L’INTERVISTA

Dopo gli ultimi ombrelloni la spiaggia diventava di colpo deserta e, passato il fosso, addirittura selvaggia, limitata da una macchia bassa che frenava le dune di sabbia, come un rustico tappeto messo tra il mare e la boscaglia. I cespugli erano ispidi, in complesso grigi e mangiati dal sale, ma nascondevano teneri mazzetti rosa e viola e fiori a forma di calice.

Camminammo in silenzio lungo la riva, dove la brezza arrotolava onde nervose, finché non vedemmo il vecchio. Avanti andavamo io e Falcone, ci seguivano l’operatore con la macchina a tracolla e due giovani che portavano altri attrezzi e ridevano di ogni cosa, additandosi il paesaggio, un cavallo che caracollava lontano o le nuvole alte e immobili, nelle quali riuscivano a vedere facce di comuni amici.

Il vecchio ci aspettava seduto su una duna, tra cardi selvatici, il bastone piantato sulla sabbia. Dalle pieghe del lenzuolo che l’avvolgeva uscivano liberi il petto e due braccia nodose. Sembrava un povero e precario bagnante ma subito ci colpì la tristezza assorta che spirava dal suo volto barbuto, e il nobile atteggiamento di tutta la persona. Aveva i capelli lunghi, fragili, e le dita della sua destra tamburellavano il ginocchio, con la dolce impazienza di un malato che non spera soccorsi e si divaga come può.

«Maestro, buon giorno, eccoci qua» disse Falcone quando gli fummo vicino. Parlava ad alta voce, col suo tono di cordialità professionale che caricava di una leggera ironia verso se stesso, per aprire la strada a un colloquio benevolo; ma il vecchio non mostrava di aver sentito e, poiché teneva ancora gli occhi fissi verso il mare, credetti che fosse sordo. Dopo un silenzio e altri saluti, ci fece cenno di sedere di fronte a lui. Girava il capo, ma senza guardare nessuno e vedemmo che era cieco. Tuttavia i suoi occhi conservavano una bellezza intatta che fece tacere i due giovani aiutanti, già pronti a continuare nei loro scherzi alle spalle del nuovo personaggio. Erano occhi di una profondità celeste ma non bonaria. Dopo un po’ abbassai lo sguardo.

«Non ho ben capito che cosa volete da me» disse infine dolcemente.

Falcone si accoccolò. «Maestro» disse «solo qualche domanda, ma non vogliamo farle perdere tempo».

«Ho molto tempo» rispose il vecchio senza sorridere; e, poiché i due giovani si guardavano sgomenti, indicando il sole alto e battendosi una mano sui fianchi per dire che loro avevano fame, e poco tempo da perdere, Falcone ci guardò severo e disse: «Bene, allora possiamo concertare un po’ la nostra intervista».

Fece un cenno di desolato rimprovero ai due giovani e tolse di tasca alcune carte, cercando tra lettere spiegazzate un foglietto di appunti. «Come lei sa, Maestro» cominciò «il nostro pubblico si interessa sempre più ai fatti e alle persone della cultura. Vuol sapere tutto, ci prende gusto, e bisogna andargli un po’ incontro. Ha visto la settimana scorsa la mia intervista con Bottoni? Abbastanza divertente, no? Siccome non sa parlare, ho rimediato facendogli fare imitazioni di animali. Povero Bottoni! I maligni dicono che non sa neanche scrivere ma ciò non ha importanza, visto che il suo pubblico non sa leggere».

Falcone ridacchiò mentre il vecchio taceva, assorto, senza dare segni di approvazione, insensibile alla nostra ilarità che finalmente sfogava.

«Veniamo a noi» continuò serio Falcone «ci sono alcuni punti, Maestro, che dovremmo chiarire. Primo: perché lei ha smesso di scrivere? Secondo: può darci qualche notizia sulla sua vita privata, parlarci dei suoi successi, dei suoi amori? Terzo… ma andiamo con ordine. Alla prima domanda, se ella è d’accordo, potremmo rispondere che lei non ha mai smesso di scrivere, che anzi pubblicherà presto qualcosa, magari un libro di memorie. Sarebbe una notizia interessante per i nostri ascoltatori, e farebbe anche il suo gioco».

«Non capisco» disse il vecchio.

«Si parlerebbe un po’ di lei» chiarì Falcone. «Il pubblico dimentica facilmente, si distrae, abbandona presto i suoi idoli, bisogna tenerlo sveglio, la concorrenza è enorme. Scuotiamolo, dunque. Lei potrebbe permettersi dichiarazioni esplosive, giudizi severi, epigrammi feroci: insomma, far parlare di sé. Coraggio. Allora, che ci sta preparando? Non vorrà farci credere che non scrive più».

«Scrivo qualcosa, ma non conservo niente» disse calmo il vecchio. Prese il bastone e indicò la riva: «Scrivo sulla sabbia, qualche volta».

«Interessante» esclamò Falcone rivolto all’operatore. «Questo possiamo farlo vedere, no? A chiusura dell’intervista, il Maestro scriverà sulla sabbia e noi riprenderemo la scena».

I due giovani aiutanti si guardarono approvando con un’estrema serietà, che a loro giudizio era il più comico commento. L’operatore aveva preparato la macchina e disse, stizzito: «Una cosa alla volta. Prima faccio un campo lungo per far capire dove siamo: prendo il mare e, in panoramica, arrivo su di voi. Poi, farete quello che vi pare».

«Bene» approvò Falcone. Fece cenno a uno degli aiutanti di avviare il magnetofono, si volse al vecchio e riprese a parlare, stavolta con studiata lentezza, rivolgendosi a un uditorio che egli vedeva raccolto nell’obiettivo della macchina da presa. «Eccoci qua» diceva «davanti al sonante mare, a colloquio con un poeta, anzi con un grande Maestro, di cui tutti avrete sentito parlare e forse letto le opere. Il Maestro ha acconsentito a riceverci, pur essendo molto occupato alla redazione finale delle sue memorie, una vera bomba letteraria, delle quali un importante settimanale si è già accaparrata l’esclusività. Voi vedete (e qui accennava al mare e alla boscaglia), voi vedete il semplice, naturale ambiente in cui il Maestro vive: una spiaggia deserta, lontano dal clamore mondano, in una profonda e continua meditazione, cioè in compagnia dei suoi pensieri. Vero, Maestro?».

«Non penso mai» disse il vecchio. «Non servirebbe a niente».

Falcone rise servilmente: «Come vedete, la modestia del Maestro non è inferiore al suo genio». Portò il microfono davanti alla bocca del vecchio e chiese allegramente: «Maestro, vuol dirci qualcuno dei suoi pensieri più recenti?».

«Il mare è canuto» disse il vecchio, dopo aver meditato a lungo.

«Magnifico!» esclamò Falcone. «Le onde bianche che si frangono sulla riva danno infatti la precisa sensazione, lirica, di una testa di vegliardo, con le ciocche dei capelli mosse dal vento. Suvvia, Maestro, un altro pensiero».

«Lungo la riva il mare risuona» disse il vecchio.

«Esatto» intervenne Falcone. «Risuona. Come in una conchiglia. E al risuonare di questo mare lei scandisce sulla lira, direi anzi determina, i suoi versi immortali. Vuol parlarci adesso dei suoi mitici personaggi, se sono veri o inventati?».

«Li ho dimenticati» rispose il vecchio, già stanco.

«Anche gli Dei?» insistette Falcone, con un sorriso ironico.

«Gli Dei hanno sete» rispose il vecchio. E, dopo un attimo: «Gli Dei se ne vanno».

Falcone rise teatralmente: «E dove crede che vadano, Maestro?».

Il vecchio accennò con la mano verso l’orizzonte, e un gesto del capo, per dirgli che la cosa non gli importava.

«Allora noi possiamo dire: Muor Giove e l’inno del poeta resta!» esclamò trionfante Falcone, cercando ammirazione nel mio sguardo.

«Sì, l’inno resta. Tradotto male» disse il vecchio sbadigliando. Si accoccolò meglio, poggiando un gomito nella sabbia e continuò a fissarci con i suoi occhi che non vedevano, mentre tra noi calava un silenzio impacciato e i due loschi aiutanti alzavano e abbassavano le braccia per dire che la cosa ormai si stava gonfiando, che era ora di andarsene, eccetera.

«Adesso gli facciamo qualche primo piano» propose l’operatore a Falcone. «Digli d’alzare la testa e spicciamoci, che è quasi la mezza».

Il vecchio sollevò il capo, volgendolo ai comandi dell’operatore, che sembrava spazientito e infine scoppiò: «Ma insomma lo guarda il cielo, o non lo guarda? Io non vedo gli occhi».

«Guardi il cielo e dica qualcosa» suggerì pronto Falcone, mentre i giovani aiutanti approvavano dandosi comici spintoni. Si sentiva il ronzio della macchina da presa e, poiché il vecchio taceva, Falcone per riempire il silenzio continuò: «Dunque, lei se ne sta qui, solo, cioè in compagnia delle Muse… A proposito, Maestro, vuol dire ai nostri ascoltatori quante sono le Muse?».

«Sono dieci».

«Nove» corresse bonario Falcone.

«Sono dieci. Lei confonde con i Comandamenti» rispose secco il vecchio. Si levò in piedi e apparve piccolo e curvo. Tastando la sabbia col bastone si avviava verso la boscaglia, poggiando i piedi enormi e duri sulle spine dei cardi e sui cespugli fioriti.

«Maestro, e ci lascia così?» implorò Falcone. «Non ci parla dei suoi progetti, dei suoi odi e dei suoi amori, ci dia qualche giudizio letterario! Di Sofocle che ne pensa? E la Donna? E la crisi del romanzo?…».

Il vecchio si allontanava agitando il bastone in segno di saluto, ma senza volgersi.

«Ripiglialo così, mentre si allontana!» suggerì Falcone all’operatore. Quando il vecchio sparì tra i primi cespugli di ginepro, uno dei giovani aiutanti ghignò: «Sarà effetto del troppo studiare, ma il vecchietto mi sembra svanito».

«Non ha azzeccato una risposta, proprio come io quando andavo a scuola, che per me era tutto cinese» aggiunse l’altro giovane, e la parola «scuola», gettando un lampo di incredulità sul suo passato gli stampò sulle labbra un sorriso d’orgoglio e quasi d’ammirazione per se stesso.

Tornammo verso gli ombrelloni, i giovani aiutanti e l’operatore adesso ci precedevano, camminando in fretta e ridendo. Dopo qualche passo l’operatore, certo per farsi perdonare la sua insolenza di poco prima, chiese con simulato interesse: «Ma che ha scritto?», e alludeva al vecchio.

Falcone stava pensando a come rappezzare l’intervista e camminava lungo la riva, attento a non bagnarsi le scarpe. La subitanea allegria dell’operatore lo indignava, non voleva rispondere, infine disse: «Poesie».

L’operatore concluse: «Mi ha tutta l’aria di andarsene. Se spalla in questi giorni, è un bel colpo, ce l’abbiamo solo noi».

Poi tacque e sino ai primi capanni nessuno aprì bocca. Le dune sparirono, il tappeto di fiori si interruppe, entravamo nella sabbia degli stabilimenti. Si sentiva già l’urlo di una canzone, trasmessa da un altoparlante e l’aria ne vibrava. Dopo un po’, tutti la cantavamo, marciando al passo.