinea, in effetti, una combinazione tra le varie armi. Le pesanti mazze di ferro, con i bordi tagliati ad angoli acuti, servono nel combattimento corpo a corpo con nemici che potrebbero anch'essi essere corazzati e quindi protetti da colpi meno forti. Le «altre mazze» sono varianti più leggere, ma fornite di lame, e possono anche essere lanciate (vardoukion, matzoukion). Sono armi formidabili in mani esperte ed è possibile che siano state comunemente usate anche nella caccia a cavallo, specialmente quando non ci si muoveva in ampi spazi aperti, (una scena dello Scilitze di Madrid, il famoso manoscritto miniato del XII secolo dell'opera dello storico bizantino, presenta Basilio I mentre uccide un lupo in una partita di caccia, spaccandogli la testa con un vardoukion). Questo spiega la prescrizione, che altrimenti non avrebbe avuto senso, di portare un'altra mazza, agganciata alla cintura o alla sella.
Le sciabole, parameria, dotate di una sola lama per procurare ferite profonde (probabilmente ricurva, per evitare che restasse incastrata dopo il colpo), erano destinate a coloro che non si sentivano a proprio agio con la mazza pesante e non erano ben addestrati al lancio di quelle più leggere.
La spada è dotazione obbligatoria per tutti; la parola usata è spathia, che indica sempre un'arma lunga almeno novanta centimetri e quindi utile anche nella carica.
Delle lance (kontaria) non si fa più menzione, ma dovevano anch'esse essere una dotazione obbligatoria per tutti, perché erano l'arma della carica par excellence. Non erano troppo pesanti − nello Strategikon sono abbastanza leggere da poter essere legate con una cinghia sulle spalle del cavaliere.
I kataphraktoi stessi dispongono soltanto di poche mazze da lancio e questo potrebbe essere un grosso limite per la loro formazione. Di conseguenza l'autore aggiunge una quota di arcieri a cavallo − il terzo tipo di cavalleria − esattamente 150 per la formazione di 504 catafratti, o 80 per i 384. Devono posizionarsi dietro la quarta linea dei colleghi corazzati per esserne protetti. In tal modo, la formazione può prendere parte attiva alla battaglia ancora prima che si giunga al contatto fisico col nemico, per esempio portando avanti gli arcieri che protegge nel punto in cui i loro tiri possono far male, mentre i cavalieri pesanti delle prime quattro linee sono protetti dalle loro armature.
Questa è la virtù delle forze corazzate nelle guerre di ogni tempo: una superiore mobilità sul campo di battaglia, cioè la capacità di muoversi anche in piena esposizione ai proiettili nemici − in questo caso le frecce − che permetteva a cavalieri appesantiti dall'armatura di avanzare più rapidamente dei loro colleghi della cavalleria leggera, che erano sgravati di pesi, ma dovevano tenersi fuori dalla portata delle frecce nemiche, così come accade anche oggi, quando i pesanti mezzi corazzati si muovono in modo infinitamente più veloce dei veicoli leggeri, quando le pallottole cominciano a volare.
L'armatura in questione è descritta nel testo con molta precisione. Ogni uomo deve indossare un klibanion con maniche che arrivano sino al gomito, un gonnellino protettivo e protezioni per le braccia fatti di «seta grezza o cotone, tanto spessi da poter restare compatti anche con la protezione di una zabai, un'armatura a scaglie». E evidente che questi klibania hanno una protezione in metallo, perché viene anche raccomandato di coprirli con epilorika di seta grezza o cotone, senza maniche. Non mi baso tanto sul fatto che la parola epilorika indica appunto una veste che sta «sopra l'armatura» − non sarebbe una prova sufficiente, data la facilità con cui questi termini mutavano di significato − quanto sul fatto che sono le armature di metallo ad aver bisogno di protezione, quando il tempo è umido.
Gli elmi sono in ferro e pesantemente rinforzati, in modo da coprire il volto con zabai dallo spessore di tre strati sovrapposti «sicché compaiono solo gli occhi». Ci vogliono anche protezioni per le gambe e scudi. La protezione offerta dall'armatura non doveva essere necessariamente perfetta e totale per essere utile in combattimento, perché anche una protezione debole era in grado di rendere innocue frecce scagliate da lunga distanza, che arrivavano a bassa velocità; ma, col crescere della potenza delle frecce, anche le armature dovevano potenziarsi. Benché il cavaliere corazzato potesse difendersi anche a piedi, la sua destinazione naturale era offensiva e richiedeva necessariamente cavalli vivi: anche gli animali avevano perciò bisogno di protezione dalle frecce e infatti, nella parte superiore, erano «coperti in un'armatura» di feltro e di cuoio bollito che scendeva sino alle ginocchia, lasciando esposti solo «occhi e narici». La copertura del petto era opzionale e si attua con pelle di bisonte − doveva trattarsi del bisonte europeo, bison bonasus, che allora era ancora diffuso nel Caucaso come nelle foreste di tutta Europa.
Per gli arcieri, naturalmente, è prevista una protezione inferiore − dopo tutto è loro prescritto di mantenersi a distanza dal contatto fisico col nemico, se vogliono essere utili − ma anche a loro non devono mancare elmi e klibania e anche i loro cavalli devono essere protetti con tessuti imbottiti (kabadia).
L'autore immagina diverse combinazioni dei tre tipi di cavalleria, che poi sono forse più di tre, perché tra i catafratti solo alcuni assumono il ruolo di lancieri. L'unità di combattimento di base per tutti i tipi − e l'elemento costitutivo delle più ampie formazioni tattiche − la banda (bandon) di cinquanta uomini, cementata dai legami di affinità etnica e amicizia che intercorrono tra gli uomini «che devono condividere gli stessi quartieri e tutte le comuni attività quotidiane in tutti i modi possibili».
Come ogni comandante militare serio, l'autore sa che cinquanta uomini se aggiunti a un gruppo già molto coeso producono una capacità di combattimento largamente superiore a quella di cinquanta guerrieri individualisti che si battono da soli, e sa anche come questa coesione possa essere coltivata, facendo condividere agli uomini ogni aspetto della vita, nel bene e nel male. Cinquanta, tra l'altro, è più o meno il limite massimo cui può giungere un gruppo in cui si vogliano mantenere sentimenti d'appartenenza di tipo familiare e il massimo della coesione: negli eserciti moderni l'unità di base è il plotone, che in genere è composto da una trentina d'uomini. Ovviamente, è importante mantenere intatta l'unità, anche se spesso il numero dei suoi componenti può creare problemi, quando gli uomini sono un po' di più, o un po' di meno, di quelli che sarebbero veramente necessari.
Ma la coesione viene prima. Quando l'autore espone e consiglia diverse disposizioni, per le diverse circostanze, gli elementi base sono sempre i banda, tanto che anche la forza di battaglia personale del comandante, qui come nel De Velitatione designata col termine germanico foulkon, deve essere composta da 150 uomini, tre banda, su un totale di 500 uomini; se poi la forza è di soli 300 uomini, il foulkon ne terra con sé 100, due banda. In entrambi i casi tutti gli altri uomini, o piuttosto gli altri banda, sono assegnati a compiti di ricognizione: poiché il numero degli uomini disponibili era, per una parte e per l'altra, troppo ristretto per presidiare con continuità il lunghissimo fronte, gli eserciti bizantini e quelli dei loro nemici passavano la maggior parte dei giorni delle loro campagne a spiarsi a vicenda.
In modo simile, quando si passa alla descrizione della disposizione-base di combattimento, la guardia a protezione del fianco destro è composta da 100 uomini, lancieri e arcieri (due banda, evidentemente); anche sul lato sinistro ci devono essere 100 uomini, per «respingere un attacco laterale nemico»; i blocchi maggiori devono avere ciascuno 500 uomini, di cui 300 lancieri e 200 arcieri, quindi, rispettivamente, sei e quattro banda. Solo la formazione dei kataphraktoi, con i suoi 504 (o 384) uomini, non si adatta perfettamente alla regola dei cinquanta.
Nell'esercito dei Praecepta militaria l'omogeneità delle unità di combattimento, composta sempre, per amore di coesione, da uno stesso tipo di specialisti, coesiste con l'eterogeneità delle formazioni composte di fanteria leggera e pesante, cavalleria leggera, arcieri a cavallo e cavalieri corazzati, la cui differenziazione dovrebbe poter creare potenti sinergie.
Per esempio, il formidabile cuneo triangolare dei kataphraktoi può caricare le formazioni nemiche nella loro disposizione di combattimento, magari riuscendo a scompaginarne i ranghi, gettando nel panico la cavalleria avversaria e spingendola alla fuga, ma solo i veloci prokoursatores possono sfruttare la favorevole situazione che si è creata, gettandosi dietro ai nemici, infilandoli con le lance e colpendoli con i fendenti delle loro sciabole. Se poi anche la fanteria nemica si mette a correre, allora i kataphraktoi possono compiere un massacro con le spade e le mazze, ma anche gli arcieri a cavallo possono usare le loro lunghe spade.
Sarebbero stati successi splendidi per i kataphraktoi, che in qualche occasione importante riuscirono davvero a procurarseli; ma si trattava naturalmente di occasioni eccezionali, come sempre accade con le vittorie schiaccianti. Accadeva molto più spesso, invece, che i 504, o i 384, kataphraktoi ottenessero un risultato meno esaltante, ma pur sempre utile: potevano costringere il nemico a restare chiuso in una formazione molto compatta e serrata, con le picche e le lance levate a respingere la carica, o piuttosto a dissuaderla, perché non capita di frequente che dei cavalieri si gettino addosso a una formazione di fanti dall'aria dura e decisa che tiene puntate in faccia armi lunghe dall'aspetto terribilmente affilato. Però una formazione, nella misura in cui si stringe e si compatta, diviene anche un bersaglio sempre più facile per gli arcieri nemici (a meno che non sappia produrre una testudo ro mana perfetta, sollevando gli scudi), perché costoro non hanno più bisogno di perdere tempo a prendere di mira un singolo soldato e possono invece scagliare in continuità salve che andranno comunque a segno. Da una distanza superiore ai 200 metri buoni arcieri con i migliori archi composti possono fare pochi morti, ma molti feriti, nella massa degli uomini e dei cavalli, ma alla distanza di poco meno di 100 metri le frecce e gli archi migliori sono in grado di forare la maggior parte delle corazze, accrescendo notevolmente il numero dei colpi letali.
Niceforo II Foca, o chiunque abbia scritto questo testo, ha una visione brillante della psicologia del combattimento. Spesso è utile spaventare il nemico con «urla e grida di battaglia», come viene anche raccomandato, in un caso particolare, dal De Velitatione. Nelle battaglie dell'antichità si faceva gran uso di tamburi, trombe, esplosioni di fuochi artificiali (questa è un'abitudine cinese) e stridori laceranti per impaurire i nemici, e ancora durante la Seconda guerra mondiale c'era evidentemente chi non si contentava delle esplosioni assordanti dei colpi dell'artiglieria e della gragnuola di detonazioni del fuoco rapido: la Luftwaffe munì alcuni dei suoi bombardieri da picchiata Junker 87 Sturzkampifiugzeug (Stuka) di una sirena che produceva un gemito fortissimo e sinistro, mentre i lanciarazzi Katjuga dell'Armata Rossa sparavano i loro colpi con un lungo lugubre fischio che i soldati tedeschi avevano imparato a odiare.
Il rumore spaventa e può contribuire a far crollare il morale delle truppe. E anche il silenzio, nelle circostanze giuste, quando diventa mortale, ci riesce. È quello che il testo prescrive: «Quando il nemico si avvicina, l'intero [esercito] deve recitare l'invincibile preghiera che si addice ai cristiani: "Gesù Cristo, Signore e Dio nostro, abbi pietà di noi. Amen" e in tal modo fate che s'avanzino, procedendo con calma verso il nemico, senza il minimo disordine e il minimo rumore». Non è difficile immaginarsi l'effetto prodotto: una forza di cavalieri corazzati che avanza in perfetto ordine e in totale silenzio sembrerà ancora più inesorabile.
Nei Praecepta militaria si ritrova l'espressione più concentrata dello stile di guerra bizantino. Non è un combattimento omerico per la gloria personale, non la grande guerra eroica di Alessandro, o l'implacabile demolizione del nemico della guerra romana. Il comandante di campo bizantino descritto nel testo non è un devoto della guerra santa, ugualmente felice di un glorioso successo come di un glorioso martirio, e nemmeno un avventuriero bramoso di successo. Il suo compito è condurre una campagna con successo, combattendo qualche battaglia, quando capita, ma più spesso evitandole; deve combattere solo battaglie vittoriose, questo è un compito che si può assolvere solo evi tando con cura tutto quello che può dare l'idea di uno scontro ad armi pari: «Evita non solo una forza nemica superiore alla tua, ma anche una di forza uguale».
Bisogna sempre utilizzare gli esploratori, le spie e le squadre di ricognizione della cavalleria leggera: per poter fare una stima della forza materiale e morale dei nemici, ed essendo quest'ultima la più importante, tre volte più della prima, secondo Napoleone, con il quale il nostro autore si sarebbe trovato d'accordo. Gli stratagemmi e le imboscate sono le alternative alle battaglie che non si devono combattere, proprio perché, col passare del tempo, possono demoralizzare il nemico, creando magari, alla fine, i presupposti di una battaglia che ci si può permettere di combattere, perché la vittoria è assicurata.