SENZA NOTIZIE
Il primo giorno fummo distratti dalla novità del paese, c’era anzi nell’aria e nelle strade qualcosa che ci piaceva: un colore diverso, una pulizia da vecchia incisione, dove anche le nuvole avevano un’immobilità e un peso medievale. Ci piaceva il fiume tra le case coi tetti aguzzi, il nitore dei quartieri nuovi, la calma degli argini, gli uccelli che venivano a becchettare tra le nostre scarpe. Ci piaceva anche la gente, dura ma ingenua, sguardi limpidi, i vecchi che invecchiavano bene, i due bambini che si alzarono per cederci il posto in tram. Per dieci minuti guardammo un uomo che attaccava un manifesto. Dapprima con un metro da falegname misurò lo spazio sul muro, segnandolo con tratti precisi di matita. Poi spalmò attento una colla biancastra e stese il suo manifesto. Con abili colpi di striscio, sempre più rapidi, asciugò con un panno gli orli dove la colla debordava, premendo dolcemente sulle bolle d’aria, staccandosi ogni tanto per avere un’idea dell’insieme. Faceva venir voglia di attaccare manifesti.
Quando ebbe finito, rimise a posto tutti gli attrezzi in un suo carrello e andò via. Soltanto allora ci accorgemmo che aveva in testa un cappello duro. «Ho capito perché qui tutto funziona» disse Barnaba. Ci sentivamo pieni di ammirazione e di colpa. Il manifesto, in tre lingue, diceva: «Cittadini e ospiti, ricordate che la Polizia si onora di essere sempre a vostra disposizione. Telefono n. 77».
Poi, cominciarono a mancarci le notizie. Provammo a comprare un giornale, era di formato medio, senza fotografie, denso di lunghi articoli e nessun nome o notizia che riguardasse il nostro paese. Ne ridevamo, la lingua che tutti attorno a noi parlavano ci divertiva. A pranzo, ascoltando la radio del ristorante, da quell’implacabile borbottio usciva ogni tanto una parola riconoscibile, che salutavamo come amici. Capimmo anche: Italien, e ci facemmo attenti, ma di tutto il discorso che seguì ci restarono due parole soltanto: temperature e sozialdemokrat. Non bastavano per nessuna ipotesi, eccetto che i socialdemocratici avessero la temperatura. Barnaba, invece di sorridere, disse pensieroso: «Non sarebbe una cattiva notizia, ma è poco. Io, se non ho i miei tre giornali al giorno, non posso giudicare». Ma lassù i nostri giornali non arrivavano ed eravamo dunque isolati.
Il quarto giorno, aprendo le finestre delle nostre camere, vedemmo che sotto di noi, per tutta la piazza, si stendeva il mercato delle erbe. Non ce n’eravamo ancora accorti, per il silenzio che era appena sfiorato dal tubare dei colombi municipali; e anche ora quella enorme folla si pigiava là sotto, alacre ma silenziosa. Barnaba disse: «Per forza stanno zitti, non hanno niente da dirsi». Poi aggiunse: «Mancano di mitologia».
Ora, pensandoci, il nostro paese sembrava scomparso dal mondo, lo vedevamo come uno scendiletto lontano, fitto di montagne e di case, di antiche torri, di cupole, di bella confusione, ma senza voce. Non avevamo notizie! Eppure laggiù qualcosa stava succedendo, le grandi cose di tutti i giorni, che erano la nostra vita. Barnaba sospirò: «Chissà quanti premi hanno dato da sabato e noi non sappiamo niente». Dopo un lungo silenzio, che gli fece storcere il naso in un tic violento, aggiunse: «Sono in pensiero per la Contessa. Avrà ottenuto il quarto divorzio?».
Lo rassicurai: «Ma certo, sta’ tranquillo. Piuttosto» aggiunsi scherzando «la Dama in nero avrà rivisto l’Uomo in grigio?».
Barnaba non sorrise ma assunse l’aria stupefatta di chi si sente rammentare un vecchio debito. E ora altri nomi ci venivano alla memoria e non osavamo evocarli temendo di aggravare la nostra ansia. Perché quei nomi erano tutto ciò che sentivamo di possedere, lo sprone a credere e ad amare, la giustificazione stessa del nostro futuro. E le loro avventure erano vita e immaginazione, romanzo e realtà; e che si ripetessero all’infinito ci dava la confortante certezza dell’eterno, e anche restituiva una misura all’Uomo, cioè a noi, proponendoci un cielo fisso come l’antico Olimpo. Ora capivo l’accenno di Barnaba alla mitologia, ma tanto valeva dire la parola giusta: religione.
Per passare il tempo quel pomeriggio andammo a un concerto di musiche mozartiane. Ne restammo incantati, tutto si svolgeva come un rito solenne e soltanto i lunghi applausi svelavano la presenza del pubblico, che sembrava assorbito nel nulla. Uscendo, Barnaba mi raccontò tutti gli strascichi di un festival italiano, che sapeva a memoria. Gli faceva bene sfogarsi e lo lasciai parlare.
I momenti peggiori venivano a tavola, quando non potevamo evitare di guardarci. La bocca di Barnaba si piegava allora in un sorriso foriero di pianto. Volevo fargli coraggio e sorridevo anch’io; poi, per attenuare l’attenzione, portavo il discorso su ciò che veramente ci agitava l’animo. Sarebbe stato più crudele tacere e fingere un’indifferenza che non sentivamo. «Scommetto» dissi «che la Principessa ne ha fatta un’altra delle sue. Forse è andata a ballare».
«Sì» rispose Barnaba guardando il piatto, ben sapendo che la mia gentilezza poteva precipitargli la commozione. E aggiunse, con uno sforzo che ammirai: «Immagino il chiasso. Ma che ne sappiamo del ballo, sempre ammettendo che si tratti di un ballo e non di una scampagnata? Non conosciamo gli altri personaggi, gli strascichi e le reazioni del governo. Che cos’è una notizia, senza strascichi?».
«Tu pretendi troppo» dissi sorridendo «la nostra curiosità deve avere un limite».
«E perché?» proruppe Barnaba fissandomi negli occhi, mentre irrigidiva le mascelle. «Perché non dobbiamo sapere tutto? E tre volte al giorno? Perché in questo paese non si deve sapere mai niente?». Scansò il piatto e aggiunse fremendo: «Che succede nel bel mondo? Chi sono i falsari della canzonetta? Ecco, non sai rispondermi. Nessuno, qui, sa rispondere. Dico a voi, testoni» esclamò rivolto agli altri avventori. «Sapete forse se la biondina abbandonerà la televisione? Lo sapete?».
Tutti si volsero a guardarci calmi, qualcuno sorridendo allo spettacolo della nostra vivacità. Alzavano i bicchieri in segno di cortese brindisi. «Ti prego» dissi «ci guardano». «E con questo?» urlò Barnaba. «Lasciali guardare. Impareranno qualcosa».
So per esperienza che in questi casi bisogna andare alla stazione, l’unico luogo di una città straniera dove la nostalgia per il paese lontano possa placarsi perché ogni stazione è il punto psicologico più vicino alla propria casa e la vista dei treni che partono dà la certezza che essi continueranno a partire e che un giorno anche noi potremo salire sul treno che ci porterà indietro. Vagammo lungo i binari dove riposavano i treni vuoti e quando vedemmo un vagone italiano, Barnaba disse: «Io ci salgo». Non potetti trattenerlo. Lo vidi percorrere il corridoio, fermarsi sulla soglia di ogni scompartimento, guardare sopra e sotto i sedili, sulle reticelle dei bagagli. «Scendi» gridavo. Ma avevo già capito e una speranza mi sorreggeva, stava cercando un giornale, magari uno di quelli che i viaggiatori stendono sul sedile dirimpetto per poggiarvi i piedi.
Si affacciò al finestrino pallido e furente: «L’hanno già pulito, questi maledetti. Hanno il culto della pulizia, non c’è rimasto nemmeno un foglio». Tornammo verso l’atrio e davanti ai grandi chioschi dei giornali, frugammo tra i pacchi esposti, ma, d’italiano, trovammo solo una rivista per lavori a maglia. Barnaba, in cui l’ira stava prendendo forme oratorie, puntando il dito contro il naso del giornalaio ripeteva: «Siamo senza notizie da una settimana. È indegno di una nazione civile, come voi dite di essere». Il giornalaio approvava, ma ci accorgemmo che ci aveva scambiato per rifugiati politici.
La sera, lungo la strada centrale, densa di vita, passeggiavamo guardando le vetrine. «È tutto più a buon mercato che da noi» osservai. Barnaba alzò le spalle: «Per forza» disse. «Producono come dannati. Ma che cosa vuoi dimostrare? Che sanno vivere? Che hanno il gusto della vita?». Finimmo davanti alle insegne di una compagnia di viaggi, dove i manifesti italiani, male incollati, calmavano un poco la nostra tristezza.
Io sapevo abbastanza dominarmi, prendemmo un tram e mi distrassi a osservare l’uomo che dava i biglietti. Faceva il suo lavoro con grave impegno, si sentiva l’ospite di quella vettura e accoglieva ogni nuovo passeggero come se la sua visita gli fosse non solo gradita, ma lo onorasse. Se era una vecchia signora a voler salire, egli scendeva a porgerle il braccio e aspettava che si fosse ben seduta prima di tirare il segnale di partenza. Chiudeva e apriva le porte, ringraziava continuamente e infine la sua presenza poteva dare la certezza di essere aiutati e protetti oltre il nostro breve viaggio, da funzionari simili per tutta la vita. Quando gli sorrisi, fece un breve rigido inchino.
«Osserva quest’uomo» dissi a Barnaba «e guarda quanta dignità conferisce al suo lavoro facendolo bene». Barnaba storse la bocca: «La dignità. Fammi ridere. Sono automi senza immaginazione, vivono a occhi chiusi». «Ah, no» protestai «direi anzi che sono contenti della loro vita e non sognano quella degli altri». Barnaba mi gettò un’occhiata di striscio: «Siamo già a questo punto? Bene, allora sappi che la vita degli altri è la nostra».
Il giorno dopo andammo al Consolato. Ci ricevette un segretario al quale chiedemmo qualche giornale del nostro paese, ma non ne aveva. Rovistando tra le carte del suo tavolo, Barnaba invece ne trovò uno, vecchio di una decina di giorni. Pure, rileggere quelle notizie ci riempì di una gioia fremente. Barnaba saltava da un titolo all’altro – oh, i grandi titoli! – con l’avidità dell’assetato che tuffa le braccia nella fonte dell’oasi, prima di immergervi la testa. «Rileggo tutto» mormorava «lasciami leggere». La sua voce tremava. Ben presto anche quel foglio non gli bastò. Lo fece a pezzi. «E dopo?» urlava. «E gli sviluppi? E gli strascichi?».
La sera andavamo lungo il lago. C’era il silenzio e il colore della buona pittura di una volta, i gabbiani venivano coi loro gridi rauchi a chiederci da mangiare. Si accostavano, camminandoci a fianco, il collo teso a guardarci e qualcuno zampettava all’indietro, come i bambini dei paesi che precedono la banda municipale e non vogliono perderne lo spettacolo.
«Mi piacerebbe vivere qui» dissi «in un posto dove gli uccelli non hanno paura degli uomini».
«Senza notizie?» disse Barnaba mettendo una disperata ironia nelle sue parole.
«Perché no?». Mi guardava esitante, per non dirmi quello che pensava, e sempre sperando che intendessi scherzare. Allora dissi: «Ho scherzato. Scusami».
Erano le due di notte quando Barnaba entrò nella mia stanza. «Non resisto» urlò e si prendeva la testa tra le mani. «Non resisto più. Facciamo qualcosa, svegliamo il sindaco, telefoniamo. Voglio sapere se la cantante sposa il Centrattacco. Voglio sapere se il Matricida ha scritto le sue memorie. E che hanno deciso gli Apolidi dell’Amore? Voglio sapere tutto».
«Calmati» esclamai. Ma Barnaba già misurava la stanza a lunghi passi, dando calci alle poltrone.
«Voglio sapere che stanno facendo laggiù». Adesso urlava.
Dovetti alzarmi, volevo fargli prendere un calmante, scaraventò lontano il tubetto e già si gettava sul telefono: «Datemi l’ambasciatore» gridava.
Allora lo colpii con un ceffone, forte e deciso. Rimase stupito a fissarmi, si toccava la guancia incredulo, poi scoppiò a piangere, ormai vinto, e scivolò accucciandosi a terra, finché il suo singhiozzare non divenne un lamento canino. Così lo lasciai e all’alba, svegliandomi, vidi che dormiva sullo scendiletto, con una lacrima ferma sul ciglio.