IL DROMON
Per gli standard del suo tempo, il dromon era una nave veloce e facilmente manovrabile, e questo era dovuto al suo pescaggio ridotto e alla struttura leggera. Il bordo libero dell'imbarcazione non superava il metro, e quindi non era difficile che imbarcasse acqua: per inondarla completamente bastavano onde di due metri, non rare nel Mediterraneo, anche nei mesi caldi.
Questo rendeva le traversate in mare aperto pericolose in ogni stagione dell'anno, e in pratica escludeva la possibilità della navigazione invernale. Nelle accelerazioni più intense, di una ventina di minuti, la propulsione a remi poteva essere molto veloce, sino a raggiungere i dieci nodi, ossia i 18,5 chilometri l'ora, il che risultava molto utile in combattimento. Con i remi si riusciva a mantenere una velocità di crociera di tre nodi per ventiquattr'ore, alternando i turni di voga.
Sottovento, con venti favorevoli a poppa, si potevano superare anche i sette nodi, ma non era facile mantenere la rotta giusta, data la mancanza di un timone vero e proprio. Tuttavia, data la ridottissima altezza delle murate della nave e la necessità di aprire uno spazio ai remi, il dromon poteva essere rovesciato anche con angoli di inclinazione del 10%.
A causa della sua conformazione lunga e stretta, con basso pescaggio, e del fatto che i ponti dovevano essere tenuti sgombri, a bordo non c'era molto spazio per immagazzinare materiali e riserve, comprese quelle d'acqua, di cui c'era grande necessità. Il quantitativo minimo indispensabile era mezzo gallone al giorno (un po' più di due litri) per ogni uomo, ma quella quota doveva essere almeno raddoppiata per chi era addetto al duro lavoro della voga. I ponti dovevano essere tenuti sgombri, e questo impediva che vi si accatastassero ulteriori riserve d'acqua anche nei periodi più caldi. Dato che venti, correnti e movimenti dei nemici erano impossibili da prevedere con certezza, nessun comandante assennato di un ousakios (un dromon con 108-110 vogatori) si azzardava a salpare con meno di 650 galloni d'acqua, e se possibile il doppio. Le riserve d'acqua imponevano quindi limiti invalicabili alla permanenza in mare delle navi, che non superava i dieci giorni, e più spesso si limitava a sette, mentre le distanze che separavano i punti di partenza e d'arrivo venivano amplificate dall'abitudine di costeggiare, piuttosto che affrontare le traversate dirette in mare aperto.
Il testo (paragrafo 5), si apre con un elenco di cose da non dimenticare assolutamente, caratterizzato dalla banalità e dall'essenzialità di ogni lista di controllo:12 «Ci devono essere timoni di riserva, remi, scalmi per remi, cime, tavole di legno, corda da miccia, pece e catrame, pece liquida, e tutti gli strumenti necessari per le riparazioni su una nave, incluse asce, trivelle e seghe».
Quindi fa la sua comparsa anche il fuoco greco, ma, e il fatto è interessante, non gli viene assegnato un ruolo essenziale. Il testo si limita a dire che è opportuno tenere a prua un sifone di bronzo per lanciare fuoco sul nemico. Sopra al sifone ci dovrebbe essere una piattaforma munita di parapetto, dalla quale uomini ben addestrati possano combattere il nemico in uno scontro corpo a corpo, oltre a lanciare frecce e altri proiettili (dardi, ciottoli da fionda). Sulle navi più grandi ci dovrebbero essere anche delle torri di combattimento − e non un solo xylokastron − dalle quali i soldati possano lanciare massi, mazze dal taglio ben affilato o vasi incendiati di fuoco greco.
Leone specifica che per il dromone-tipo della sua marina sono previsti almeno 25 banchi di vogatori sulle due fiancate dei 2 ponti, per un totale di un centinaio di uomini. Ogni nave deve avere un comandante con il suo assistente, un'insegna, due timonieri e gli ufficiali. Uno dei due ultimi vogatori della parte di poppa è incaricato della poppa, l'altro dell'ancora. A prua ci deve essere un ufficiale armato, per condurre il combattimento in quel punto, mentre il comandante della nave, che dirigerà anche lo scontro militare, deve rimanere a poppa, in alto, ben visibile da tutto l'equipaggio, ma protetto dalle frecce. Da quella posizione potrà mantenere sia il comando della nave, sia quello dello scontro.
Le navi più grandi devono poter ospitare duecento uomini, o anche di più, con cinquanta vogatori nel ponte inferiore e centocinquanta uomini armati per combattere i nemici. Presumibilmente ai combattimenti parteciperà anche una parte dei vogatori. Le navi più piccole e più veloci sono usate per compiti di ricognizione e, in genere, ogni qualvolta serva una grande velocità.
Le navi ausiliarie devono essere opportunamente predisposte al trasporto di materiale e di cavalli. Questi ultimi hanno bisogno di attrezzi specifici, come montacarichi, sottopancia perché gli animali non si feriscano con urti violenti, fasciature, aggiunta di olio d'oliva al cibo loro destinato: tutte prescrizioni che, a quel tempo, erano già ben note. Si sa per certo che le tecniche per il trasporto dei cavalli (hippagogos, hippegos) si conoscevano già nel 430 a.C. Più in generale, sulle navi da trasporto deve viaggiare tutto il materiale militare, in modo da evitare il sovraccarico di quelle da battaglia. Forniranno cibo, armi (specialmente frecce di scorta) e altri oggetti necessari.
Le navi ausiliarie non devono essere equipaggiate solo per la navigazione, ma anche con archi, frecce e tutto ciò che è necessario per la guerra. I vogatori del ponte più elevato e in genere tutti coloro che si trovano vicino al capitano saranno armati dalla testa ai piedi, con scudi, lunghe lance, archi, vari tipi di frecce e spade, giavellotti, elmi e corazze protettive; devono avere elmi in metallo, bracciali protettivi e corazze per il torace, come se si trovassero sul campo di battaglia. Chi non è provvisto di armatura in metallo deve farsene una con il cuoio sottoposto a duplice bollitura; sotto la copertura degli uomini in prima linea, devono scagliare frecce e lanciare pietre con le fionde. I combattenti non dovrebbero sfinirsi e perciò dovrebbero di tanto in tanto riposarsi, perché per il nemico sarà più facile attaccare e sconfiggere dei soldati stanchi:
I Saraceni (i musulmani arabi) dapprima si limitano a resistere a un assalto. Poi, quando vedono che il nemico è esausto e che è a corto di armi, frecce, pietre o altro, tornano a farsi spavaldi e, in formazione serrata, con spade e lunghe lance, muovono all'attacco del nemico con impeto maggiore.
Nel testo si impone al comandante di vigilare affinché ai suoi uomini non manchi mai il sostentamento, perché in uno stato di deprivazione gli uomini si ribellano, o derubano città e popoli del loro stesso impero. Se è possibile, il comandante deve saccheggiare la terra del nemico e prenderne cibo in abbondanza per i suoi soldati. La giustizia è un tema fondamentale: il comandante è responsabile della lealtà dei suoi sottoposti. D'altra parte, nessuno deve cercare di assicurarsi la sua benevolenza con dei regali, neppure i più comuni. «Cosa si dirà della tua dignità se pensi ai doni che puoi ricevere?» scrive Leone. «Non accettare doni da chi sottosta ai tuoi ordini, per nessuna ragione, siano essi ricchi o poveri.»
Dal paragrafo 22 scopriamo che esisteva una flotta imperiale con base a Costantinopoli, i cui comandanti rispondevano a un solo capo supremo, e delle flotte di thema. Ma anche i loro drungarii, comandanti dei themata dei Cibirreoti e di altri, ricevevano gli ordini dal capo della flotta imperiale.
Leone ricorda che una volta i drungarii avevano solo il comando delle navi ausiliarie, ma che ormai quel titolo indica il comandante di un intero thema.
Nella migliore tradizione romana, l'autore raccomanda fortemente ai fanti di marina di esercitarsi nel combattimento simulato, con scudi e spade, e per le navi, che dovrebbero prodursi in variazioni delle linee di battaglia, di effettuare manovre in formazione chiusa e simulazioni di attacchi diretti. Le esercitazioni dovrebbero contemplare tutti i tipi di combattimento e manovra che il nemico potrebbe usare in battaglia, per abituarsi alle urla e alla confusione della lotta e non trovarsi impreparati al momento della vera battaglia.
Nell'allestire l'accampamento (come si sa i soldati devono dormire a terra, per poter godere di una notte di riposo decente) se ci si trova su territorio imperiale, il comandante deve assicurarsi che gli uomini si riposino in maniera ordinata, senza timore del nemico e senza saccheggiare la popolazione locale.
Il paragrafo ripete il consiglio di ogni manuale bizantino: il comandante deve evitare le battaglie. Il nemico deve essere attaccato con scorrerie o incursioni piuttosto che dall'intera flotta o da una grande squadra, a meno che non si profili un'impellente necessità. E bene sottrarsi anche agli scontri occasionali, che potrebbero sfociare in una battaglia di maggiori proporzioni: la fortuna è mutevole e la guerra piena di incognite. Il comandante non deve raccogliere le provocazioni; quando le navi nemiche sono molto vicine, evitare lo scontro può risultare impossibile, e quindi il comandante deve far allontanare le sue navi − a meno che non sia certo della sua superiorità nel numero delle navi, nelle armi, e in quanto a coraggio e preparazione degli uomini.
Se il corso della battaglia lo richiede, si deve disperdere la flotta in direzioni diverse. Se è convinto della sua superiorità ed è deciso a scontrarsi col nemico, il comandante non deve comunque attaccarlo nel proprio territorio, ma scegliere piuttosto una località vicina al territorio avversa rio, in modo che i nemici preferiscano fuggire verso casa che combattere. Leone mette in guardia il comandante che «non c'è soldato che non abbia paura, quando il combattimento sta per iniziare, e che non pensi che si salverebbe facilmente, se solo abbandonasse le armi»: Leone ammette rassegnato che sia tra i Romani sia tra i barbari sono ben pochi quelli che preferiscono la morte a una fuga disonorevole e vergognosa.
Il giorno prima della battaglia il comandante deve decidere, insieme ai suoi ufficiali, la linea d'azione da seguire e la strategia migliore. Deve assicurarsi che chi sta a capo di ogni nave esegua fedelmente i suoi ordini. Se poi, a causa dell'incursione nemica, dovesse presentarsi la necessità di mutare piano di battaglia, tutti guarderanno alla nave del comandante e dovranno essere pronti a cogliere i segnali che verranno inviati; al segnale, tutti dovranno impegnarsi al massimo per eseguire l'ordine trasmesso.
I segnali devono essere posti in alto sul ponte, con una bandiera o una torcia o qualsiasi altro mezzo visibile che possa comunicare cosa deve essere fatto, in modo che gli altri ricevano istruzioni sulle manovre da eseguire, la decisione di combattere o di astenersi dal farlo, sappiano se le flotte debbano disperdersi per cercare il nemico, oppure se debbano accorrere in aiuto di una guarnigione che è stata attaccata, se sia necessario rallentare o incrementare la velocità, preparare delle trappole o evitarle, affinché insomma tutti i segnali che partono dalla nave del comandante siano eseguiti. Leone spiega che quanto è stato appena detto è fondamentale, perché una volta che la battaglia è iniziata, non è più possibile ricevere comandi vocali o trasmessi con uno squillo di tromba, perché le grida degli uomini, i rumori del mare, il cozzare delle barche sono assordanti.
Il segnale può essere sventolato dritto, inclinato a destra o a sinistra, agitato, sollevato, abbassato, tolto oppure modificato nella forma e nei colori. Il comandante deve assicurarsi che questi segnali siano chiari a tutti, che i suoi ufficiali subalterni (flotilla) e i capitani, capiscano la stessa cosa nello stesso momento, in modo che, essendo ben addestrati, possano riconoscere ed eseguire quello che viene loro ordinato.
Il comandante deve avere la nave migliore, superiore alle altre, per stazza, agilità, robustezza; l'equipaggio deve essere formato da uomini scelti. Questo tipo di nave è chiamata pamphylos ed è più grande del dromon tipico di quel periodo. Allo stesso modo, i subordinati dovranno scegliere gli uomini migliori e tenerli sulle proprie navi.
L'autore, quindi, passa alla tattica. Si deve disporre di una flotta in formazione a falce di luna, con le navi da battaglia ai due corni, e quelle più forti e veloci al centro. L'ammiraglia del comandante deve tenere tutto sotto controllo, dare ordini, dirigere l'azione e, in caso di bisogno, inviare rinforzi al settore in difficoltà. La formazione a falce di luna è straordinariamente efficace, per l'accerchiamento del nemico. Talvolta la flotta sarà disposta su un'unica linea diritta d'attacco contro la prua delle navi nemiche per bruciarle con le fiamme dei sifoni del fuoco greco. In altre situazioni, si disporrà su due linee, o tre, a seconda del numero di imbarcazioni presenti: dopo che la prima linea ha impegnato il nemico in combattimento, la seconda ne attaccherà la formazione, ora più compressa, dai fianchi o dal retro, in modo che l'attacco della prima linea risulti più efficace. Altre volte ancora, si useranno degli stratagemmi. Se i Bizantini fingono di disporre di poche navi, il nemico le attaccherà di sicuro, e a questo punto quelle più agili e veloci possono simulare una fuga; il nemico si lancerà all'inseguimento a tutta velocità, senza riuscire a raggiungerle, allora le altre navi, con gli equipaggi ancora freschi, assalteranno quelle nemiche e se ne impossesseranno, oppure, se quelle meglio addestrate e più forti dovessero riuscire a sfuggire, si impadroniranno delle più deboli e peggio addestrate. Se poi il combattimento andrà avanti sino a notte fonda col nemico in formazione chiusa, le navi lasciate di riserva, ancora fresche, dovranno entrare in battaglia, nel suo momento di massima violenza. È così che andranno le cose, se l'ufficiale in comando riuscirà a essere superiore al nemico per quantità e qualità di uomini e mezzi.
In seguito, troviamo alcuni consigli su cosa si debba fare in caso non si sia in superiorità numerica e qualitativa, che era la condizione usuale dei Bizantini in mare, nell'epoca in cui quest'opera veniva scritta, dato che le flotte del jihad erano ampiamente sostenute dalle tasse e dalle donazioni raccolte nel grande territorio caduto sotto il dominio islamico.
A volte, simulando la fuga con le navi più veloci, il comandante dovrà spingere il nemico a inseguire le sue navi, non appena avranno virato. Nell'eccitazione dell'inseguimento, le navi nemiche difficilmente manterranno la formazione compatta. Allora, invertita la rotta, il comandante attaccherà ogni nave nemica che si sia staccata dalle altre, precedendole, e, avendo due o tre navi contro una sola delle loro, vincerà senza sforzo.
Il comandante dovrebbe scatenare il conflitto subito dopo che il nemico è naufragato o è indebolito da una tempesta, o quando è possibile appiccare il fuoco alle sue navi durante la notte o quando sia a riva o in qualsiasi altra circostanza favorevole.
In tutto quello che viene detto è implicito che, in condizioni normali, il comandante non deve dichiarare battaglia. Questa è la regola bizantina, data l'impossibilità di combattimenti veramente risolutivi.
Le tecniche d'attacco sono l'argomento affrontato nel passo successivo. Leone scrive:
Molti sono i mezzi che gli esperti di guerra hanno inventato, sia nel passato, sia recentemente per distruggere navi da guerra e marinai. Oggi c'è il fuoco proiettato da sifoni che incendia le navi con fiamme e fumo.
Gli arcieri, disposti sui due lati a poppa e a prua, riescono a lanciare frecce molto piccole (le cosiddette myas, «mosche»). E c'è anche chi lancia sul nemico serpenti, scorpioni e simili, in grado di ucciderlo col loro veleno.
Probabilmente quest'ultimo metodo non era molto usato, mentre lo era uno più pratico: gettare vasi di calce viva, che rompendosi, emanano un gas soffocante.
Leone parla poi di altre armi, per esempio biglie di ferro con punte chiodate che, gettate sulle navi avversarie, ostacolano il combattimento. Oppure i già citati vasi incendiari pieni di fuoco greco, in alternativa ai sifoni a mano, nascosti dietro gli scudi di bronzo dei soldati. Un'altra idea è quella di usare dei montacarichi per lanciare pesi, pece bollente o altri materiali sulle navi nemiche dopo averle speronate.
Affiancandosi con le sue navi a quelle del nemico e facendo arrivare altre navi per speronarle dal fianco opposto, il comandante può assicurarsi la vittoria; le sue navi, ritirandosi lentamente, lasceranno che la flotta nemica speronata affondi. Ma dovrà stare attento che la stessa cosa non accada a lui. Anche i vogatori del ponte inferiore possono partecipare alla battaglia tirando lance lunghe attraverso gli spazi per i remi. Inoltre, è fondamentale che sulla nave ci siano tutti gli strumenti per poter allagare le navi nemiche, facendo loro imbarcare acqua dalla prima fila di remi.
Ma ci sono poi anche altre tattiche belliche più complesse, un argomento troppo rischioso da descrivere, se pensiamo che in effetti il testo fu tradotto in arabo.
Ci sono altre strategie inventate dagli antichi che, per la loro complessità, possono essere qui descritte solo parzialmente; ed è meglio non rammemorarle, per evitare che giungano alla conoscenza del nemico, che.potrebbe usarle contro di noi. Infatti, una volta conosciute, queste astuzie belliche possono essere facilmente comprese ed elaborate dal nemico.
Dopo aver discusso delle imbarcazioni più grandi, Leone VI passa a parlare della necessità di disporre di navi da battaglia più piccole e più veloci, che non possano essere raggiunte e attaccate dal nemico. Queste navi dovrebbero essere tenute di riserva, in caso di combattimenti particolari. Il comandante dovrebbe preparare navi grandi e piccole a seconda del nemico che combatte. Le flotte dei Saraceni e dei Rus' di Kiev sono diverse: i Saraceni usano navi grandi e lente, i Rus' navi leggere, piccole e agili, adatte a discendere i fiumi che li portano al Mar Nero.
Viene poi affrontato il tema della gestione degli uomini, particolarmente importante perché non sono rare le defezioni tra i marinai, e a volte anche dell'intero equipaggio di una nave, attirati magari dal fatto che gli arabi islamici sempre in cerca di nuovi marinai hanno mezzi per offrire allettanti compensi. Alla fine della guerra, il comandante dovrà distribuire il bottino in parti uguali, organizzare banchetti e feste, ricompensare con doni e onori chi si è comportato da eroe e punire severamente chi non ha agito da vero soldato.
Nella conclusione si torna a insistere sull'importanza del fattore umano: non servono molte navi se gli equipaggi sono codardi e i nemici, anche se meno numerosi, più arditi. La guerra non si misura col numero degli uomini: «Quanto è grave il danno che pochi lupi riescono a infliggere a un gregge di pecore?».