5 Gli usi del prestigio imperiale
La città di Costantinopoli, con le sue attrattive spirituali e terrene, era di per sé un potente strumento di persuasione, a eccezione forse del drammatico periodo fra VII e VIII secolo, quando una serie di assedi, epidemie di peste e il violento terremoto del 740 la ridussero all'ombra di se stessa. Nonostante questi duri colpi, l'antica Bisanzio restava la metropoli più grande nella sfera della civiltà europea, così come quest'ultima si era configurata dopo il declino della popolazione di Roma del V secolo.
Era anche di gran lunga la città più suggestiva, con la sua spettacolare posizione su un promontorio proteso su uno stretto di mare e le schiere di maestosi palazzi e chiese (oggi guastate da orribili costruzioni). I visitatori ufficiali venivano guidati nei loro spostamenti in città, affinché fossero debitamente intimoriti dai monumenti più imponenti e, a volte, dalla visione di soldati bene equipaggiati in parata.
L'orgoglio dei Bizantini per la loro capitale era un sentimento del tutto comprensibile, ma ciò che più contava, per la loro diplomazia, era il suo impatto sugli stranieri in visita; un impatto fortissimo, perché per la maggior parte essi provenivano da un mondo di capanne, tende o yurte. Al riguardo disponiamo di una rara testimonianza relativa al tardo IV secolo, ossia ancor prima che Giustiniano facesse erigere la stupefacente Hagia Sophia e altri splendidi edifici per impressionare i futuri visitatori. Giordane riferisce così le reazioni di Atanarico, re dei Visigoti, di fronte alla capitale bizantina:
Mediante donativi e con le sue maniere piene di bontà, si legò anche il re Atanarico, il successore di Fridigerno, e lo invitò a rendergli visita in Costantinopoli. Atanarico accettò ben volentieri l'invito e, come entrava nella capitale, trascinato dall'entusiasmo:
«Vedo», gridò, «ciò di cui ho tanto sentito parlare senza crederlo: lo splendore di quest'immensa città».
E, in un instancabile guardarsi attorno, contemplava con attonita meraviglia la disposizione degli edifici, il traffico dei bastimenti, quelle mura famose, quei popoli di diverse contrade come un'acqua che, per varie ramificazioni, scaturisse poi da un'unica sorgente. Ma quando vide i soldati in ordine di battaglia:
«Non è possibile dubitare», esclamò, «che l'imperatore sia un dio di questa terra. E chiunque avrà alzato la mano contro di lui, dovrà espiare tale gesto con il suo sangue».
Questo era esattamente l'effetto voluto, e il testo di Giordane − ritenuto il riassunto di un'opera storica perduta di Cassiodoro, che fu al servizio del re goto Teodorico − ricorda che anche dopo la morte di Atanarico il suo intero esercito continuò a prestare servizio nell'Impero, «costituendo un unico corpo con l'esercito imperiale».
Bastano i nomi a dimostrare quanto il prestigio della città fosse grande ed esteso. Per gli Slavi, confinanti in quelle che oggi sono la Bulgaria e la Macedonia, e fino in Russia, Costantinopoli era Tsargrad, la «città dell'imperatore», la capitale del mondo, se non addirittura l'avamposto di Dio sulla Terra. Nella distante Scandinavia e nella più remota Islanda era Miklagard, Mikligardr o Micklegarth, «la grande città» ammirata nelle saghe.
Lo stesso imperatore era al centro di elaborati rituali di corte eseguiti da funzionari in lunghi abiti scintillanti, per fare colpo sugli inviati stranieri giunti a palazzo. Come se ciò non bastasse, per un certo periodo si fece ricorso anche a un macchinario idraulico che sollevava il trono imperiale all'avvicinarsi dei visitatori e attivava dei leoni che ruggivano e battevano la coda, incutendo ulteriore timore reverenziale. Tutto questo era ben più che una puerile messinscena: richiedeva una notevole preparazione e un'accurata regia nelle trattative degli imperatori bizantini con i rappresentanti delle innumerevoli potenze, nazioni e tribù incontrati nel corso dei secoli, compresi i non-cristiani e gli scismatici. Gli sforzi per impressionare, intimidire, reclutare e sedurre con il fascino del potere e il prestigio della corte imperiale erano costanti e oggetto di attenta valutazione. Occorre aggiungere che, a differenza delle truppe o dell'oro, il prestigio non si consuma con l'uso, e questo era di fondamentale importanza per i Bizantini, sempre alla ricerca di sistemi per esercitare il potere senza disperdere risorse economiche.
Ma la corte non era soltanto uno strumento di persuasione: costituiva l'unico centro di potere politico, legislativo e amministrativo; era la sede del Tesoro, da cui l'oro fluiva verso i funzionari civili e militari dell'imperatore, nonché verso alleati stranieri, clienti, ausiliari e a volte semplici ricattatori; il palazzo era teatro di un'infinita serie di cerimonie pubbliche e private − a cui davano lustro i dignitari schierati con gli abiti che esprimevano il loro alto rango − ed era la meta ideale dei giovani ambiziosi che affluivano da ogni provincia dell'Impero con la speranza di fare carriera (alcuni di essi venivano castrati per andare a unirsi agli eunuchi del palazzo). A volte la corte era anche luogo di ritrovo per pittori, letterati e studiosi, ma restava soprattutto la sede dell'imperatore stesso, sacro ai cristiani ortodossi in quanto rappresentante secolare di Dio sulla Terra, nonché l'uomo più importante del mondo per molti non cristiani.
Per i sovrani e i capi in visita che avevano conosciuto soltanto i rudi piaceri e i modi brutali di capanne in legno, yurte o rozze fortezze, i palazzi bizantini e la corte, con le loro solenni udienze, processioni e cerimonie, dovevano risultare estremamente impressionanti. Resoconti dettagliati su come venissero ricevuti i potenti stranieri sono contenuti nel De Cerimoniis − una preziosa compilazione di cerimoniali di corte attribuita all'imperatore Costantino VII il Porfirogenito.
Di particolare interesse è il ricevimento degli inviati musulmani nel 946. Costoro avevano visto non solo capanne e tende ma anche la monumentale moschea omayyade di Damasco, lo squisito Duomo della Roccia di Gerusalemme, in puro stile bizantino, e la corte di Bagdad: metterli in soggezione non era affatto facile. Venivano a nome del califfo abbaside, che era ancora ritenuto il capo dell'intero Islam. Ma in realtà all'epoca il califfato era indebolito e gli inviati giunti nel maggio e nell'agosto del 946 a discutere di tregue e scambio di prigionieri rappresentavano potenze meno universali, per quanto effettive, come i signorotti di frontiera e i governanti regionali. Fra essi vi erano l'emiro di Tarso in Cilicia (vicino all'odierna città turca Mersin), lungo la frontiera sud-orientale dell'Impero, i cui inviti al jihad (la guerra santa) godevano di ampio ascolto in tutto il mondo musulmano; il suo rivale, anch'esso jihadista, l'emiro di Amida, città sulla frontiera centro-orientale dell'Impero (Diyarbakir nella Turchia moderna, Amed in curdo); e l'ancor più potente Ali ibn Buya, della dinastia dei Buyidi o Buwayhidi Buya), un potentato militare sciita il cui nucleo originario era situato nell'attuale Iran, che aveva appena assunto il controllo di Bagdad grazie soprattutto ai coriacei fanti montanari del suo seguace Daylami; e Abu al-Hasan ibn Hamdan, della setta ultraortodossa nusayri o alawita, meglio noto con il soprannome di Sayf al-Dawla, «spada della dinastia», ovvero del califfato, ma in effetti fondatore di un proprio potere hamdanide (cioè della dinastia araba degli Hamdanidi) in Siria, la cui sconfitta finale segnò la ripresa delle fortune bizantine durante il X secolo. (Quest'ultimo rimane famoso nel mondo arabo, ma per lo più come protettore del geniale, irriverente e battagliero poeta Abou-t-Tayyib Ahmad ibn al-Husayn, meglio noto come al-Mutanabbi, il sedicente profeta.).
Dal De Cerimoniis apprendiamo quanto elaborati furono i preparativi per accogliere questi illustri inviati arabi. La mobilia e le decorazioni esistenti a palazzo, magnifiche per gli altri visitatori, vennero considerate insufficienti, e perciò da chiese e monasteri vennero presi a prestito corone, candelieri d'argento, un platano d'oro incrostato di perle, ricami, paramenti e altri ornamenti, mentre Hagia Sophia e la grande chiesa degli Apostoli contribuirono con i loro celebri coristi. Nemmeno questo fu ritenuto abbastanza, perciò l'eparco (il prefetto della città) procurò ulteriori ornamenti da antiche dimore, alloggi per viaggiatori d'alto rango, altre chiese e botteghe di argentieri; sempre a lui fu conferito anche l'incarico di sovrintendere alla decorazione del percorso che gli ospiti avrebbero seguito attraverso la città e l'ippodromo.
Quando giunse il momento, ai lati della scalinata che conduceva a palazzo c'erano file di stendardi imperiali; i capi rematori sostenevano due vessilli e il comandante della guardia di palazzo (Hetaireia) reggeva lo stendardo personale dell'imperatore in seta ricamata d'oro. All'interno scettri romani, dittici e insegne militari erano disposti ai due lati del trono, mentre all'organo imperiale d'oro erano stati affiancati gli organi d'argento delle due fazioni del circo, gli Azzurri e i Verdi. Il giardino fu adornato con drappeggi di seta e ovunque vi erano stoffe preziose, smalti, argenterie, tappeti persiani, corone d'alloro e fiori. I pavimenti erano cosparsi di foglie d'alloro, edera, mirto e rosmarino, mentre petali di rosa ricoprivano quello della sala principale dei ricevimenti.
Il grado di magnificenza dei costumi dei funzionari di corte era determinato rigidamente dal loro grado, ma questa volta anche funzionari minori ricevettero i manti risplendenti delle cariche più alte, e perfino i più umili servitori di palazzo − come gli inservienti delle terme, i cosiddetti «insaponatori» (saponistai) − erano abbigliati in modo particolarmente elegante.
L'imperatore Costantino VII il Porfirogenito non delegò ai suoi funzionari queste incombenze: volle intervenire di persona per fornire abiti sontuosi anche agli inviati musulmani, con collane incastonate di «pietre preziose ed enormi perle»:
È contro le regole per chi non è un eunuco […] indossare collane come queste, sia con perle sia con pietre preziose, tuttavia, soltanto per questa eccezionale occasione, essi ricevettero l'ordine di farlo da Costantino, il signore devoto a Cristo?
L'episodio si presta a due opposte interpretazioni: la prima sottolinea la nota passione antiquaria di Costantino, che l'avrebbe indotto a indulgere in vani ritualismi. La seconda pensa invece a una mossa psicologicamente calcolata per onorare gli inviati musulmani al pari dei dignitari bizantini, coinvolgendoli nella splendida celebrazione invece di isolarli e metterli in imbarazzo con un'eccessiva manifestazione di sfarzo. Dev'esserci una parte di verità in entrambe le ipotesi, soprattutto se si pensa a quanto accadde dopo il primo grande ricevimento: trascorsero molti giorni senza alcun negoziato. Vi fu invece un banchetto allietato dai due cori, con musiche d'organo ad annunciare l'arrivo delle portate. Quando gli inviati si alzarono, ricevettero doni d'oro di ogni genere e somme di denaro per il loro seguito.
Più tardi gli inviati vennero intrattenuti all'ippodromo con una speciale rappresentazione: la festività della Trasfigurazione. Il giorno dopo ci fu un altro banchetto accompagnato da uno spettacolo. All'epoca, ai banchetti imperiali della domenica di Pasqua e di Natale era prevista la presenza di diciotto prigionieri musulmani, senza dubbio con intenzioni simboliche di proselitismo. A seconda dei diversi momenti storici, questi prigionieri venivano giustiziati, mutilati, torturati, oppure tenuti in buone condizioni in modo da poter essere scambiati. Apparentemente vi fu un'evoluzione verso un trattamento migliore, per quanto nel 995 il teologo mutazilita Abd al-Jabbar bin Ahmad al-Hamadhani al-Asadabadi (morto nel 1025) scrivesse:
Durante i primi anni dell'Islam, quando questo era forte e i Bizantini erano deboli, costoro erano soliti rispettare i loro prigionieri di guerra, per poterli scambiare […]. Ma [in seguito, quando rinsaldarono il proprio potere] disprezzavano i musulmani, sostenendo che il ruolo dell'Islam aveva cessato di esistere […].
Questa era una vera e propria esagerazione. Lo spostamento dell'equilibrio di potere a favore dei Bizantini durante il X secolo fu una questione graduale, mentre gli scambi di prigionieri (fida) erano cominciati al tempo degli Omayyadi, attorno all'805. Quanto all'usanza di consentire ad alcuni prigionieri di partecipare ai banchetti, se ne parla per la prima volta nel Kletorologion di Filoteo, un trattato scritto attorno all'899. • Ce n'erano quaranta al banchetto in onore dei due inviati dell'emiro di Tarso mentre erano in corso trattative per uno scambio di prigionieri. Anche stavolta vennero distribuiti dei doni dopo il convito: 500 miliaresi d'argento da 2,25 grammi per ciascuno degli inviati; 3000 per il loro seguito, 1000 per i quaranta prigionieri e gli invitati, e una somma fu consegnata anche agli altri prigionieri che non avevano preso parte al banchetto. Questi doni non avevano un valore complessivo molto elevato, ma contribuivano a instillare l'idea che fosse più piacevole e vantaggioso negoziare con l'imperatore che combatterlo. Inoltre, il prestigio dei Bizantini veniva accresciuto dalla vasta circolazione dei racconti degli inviati, molto impressionati. Per gli inviati musulmani del 946 era ovvio che soltanto ulteriori trattative avrebbero consentito loro di accedere nuovamente alla corte con i relativi doni e banchetti.
Dopo aver visto e sperimentato la vita di corte, ben pochi la abbandonavano senza essersi prima assicurati il diritto a tornarvi. Le attrattive erano numerose: divertimenti, comodità, banchetti, declamazioni letterarie, dame dell'alta aristocrazia, pettegolezzi, colloqui politici, conversazioni brillanti e voci di corridoio da cui si poteva dedurre cosa sarebbe accaduto da un capo all'altro dell'Impero.
Soprattutto, c'era la presenza immanente del potere, alla cui magnetica attrazione nessuno è davvero immune e che viene derisa soltanto da chi non ha alcuna possibilità di accedervi. Nella Washington odierna, persone capaci sono disposte ad accettare incarichi scarsamente retribuiti pur di lavorare nell'ufficio esecutivo del presidente, che probabilmente riusciranno a vedere di persona non più di una volta all'anno. Cosi come nella loro ricerca di un incarico, anche affermati professionisti fanno omaggio dei loro servizi ai candidati alla presidenza durante le loro interminabili campagne elettorali. Alla corte di Costantinopoli l'attrazione del potere era molto maggiore, perché si trattava di un potere non limitato da leggi, regolamenti, correttivi esterni, interventi parlamentari o riesami giudiziari. L'imperatore era libero di ordinare la castrazione, far accecare e decapitare, fornire assistenza, destinare a qualunque incarico o rimuovere ed esiliare; poteva offrire doni preziosi oppure confiscare beni, assegnare a chicchessia una ricca tenuta oppure privarlo di ogni proprietà. Da un punto di vista individuale, questo potere era infinitamente più grande di quello di qualsiasi presidente degli Stati Uniti, e condizionava costantemente e a ogni livello la vita di corte.
Postulanti provenienti da ogni regione dell'Impero, e anche da oltre i suoi confini, facevano quindi grandi sforzi per avere accesso alla corte: comandanti e principi venivano a chiedere appoggio contro i loro nemici interni o esterni, oppure si facevano avanti per essere ammessi alle cerimonie ufficiali, mentre altri arrivavano in cerca di titoli e incarichi con i relativi emolumenti. In cambio, offrivano di tutto: alleanze militari, la temporanea cessione delle proprie truppe, uomini per il corpo della guardia imperiale, o semplicemente la loro fedeltà personale e la disponibilità a servire l'imperatore come soldati. Fu in questo modo che l'imperatore Giustino I, zio e protettore di Giustiniano, iniziò la propria carriera, se possiamo fidarci del racconto di Procopio, uno storico che ha la tendenza a denigrare Giustiniano per le sue umili origini:
Al tempo che Leone reggeva il sommo potere in Bisanzio, tre giovani contadini, di stirpe illirica − Zimarco Ditybistes e Giustino di [Bederianal, in continua lotta contro le ristrettezze domestiche − pur di liberarsene, decisero di arruolarsi nell'esercito. […] L'imperatore li destinò alla guardia palatina: avevano tutti e tre un fisico notevole.
A causa del loro luogo d'origine − il lontano villaggio di Taurisio alle spalle della fortezza di Bederiana, nei pressi dall'odierna Skopje, capitale della Macedonia −, i tre vengono presentati da Procopio ai suoi lettori come contadini miserabili e barbari (Zimarco e Ditybisto sono effettivamente nomi traci); tuttavia Giustino parlava latino, quanto meno il latino semplificato noto a Bederiana.
Molti altri stranieri giunsero nella capitale per entrare nella guardia imperiale e combattere per l'Impero, e non solo giovani contadini in cerca di un futuro migliore come Giustino: l'oro che si poteva guadagnare alla corte imperiale era di certo un potente incentivo anche per gli ufficiali di alto rango. A questo proposito bisogna rilevare che prima della scoperta, in età moderna, dei vasti giacimenti aurei in America, Siberia, Transvaal e Australia, l'oro era in complesso più raro di quanto non lo sia oggi, e di conseguenza molto più prezioso rispetto ad altri beni. Soltanto l'imperatore a Costantinopoli poteva contare su una fornitura aurea stabile derivante dalla circolazione dell'oro, raccolto poi come pagamento delle imposte e distribuito sotto forma di salari e stipendi, i quali generavano le rendite economiche che a loro volta venivano tassate.
Anche le monete dell'Impero erano in sé una fonte di prestigio. Dalla sua introduzione a opera di Costantino (306-337) fino alla svalutazione sotto Romano III Argiro (1028-1034), il solidus (la moneta d'oro da cui deriva il termine «soldato») e la futura nomisma, grazie alla sua stabilità era la valuta preferita dai commercianti anche molto fuori dei confini imperiali. Per l'autore della Saga di Harald Hardrdde, raccolta da Snorri Sturluson (1179-1242) per la sua cronaca dei re di Norvegia oggi nota come Heimskringla, era sufficiente vedere delle monete per riconoscerne la provenienza. Nel seguente episodio due re locali si contendono la supremazia mostrando la loro ricchezza in oro:
Allora Harald fece stendere una grande pelle di bue e vi rovesciò sopra l'oro di alcuni forzieri. Poi furono portate bilance e pesi e l'oro venne separato e diviso in parti uguali in base al peso e tutti i presenti si meravigliarono che tanto oro fosse stato raccolto in una sola località nelle nazioni settentrionali. Ma si capiva che era proprietà dell'imperatore greco, perché, come dicono tutti, laggiù ci sono intere case piene d'oro. I due sovrani erano a questo punto molto allegri. Poi fu notato un lingotto grande quanto la mano d'un uomo. Harald lo prese e chiese: «Dov'è l'oro che puoi presentare contro questo, amico Magnus?». E tutto quello che il re Magnus riusci a presentare fu un anello.
Ai fini del nostro discorso questo aneddoto è molto significativo, anche nell'ipotesi che l'episodio non sia mai avvenuto (per quale motivo Magnus doveva scendere in gara se aveva soltanto un anello da mostrare?), dal momento che Harald, figlio di Sigurd, soprannominato Hardràde (duro regnante), è una figura storica reale che di certo trovò fortuna a Bisanzio. Nato in Norvegia nel 1015, morì 51 anni dopo in quella che oggi è la Grande Londra durante un fallito tentativo di conquistare l'Inghilterra. Nel frattempo Harald aveva vissuto a Kiev come capitano sotto il principe Jaroslav, aveva prestato servizio come ufficiale della guardia varangiana a Costantinopoli, ed era infine tornato per rivendicare il trono di Norvegia, dopo una breve prigionia in Francia: arrestato come sospetto predone a causa della gran quantità d'oro che trasportava, fu rilasciato quando da Costantinopoli giunse una lettera a confermare che l'oro era la sua indennità di smobilitazione.
Gli stranieri attaccavano sovente la capitale nella speranza di impadronirsi di piccole quantità del prezioso metallo, o, altrettanto spesso, prestavano servizio per l'Impero allo scopo di guadagnarne. Ma c'era anche un altro incentivo: la possibilità di acquisire i prestigiosi titoli imperiali, alcuni dei quali erano retribuiti annualmente in oro e preziose vesti ufficiali, con o senza l'obbligo di prestare servizio civile o militare.'? La brama di potere da parte dei notabili stranieri viene discussa nel De administrando Imperio. Il testo, altrimenti pieno di buoni consigli su come trattare con potenze straniere, al riguardo si mostra deliberatamente fuorviante e puerile:
Qualora essi − siano Kazari o Turchi o ancora Russi, Sciti o di altre nazioni settentrionali − richiedano e pretendano, come spesso avviene, che vengano loro forniti vesti imperiali o diademi o paramenti ufficiali, in cambio di qualche servizio che abbiano prestato, allora dovresti così scusarti.
Segue una noiosa dissertazione sul fatto che Dio stesso avrebbe inviato i paramenti ufficiali e i diademi a uso esclusivo dell'imperatore nei giorni festivi, per cui non sarebbe possibile cederli. Ma è proprio quel «come spesso avviene» a tradire l'autore: i titoli, e le vesti abbinate, venivano di norma concessi a Sciti e rappresentanti delle «nazioni settentrionali» per i servizi resi, mentre gli abiti personali dell'imperatore non erano né richiesti né concessi.
Stiamo parlando di cariche stipendiate senza doveri, cedute in cambio di denaro o altri beni che costituivano doni particolarmente adatti a sdebitarsi con gli, stranieri. Perfino i titoli che non comportavano posizioni né onorari né insegne erano molto richiesti, perché significavano comunque un riconoscimento imperiale e un'implicita promessa a un accesso continuato alla corte, con i suoi banchetti, cerimonie e intrattenimenti. Per esempio, il rango di patricius, in passato riservato alle famiglie più antiche della Prima Roma, nel VII secolo poteva essere assegnato a stranieri di riguardo. Ma una sola carica onorifica non bastava a soddisfare l'ambizione e la sete di potere dei notabili dell'epoca.
Il De Cerimoniis elenca una serie infinita di titoli adatti agli stranieri che aspiravano a una carica ufficiale. Derivati da qualifiche precedenti di ogni genere, alcuni sono di facile interpretazione, mentre altri restano piuttosto oscuri:
Exousiaokrator, exousiarches, exousiastes [variazioni di regnanti «esteri»]; archon ton archonton, archegos, archegetes, archon, exarchon [dal vecchio termine «arconte» = governante o alto funzionario, si può rendere con «principe»]; pro(h)egemon, hegemonarches, hegemon, kathegemon [varianti di signore supremo o grande feudatario]; dynastes; prohegetor; hegetor; protos; ephoros [sovrintendente spartano]; hyperechon; diataktor; panhyperstatos; hyperstatos; koiranos; megalodoxos [grande legislatore]; rex [re]; prinkips [dal latino princeps = primo cittadino, il titolo che Augusto preferiva per dissimulare i suoi vasti poteri, in seguito «principe»]; doux [dux, comandante regionale, in seguito «duca»]; synkletikos; ethnarches [capo tribù]; toparches [idem]; satrapes [originariamente un governatore persiano]; phylarchos [capo tribale]; patrarchos, strategos, stratarches, stratiarchos, stratelates [tutte varianti per «generale»]; taxiarches, taxiarches, [comandante di reparti di fanteria]; megaloprepestatos [magnifico]; megaloprepes; pepothemenos; endoxotatos [molto stimato]; endoxos, periphanestatos, periphanes, peribleptos, peribleptotatos [variazioni di distinto]; eugenestatos, eugenes [di buona nascita]; ariprepestato; ariprepes; aglaotato; aglaos; eritimotatos; eritimos; gerousiotatos; entimotatos; entimos; phaidimotatos; phaidimo; kyriotatos; kyrios [signore]; entimotatos; entimos; pro(h)egoumenos; hegoumenos [abate]; olbiotatos; olbios; boulephoros; arogos; epikouros; epirrophos; amantor.
Questo sconcertante repertorio aveva una sua indubbia utilità: confondeva in modo inestricabile la gerarchia dei ranghi. Se un notabile che sfoggiava con orgoglio l'illustre titolo di megaloprepestatos incontrava un distintissimo megalodoxos, entrambi potevano ritenere di aver ricevuto dall'imperatore l'onore più grande, ed entrambi potevano di conseguenza sentirsi obbligati a dimostrargli la massima fedeltà.
Se la corte imperiale poteva trarre beneficio dalla deliberata indeterminatezza dei titoli, il suo elaborato cerimoniale richiedeva chiarezza e ordine. Nelle occasioni ufficiali non era possibile improvvisare: numerosi funzionari e dignitari dovevano trovarsi al posto giusto al momento giusto, e nel corretto ordine di precedenza. Vigeva un rigido protocollo che regolamentava ogni singolo dettaglio della vita di corte, comprese le formule precise da utilizzare nei saluti ufficiali e nelle dichiarazioni di benvenuto. Queste ultime infatti non potevano essere eseguite al momento senza rischiare pericolose incomprensioni e incidenti diplomatici. I molti inviati stranieri che venivano a corte a loro volta avevano bisogno di assistenti per preparare le loro dichiarazioni formali e imparare a muoversi rispettando l'elaborata etichetta bizantina, e questa forma di assistenza veniva regolarmente fornita.
Il De Cerimoniis conserva il testo del saluto all'imperatore che ci si attendeva da inviati e potenti in visita, completo degli spazi per i nomi appropriati e del testo delle risposte previste dal protocollo. Tale formula, che richiedeva un notevole esercizio per evitare errori, implicava l'uso del greco da parte di tutti, evidentemente con l'impiego di interpreti in caso di necessità da parte dei legati pontifici:
I principali apostoli ti proteggano: Pietro, custode delle chiavi del Paradiso, e Paolo, il maestro delle genti. Il nostro padre spirituale [nome], il più santo ed ecumenico patriarca, insieme ai santi vescovi, sacerdoti e diaconi della Chiesa, inviano a te, Imperatore, preghiere devote tramite le nostre umili persone. I più onorati principi della vecchia Roma con i primi cittadini e l'intero popolo a essi soggetto offrono alla tua imperiale persona il più fedele ossequio.
L'imperatore è troppo elevato per rispondere al saluto: lo farà in sua vece il logoteta (logothetes tou dromou) incaricato dei rapporti con gli inviati esteri:
Salutiamo il santissimo vescovo di Roma, padre spirituale del nostro sacro Imperatore. Salutiamo tutti i vescovi e i preti e i diaconi e il resto del clero della santa Chiesa di Roma. Salutiamo l'onoratissimo [nome], principe della vecchia Roma.
In quest'ultimo brano è evidente il richiamo bizantino al passato, o forse si può cogliere un accenno deliberatamente offensivo alle mutate condizioni di Roma dove, da quasi 500 anni, non c'era più alcun imperatore (o principe) a proteggere il papa.
Alla replica del logoteta seguono poi i saluti degli inviati del sovrano dei Bulgari, da secoli i confinanti più importanti di Bisanzio e spesso i più pericolosi, soprattutto − come abbiamo notato in precedenza − dopo la loro conversione al Cristianesimo ortodosso, in quanto i governanti bulgari potevano contestare il trono imperiale proponendosi come difensori della vera fede. Nel De Cerimoniis, compilato quando lo stato bulgaro stava aumentando la sua potenza, i suoi inviati ricevettero l'ordine di usare una formula di saluto che ridimensionava le pretese del loro regnante di equipararsi all'imperatore, in modo però eccessivamente sottile:
Salutiamo l'Imperatore, incoronato da Dio e antenato spirituale [pneumatikos pappos] del principe [archon] di Bulgaria per volere di Dio [ek theou].
Salutiamo l'imperatrice [augousta] e nostra signora [despoina]. Salutiamo gli imperatori, i figli dell'alto e augusto Imperatore e gli altri suoi eredi; il santissimo ed ecumenico patriarca; i due magistroi e l'intero Senato. Salutiamo i quattro logoteti [il logothetes tou dromou, preposto al servizio postale e ai rapporti con gli inviati stranieri; il logothetes ton oikeiakon, amministratore dell'economia cittadina e della sicurezza di Costantinopoli; il logothetes tou genikou, incaricato della tassazione; e il logothetes tou stratiotikou, il tesoriere incaricato dei pagamenti].
La risposta dell'incaricato torna a suggerire che la posizione del loro governante debba essere subordinata a quella dell'unico vero imperatore di Costantinopoli: il sovrano dei Bulgari − benché pretenda di essere un imperatore − diventa infatti un «nipote spirituale», e l'imperatore bizantino il suo nonno simbolico:
Salutiamo il nipote spirituale [pneumatikos engonos] del nostro sacro Imperatore, governatore della Bulgaria per grazia di Dio. Salutiamo la principessa [archontissa] per grazia di Dio. Salutiamo i kanarti keinos e i boulias tarkanos, i figli del governatore della Bulgaria per grazia di Dio e i suoi altri figli. Salutiamo i sei grandi boiardi [boliades]. Salutiamo il popolo.
Fin dal 945, il principale sovrano musulmano per i Bizantini era il già ricordato Sayf al-Dawla. Dagli inviati islamici non si poteva pretendere che invocassero il favore di Gesù Cristo e dei suoi apostoli per l'imperatore, ma veniva loro richiesto un saluto che sfruttava bene la base comune del monoteismo ebraico presente nelle due religioni:
La pace e la grazia, la felicità e la gloria da Dio siano con te, alto e possente Imperatore dei Romani. Ricchezza e salute e lunga vita dal Signore, buon Imperatore amante della pace. Possano la giustizia e una grande pa ce crescere nel tuo dominio, pacifico e generoso Imperatore.
La formula di risposta del logoteta è elaborata e ossequiosa:
Salutiamo l'immensamente magnifico [megaloprepestatos], nobile [eugenestatos] e distinto [peribleptos] Emiro dei musulmani. Salutiamo l'Emiro e il Consiglio [gerousia] di Tarso. […] Ci sta molto a cuore sapere se l'Emiro abbia ricevuto un degno trattamento dal patrizio generale di Cappadocia [l'autorità bizantina del territorio che gli inviati provenienti dalla Siria dovevano attraversare] e dall'aiutante imperiale [basilikos] mandato a provvedere alle sue necessità, nonché se si sia verificato qualche fatto sgradevole o preoccupante durante il suo viaggio. Che egli ci dia la consolazione di sapere che oggi cenerà in compagnia del nostro sacro Imperatore.
Il riferimento a eventi «sgradevoli o preoccupanti» è perfettamente comprensibile: per raggiungere Costantinopoli via terra da Aleppo, oggi città dello Stato siriano, gli inviati dovevano attraversare una zona di frontiera teatro di incursioni, imboscate, attacchi a sorpresa, rapine e furti di bestiame da parte delle truppe confinanti, di bande di jihadisti, di selvaggi abitatori della zona, briganti e contrabbandieri.
Il testo prosegue con altri saluti e risposte da parte degli inviati degli emiri d'Egitto, di Persia e Khorassan (una regione a cavallo fra l'odierno Iran nord-orientale, l'Afghanistan nord-occidentale, il Tagikistan, il Turkmenistan e l'Uzbekistan).
Si può facilmente comprendere lo scopo psicologico di questi scambi cerimoniali. Con quasi tutte le potenze coinvolte, la tensione era pressoché costante, e il conflitto armato molto frequente. Allora come oggi, i sovrani musulmani osservanti dovevano considerare le zone non musulmane del pianeta come territorio di guerra (dar al harb), che i musulmani erano destinati a conquistare e convertire prima del giorno del Giudizio. Di conseguenza, una pace permanente (salaam) con una potenza non musulmana non poteva − e in effetti non può − essere legittima e le pretese musulmane sulle terre bizantine erano virtualmente illimitate. Tutto ciò che era permesso ai devoti dell'Islam era l'interruzione della guerra per una tregua (hudna), un accordo temporaneo, pragmatico, per guadagnare tempo, per una settimana, un anno o una generazione, fino al momento in cui non fosse stato possibile riprendere la guerra santa (jihad). Tuttavia, finché era in corso una hudna c'erano dei negoziati da condurre, ed entrambe le parti avevano interesse a gestire le loro relazioni reciproche con civiltà − un risultato, questo, che veniva raggiunto a dispetto della ferocia dei combattimenti precedenti o futuri.
Prima dell'Islam, lungo il confine della Mesopotamia non era andata meglio. La precedente popolazione sassanide era molto pericolosa e sferrava periodicamente vaste offensive, compresa l'ultima, iniziata nel 603, che riuscì a far crollare entrambi gli Imperi, con effetti devastanti.
Quanto al confine settentrionale, danubiano o balcanico (le frontiere imperiali si spostavano verso nord o sud a seconda degli equilibri di potere) la Bulgaria cristianizzata non era un vicino migliore. Quando si sentivano più forti, i suoi zar non si accontentavano di conquiste territoriali parziali e rivendicavano il trono bizantino e tutto l'Impero. Anche altri nemici che avevano preceduto i Bulgari − gli Unni, gli Avari, i Rus' di Kiev, i Magiari, i Peceneghi e i Cumani − potevano essere altrettanto pericolosi, anche se non avanzavano pretese sul trono imperiale.
Così, quando gli inviati giungevano a corte, la guerra con i loro governanti era appena terminata, era ancora in corso, o poteva cominciare a breve. Era perciò opportuno iniziare con uno scambio di cortesie prima di gettarsi nel vivo dei negoziati, con le loro inevitabili recriminazioni e le minacce sottintese o espresse. Se il linguaggio previsto dal protocollo era rigidamente formale e non incoraggiava scambi spontanei, poteva quanto meno prevenire offese involontarie e gaffe imbarazzanti.