LETTERE PERDUTE
Carissimo, voi studenti d’oggi siete fortunati. Ai miei tempi le scuole erano edifici, spesso sinistri, dove bisognava recarsi ogni mattina, per otto mesi l’anno. Lo studente aveva il suo autobus di linea, la sua motocicletta, o alla disperata, la sua automobile, proprio per andare a scuola. Insensato. Si perdeva molto tempo ad andare su e giù. E in ogni scuola v’erano dei professori, si chiamavano così, persone in carne e ossa, che sedevano in cattedra e tenevano lezioni. Questo, ogni giorno, escluse le domeniche e le altre feste. Poi, sempre d’estate, quando cominciava quello che i cronisti d’allora chiamavano il «grande esodo», gli studenti restavano nelle città per gli esami. Non posso pensarci senza raccapriccio, spesso mi rivedo gli esami nei sogni. Praticamente erano interrogatori sulle materie che avremmo dovuto studiare e conoscere. Ridicolo e affaticante. Ma più temuti degli esami erano, da noi, le interviste che subivamo, dopo, circa i nostri propositi per le vacanze e per l’avvenire; e poi le fotografie sui giornali, le riunioni di protesta, le occupazioni del suolo pubblico, i cortei.
Oggi tutto questo è finito. Si respira. Le centrali d’ipnopedia trasmettono i loro corsi da mezzanotte all’alba e voi studiate dormendo, senza fatica. I ripetenti dormono un anno di più ed è tutto. Infine, sta a voi decidere quando decretarvi, da voi stessi, diplomati e laureati. È certo impolitico che il limite d’età per autolaurearsi sia stato fissato a tredici anni. D’altra parte, mi rendo conto delle apprensioni dei conservatori: un dottore di dieci o undici anni corre il rischio, nella nostra società imperfetta, di non essere preso sul serio, e questo rifiuto può far sorgere in lui turbe emotive, nevrosi, inappetenza. Qui ritorniamo al nocciolo della questione, la presa di coscienza degli studenti delle scuole materne inferiori. Ma a che cosa volete che pensi un bambino di tre anni, se non al Sesso?
Caro architetto, il piano per la nuova città satellite è perfetto. Non manca niente, in attesa dell’acqua sono previste fontane di luci. Uscendo dal suo posto di lavoro, l’operaio o l’impiegato può fare un tuffo nella piscina o i duecento metri piani nel campo sportivo e impiegare così il tempo che passerebbe su un mezzo di trasporto o all’osteria. La sua abitazione infatti è prevista a due passi. La moglie durante la giornata ha fatto andare la lavatrice, ha discusso con gli psicologhi della radio, ha sorvegliato dalla finestra del quindicesimo piano il bambino che gioca nel recinto riservato ai bambini. Il panorama da lassù è stupendo, si vedono tutte le fabbriche per il raggio di dieci chilometri, beninteso nelle giornate serene. Marito moglie e bambino sono la popolazione ideale dell’architetto. Se egli pensa ai bambini, li vede giocare nel recinto dei bambini, con la sabbia, gli scivoli, i trapezi; fra statue di tipo scandinavo rappresentanti un padre e una madre nudi che si palleggiano un bambino nudo. Dai giochi sono esclusi le fionde, le cerbottane, il pallone che cade nel giardino del vicino, o che rompe un vetro. Escluse le carriole con le ruote fatte di cuscinetti a sfere. Proibiti i petardi di zolfo e salnitro, e lo scambio di rane. Per fortuna, l’architetto ha dimenticato tutto della sua infanzia.
Se pensa alle persone anziane, decide che è meglio metterle nella casa degli anziani, con saloni di soggiorno, televisore comune e privato, servizi riuniti, stanze con bagnetto. Le famiglie giovani negli appartamenti dei giovani, con piscina centrale, solarium, drugstore con servizio di snack-bar e ristorante. Nel sottosuolo è previsto un night-club. Nella città satellite si deve vivere con un certo ordine, per professione ed età, vivere insomma per non deludere il sociologo. Non è assolutamente necessario andare in città, qui c’è tutto, previsto in un solo edificio: boutiques, barbiere, tabaccaio, cinema, ufficio postale, persino l’antiquario. I libri, i segnalibri e reggilibri sono nel drugstore. I profumi e i cosmetici, un po’ dappertutto.
La notte, dalle terrazzine degli appartamenti, dove peraltro è meglio non mettersi per il capogiro e per il vento, si vede l’alone delle luci della vecchia città. Lì ci sono case vecchie, palazzi antichi, chiese, trattorie, gatti, birrerie, cinema di quartiere, teatri vuoti, il cartolaio di una volta, il vinaio, botteghe dove vendono ancora bottoni automatici e lapis copiativi. I viali della città satellite sono ben disegnati e vasti. Saranno rallegrati da stazioni di servizio. Bisogna invece popolarli di caffè, trattorie e birrerie, bar-tabacchi, vecchi alberghi, biliardi, meccanici, falegnami, corniciai, bancarelle di libri usati, ma soprattutto birrerie e caffè con le sedie fuori, a perdita d’occhio. E lasciar entrare sartine, militari, barboni, turisti, venditori di cocomeri e di zucchero filato, con tutto il coro delle comparse notturne. Si guasta un po’ il progetto, ma non c’è altra soluzione.
Caro Presidente, gli adoratori del sole sono giustamente trattati come una volta si trattavano gli scolaretti, senza spiegazioni; messi in nuovi alberghi della periferia, fra strade ancora dissestate, ma dai nomi sonanti che evocano soggiorni di delizie. Probabilmente non riusciranno a vedere la città se non da quei loro torpedoni che passano la maggior parte del tempo negli ingorghi del traffico. Imbrogliati un po’ da tutti, più per abitudine che per cattiveria; le ragazze accerchiate e seguite da branchi di seduttori pazienti.
Vanno al mare e lo trovano come lo troviamo noi, o irraggiungibile o sporco di petrolio; la benzina, che pure è un derivato del petrolio, manca invece nelle ore notturne. Nei ristoranti vengono tollerati per bontà, i conti sono illeggibili; scoprono che il coperto, un’invenzione italiana del tutto retorica, costa come un pollo; e che nel paese dove fiorisce l’arancio è imprudente chiedere un succo d’arancia; che il pesce viene dalla Turchia o dal Giappone e che la carne fa acqua da tutte le parti. Avventurandosi soli, subiscono l’agguato dello scippatore, il disprezzo del ladro di valigie, l’insistenza del venditore di souvenirs, le seduzioni del falsario e del cambiavalute ambulante. Apprendono però l’uso del condizionale allusivo: «la tariffa sarebbe… il conto sarebbe…». La notte, nelle loro stanzette studiate da magazzinieri, ascoltano l’idraulica alberghiera nei tubi più economici, o il traffico estroso sotto le finestre, i rapidi scatti delle utilitarie al segno del semaforo, i rabbiosi cambi di marcia, i motociclisti che gareggiano attorno all’isolato, le discussioni sportive, i commenti dei presentatori televisivi, gli applausi.
Se gente come questa si ostina a venire, un motivo dev’esserci, ed è questo: è gente molto stupida. Generalmente è attratta da un passato che noi abbiamo imparato a disprezzare, da monumenti che ingombrano i luoghi più centrali e adatti per l’edilizia, da musei dove tutti i pezzi sono catalogati e sorvegliati, quindi privi di interesse per il commercio antiquario. O anche attratta da spiagge remote e deserte, per fortuna rese da noi frequentabili con varie costruzioni in cemento, e da antichi paesaggi che la nostra dura operosità sta lottizzando. Attratta, infine, da una vita che una volta era basata sul riposo, la calma, il sonno delle città del silenzio, la gentilezza; tutti fenomeni che ora ci fanno ridere, e giustamente. E allora? A questo punto, inutile esprimere pietà o moraleggiare, si studi e si programmi invece la totale strumentalizzazione di questa massa di inadattati; tenendo conto che non va respinta, per ovvi motivi economici. La mia proposta, ancora allo stato di suggerimento, è che tutti dovrebbero essere catturati e adibiti, per il tempo che dura il loro soggiorno, a quei lavori che ormai ci ripugnano, come distribuire posta arretrata, dirigere il traffico, spazzare le strade, pulire le spiagge, picchiare i motociclisti, colmare le buche lasciate dagli operai del gas, completare le strade urbane alle quali si lavora da anni senza progresso. È chiaro che non tutti potrebbero essere adibiti a lavori di pubblica utilità. Ma è pure chiaro che le autorità potrebbero cederne una quota a organizzazioni private o a famiglie, per quei servizi più umili o propriamente domestici, come sbucciare le patate o che so io, che anche i turisti meno intelligenti sono in grado di svolgere.
Caro Signore, sto leggendo Caillois, nel suo fondamentale Les jeux et l’homme, e so che il gioco può essere di quattro generi. Basato sulla lotta, sul caso, sul pericolo e sulla maschera. La mimicry, cioè l’imitazione, la contraffazione, il mascheramento, è oggi il gioco più diffuso. La necessità di realizzarsi, di essere qualcuno in una società che chiede sempre nuovo impegno esteriore a tutti, spinge la più parte delle persone alla ricerca di un’identità da assumere. I sei personaggi cercano non più l’autore ma una maschera. Mentre non è facile essere, è possibile fingere di essere. Per tanto la necessità di una mimicry generale. Questo spiega la sensazione di stupore che lei prova a frequentare i suoi simili, che nella quasi totalità hanno assunto l’identità di artisti, di ribelli, di intellettuali, di ipersessuati, di anticonformisti, di poeta e contadino, di zingaro e barone, di perseguitati, di umiliati e offesi, di anime sublimi. E il sospetto con cui invece guarda le persone normali. In realtà, si pensa che la loro mimicry sia troppo subdola, spinta oltre il limite del gioco e anche della decenza. La normalità proclamata ci fa orrore.