11 Lo Strategikon di Maurizio
Vegezio fu molto ammirato e spesso citato dagli uomini d'arme del Rinascimento e anche per molto tempo dopo di allora. Invece l'infinitamente superiore Strategikon attribuito all'imperatore Maurizio rimase per lo più sconosciuto sino a non molto tempo fa. Questo fondamentale manuale di arte militare, molto copiato, parafrasato ed emulato dagli scrittori bizantini successivi, e utilizzato per secoli dagli imperatori impegnati in guerra e dai loro comandanti, non era reperibile nel XV secolo, cioè nel momento in cui i classici dell'arte della guerra cominciavano a venire riscoperti e minuziosamente esplorati da innovatori militari alla ricerca di idee utili. Di Vegezio invece esistevano numerosi manoscritti medievali e il testo era già stato stampato nel 1487, nell'originale latino e in traduzione, in quella che è la prima di una lunga serie di edizioni, alcune riccamente illustrate.A quell'epoca, tuttavia, il greco era ancora una lingua sconosciuta, anche per i più dotti studiosi dell'Europa occidentale.
Ben presto, quando il greco e le opere scritte in quella lingua vennero riscoperti, furono i testi della Grecia arcaica e classica, da Omero ad Aristotele, a suscitare un appassionato interesse, non i tardi, presumibilmente decadenti e sicuramente scismatici testi bizantini. Fu così che il testo dello Strategikon non fu stampato sino al 1664, in appendice all'antiquario e decorativo Techne Taktike scritto in greco da Arriano. Anche dopo il 1664 l'opera rimase nel dimenticatoio, perché l'Illuminismo portò con sé anche la leggenda secondo cui le menti bizantine erano paralizzate da una religiosità oscurantista. Lo Strategikon non fu riscoperto che agli inizi del XX secolo, riuscendo finalmente ad attirare l'attenzione di coloro che studiavano e mettevano in pratica la strategia, capaci di riconoscere l'esperienza reale che il libro conteneva.
Il suo autore rivendica, con modestia, solo una limitata esperienza bellica, ma era evidentemente un ufficiale di grande competenza. Nella prefazione promette di scrivere in modo succinto e semplice, mirando «con attenzione più all'utilità pratica che alla ricercatezza di termini», e mantiene la promessa.Il lavoro fu scritto alla fine del VI secolo o poco dopo − il curatore moderno del testo ha dimostrato che deve essere stato completato tra il 592 e il 610.
Nello Strategikon viene presentato un esercito diverso, nella struttura, del classico modello romano, come si rileva in primo luogo dall'importanza che viene data alla cavalleria rispetto alla fanteria nel combattimento. Non si trattò di un mutamento esclusivamente tattico, ma fu causato da una vera rivoluzione strategica nella conduzione della guerra, che imponeva l'adozione di nuovi metodi operativi e nuove tattiche.
Prima di procedere, è interessante notare che non ci fu nessun cambiamento radicale nella lingua dell'esercito, che aveva sempre parlato in parte in latino anche nella metà orientale dell'Impero romano. A partire dall'epoca di Giustiniano, invece, ci fu una transizione molto graduale dal latino al greco, sebbene molti dei termini greci dello Strategikon non siano altro che parole latine cui è stato apposto un finale che suona greco e che vengono pronunciate al modo dei greci. Per «generale», strategos, e l'ufficiale di grado immediatamente inferiore, hypostrategos, si usano termini davvero greci, ma quando si scende ai gradi inferiori persiste il latino: un dux, che è poi divenuto il nostro duca, comanda la (questa in greco) moira di 1000 uomini, mente un comes (il nostro conte), o tribunus, è a capo di una delle tre unità che formano la moira, per la quale l'autore riporta tre nomi diversi, che derivano da tre lingue diverse, pur avendo tutti lo stesso significato (un'unità di circa 300 uomini): la parola greca tagma, che significa semplicemente «formazione», arithmos, che è la traduzione immediata del latino numerus, e bandon, che è la parola germanica e tedesca per «bandiera». Incontriamo koursores (e successivamente protokoursores), cioè i nostri «incursori» (nel gergo militare, indica le truppe da ricognizione), che derivano dal latino cursores. Non c'è nessun mutamento nel termine defensores per le truppe armate e addestrate a combattere in ordine chiuso per non spezzare la prima linea, mentre i deputatoi, «paramedici», sono i deputati latini, pronunciati alla greca.
Gli eserciti sono incredibilmente conservatori, specie per quanto riguarda le fragili certezze che si nutrono sulla battaglia, e così troviamo che gli ordini di combattimento delle gloriose legioni del vittorioso esercito romano restano, perfettamente preservati e assolutamente immutati, quelli originali in latino: exi, «fuori», quando la linea di battaglia deve essere raddoppiata, dimezzando la profondità delle colonne da otto uomini a quattro; dirige frontem, per riallineare la prima fila «quando alcuni uomini […] hanno fatto un passo avanti e l'intera linea si è scompaginata»; junge, «serrare» o «chiudere i ranghi». Uno studioso che ha catalogato cinquanta di queste espressioni, per vedere come siano state tradotte in greco nella parafrasi fatta successivamente nei Taktika di Leone, ha anche fornito un esempio di conservatorismo dell'epoca moderna: la conservazione del tedesco in un reggimento scelto svedese di ussari.
Nelle guerre moderne il combattimento corpo a corpo è molto raro, e in genere lo scontro comincia all'improvviso, con l'impatto di proiettili sparati, proiettati o lanciati da lontano, da nemici invisibili. Nei combattimenti antichi non c'erano armi a lunga gittata, sicché, con l'eccezione delle imboscate, gli ultimi momenti prima dello scontro erano vissuti intensamente e pienamente, nel deliberato avvicinamento al nemico, o del nemico, sino al primo cozzare delle armi. La sequenza degli ordini prescritta per quegli ultimi minuti di massima tensione − molto intensa sia per i veterani, che sapevano bene cosa temere, sia per i novellini, che lo ignoravano − costituiva un processo scandito, graduale e decisamente sottile, di preparazione psicologica:
- silentium (silenzio)
- mandata captate (attenti agli ordini)
- non vos turbatis (restate calmi)
- ordinem servate (mantenete la posizione)
- bando sequute (seguite la bandiera, l'insegna del reparto)
- nemo demittat bandum et inimicos segue (non gettate via l'insegna per inseguire il nemico).
Quando la battaglia è sul punto di iniziare, mentre le truppe si avvicinano, ormai alla portata delle frecce nemiche, «viene dato il comando: "Parati" (pronti). Subito dopo un altro grida: "Adiuta" (aiutaci). E tutti rispondono chiaramente e ad alta voce, all'unisono: "Deus" (o Signore!)». A quel punto, gli arcieri dovevano scagliare la prima salva di frecce e i soldati meglio protetti della fanteria pesante dovevano avanzare in ordine chiuso, con gli scudi serrati che si toccavano su tutta la linea di fronte.
Impartire ordini in latino in un esercito che parlava greco non era una semplice forma di stupido conservatorismo, ma un modo per mantenere la continuità con quello che allora era, ed è ancora oggi, l'istituzione militare più a lungo vittoriosa di tutta la storia umana, l'eredità più importante che il nuovo Impero romano avesse ricevuto dal vecchio.
Lo Strategikon di Maurizio, nonostante la sua laconicità, è il più completo dei manuali militari da campo bizantini. Fu certamente, nello scorrere dei secoli, il più utile di tutti i libri per i capi militari bizantini, e ancora oggi potrebbe avere qualche utilità. Dietro un velo di cerimoniosità cristiana un po' untuosa, i Bizantini erano molto romani nella loro decisa praticità. Questo è particolarmente vero nello Strategikon, che inizia con un'invocazione alla «Nostra Signora, l'immacolata, sempre vergine, Madre di Dio, Maria», per poi passare immediatamente a trattare dell'addestramento individuale del soldato, il giusto punto di partenza per qualsiasi manuale da campo, allora come oggi.
Spesso si scrive di storia militare senza neppure far cenno alle modalità d'addestramento dei soldati. È proprio questo, però, il fattore decisivo per la forza degli eserciti. Ma gli storici non sono i soli a trascurare l'importanza di un addestramento generale, partendo da un corso serio e completo d'addestramento individuale di base. Se le nuove reclute non acquisiscono le necessarie competenze nel maneggiare le armi e nel muoversi sul campo quando sono ancora impegnate nell'addestramento di base, prima che siano assegnate alle loro unità, non riusciranno a mettere in pratica le manovre tattiche richieste, e saranno costrette a trovare un rimedio per la mancanza di capacità elementari, ogni volta che si introdurrà una nuova manovra. Nella gran parte degli eserciti, purtroppo succede proprio questo, perché gli ufficiali hanno di meglio da fare che controllare personalmente l'addestramento individuale delle reclute, sottoponendosi a levatacce mattutine che precludono il piacere dei divertimenti notturni, a lunghe ore d'istupidimento nella ripetizione infinita d'istruzioni, e a un gran marciare, correre, strisciare per terra, in tutte le condizioni climatiche possibili. Di conseguenza, nella maggioranza degli eserciti del mondo, le reclute raggiungono i loro reparti dopo un paio di settimane in cui hanno fatto esercitazioni formali sul campo di parata, avendo sparato, se va bene, 10 o 20 colpi al poligono. Non c'è da sorprendersi quindi se i risultati sul campo di battaglia sono deludenti.
Solo una piccola parte degli eserciti contemporanei addestra i suoi soldati in modo serio, ricavandone una superiorità tattica decisiva.
Questo era l'obiettivo dello Strategikon, il cui soldato ideale non era propriamente un fante né un cavaliere, ma piuttosto entrambe le cose e, soprattutto, un arciere. Era perciò necessario che costui si allenasse nel tiro, sia a piedi che in sella, con archi potenti, e quindi provasse l'affondo della lancia, tenuta ben stretta sul cavallo in corsa − mentre l'unità veniva addestrata a caricare − e ancora nel brandire la spada nel combattimento ravvicinato. La vecchia espressione «fanteria a cavallo» non è adatta, perché nella maggioranza dei casi si limita a riferirsi a una fanteria con cavalli di poco pregio, incapace di battersi restando in sella, figuriamoci con l'arco. Il termine «dragone», ancora più antico, è suggestivo, nella misura in cui i migliori reparti di dragoni erano equipaggiati con fucili di grande portata e precisione, piuttosto che con moschetti. Sotto il titolo «L'addestramento e l'esercitazione individuale del soldato» leggiamo:
Il soldato deve essere addestrato a tirare [con l'arco] con rapidità da appiedato, sia alla maniera romana [con pollice e indice] che a quella persiana [con le tre dita centrali]. La velocità consente alla freccia [dalla faretra] di essere scoccata e di colpire con forza, il che è fondamentale e utile anche quando si è a cavallo: infatti, anche quando la freccia è ben indirizzata, un tiro fiacco non serve a nulla.
L'efficacia degli arcieri sul piano tattico dipende ovviamente dalla cadenza, dall'accuratezza e dalla letalità dei tiri; ma queste caratteristiche non hanno lo stesso peso, perché i nemici, se esposti a frecce precise e mortali, cercheranno di ritirarsi, portandosi fuori del loro raggio, o al contrario si getteranno avanti per cercare di travolgere gli arcieri; in un modo o nell'altro, sarà quindi la cadenza di tiro la variabile dominante. «Deve anche tirare rapidamente dal cavallo in corsa sia di fronte, che dietro di lui, a destra e sinistra.».
La maggioranza dei cavalieri si accontenta di saper restare in sella con sicurezza anche in pieno galoppo: esiterebbe ad affidarsi alla sola presa delle ginocchia mentre entrambe le mani sono impegnate a scagliare una freccia dritto davanti a sé.
Ma è molto più complicato riuscire a girarsi di fianco, nonostante la forte spinta in avanti prodotta dal galoppo, per tirare su un bersaglio laterale, e lo è ancora di più lasciar partire un colpo alla maniera dei Parti, facendo un giro completo sulla sella per mirare in direzione opposta a quella di corsa. E, tuttavia, queste operazioni possono essere eseguite con buona padronanza, se si ha un po' di predisposizione naturale e molto addestramento alle spalle. Queste tecniche, che i Bizantini avevano imparato dagli Unni, il cui addestramento iniziava già nell'infanzia, sono ancora oggi una delle attrazioni di contorno nelle celebrazioni che si tengono in Mongolia, chiamate Eeriin Gurvan Naadam, dove si possono ammirare i colpi precisi dei campioni locali lanciati al galoppo, «di fronte, di retro, a destra, a sinistra», proprio come prescrive lo Strategikon. Secondo Procopio, tutte queste erano capacità saldamente acquisite dai cavalieri bizantini, che aveva visto in azione non molto tempo prima che venisse scritto lo Strategikon:
Sono cavalieri esperti, e riescono a puntare i loro archi senza alcuna difficoltà in ogni direzione pur cavalcando a tutta velocità, e di colpire l'avversario sia inseguendolo che fuggendolo [il «tiro partico» all'indietro]. Tendono la corda alla tempia, sopra l'orecchio destro, caricando quindi la freccia di una tale spinta da uccidere chiunque si trovi sulla loro strada, perché scudi e corazze non sono sufficienti a spegnerne la forza.
Gli arcieri, a piedi o a cavallo, hanno i loro ruoli specifici in ogni fase della battaglia, da_ quella iniziale, quando cercano di sfoltire le fila nemiche con tiri da lunga distanza, a quella in cui lo scontro infuria, con una serie rapida e continua di colpi, sino ai momenti conclusivi, in cui il nemico si ritira, e va colpito con lunghi tiri in avanti, oppure sta avanzando, e allora occorre proteggere la retroguardia con tiri di copertura.
L'arma del soldato bizantino a cavallo che viene descritta nello Strategikon non è certo il semplice arco di legno e corda, da tendere al petto, che veniva lasciato agli ausiliari nell'esercito romano ed era stato ripetutamente irriso da Omero, benché quella dell'arciere fosse anche l'arte divina di Apollo: «Argivi, voi che combattete con le frecce, non provate vergogna […]?» (Iliade, IV, 242) «Tu, arciere, combattente sleale» (Iliade, XI, 386), «[l'arco] è l'arma di un uomo inutile, non di un combattente» (Iliade, XI, 390). Ancora più sprezzante è il possente eroe Diomede, cui Paride, l'amante di Elena, ha appena colpito un piede con una freccia:
Arciere vigliacco, ricciolino femmineo, se faccia a faccia ti cimentassi in armi, non gioverebbe a te né arco né sciame di frecce. Per avermi graffiato col tarso del piede ora ti vanti così; non me ne curo, come se mi avesse colpito donna o bimbo sciocco. Spuntata è la freccia di un uomo vigliacco e da nulla! Ben altrimenti puntuto anche se appena scalfisce, parte il dardo dalla mia mano, e subito annienta.
Nel VI secolo gli arcieri bizantini avevano in dotazione l'arco composto, l'arma individuale più potente dell'antichità. Molto tempo prima della redazione dello Strategikon, quando i Bizantini combattevano in Italia contro i Goti, a metà del VI secolo, la regola era già questa, col vantaggio tattico aggiuntivo degli arcieri a cavallo. Lo Strategikon provvede a specificare i tipi di addestramento richiesti:
Mentre è in sella al cavallo in corsa, deve tirare velocemente una o due frecce, riporre l'arco carico nella sua custodia [tekion], se è larga abbastanza, o in una semicustodia realizzata appositamente, e poi afferrare il giavellotto [kontation] che porta dietro la schiena. Quindi, mantenendo l'arco carico nella sua custodia, deve tenere il giavellotto in mano, rimetterlo velocemente dietro la schiena e afferrare di nuovo l'arco. È bene che i soldati si esercitino in questo modo mentre sono a cavallo.
Gli archi composti, tenuti insieme da collanti prodotti con ossa di animali e tesi con l'uso di tendini essiccati, dovevano essere protetti dalla pioggia in contenitori speciali, abbastanza grandi da accogliere l'arco già teso e piegato per la battaglia, non solo quello smontato. Oggi possiamo ancora vedere delle custodie impermeabili di cuoio lavorato destinate agli archi degli Ottomani, ma gli esemplari bizantini sono andati perduti.
Lo Strategikon raccomanda inoltre «un soprabito [gounnion] o meglio […] un mantello [noberanikion] molto ampio di feltro con larghe maniche […] [da indossare] sopra la cotta di maglia e l'arco» per proteggerlo «in caso di pioggia o di forte umidità». Particolarmente degna di nota è la raccomandazione di alternare in rapida successione il tiro di una o due frecce, l'estrazione della lancia dalla cinghia con cui è appesa alla spalla e il ricollocamento dell'arma, in modo da poter riestrarre l'arco.
Questo è, in qualsiasi epoca, il modo in cui si deve condurre un addestramento che voglia essere utile. In questo caso, dopo la fase iniziale in cui si familiarizza con l'arma in sé, tirando al bersaglio tutte le volte che sia necessario per imparare a mirare con precisione (fare centro, poi, è una questione a parte), il passo successivo è apprendere a usare l'arma in combattimento, quando non è più l'unica che si maneggia, ma è accompagnata da scudi, spade, lance da getto o da affondo. A quel punto, l'obiettivo diviene l'acquisizione della capacità di maneggiare l'equipaggiamento con fluidità, dividendosi rapidamente tra tutte le varie armi, da taglio, da getto, da affondo.
Si trattava di un'arte già coltivata con molta cura nell'esercito romano. C'è una famosa iscrizione, la cui autenticità è stata provata in modo inoppugnabile, che riporta un discorso molto schietto rivolto nell'anno 128 dall'imperatore Adriano agli uomini della Cohors VI Commagenorum (Sesta coorte di Commagene, oggi nella parte sudorientale della Turchia), un reparto misto di fanteria e cavalleria. Gli uomini della coorte avevano appena concluso un'esercitazione di alternanza delle armi in simulazione di combattimento, che, sfortunatamente per loro, veniva proprio dopo l'esibizione virtuosistica di un reparto d'élite di sola cavalleria, l'Ala I Pannoniorum (unità di cavalleria ausiliaria della Pannonia).
È difficile [per un'unità mista] riuscire a piacere veramente, anche quando si esibiscono da soli, ed è anche più difficile riuscire a non spiacere, dopo le prestazioni degli uomini di un'Ala. Il terreno su cui si esibiscono è diverso, il numero dei lanciatori di giavellotto è diverso, i movimenti corretti ed eseguiti in rapida successione, il galoppo cantabrico in ordine chiuso [virtuosismi che l'Ala aveva appena finito di eseguire] mentre l'aspetto e la qualità dei vostri [cavalli], l'addestramento nell'uso delle armi e la loro eleganza corrispondono al [vostro inferiore] livello di paga. Ma la mia disapprovazione voi l'avete evitata, grazie all'ardore [da voi mostrato] nell'eseguire con energia quello che vi era richiesto. Inoltre avete lanciato pietre con le fionde e combattuto con altre armi da lancio […]. L'eccezionale dedizione […] [del vostro comandante] […] Catullino […] risulta chiara dal fatto che uomini come voi [siano ai suoi ordini] […].
Per i Romani, che erano convinti dell'opportunità di annientare i nemici non abbastanza saggi da riconoscere i vantaggi della sottomissione, era la fanteria pesante, con la sua capacità di tirare fendenti, affondare i colpi e stringere d'assedio, l'arma più importante e decisiva.
Di contro, per gran parte della loro storia, e con certezza nel periodo in cui lo Strategikon fu composto, i Bizantini credevano di dover contenere, e non annientare, i loro nemici, potenziali alleati di domani. Perciò per loro era la cavalleria l'arma più importante, perché il suo ingresso in campo non doveva necessariamente essere decisivo, ma poteva anche concludersi con un rapido ripiegamento o con un inseguimento cauto, che non avrebbe creato troppo danni a nessuna delle due parti in lotta. Anche al culmine dell'epoca della cavalleria, però, c'era bisogno della fanteria, leggera o pesante. Lo Strategikon, quindi, offre il suo consiglio per l'addestramento dell'una e dell'altra, riconoscendo che tale argomento era stato a lungo trascurato.
Sotto il titolo «Addestramento individuale del fante [con armamento] pesante» ci sono solo poche parole:
Devono essere addestrati al combattimento individuale l'uno contro l'altro, armati con lo scudo e un bastone [berghios], e al lancio a lunga distanza del giavellotto corto [berutta] e della plumbata [martzobarboulon].
L'autore si dilunga di più in «Addestramento del fante [con armamento] leggero, o dell'arciere»:
Devono essere addestrati a tirare rapidamente con un arco […] sia alla maniera romana che alla persiana; devono essere addestrati a tirare rapidamente mentre portano uno scudo, a lanciare a grande distanza i giavellotti corti e i proiettili della fionda [sfendo boia], a saltare e a correre.
L'equipaggiamento che lo Strategikon assegna a ogni tipo di fanteria ne chiarisce il carattere: con la cotta corazzata, almeno per i primi due uomini di ogni colonna, nella fanteria pesante, in modo che la prima linea e quella immediatamente successiva abbiano una protezione dalle frecce nemiche, come pure dalle armi da taglio, se non dalle mazze o simili; elmi con protezione delle guance per tutti, gambali di ferro o legno a proteggere piedi e gambe sotto il ginocchio e scudi, di tipo non specificato, ma a copertura globale − anche se si fa menzione di scudi più piccoli o «bersagli» In una ricerca moderna, esaustiva anche se non particolarmente approfondita, si trova un lungo elenco di diverse tipologie d'equipaggiamento o forse di termini per indicarli, perché il rapporto delle illustrazioni, con i termini elencati non è sempre chiaro.
Quel che è chiaro è che la funzione della fanteria pesante, a partire da quell'epoca e si può dire sino all'introduzione delle armi da fuoco, era assediare e tenere il campo. Non le si richiedeva una grande agilità, né, nel lancio dei proiettili, una forza superiore al modesto impatto dei ciottoli delle fionde, delle lance da getto, dei giavellotti e dei dardi con punta di piombo.
Nello Strategikon l'elenco delle armi lunghe si apre con quella che in latino si chiama contus e in greco kontos, cioè la lancia pesante, che va impugnata e conficcata, in dotazione alla cavalleria, ma usata anche dalla fanteria per tenere lontana, per esempio, una carica di cavalieri. C'erano molti nomi per le lance leggere da getto, o giavellotti, di origini e modelli diversi: monokontia, zibynnoi, missibilia o il classico akontia," particolarmente importante, qualunque nome gli fosse dato, per gli uomini della fanteria leggera nel caso in cui non potessero usare l'arco.
Nello Strategikon, come in tutti i testi bizantini, la fanteria leggera è soprattutto destinata a colpire con armi da lancio, ed è fornita di faretre che possono contenere sino a quaranta frecce per un arco composto riflesso, anche se viene specificato che «gli uomini sprovvisti di arco o comunque non esperti arcieri», dovrebbero essere forniti di giavellotti piccoli, spade slave (piccole), dardi con la punta di piombo e fionde.
C'era poi un pezzo d'equipaggiamento la cui natura è rimasta molto oscura ed è stata spesso fraintesa: il solenarion, che non era una catapulta di dimensioni ridotte con frecce piccole, come si credeva una volta, ma piuttosto un insieme di «tubi», o piuttosto − per tradurre l'espressione originaria completa: solenarion xylina meta mikron sagitton − di tubi di legno, per sparare piccole frecce. Si tratta di uno di quegli accorgimenti tecnici che servono ad accrescere la tensione delle corde, ossia degli «estensori», come quelli che vengono ancora utilizzati dagli arcieri moderni.
Grazie a essi, le frecce piccole, che hanno la possibilità di volare più lontano di quelle di grandezza normale, vengono inserite in un tubo dotato di una piccola slitta; in questo modo, la corda dell'arco può essere tesa al massimo, anche se la freccia è lunga, per esempio, solo una quarantina di centimetri invece di 140. Conosciute con il nome di myas (mosche), queste frecce in miniatura servono per tiri di disturbo contro il nemico quando questi sia ancora fuori portata per le frecce normali, che comunque sarebbero molto più letali perché penetrano le maglie protettive, cosa che le myas non possono certo fare.
Nello Strategikon il tipo più importante di soldato è senza dubbio il lanciere/arciere a cavallo, e naturalmente il suo equipaggiamento viene esaminato molto dettagliatamente. (L'impossibilità di riuscire ad addestrare tutti all'uso dell'arco composto riflesso, e la prevalenza del tiro appiedato, può aver confuso le idee di quell'eminente studioso che ha ritenuto di dover sentenziare che «quello della combinazione bizantina lanciere/cavallo/arciere è probabilmente soltanto un mito»).
L'autore raccomanda l'impiego di una veste con cappuccio, formata da una corazza protettiva cucita su misura (lorica squamata) o da un'armatura a lamelle intrecciate o da una maglia a catena (lorica hamata) lunga fino alle caviglie il modello più apprezzato per oltre ottocento anni, sino alla diffusione del moschetto. Si doveva anche disporre di appositi contenitori in cuoio impermeabile, perché l'armatura era costosa e si poteva arrugginire. Si specificava inoltre che le borse in vimini per l'armatura del torace dovevano essere tenute dietro la sella, sui fianchi, perché «nel caso di un contrattempo, per cui gli uomini con i cavalli di scorta non siano disponibili per un giorno intero, le cotte di maglia non resteranno prive di protezione e non si rovineranno»
Vengono ricordati gli elmi, le spade, la placche protettive in metallo per il petto e la testa dei cavalli, ma l'attenzione si concentra soprattutto sulle armi fondamentali: «Archi (toxaria) adatti alla propria forza e non più potenti, meglio se più leggeri».
L'arco composto era efficace perché accumulava molta energia da poter rilasciare, ma era anche altrettanto resistente, perciò era opportuno sceglierne uno la cui corda potesse essere portata indietro rapidamente e con sicurezza anche alla trentesima freccia. Si richiede in particolare, come si è già visto, la presenza di contenitori abbastanza ampi per l'arco già montato e pronto per il combattimento, come pure di corde di ricambio, che devono essere tenute nella bisaccia del soldato, e non nei magazzini della sua unità, di faretre con protezione dalla pioggia per trenta o quaranta frecce − oltre a quelle presenti nei depositi del reparto − e di una modica quantità di filo e punteruoli per le riparazioni sul campo.
L'autore specifica come le lance con cinghie e pennoni, le protezioni rotonde per il collo, le altre coperture per collo e petto, le ampie tuniche e le tende − in effetti, piccole capanne rotonde, le yurte fatte in cuoio − debbano essere del «tipo avaro». Gli arcieri bizantini a cavallo, che Procopio aveva messo tanto in risalto mezzo secolo prima, erano modellati sugli Unni; all'epoca in cui fu scritto lo Strategikon l'Impero era stato ripetutamente attaccato dagli Avari, i primi arcieri a cavallo che avessero raggiunto l'Occidente, che portavano con sé l'arco composto come gli Unni, ma anche tutto quello che avevano raccolto lungo la strada dalle due più avanzate civiltà di quel tempo: la Cina, da cui provenivano, e l'Iran, con la cui cultura presero contatto allorché la loro marcia verso occidente li portò alle città commerciali dell'Asia centrale.
A differenza degli Unni, gli Avari furono capaci sin dall'inizio di costruire e manovrare macchine d'assedio assai elaborate, fra cui forse anche il trabucco a trazione che, con la sua potente semplicità, rese obsolete tutte le macchine precedentemente usate per scagliare pietre. Molto probabilmente furono sempre loro a introdurre in Occidente un oggetto famosissimo, che viene citato per la prima volta proprio nello Strategikon: la skala. La parola letteralmente significa «gradino», ma qui è usata per indicare la staffa: «Attaccate alla sella dovrebbero esserci due staffe di ferro». Il termine usato dagli Avari è sconosciuto, e questa è una sfortuna, perché avrebbe potuto chiarire l'origine della staffa, che è un tema oggetto di controversie.
Contrariamente al mito propagandato da storici che non avevano l'abitudine di cavalcare («Senza la staffa, la carica con la lancia in resta non sarebbe stata una manovra possibile»), la staffa non è indispensabile al cavaliere per colpire con la lancia senza essere disarcionato per l'impatto. Se i lancieri non staffati cadevano giù dai loro cavalli non era per mancanza di staffe, perché è con la stretta delle cosce che il cavaliere si sostiene. Risulta alquanto valida, sotto questo profilo, la testimonianza di un cultore moderno dell'arte del torneo, il cui «esame della meccanica del combattimento a urto frontale e lo sviluppo della sua tattica» prova questo punto in modo definitivo.
Inoltre, studi recenti hanno consentito la ricostruzione delle selle della cavalleria romana: la loro peculiare conformazione consentirebbe a dei cavalieri esperti di restare ben saldi sul cavallo anche dopo aver assorbito l'urto del colpo di una lancia, o quando ci si debba girare di spalle per brandire la spada. Queste selle, che hanno un robusto telaio in legno coperto di cuoio, presentano un pomo fissato su ciascuno dei quattro angoli, contribuendo così ad ancorare il cavaliere in tutte le direzioni. Si è persino tentato di riprodurre questo modello, per mostrarne la funzionalità anche in assenza di staffa. Non c'è alcuna prova del fatto che i cavalieri bizantini utilizzassero selle dello stesso tipo, ma non sembra probabile che un modello così valido fosse stato dimenticato.
Sia i Romani sia i loro nemici, primi tra tutti i cavalieri sarmati difesi dalle armature a scaglie, come del resto le grandi potenze che successivamente si formarono in Iran, la Partia arsacide e la Persia sassanide, disponevano di cavalleria pesante, cioè di cavalleria addestrata a caricare. A tutti gli effetti, quindi, disponevano di cavalleria pesante molto prima dell'avvento della staffa: usavano lo spesso cuoio bollito, la cotta di ferro intrecciato e l'armatura lamellare o a piastre, simile a quella dei cavalieri medievali, ma solo a prima vista, perché questi ultimi raramente avevano un'armatura completa. Certo, l'arma usata nella carica da Romani, Sarmati, Parti e Persiani − e in effetti da tutti quelli che erano soliti caricare i loro nemici in un vero combattimento − era la lancia che si affonda impugnandola con forza (kontos), usata anche dai lancieri della cavalleria europea del XVIII e XIX secolo, non la pesantissima asta d'urto dei tornei medievali, o delle rievocazioni cinematografiche.
Quando li incontrarono per la prima volta, nel rovente calore estivo della Mesopotamia, i Romani derisero i cavalieri persiani per le lamine della loro armatura, chiamandoli clibanarii, da cliba, il forno in cui si cuoce il pane. E tuttavia poi finirono per imitare questa corazza, estremamente costosa e sfibrante per le truppe (specialmente col caldo), per il semplice motivo che, sul terreno adatto, può consentire l'acquisizione progressiva di una condizione di predominio mediante il susseguirsi di cariche brevi e feroci. La Notitia dignitaturn del V secolo elenca dieci unità, alcune delle quali manifestano già nel nome l'origine orientale: equites primi clibanarii Parthi (primo cavalleggeri partico corazzato) in riferimento alla Partia arsacide; equites secundi clibanarii Parthi e equites quarti clibanarii, per la seconda e quarta unità; equites Persae clibanarii (cavalleria corazzata persiana); cuneus equitum secundorum clibaniorum Palminerorum (secondo squadrone di cavalleria corazzata di Palmira). Altri reparti venivano identificati solo dalla loro specificità: equites clibanarii (cavalleria con corazza a lamine), equites promoti clibanarii (cavalleria corazzata selezionata) ed equites sagittarii clibanarii (arcieri a cavallo con armatura a lamine).
Anche in questo caso, come si è già osservato, non ci si può attendere dalla Notitia dignitatum un inventario preciso delle forze combattenti romane − in qualsiasi momento venisse redatta includeva probabilmente unità non più esistenti, che però continuavano a essere presenti su libri paga non corretti, mentre ne escludeva altre di recente formazione, non ancora registrate nella capitale. Inoltre, le unità militari tendono a conservare il loro vecchio nome anche quando il loro carattere è mutato; i reggimenti di cavalleria corazzata dell'esercito americano contemporaneo non hanno cavalli, mentre quelli di fanteria dispongono di molti carri armati. Non c'è quindi alcun modo per stabilire quale fosse la natura effettiva delle unità di clibanarii presenti nell'elenco quando la parte della Notitia in cui compaiono venne compilata, ma difficilmente sarebbero state battezzate con quel nome al loro costituirsi, se non avessero davvero indossato corazze formate da lamine.
C'era anche un'altra categoria di cavalleria pesante elencata nella Notitia, destinata a durare molto più a lungo: i catafractarii (in greco kataphraktoi, da kataphrasso, «coprire»). Anch'essi erano ben protetti per il combattimento corpo a corpo, e anch'essi venivano addestrati a caricare con la lancia, ma originariamente non erano così pesantemente corazzati come i clibanarii. Invece dell'armatura più pesante, a lamelle o a lamine, avevano una protezione con cucitura a scaglie o un manto di cotta in maglia come quelli citati dallo Strategikon, oppure un corpetto di cuoio bollito o strisce di tessuto grosso e spesso che, se strettamente intrecciate, potevano poi essere cucite e annodate in strati diversi, funzionando come una sorta di proto-Kevlar.
Nella Notitia dignitatum vengono elencate nove unità di questo tipo, tra cui una che risale probabilmente al III secolo, l'Ala prima Iovia catafractariorum (prima «ala» della cavalleria corazzata di Giove), della Tebaide nell'Egitto meridionale, mentre le altre sono semplicemente presentate con la parola equites, che nel gergo moderno equivale a reparto o squadrone di cavalleria, con le sole eccezioni di un cuneus («cuneo») equitum catafractariorum e di un'unità identificata dal nome del suo comandante. Praefectus equitum catafractariorum, Morbio, in Britannia. È probabile che, come spesso accade alle formazioni militari, con il passare del tempo le distinzioni tra i due tipi di cavalleria corazzata abbiano finito per stemperarsi e scomparire, anche se le vecchie denominazioni continuavano a persistere.
Pare dunque evidente che l'importanza storica della staffa sia stata enormemente esagerata, soprattutto da Lynn Whyte Jr., che tentò di tenere in piedi la nuova teoria di un grande cambiamento sociale su una così ristretta base d'appoggio, se è consentita la battuta. Ma è certamente vero che la staffa incrementò il valore della cavalleria rispetto alle altre armi, così come facilitò tutte le forme del cavalcare. Uomini carichi di un'armatura pesante, e quindi impossibilitati a balzare sul proprio destriero come era prescritto nell'addestramento romano, potevano però montare in arcione agevolmente, facendo perno su questo primo gradino. Nel combattimento, la staffa aumentava notevolmente la stabilità sui fianchi, quando si brandiva la spada e la mazza o si caricava con la lancia in resta.
Ancora più importante è il fatto che la staffa consentisse ad arcieri a cavallo sufficientemente abili di mantenersi dritti e ben equilibrati, che l'animale andasse al trotto, a piccolo galoppo o addirittura a galoppo lanciato, permettendo quindi di scagliare senza scosse le frecce, a beneficio della precisione.
Nello Strategikon non si fa menzione dei clibanarii con armatura a lamine, mentre i catafractarii erano ormai divenuti i primi tra i lancieri-arcieri forniti di una protezione a scaglie o a maglia. Nella Notitia dignitatum non si fa cenno ai catafractarii sagittarii, che sarebbero stati i loro veri predecessori.
Oltre ai fanti leggeri, con le loro armi da lancio, e la fanteria pesante, deputata a tenere il campo e a prenderne possesso, lo Strategikon ricorda altre tre categorie di soldati.
I primi sono i bucellarii, «mangia-biscotti» o «mangia-gallette», dal nome del pane disidratato con duplice cottura che veniva fornito agli equipaggi delle navi in mare e ai soldati in guerra. Originariamente costoro venivano raccolti e pagati privatamente dai comandanti, come loro guardia personale e forza d'assalto, ma in seguito si devono essere evidentemente trasformati in una forze d'élite a carico dello stato, come dimostra la particolare attenzione dedicata al loro aspetto.
È bene che i bucellarii facciano uso di guanti di ferro [cheiromanikia] e di piccole piume che pendono dai finimenti anteriori e posteriori dei cavalli, così come di piccoli pennoncelli che pendono dalle proprie spalle sulla cotta di maglia. Più di bell'aspetto è infatti l'armamento di un soldato, più fiducia egli guadagna in sé stesso, e maggior timore incute al nemico.
Un'indicazione, questa, che sarebbe stata ugualmente valida anche per altre categorie di soldati: il fatto che venga fatta solo per i bucellarii è indicativa del loro status. Questi ultimi si sarebbero presto trasformati in un corpo territoriale dell'esercito, cui in seguito venne assegnato un distretto militare fisso, o thema, da amministrare e difendere, quando, verso la fine del VII secolo, quella che era nata come soluzione d'emergenza, dettata da una situazione di sconfitta e ritirata, divenne un sistema amministrativo stabile. Il thema Boukellarion compare, come di dovere, nell'indagine del X secolo di Costantino il Porfirogenito nota come De Thematibus».
La seconda categoria di truppe, menzionate in quanto tali o semplicemente come «stranieri», erano i federati, cioè truppe acquisite con un «trattato» (foedus), fornite all'Impero nella forma di unità complete dai loro stessi capi, troppo poveri per pagare le tasse, o troppo forti per essere tassati; più avanti il termine si poteva riferire anche semplicemente a truppe che prestavano servizio sotto contratto.
A differenza dei mercenari odierni, forniti da operatori che lavorano nel settore della sicurezza e sono spesso più costosi dei soldati, anche di quelli ben pagati, le unità dei fwderati erano molto meno care di reparti numericamente equivalenti delle truppe legionarie, perché i cittadini-soldati delle legioni ricevevano un buon salario, avevano baracche ben costruite, un'accurata assistenza medica e una buonuscita sostanziosa al termine del servizio. Il resto dell'esercito del Principato, all'incirca la metà, era più economico, perché consisteva di truppe ausiliarie di non-cittadini mal pagati, che servivano sotto ufficiali romani − erano loro a fornire quasi tutta la cavalleria a quello che comunque restava un esercito basato sulla fanteria. I fcederati che non avevano ufficiali romani erano poi anche meno costosi. Senza dubbio questa è la ragione per cui continuarono a servire nelle forze bizantine sino alla fine, molto spesso in qualità di truppe leggere che potevano anche essere sacrificate, come nel caso dei «lanciatori di giavellotto, sia Rhos [come abbiamo visto, i primi russi] sia qualsivoglia altro straniero» di cui parlano i Praecepta militaria, un'opera del X secolo.
Capita che a volte costoro si distinguessero per la loro abilità e il loro valore, come accadde con gli Onoguri (Unni) che combatterono in Italia per Belisario; meno frequentemente, veniva loro attribuita la responsabilità d'una sconfitta o li si accusava di aver tradito sul campo di battaglia, specialmente quando il nemico apparteneva a un gruppo etnico affine. Proprio questa è una delle cause ipotizzate per l'importante sconfitta strategica sofferta da Romano IV Diogene a Manzicerta, venerdì 26 agosto 1071: alcuni dei suoi mercenari appartenevano alla stessa etnia turca Oguz nei suoi nemici selgiuchidi e, a quanto si narra, passarono con gli avversari. Nello Strategikon si raccomanda una speci fica precauzione, nella sezione «Affinità col nemico»:
Le truppe appartenenti alla stessa etnia del nemico devono essere separate dall'esercito molto tempo prima della battaglia e mandate altrove, per evitare che possano passare al nemico in un momento critico.
Infine, lo Strategikon fa riferimento ad alcuni tipi di milizia cittadina, o almeno alla preparazione generale necessaria per prestarvi servizio:
Tutti i Romani al di sotto dei quaranta anni, ad eccezione dei barbari, devono obbligatoriamente portare arco e faretra, indipendentemente dalla loro abilità nel tirare con l'arco. Devono poi avere due giavellotti, per averne uno di riserva nel caso che il primo manchi il colpo. Gli uomini meno esperti devono usare archi più leggeri; e, se non sanno tirare, col tempo devono sforzarsi di imparare, com'è necessario che sia.
Se si pensa a tutte le incursioni compiute in territorio imperiale al fine di raggiungere Costantinopoli si può comprendere il motivo per cui l'autore dello Strategikon fosse favorevole a un addestramento militare generalizzato, in modo che tutti gli uomini in buone condizioni fisiche potessero difendere la loro città, aggiungendosi ai professionisti delle forze imperiali. Questa stessa raccomandazione torna anche in testi successivi. Veniamo per esempio informati del valoroso ruolo della polazione di Edessa (anliurfa, Urfa) nel respingere i Persiani sassanidi nel 544:
Allora quelli che erano in età da portare armi insieme con i soldati stavano respingendo il nemico col massimo vigore e molti dei rustici [akgroinkon palmi diedero un notevole spettacolo di atti valorosi contro i barbari.
La legge romana e quella bizantina, però, proibivano qualsiasi uso privato delle armi, mentre le milizie organizzate raramente incontravano la riprovazione delle autorità bizantine. Questo non è sorprendente. Il contributo potenziale ed episodico che esse potevano fornire, in caso di incursioni nemiche che raggiungessero proprio la loro particolare zona nell'Impero, non riusciva minimamente a bilanciare il danno politico che creavano alle autorità imperiali sul posto e, in effetti, anche alla stabilità dell'Impero. L'opera di governo delle autorità imperiali non era arbitraria, perché regolata dalle leggi, ma non era neppure consensuale. La premessa politica di una milizia è che i suoi cittadini-soldati debbano necessariamente servire il governo con lealtà, poiché esso li rappresenta come cittadini-elettori, e se non lo fa, lo farà subito dopo la conclusione delle elezioni seguenti.
Ovviamente questo non si poteva applicare a un'autocrazia imperiale, pur benigna − e nessuna lo fu mai in misura superiore a quella di Traiano (98-117), almeno secondo il suo ammirato funzionario Plinius Caecilius Secundus, il nostro Plinio il Giovane, governatore imperiale (legatus propraetore consulari potestate) dell'importante provincia di Bitinia-Ponto, nell'estremità occidentale dell'Anatolia. In una lettera a Traiano, Plinio riferiva di un incendio molto esteso a Nicomedia [la moderna Izmit] che ha distrutto molte case e […] due edifici pubblici. Lo alimentava il forte vento […] ma […] non si sarebbe esteso tanto se non fosse stato per l'apatia della plebaglia […]. Vuoi tu […] signore, considerare se pensi che si possa formare una compagnia di [volontari] pompieri, limitata a 150 membri? Sorveglierò personalmente a che nessuno vi venga ammesso che non sia autenticamente un pompiere [… non sarà difficile tenere un numero così ridotto sotto controllo.
Come si conveniva a un funzionario imperiale dotato d'esperienza, Plinio si stava muovendo con opportuna cautela, anche se difficilmente 150 uomini potevano minacciare l'Impero. Ma Traiano non lo trovava cauto abbastanza.
Va molto bene che tu abbia avuto l'idea che dovrebbe essere possibile formare una compagnia di pompieri a Nicomedia […] ma noi abbiamo il dovere di ricordare che sono società come queste che sono state responsabili dei disturbi politici nella tua provincia. Se la gente si raccoglie per una causa comune, quale che sia il nome che gli diamo e quale che sia la loro ragione, queste presto si trasformano in hetariae [associazioni politiche]. miglior politica allora fornire l'equipaggiamento e istruire chi possegga dei beni a farne uso.
Con questa eccezione, l'autore è coerentemente realistico, nelle raccomandazioni sull'addestramento individuale, come in quelle sulla tattica e i metodi operativi.