IL VIAGGIATORE SCONTENTO
La chiesa davanti alla quale mi fermo è una costruzione neoclassica, ispirata al tempio della Fortuna virile, un po’ grossolana ma confortante per la familiarità che ha saputo assumere col tempo e che dà il tono giusto a tutta la piazza. Credo che sia il solo monumento di questo paese: tra le case vecchie e recenti spicca come un tentativo di architettura. Una corona d’alberi la circonda, lasciando libera solo la facciata, che ha colonne di pietra, alte su una bella scalea, e un frontone con l’orologio. Guardando meglio vedo che un elemento guasta il quadro: un campanile di fattura recente, rivestito di pietra e con una strana apparecchiatura sulla cima, che è la croce, ma così estrosa che potrebbe sembrare l’antenna della televisione.
Questo campanile mi affascina. È un brutto campanile, senza fede, che non riesce a nascondere il suo traliccio da trampolino. È il campanile moderno; così lo immaginano gli ingegneri e, una volta messo su, resta freddo come nel progetto, estraneo all’ambiente, con l’aria proterva delle cose stupide.
Per capire questa contaminazione, vi faccio un giro attorno e il mistero si chiarisce. Il campanile appartiene a un’altra chiesa, che stanno costruendo a ridosso della prima. È una chiesa enorme, neomoderna, ispirata… a che cosa? Al supermercato, al cinematografo, al serbatoio idrico? Un po’ a tutto questo: e con in più il ricordo di una torta nuziale. Ahimè, nelle cattedrali gotiche l’uomo esprimeva un tentativo d’elevazione, nelle chiese d’oggi si sente che i suoi pensieri sono rivolti altrove, alle fabbriche del nostro tempo – del resto, eccellenti – alle raffinerie, alle pompe della benzina, ai mobili svedesi e alle applicazioni delle materie plastiche. La pietra è un alibi, un pietoso rivestimento che non fa pensare agli etruschi, o ai maestri comacini, o ai gloriosi tagliatori del barocco, ma solo alla carta da parati. Si riveste tutto di pietra perché si capisca che l’edificio vuol essere un monumento, affinché la pietra ispiri pensieri solenni, o comunque un’idea del costo. Ma dietro c’è il vuoto, l’orrido vuoto degli hangars.
Bene, tra poco la costruzione sarà finita e così potranno levare di mezzo la vecchia chiesa, che ora occlude al nuovo edificio il possesso della piazza. Un plastico mostra come sarà la piazza ampliata e, per dare le proporzioni, vi hanno messo cinque o sei automobiline – il che fa pensare che anche gli alberi andranno via, a meno che non servano per la circolazione rotatoria. Non si sa mai.
A questo punto mi accorgo che un signore anziano e dignitoso, fermo a pochi passi, mi sta osservando con la bonarietà dello studioso di cose locali che aspetta al varco il turista. Mi interroga d’improvviso:
«Le piace il campanile?».
«No» rispondo. Ride felice. Si avvia così una lunga conversazione che proseguiamo al tavolo del caffè vicino.
«Lei viaggia per studio? No? Diciamo allora, per diporto?».
«Nemmeno. Sono soltanto un pessimo viaggiatore» rispondo. «Questo campanile basterà a guastarmi la giornata e, domani, che cosa mi aspetta altrove? Mi addolorano i danni che vedo compiere nei paesi dove passo. E dappertutto stanno facendo danni. Dovrei imparare la lezione di certi scrittori entusiasti che trovano tutto bello e giustificano col proseguire della vita gli orrori che si commettono in ogni città, ma non ci riesco. Sono un viaggiatore scontento».
«E io» dice lo studioso «sono un sedentario scontento». Sospira e aggiunge: «In un paese straniero, qualunque possa essere, una chiesa come questa nessuno oserebbe toccarla. Lo impedirebbe il rispetto, la convinzione che le cose migliori lasciate in testimonianza dalle generazioni passate sono un segno della stessa nobiltà del paese».
«Farebbero la chiesa nuova in un altro posto» dico.
«Qui da noi è diverso» dice lo studioso locale. «Noi italiani non contiamo più niente».
«Si spieghi meglio».
«Sono costretto a esporle una mia teoria. Questa: che da parecchi anni, l’Italia è stata invasa da un barbaro autoctono. Si tratta di un’invasione dall’interno. Sì, questo barbaro assedia le città dall’interno delle mura. Chiamatelo come volete, provinciale, neoricco, cafone, per me resta un barbaro. E io credo che certe cose si spiegano non soltanto con lo sviluppo della popolazione, ma con la metempsicosi, con la trasmigrazione delle anime, o con qualche diavoleria. Chissà da dove vengono, è probabile anche che ce li mandi un altro pianeta. Non escludiamolo. Comunque, sono italiani anche loro e non si distinguono, all’apparenza, dagli italiani veri, come me e come lei. Si distinguono da ciò che fanno. Mi segue?».
«Sono tutto orecchi».
«È molto difficile combatterli, prima di tutto perché sono in tanti e si nascondono anche nei posti di maggiore responsabilità e poi – questa forse è la ragione principale – perché sanno che cosa vogliono. Vogliono “il nuovo”. Appena possono, distruggono tutto ciò che stimano vecchio per far posto al nuovo, adorano il nuovo in tutte le sue forme e manifestazioni. La verità è che, come tutti i barbari, aspirano a diventare civili, ma hanno un’idea tutta particolare della civiltà. Per esempio, si vergognano delle nostre antiche città, delle strade strette, delle vecchie mura, del vecchio risparmio, si vergognano dei loro nonni e persino dei loro alberi. Il loro sogno è di essere altrove. Guardi i nomi che mettono ai loro caffè: questo si chiama New Orleans, quell’altro Broadway, quella trattoria: California, quel negozio: Piccadilly. Badi bene, questi barbari non sono sprovvisti di ingegno naturale né di senso economico. Con le loro distruzioni non ci rimettono mai, anzi ci guadagnano e se lei, per fermarli, invoca la storia o la cultura, loro sono tanto abili da invocare – che so? – il traffico o l’igiene. Io avanzo anche un’altra ipotesi… le dispiace?».
«No, anzi».
«L’ipotesi che il barbaro si annoia profondamente. Cioè, si stanca presto a vedere le stesse cose, o gli stessi monumenti, che al suo spirito non dicono niente. La sua opaca immaginazione ha sempre bisogno di nuovi stimoli. Ha provato mai a lasciare dei bambini soli in un salotto? Per bene che vada, cambiano posto ai mobili e rompono qualche vaso. Così il barbaro. Vuole trasformare il suo paese in qualcosa di più stravagante, cioè di moderno: e cambia posto a tutto. Il suo modello è una specie di America, così come egli pensa che sia l’America. Non ha, essendo barbaro, il gusto della conservazione, ma il genio dell’inaugurazione. Lascia dunque cadere in rovina le cose per poi giustificarne la distruzione. Gioisce persino dei terremoti, che spazzano il “vecchiume”. Manca di scuole – che se ne farebbe? – e di ospedali – ha una salute di ferro –, ma mette tutto il suo orgoglio nel costruire stazioni immense e inutili. Perché? Perché nel suo inconscio, il barbaro vorrebbe andarsene, trasmigrare, lasciare un paese che giudica vecchio, un museo. Soltanto da noi la parola museo viene usata in tono spregiativo».
«Interessante. Continui».
«Dicevo che il barbaro non ha il piacere della conversazione. Entra nel vecchio e nobile teatro settecentesco del suo paese e sogna di abbatterlo per farci un cinema come quelli di Milano. Nella piazzetta dove giocava da bambino ci sono due immense querce. Crede lei che gli ispirino sentimenti di gioia e di riconoscenza per quella testimonianza di una sua età felice? No, le querce ingombrano, non siamo in campagna, le taglia per far posto al parcheggio delle automobili. Guarda i bei lampioni di ghisa umbertini della Passeggiata e pensa: Che si deve ancora vedere, mentre a Roma hanno la lampada più potente del mondo. E si batte per far togliere quei lampioni e metterci dei tubi fluorescenti che accecano e svelano la modestia dell’architettura paesana. Se il barbaro ha ereditato da suo padre una gloriosa trattoria, ecco che la spoglia delle boiseries e dei vecchi trofei che ornavano le pareti per metterci uno zoccolo di freddo marmo e le fotografie dei divi del cinema o dello sport. Se subentra nella proprietà di un vecchio caffè, come questo, subito fa volare via i divani di velluto e gli specchi, mette sedie di metallo, tinge ogni parete di colore diverso, perché un solo colore non basta, non è di moda. Se ha un comodo e decoroso albergo, sogna il momento di poterlo ammodernare come uno di quei cellulari per turisti, dove le camere danno il senso della clausura e l’impianto idraulico vibra da cima a fondo appena aprite un rubinetto».
«Interessante. Mi sembra di esserci».
«Concludendo, il barbaro è insensibile alla segreta bellezza del tempo e non ha più nemmeno le remore del rispetto che la maestà del Paese, la sua gloria, imponeva ai barbari di una volta, ai Goti, per esempio».
«I Goti. Interess…».
«Sì, i Goti! I quali Goti, caro signore, pur assediando Roma per un anno – credo, nel 527. O nel 535? – e premendo con tutte le loro macchine di guerra contro le difese della porta Pinciana, mai pensarono di scavarvi un orrendo sottopassaggio, come pure i barbari odierni hanno fatto».
Dopo un lungo silenzio, dico: «Io credo, professore, che la sua teoria abbia un fondo di vero. Comincia a diventare impossibile tornare in un paese che ci è piaciuto. Tornando, anche dopo un anno, tutto è in fase di trasformazione. Io stesso, quando torno al mio paese, stento a riconoscerlo e la cosa che più mi amareggia è che negli occhi delle persone che amo e che ho lasciato laggiù, leggo la soddisfazione del progresso compiuto, leggo anzi un solo desiderio, quello di poter distruggere tutto con un colpo solo e ricostruire una città che somigli a qualcosa di già visto al cinema, strade sopraelevate, grattacieli, tunnel e che so io».
«Sono dei barbari costruttori» dice il signore anziano pensoso. E qui ci salutiamo e ognuno va per la sua strada.