DE OBSIDIONE TOLERANDA: UN MANUALE SU COME RESISTERE A UN ASSEDIO
Nel X secolo l'arte di condurre gli assedi era importante non solo dal punto di vista offensivo. Nel luglio 904 una flotta araba guidata dal convertito Leone di Tripoli, noto alle fonti arabe come Ghulam (soldato schiavo) Zurafa o Rashik al-Wardami, conquistò Tessalonica, la seconda città dell'Impero, dopo un assedio di soli tre giorni. Fu una sorpresa sbalorditiva e una disfatta di grandi proporzioni. Evidentemente, la città si era trovata impreparata.
Questo episodio disastroso viene ricordato, ed è anche plausibile che possa averne ispirato l'autore, nel manuale di istruzioni del X secolo sulle tecniche difensive della guerra d'assedio, conosciuto col titolo di De obsidione toleranda, adesso disponibile in una prestigiosa edizione provvista di note di valore. Questo testo didattico viene indirizzato in ogni sua parte a un ideale generale, uno strategos, cioè al detentore di un'autorità politica e militare.
Sin dall'inizio al generale viene detto che non c'è bisogno di capitolare, anche in caso di assedio molto lungo, che si protrae cioè oltre l'esaurimento delle scorte di viveri e acqua della città. Il nemico potrebbe essere diviso da contrasti interni, altre potenze potrebbero intervenire, l'esercito degli assedianti potrebbe aver esaurito il suo «grano», una pestilenza potrebbe scoppiare «quando forze numerose rimangono per molto tempo in uno stesso luogo», altri eventi fortunati possono insomma intervenire. In altre parole, in primo luogo ci deve essere la volontà di resistere, poi subentra la necessaria logistica, che viene esaminata nel dettaglio.
Vanno accumulate provviste per almeno un anno, anche per i non combattenti; se risultasse impossibile, per la mancanza di fondi con cui acquistarle, o a causa di cattivi raccolti, carenze nei trasporti o operazioni nemiche d'intercettazione e disturbo, i mercanti e i ricchi della città devono partecipare alla distribuzione a tutti di rifornimenti indispensabili per un mese, in grano, orzo e legumi, da prendersi dai magazzini pubblici e privati. Il rimedio migliore, però, è provvedere all'organizzazione del trasferimento di «vecchi, malati, bambini, donne, mendicanti» in una località più sicura e meglio provvista. In modo analogo, poco oltre, si prescrive l'abbattimento di «bestie da carico, [asini] e cavalli e muli e tutto ciò che non sia essenziale per l'esercito» perché essi divengono «agenti di distruzione delle città assediate, [di cui] usano le provviste […]».
Dall'altra parte, occorre negare o togliere provviste al nemico provvedendo alla raccolta in tutti i campi, anche se non sono ancora pronti […] e portare via tutto quello che può essere utile […] non solo il bestiame, ma anche la gente […] ed è necessario avvelenare i fiumi o i laghi o i pozzi della zona. È necessario avvelenare i fiumi a monte degli accampamenti e all'ora del pasto, in modo che, quando il calore brucia il corpo dei nemici, logorato dalla fatica, quando essi [la bevono], l'acqua […] li distruggerà del tutto.
Nel Mediterraneo frutti di bosco, radici e semi velenosi si trovano facilmente, come del resto ovunque, ma solo pochi fra loro hanno un tale livello di tossicità da essere mortali, una volta diluiti nell'acqua; uno di questi elementi è la pseudaconitina (C36H49N0), un alcaloide potente che si trova concentrato nelle radici dei comuni e graziosi fiori di aconito.
L'autore stila poi un lungo elenco di tecnici e artigiani che devono restare in città e produrre scudi, frecce, spade, elmi, lance, giavellotti e artiglieria d'assedio: tetrareai, magganika, elakatai, cheiromaggana (tutti termini del cui esatto significato non si può essere troppo sicuri, ma che in sostanza dovrebbero indicare i tipi più noti di lancia-pietre e scaglia-frecce). Fa anche riferimento a macchine che lasciano cadere pietre e scagliano aste di legno, rampini in ferro, come pure epilorika, un tipo di cappa da indossare sopra l'armatura che abbiamo già incontrato, e inoltre un copricapo in feltro spesso, kamaleukia, in sostituzione di altri tipi più costosi. Tutta questa produzione richiede materiali da lavorare: ferro, bronzo, pece asciutta e liquida, zolfo, lino, canapa, torce in resina di pino, lana, cotone, tela di lino, assi, alberelli, cornioli (essenziali per le robuste picche, menavlia, di cui si parlerà in seguito). In aggiunta, si legge qualche dato sulle quantità determinate dai comuni criteri di assegnazione: 10 giavellotti per ogni lanciatore di giavellotto; 50 frecce per ogni arciere (un numero molto ridotto rispetto a quello previsto per le operazioni sul campo, ma negli assedi si può prendere la mira in modo molto più accurato) e 5 lance (kontaria, e non le più pesanti menavlia) per ogni lanciere. L'autore ha scelto nel suo esempio una regione molto boscosa, perché ogni abitante è punito con la morte se non riesce a raccogliere e conservare legna da ardere sufficiente per il periodo che gli viene specificato, mentre si impone anche la raccolta di legna di cespugli e rami di salice, per intessere gli scudi antifrecce laisai che esamineremo più avanti.
In quella che equivale a una lista di controllo, una precauzione essenziale è localizzare ed esaminare qualsiasi galleria sotterranea, come gli acquedotti dismessi o le fogne, che potrebbero compromettere l'intero sistema difensivo delle città fortificate sotto assedio − vengono citati gli esempi di Cesarea di Cappadocia, di Napoli (ripreso da Procopio) e dell'antica Siracusa.
Le mura, invece, devono essere provviste di numerose fessure, non solo per lanciare frecce, ma anche per respingere le scale d'attacco con pertugi in cui far scorrere le lance.
Deve esserci un fossato pieno d'acqua, anzi non uno, ma almeno due o tre, ciascuno con la sua palizzata e una struttura difensiva (con camminamento coperto), particolarmente utile in assenza di cavalleria che debba fare delle sortite. Se invece è presente, saranno indispesabili robusti ponti in quercia.
All'esterno delle fortificazioni debbono essere collocati dei campanelli, per suonare segnali d'allarme nel caso di incursioni furtive − se le guardie non sono riuscite a segnalarle con maggiore discrezione, per negligenza o tradimento: preoccupazione che ricorre spesso nel testo. Durante le festività, che evidentemente non erano sempre destinate a pratiche di sobria devozione, il generale in persona dovrà incaricarsi di tenere sotto controllo i posti di guardia: questo è un buon consiglio.
Quando si passa all'addestramento della guarnigione, il consiglio che si dà è analogo a quello dello Strategikon, con l'eccezione di un particolare e opportuno interesse per i proiettili: riktaria (giavellotti), pietre lanciate a mano e abbastanza efficaci grazie alla forza di gravità, fionde, e artiglieria che spari frecce e pietre.
La conduzione della guerra da parte degli assediati non si deve limitare a essere reattiva, a respingere gli attacchi. L'autore raccomanda che squadre da imboscata (lochoi) vengano stazionate all'esterno delle porte, presumibilmente quando queste non si trovino davanti a un attacco diretto del nemico, e che, su scala più ampia, le forze di cavalleria e fanteria tenute all'esterno della città vengano collocate in «luoghi adatti». Per esempio, come si specifica in seguito, montagne che possano offrire nascondigli e ostacoli alla ricerca nemica, da cui possano discendere per «colpire il nemico e non consentirgli di proseguire l'assedio con impunità». Queste forze possono anche congiungersi agli alleati che arrivano in soccorso e attaccare i convogli nemici che portano cibo agli assedianti. Nel caso però in cui le cose vadano talmente bene da consentire l'accerchiamento e l'attacco dell'accampamento nemico, emerge la differenza specifica dei Bizantini: invece di incitare alla battaglia d'annientamento nel classico stile romano, l'autore scrive: «È necessario lasciare aperto al nemico uno spazio attraverso il quale l'uscire sia agevole, affinché quello, completamente accerchiato e disperando ormai della salvezza, non resista sino alla morte».
Dopo aver descritto la tattica con cui operare incursioni, le sortite attraverso le gallerie sotterranee o le piccole porte posteriori e altre operazioni di questo genere, che presuppongono tutte una condizione d'assedio abbastanza comoda, e dopo essersi occupato dei combattimenti eroici sulle mura, l'autore passa a trattare dell'amaro scotto dello scontro ravvicinato: «E se capita, e io prego che non capiti, che i fossi vengano colmati e che essi portino in quel punto i loro arieti, costruite un altro muro, perché non c'è nulla che possa reggere all'impatto di un ariete».
Si tratta di un ottimo suggerimento, se si riesce a erigere abbastanza in fretta un nuovo muro, preferibilmente provvisto di un nuovo fossato, dietro lo schermo protettivo di tronchi pesanti per difendere i costruttori dalle frecce. L'autore, però, passa a ricordare i rimedi comuni: sacchi imbottiti di paglia per assorbire i colpi, rampini in ferro per spostare l'ariete, corde per sollevare la trave dell'ariete, pesanti pietre, o sifoni per il fuoco greco.
Nell'espugnazione di Tessalonica, nel 904, la parte delle mura affacciata sul mare fu sottoposta a un attacco diretto, con l'impiego di navi dotate di armi da getto e di scale elevabili. Per questo vengono raccomandate le contromisure di Archimede, di cui ha scritto Polibio: lancia-pietre potenti per danneggiare le navi in avvicinamento, poi pietre pesanti lasciate cadere da travi sporgenti quando le navi stesse hanno raggiunto la cinta muraria, paranchi forniti di ganci di presa per sollevarle dall'acqua e, naturalmente, frecce sui marinai presenti sul ponte, tutti rimedi discussi nei Paragelmata poliocertica di Erone.
L'autore non pare affatto preoccupato dal fatto che questi rimedi siano ormai superati − al contrario, interrompe lunghe narrazioni tratte da Polibio (assedio di Siracusa), Arriano (assedi di Tiro e Sogdiana) e Giuseppe (assedio di Gerusalemme), per asserire che avrebbero funzionato ancora meglio che nei tempi antichi, perché i nemici contemporanei («i popoli stranieri del nostro tempo») sono molto più rozzi dei loro predecessori dei giorni di Alessandro o Tito, che riuscivano a organizzare assedi su scala largamente superiore. L'autore poi trae dai suoi vetusti esempi anche il modo di dare sicurezza ai difensori di città suoi contemporanei: nonostante gli sforzi strenui e abili degli antichi assedianti, infatti, gli assediati riuscirono a resistere.
E evidente che l'autore si preoccupa, in primo luogo, di tenere alto il morale. Questo è già di per sé indizio dell'esistenza di una finalità pratica. L'opera in questione non era un esercizio letterario, nonostante le estese citazioni dai maestri riveriti dell'antichità, né il divertimento di chi gioca a fare la guerra. In questo testo poco organizzato c'è un senso di urgenza.
Un testo molto più breve sulla guerra d'assedio difensiva, pubblicato per la prima volta a cura di Dam col titolo Mémorandum inédit sur la défence des places, era una derivazione del X secolo dalla stessa fonte perduta del De obsidione toleranda, almeno stando a Damn. In effetti quest'opera, rigorosamente pratica, suona come una serie di estratti da un'opera più. completa. Senza prologo e senza intermezzi sugli antichi assedi, consiste in una sequenza di trentadue ingiunzioni («Stai attento a») su una grande quantità di argomenti, incluso l'addestramento dei lavoratori («che sono utili a una città assediata»); la preparazione delle armi da getto e dei depositi di frecce; l'innalzamento delle mura, sotto la protezione di laisai contro le frecce; l'uso di alberi di nave o di grandi pali legati insieme per tener lontane dalle mura le navi nemiche;" la necessità che il generale compia una perlustrazione della cinta difensiva quando la città si trova sotto attacco, accompagnato da un contingente d'élite («valenti soldati»), che serve da sua personale riserva operativa «per soccorrere un settore in difficoltà».
Una delle verità eterne dell'arte della guerra, che vale sempre la pena ripetere perché è controintuitiva, è che qualsiasi assedio implica che gli assedianti siano globalmente più forti degli assediati, altrimenti questi ultimi uscirebbero per cacciare via i primi affrontandoli in campo. Tuttavia il generale deve indebolire una guarnigione già debole, sottraendole un gruppo di soldati d'élite per formare una sua personale forza mobile di riserva. Questo è illogico, e ha senso solo in termini dinamici: arrivando con la sua riserva operativa in quei settori delle mura che si trovano sottoposti all'attacco più duro, il generale può rispondere al nemico con una contro-concertazione di forze, migliorando quindi a suo favore l'equilibrio delle forze presenti in quel settore. C'è anche una dinamica psicologica: proprio quando l'urto nemico contro le mura sembra avere successo, dando baldanza agli attaccanti e intimidendo i difensori, quindi sbilanciando ulteriormente il rapporto tra le forze, il generale arriva coi suoi valenti soldati per ribaltare la situazione, anche dal punto di vista psicologico.
Le ingiunzioni successive riguardano le macchine d'assedio, alcune semplici, come i tronchi pesanti ben ancorati con le estremità appuntite per «tenere fuori le macchine»;" l'addestramento per far acquisire familiarità col combattimento notturno (inutile se non si profila una concreta possibilità in tal senso); la necessità di azioni offensive, anche su piccola scala; l'utilità di grandi cancelli di ferro verticali che possano essere lasciati cadere giù d'improvviso per colpire il nemico che vi transita sotto; la necessità di chiudere le donne nelle loro case «e di non consentire al loro piangere di indebolire l'animo degli uomini che combattono» (si registrano però casi frequenti di donne che hanno partecipato attivamente ad antichi assedi, facendo di tutto, dallo scavo di trincee e dal caricamento delle macchine che lasciavano scivolare in basso grandi pietre, al semplice atto di esporsi pubblicamente per schernire gli avversari); il bisogno di guardarsi dai tentativi nemici di scavare gallerie sotterranee, e la relativa soluzione di dubbia efficacia di usare sottili lamine di bronzo come amplificatori perché il generale possa «poggiarci sopra l'orecchio e ascoltare»;" e c'è un'ingiunzione finale sulla necessità di tenere d'occhio sia i settori più deboli sia quelli più forti del perimetro, dove la fortificazione sembra più inattaccabile «perché molte città sono state prese da posizioni inaspettate».
C'è un'unica edizione moderna, e incompleta, dell'Apparatus bellicus, un'altra compilazione del X secolo che include venti lunghi estratti da Giulio Africano," uno dei pochi testi che venivano scritti e, presumibilmente, anche letti in quel tempo. La maggior parte del loro contenuto consisteva per lo più di estratti, parafrasi o elaborazioni di scritti precedenti, ma restano comunque una testimonianza della vitalità della cultura militare bizantina.