RECUPERO POSSIBILE
Al cancello del Centro mi aspettavano il direttore e due giovani coi pantaloni di tela il giubbotto di pelle, la triste divisa degli arrabbiati. Erano due giovani dallo sguardo duro, e sorridevano con quella sfumatura di disprezzo che fa presagire la provocazione e l’attacco. Esitavo. «Venga, non abbia paura, non fanno niente» disse il direttore; si volse ai due giovani ricoverati, li chiamò: «Occhiobello! Peperone!» e quando quelli si accostarono, senza tuttavia staccarmi lo sguardo di dosso, li carezzò a lungo sul collo, rabbonendoli.
«Bravo Occhiobello, buono Peperone…». I due giovani si scuotevano in un fremito di gioia.
Anch’io li carezzai. Avevano i capelli oleosi di brillantina e riuscii a pulirmi le mani battendole sulle loro spalle. Sembravano gradire i miei complimenti.
«Vede, signore? Occhiobello e Peperone sono qui da tre mesi, ancora al primo corso, quando arrivarono si faticava in otto a tenerli, adesso sono i miei migliori amici». Il direttore, non senza orgoglio, indicava i due giovani che ci precedevano spiccando brevi corse e volgendosi a scrutare le nostre intenzioni, preoccupati di non imbroccare la strada giusta.
«Sanno che stiamo parlando di loro, sono molto intelligenti».
Non nascosi la mia sorpresa: «Intelligenti?».
«Ah, caro signore, è ora di sfatare la leggenda che questi giovani siano stupidi. Vedrà coi suoi occhi. Abbiamo un giovane dell’ultimo corso, si chiama Sultano, che non sapeva fare la divisione con le virgole e adesso studia fisica nucleare. Il suo sogno è una bomba che dissoci – si dice così? – l’ossigeno da tutta l’atmosfera terrestre, in un colpo solo. Non m’intendo di queste cose e come dico sbaglio, ma sembra che, scoppiando una bomba simile, la Terra brucerebbe in due minuti. Non è interessante?».
«Non avrei mai creduto» dissi.
«Come vede, di un giovinastro faremo uno scienziato. E ne abbiamo un altro, Pupattola – era detto il terrore degli abissi perché aggrediva soltanto cacciatori subacquei –, che adesso è un’autorità in fatto di aggressivi chimici. Ha un bell’avvenire, finirà all’estero, purtroppo noi i geni li lasciamo emigrare, da Leonardo a Marconi, eccetera».
«Straordinario. E come fate questi miracoli?».
«Non facciamo miracoli, applichiamo il nostro metodo. Genio e Delinquenza non sono forse i due aspetti di una stessa forza vitale? Noi tentiamo, nei migliori elementi, l’inversione. Non sempre riesce! Spesso un generoso delinquente nasconde solo un buon cittadino, mentre si dà il caso del piccolo teppista di quartiere che si rivela un genio. Non possiamo saperlo in anticipo».
Era l’ora della ricreazione, dappertutto incontrammo gruppi di giovani. Alcuni giocavano a palla, altri a guardie e ladri, la maggioranza scorrazzava nei prati. Al nostro passaggio – erano giovani del primo corso – tutti salutavano, qualcuno correva a farsi carezzare. Mi stupiva il loro silenzio. Un enorme giovane bruno venne a poggiarmi le mani sulle spalle, guardandomi fisso coi suoi occhi tondi e severi.
«Giù, Tarzan!» gli intimò il direttore. E a me sottovoce: «Vuole una sigaretta, sarebbe proibito, farò finta di non vedere». Tarzan ebbe la sua sigaretta e si allontanò fumando a grandi boccate, mentre i suoi compagni lo inseguivano ebbri di gioia, annusando il fumo che si dissolveva nell’aria limpida del mattino.
Cominciammo la visita dagli edifici della centrale di ricevimento. «Qui» spiegò il direttore «i giovani vengono accolti e sottoposti al lavaggio».
«Prudente misura igienica» osservai.
«Sì, entrano in quel tunnel e ne escono dopo mezz’ora, dall’altra parte, lavati, battuti e asciugati. Il lavoro viene svolto a catena, tutto macchinario tedesco. Dal lavaggio i giovani passano all’Odeon. Venga».
L’Odeon era un camerone nudo e senza finestre, violentemente illuminato a colori e col soffitto ornato di altoparlanti. Dovetti subito tapparmi le orecchie al frastuono della musica che ne usciva, ma i giovani che vi trovai – una quarantina in tutto – ne sembravano deliziati e danzavano furiosamente o ascoltavano rapiti, battendo il tempo e urlando.
«I giovani qui vengono lasciati soli, non possono uscire» spiegò il direttore «e per le prime ore non nascondono il loro entusiasmo. Il limite di resistenza medio è di trentadue ore. Qualcuno arriva a cinquanta, un certo Fenomeno è arrivato a settantaquattro, ma in media, dopo trentadue ore i giovani tentano di rompere gli altoparlanti, si tappano le orecchie, qualcuno sviene o impazzisce. Il trattamento dura sei giorni, il materiale è americano. Quando li tiriamo fuori, per tenerli buoni basta minacciarli di suonare una canzonetta. Ciò non esclude che, col tempo, molti ritornino alla musica. Classica, generalmente».
«Ingegnoso» dissi.
Entrammo in un vasto edificio, dove nelle varie aule erano in corso altri trattamenti. Per esempio, in un’aula una banda di giovani veniva «repressa». Erano sette giovani, tutti abbastanza ben piantati e dallo sguardo insolente, armati di temperini, chiavi inglesi, pugno di ferro e scacciacani. Il maestro tirò una leva e da un vano della parete, su un tappeto rotante, apparve e venne avanti un gruppo di gitanti, donne e uomini di mezza età. Erano vestiti chiassosamente, gli uomini in sandali, calzoncini e berretti a spicchi, le donne con grandi cappelli di paglia e abiti da marinaretti. Ognuno aveva la sua radio portatile.
La visione – in verità sconcertante – fu accolta da un urlo di dileggio. I giovani sghignazzavano e, alla reazione sdegnata degli uomini di mezza età, passarono subito all’attacco. Ma, appena sul tappeto, restarono inchiodati, gridando di dolore.
«Stanno ricevendo una scossa elettrica di non so quanti volts» disse il direttore. «È una scossa che non uccide ma, ripetendo l’esperimento, i giovani finiscono con l’associare la scossa elettrica alla visione dei gitanti e si astengono da ogni molestia. Questo trattamento dura settimane, sul tappeto si alternano coppie di fidanzati, miss di bellezza, guardie, signore sole, turisti in motocicletta. Col tempo, la sola vista di queste persone provoca nei nostri allievi tremore agli arti, sudorazione e assenza di salivazione, cioè i sintomi di quella che noi chiamiamo paura e che altro non è se non la difesa dell’organismo contro il pericolo».
«Bene. Ma non togliete forse a questi giovani ogni spirito di aggressività?» osservai.
Il direttore sorrise. «No. Pensiamo a tutto. Con un ulteriore trattamento, noi indirizzeremo il loro spirito d’aggressività nel senso giusto. Su questo stesso tappeto lei vedrà allora gruppi di Nemici – di tutte le specie, cominciando dagli intellettuali, ma generalmente stranieri – e allora la corrente sarà tolta dal tappeto e immessa nel pavimento, che è di metallo. Così i giovani, per non prendere la scossa, dovranno saltare sul tappeto e, per restarci, far sloggiare con le cattive maniere i Nemici».
«Le applicazioni sono praticamente infinite» dissi.
«Praticamente!» ripeté il direttore, strizzandomi l’occhio. «E ora passiamo al terzo grado, che conclude il primo corso. Vedere tutto, penso, l’annoierebbe».
In un vasto salone, sontuosamente arredato in stile Louis XV, una trentina di giovani erano alla lezione di condotta. Ben ravviati e puliti, salutavano vecchie matrone, aiutavano altre signore a scendere dal tram o a servire rinfreschi, cedevano il loro posto a donne incinte e s’inchinavano. Il tutto, con impulsi elettrici. Dopo ogni azione ricevevano bicchieri di aranciata, sigarette e fotografie di paesaggi svizzeri.
«Sembrano cani ammaestrati» non potei fare a meno di osservare.
«Sì, hanno raggiunto un sufficiente grado di “cinismo”» corresse il direttore, compiaciuto. «La perdita dell’uso della parola è la premessa necessaria per i successivi trattamenti. Ma la riacquisteranno. Fatta tabula rasa, noi cominciamo il recupero vero e proprio. Venga».
E continuammo la visita nel Reparto Ideali, dove agli allievi vengono inculcati gli ideali essenziali. Qui il trattamento veniva fatto in camere a pressione, di produzione nazionale. Nella biblioteca annessa regnava un profondo silenzio, mi accorsi che la maggior parte dei giovani era occupata a ritagliare dalle riviste le fotografie dei personaggi illustri: attori, bagnanti, re in vacanza, toreri, uxoricidi, truffatori, signore divorziate, banditi, signorine seminude, principesse da marito, concorrenti, assassini, falsi testimoni, vampiri, cantanti. Altri leggevano romanzi o addirittura ne scrivevano.
Poi tornammo all’aperto (in verità ero stanco) verso i campi di giuoco dell’ultimo corso. C’erano piscine, palestre di ginnastica, bar-tabacchi, palchi per la lotta libera e per la boxe. Lo spettacolo di quella gioventù alacre rendeva lieti.
Disse il direttore: «A questo punto, il problema è mandarli via».
«Il problema» osservai «mi sembra un altro: il reinserimento di questi giovani nella società. Come vi provvedete?».
Il direttore sorrise: «Dopo tre anni di corso, non desiderano altro. Tutti ci tornano anzi con eccessivo spirito di giustizia, di amore per la verità e di rispetto per il prossimo (esclusi i Nemici), che per qualche mese li rende sì inadatti alla società, ma “per eccesso”. Alcuni non resistono e tornano da noi, dove diventano insegnanti. La maggioranza soffre, ma si abitua».
«Melanconica conclusione» sospirai.
«Ogni metodo ha i suoi inconvenienti». Il direttore sorrideva. «Sappiamo bene che non tutto, fuori di qui, risponde al ritratto che ne facciamo. Così, sulle prime, il giovane recuperato ha la sensazione di trovarsi all’inferno. Scopre altre forme di violenza, non dilettantistiche, ma professionali, subdole, esercitate proprio contro i suoi recenti ideali (tra parentesi, abbiamo allo studio una riforma degli ideali, li attenueremo); violenze, dicevo, che non indignano più nessuno, anzi passano per furberia, per saper vivere, per buon governo. Scopre il furto legale, la vendetta legale, la sopraffazione legale, in una parola il teppismo legale, e se ne addolora. Ma sta zitto, memore della scossa elettrica. Con l’età fortunatamente il suo sdegno matura, diventa anzi la sua sola forma di consolazione e, se vogliamo, di morale».
Non sapevo che rispondere. Dissi: «I primi tempi dev’esser duro».
«Per i primi tempi» rispose il direttore «c’è la nostra assistenza. Ogni domenica i giovani si riuniscono nelle loro sedi, discutono puerili problemi, cantano inni, decidono gite e campeggi. Quotidianamente, poi, debbono compiere la cosiddetta buona azione. Non si meravigli quando vede un gruppetto di giovani in ansiosa attesa lungo le sponde di un fiume o a un crocicchio. Sono i nostri ragazzi che aspettano la signora anziana, per aiutarla; o l’inesperto del nuoto in procinto di affogare, per salvarlo. L’altro ieri, per salvare un agente, sono affogati in tre».