44
Alphonse Bérenger era un sessantenne con la faccia di bambino.
Il suo viso rubicondo era come trattenuto da una fitta maglia di capillari. Ogni volta che sorrideva strizzava gli occhi fino a farli diventare due fessure. Dirigeva il penitenziario da venticinque anni e gli mancavano pochi mesi alla pensione. Aveva la passione per la pesca, in un angolo del suo ufficio c’erano una canna e una cassetta con gli ami e le esche. A breve sarebbe stata la principale occupazione delle sue giornate.
Era considerato un brav’uomo, Bérenger. Negli anni della sua gestione, nel carcere non si erano mai verificati gravi episodi di violenza. Aveva un tocco umano con i detenuti, e i suoi secondini ricorrevano raramente all’uso della forza.
Alphonse Bérenger leggeva la Bibbia ed era ateo. Però credeva nelle seconde opportunità e diceva sempre che ogni individuo, se lo vuole, ha diritto a meritarsi il perdono. Qualunque colpa abbia commesso.
Aveva fama d’essere un uomo probo e si considerava in pace con il mondo. Però da qualche tempo non riusciva più a dormire la notte. Sua moglie gli diceva che era per via dell’approssimarsi della pensione, ma non era così. Ciò che tormentava i suoi sonni era il pensiero di dover rimettere in libertà il detenuto RK-357/9 senza sapere chi fosse e se avesse commesso qualche reato atroce.
«Questo tipo è... assurdo», disse a Mila mentre varcavano uno dei cancelli di sicurezza, diretti al braccio con le celle d’isolamento.
«In che senso?»
«È assolutamente imperturbabile. Gli abbiamo tolto l’acqua corrente, sperando che la smettesse di lavare. Lui ha continuato a pulire tutto solo con gli stracci. Gli abbiamo sequestrato anche quelli. Ha iniziato a usare la divisa. L’abbiamo costretto a servirsi delle posate del carcere. Lui ha smesso di mangiare.»
«E voi?»
«Non potevamo certo affamarlo! A ogni nostro tentativo ha sempre contrapposto una tenacia disarmante... o una mite determinazione, faccia lei.»
«E la scientifica?»
«Hanno passato tre giorni in quella cella, ma non hanno trovato materiale organico sufficiente a estrarre il suo dna. E io mi domando: com’è possibile? Tutti noi perdiamo milioni di cellule ogni giorno, sotto forma di minuscole ciglia o di scaglie di pelle...»
Bérenger aveva esercitato tutta la pazienza di provetto pescatore nella speranza che bastasse. Ma non era bastato. La sua ultima risorsa era quella poliziotta che s’era presentata a sorpresa quella mattina, raccontando una storia tanto assurda da sembrare vera.
Percorrendo il lungo corridoio, arrivarono davanti a una porta di ferro dipinta di bianco. Era la cella d’isolamento numero 15.
Il direttore guardò Mila. «Ne è sicura?»
«Fra tre giorni quest’uomo uscirà, e io ho l’impressione che non lo rivedremo più. Perciò sì, sono assolutamente sicura.»
La pesante porta fu aperta e si richiuse immediatamente alle sue spalle. Mila mosse il primo passo nel piccolo universo del detenuto RK-357/9.
Era diverso da come se l’era immaginato e dall’identikit che Nicla Papakidis aveva tracciato dopo averlo visto nei ricordi di Joseph B. Rockford. Tranne che per un particolare. Gli occhi grigi.
Era piccolo di statura. Aveva le spalle strette, con le ossa della clavicola sporgenti. La tuta arancione del carcere gli andava larga, tanto da costringerlo a rivoltare sia le maniche che l’orlo dei pantaloni. Aveva pochi capelli, concentrati ai lati della testa.
Era seduto sulla branda, e teneva sulle ginocchia una scodella d’acciaio. La stava ripassando con un panno di feltro giallo. Accanto a sé, sul letto, erano disposti ordinatamente delle posate, uno spazzolino da denti e un pettine di plastica. Probabilmente aveva appena finito di lustrarli. Sollevò appena il capo per guardare Mila, senza mai smettere di strofinare.
Mila si convinse che l’uomo sapesse perché lei era lì.
«Salve», disse. «Le dispiace se mi siedo un po’?»
Lui annuì educatamente, indicandole uno sgabello accostato alla parete. Mila lo prese e si accomodò.
Lo sfregamento insistente e regolare dello strofinaccio sul metallo era l’unico suono in quell’ambiente angusto. I rumori tipici del carcere erano stati banditi dalla sezione d’isolamento, per rendere più gravosa la solitudine della mente. Ma al detenuto RK-357/9 questo non sembrava dispiacere.
«Qui tutti si domandano chi lei sia», esordì Mila. «È diventata una specie di ossessione, credo. Lo è per il direttore di questo penitenziario. E anche per l’ufficio del procuratore. Gli altri detenuti si raccontano la sua leggenda.»
Lui continuò a guardarla, imperturbabile.
«Io non me lo domando. Io lo so. Lei è la persona che abbiamo chiamato Albert. La persona a cui diamo la caccia.»
L’uomo non reagì.
«C’era lei sulla poltrona di Alexander Bermann nella sua tana di pedofilo. E ha incontrato Ronald Dermis all’istituto religioso, quando era ancora un bambino. Era presente nella villa di Yvonne Gress mentre Feldher massacrava la donna e i suoi figli: è sua la sagoma nel sangue sul muro. Era insieme a Joseph B. Rockford quando ha ucciso la prima volta in quella casa abbandonata... Loro erano suoi discepoli. Ha istigato il loro abominio, ispirato le loro malvagità, standosene sempre acquattato nell’ombra...»
L’uomo strofinava, senza perdere il ritmo neanche per un istante.
«Poi, poco più di quattro mesi fa, decide di farsi arrestare. Perché l’ha fatto di proposito, non ho dubbi. In carcere incontra Vincent Clarisso, il suo compagno di cella. Ha quasi un mese per istruirlo, prima che Clarisso finisca di scontare la pena. Poi Clarisso, appena fuori, inizia a eseguire il suo piano... Rapire sei bambine, amputare loro il braccio sinistro, collocare i cadaveri per rivelare tutti quegli orrori che nessuno era mai stato in grado di scoprire... Mentre Vincent portava a termine il compito, lei era qui. Perciò nessuno può incriminarla. Queste quattro mura sono il suo alibi perfetto... Però il suo capolavoro resta Goran Gavila.»
Mila recuperò dalla tasca una delle audiocassette che aveva trovato nello studio del criminologo, e la lanciò sulla branda. L’uomo fissò la parabola che compì prima d’atterrare a pochi centimetri dalla sua gamba sinistra. Non si spostò, non fece neanche il gesto di schivarla.
«Il dottor Gavila non l’ha mai vista, non la conosceva. Ma lei conosceva lui.»
Mila sentiva accelerare i battiti del cuore. Era rabbia, risentimento, e qualcos’altro.
«Ha trovato il modo di entrare in contatto con lui stando qua dentro. È geniale: quando l’hanno messa in isolamento, ha iniziato a parlare da solo come un povero mentecatto, sapendo che le avrebbero piazzato un microfono, per poi far ascoltare le registrazioni a un esperto. Non uno qualsiasi, bensì il migliore nel suo campo...»
Mila indicò la cassetta.
«Le ho sentite tutte, sa? Ore e ore di intercettazioni ambientali... Quei messaggi non erano indirizzati al nulla. Erano per Goran... ‘Uccidere, uccidere, uccidere’... Lui le ha dato retta e ha ucciso moglie e figlio. È stato un paziente lavoro sulla sua psiche. Mi dica una cosa: come fa? Come ci riesce? Lei è bravissimo.»
L’uomo non colse il sarcasmo, o non se ne curava. Invece sembrava curioso di scoprire il resto della storia, perché non le toglieva gli occhi di dosso.
«Ma non è l’unico che sappia entrare nella testa della gente... Ultimamente ho appreso molto sui serial killer. Ho imparato che si dividono in quattro categorie: visionari, missionari, edonisti e cercatori di potere... Ma c’è una quinta specie: li chiamano killer subliminali.»
Si frugò nelle tasche, tirò fuori un foglio ripiegato e lo aprì per bene.
«Il più celebre è Charles Manson, che spinse i membri della sua famosa ‘Famiglia’ a compiere il massacro di Cielo Drive. Ma penso che ci siano due casi ancora più emblematici...» Lesse: «‘Nel 2005, un giapponese di nome Fujimatzu riesce a convincere 18 persone, conosciute via chat e sparse per il mondo, a togliersi la vita il giorno di San Valentino. Diversi per età, sesso, condizione economica ed estrazione sociale, erano uomini e donne normalissimi, senza problemi apparenti’». Alzò gli occhi sul detenuto: «Come sia riuscito a plagiarli è tuttora un mistero... Ma senta qui, questa è la mia preferita: ‘Nel 1999 Roger Blest, di Akron in Ohio, ammazza sei donne. Quando lo catturano, agli inquirenti racconta che gliel’ha “suggerito” un certo Rudolf Migby. Il giudice e la giuria pensano che voglia passare per malato di mente e lo condannano lo stesso all’iniezione letale. Nel 2002 in Nuova Zelanda, un operaio analfabeta di nome Jerry Hoover uccide quattro donne e poi dichiara alla polizia che gliel’ha “suggerito” un certo Rudolf Migby. Lo psichiatra dell’accusa si ricorda del caso del ‘99 e - essendo improbabile che Hoover possa conoscere la vicenda - scopre che un compagno di lavoro dell’uomo si chiama in effetti Rudolf Migby, che nel 1999 risiedeva ad Akron, in Ohio’». Guardò ancora l’uomo: «Be’, che ne dice? Ci trova delle somiglianze?»
L’uomo non disse nulla. La sua scodella brillava, ma lui non era ancora del tutto soddisfatto del risultato.
«Un ‘killer subliminale’ non commette materialmente il crimine. Non è imputabile, non è punibile. Per processare Charles Manson ricorsero a un artificio giuridico, tant’è che la condanna a morte venne derubricata in vari ergastoli... Qualche psichiatra vi definisce sussurratori, per la vostra capacità d’incidere sulle personalità più deboli. Io preferisco chiamarvi lupi... I lupi agiscono in branco. Ogni branco ha un capo, e spesso gli altri lupi cacciano per lui.»
Il detenuto RK-357/9 terminò di strofinare la scodella e la ripose accanto a sé. Poi appoggiò le mani sulle ginocchia, in attesa del resto.
«Ma lei li supera tutti...» Mila si mise a ridere. «Non c’è nulla che dimostri il suo coinvolgimento nei crimini commessi dai suoi discepoli. Senza prove per inchiodarla, fra poco tornerà a essere un uomo libero... E nessuno potrà farci nulla.»
Mila trasse un profondo sospiro. Si fissarono.
«Peccato: se solo sapessimo la sua vera identità, diventerebbe celebre e passerebbe alla storia, glielo dico io.»
Si sporse verso di lui, il suo tono di voce si fece sottile e minaccioso: «Tanto scoprirò chi sei».
Rimettendosi in piedi, si pulì le mani da una polvere inesistente e si apprestò a uscire dalla cella. Prima, però, si concesse ancora qualche secondo insieme a quell’uomo.
«Il tuo ultimo allievo ha fallito: Vincent Clarisso non è riuscito a portare a termine il tuo disegno, perché la bambina numero sei è ancora viva... Questo vuol dire che anche tu hai fallito.»
Studiò la sua reazione e per un attimo le sembrò che qualcosa si fosse mosso su quel volto fino ad allora imperscrutabile.
«Ci rivediamo fuori.»
Gli tese la mano. Lui rimase sorpreso, come se non se l’aspettasse. La osservò per un lunghissimo istante. Poi sollevò mollemente il braccio, e gliela strinse. Al tatto di quelle dita morbide, Mila provò un senso di repulsione.
Lui lasciò scivolare la mano dalla sua.
Lei gli diede le spalle e si avviò verso la porta di ferro. Bussò tre volte e attese, sapendo che il suo sguardo era ancora su di lei, piantato fra le sue scapole. Qualcuno da fuori iniziò a dare le mandate alla serratura. Prima che l’uscio si aprisse, il detenuto RK-357/9 parlò per la prima volta.
«È femmina», disse.
Mila si girò verso di lui, credendo di non aver capito. Il detenuto era tornato al suo straccio, a strofinare meticolosamente un’altra scodella.
Uscì, la porta di ferro si richiuse alle sue spalle e Bérenger le venne incontro. Con lui c’era anche Krepp.
«Allora... è andata?»
Mila annuì. Gli porse la mano che aveva stretto a quella del detenuto. L’esperto della scientifica si munì di una pinzetta e le staccò delicatamente dal palmo una sottile patina trasparente in cui erano state catturate le cellule dell’epidermide dell’uomo.
Per preservarla, la ripose subito in una vaschetta di soluzione alcalina.
«E adesso vediamo chi è questo figlio di puttana.»