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«Abbiamo avuto un problema di sovraccarico d’energia nell’impianto», aveva detto il comandante delle guardie private di Capo Alto quando Sarah Rosa gli aveva chiesto di spiegarle il blackout di tre ore nelle registrazioni delle telecamere avvenuto una settimana prima, quando si presumeva che Albert avesse portato la bambina nella casa dei Kobashi.

«E un fatto del genere non vi ha messo in allarme?»

«Nossignora...»

«Capisco», e non aveva aggiunto altro, spostando però lo sguardo sui galloni da capitano che l’uomo sfoggiava sulla divisa. Un grado finto come la sua funzione, del resto. Le guardie che avrebbero dovuto garantire l’incolumità dei residenti in realtà erano solo body-builder con una divisa. Il loro unico addestramento era consistito in un corso a pagamento di tre mesi tenuto da poliziotti in pensione presso la sede della società che li avrebbe assunti. La loro dotazione constava di un auricolare collegato a un walkie-talkie e di uno spray al pepe. Perciò per Albert non era stato difficile raggirarli. Inoltre nella barriera perimetrale era stata rinvenuta una breccia di un metro e mezzo, rimasta ben nascosta dalla siepe che copriva tutto il muro di cinta. Quel capriccio estetico aveva finito per vanificare l’unica vera misura di sicurezza di Capo Alto.

Ora si trattava di capire perché Albert avesse scelto proprio quel posto e proprio quella famiglia.

Il timore di trovarsi di fronte a un nuovo Alexander Bermann aveva spinto Roche ad autorizzare ogni tipo d’indagine, anche la più invasiva, sul conto di Kobashi e di sua moglie.

Boris era stato incaricato di spremere il dentista.

L’uomo probabilmente non aveva idea del trattamento speciale che gli sarebbe stato riservato nelle ore successive. Subire l’interrogatorio di un professionista non assomiglia per niente a quanto accade normalmente nelle stazioni di polizia di mezzo mondo, dove tutto si basa sullo sfiancamento del sospetto attraverso ore e ore di pressione psicologica e veglia forzata a rispondere sempre alle stesse domande.

Boris non cercava quasi mai di far cadere in contraddizione le persone che interrogava, perché sapeva che lo stress spesso produce effetti negativi sulla deposizione, che così diventa passibile di attacchi da parte di un bravo avvocato in tribunale. Non gli interessavano neanche le mezze ammissioni, e nemmeno i tentativi di patteggiamento che i sospetti mettevano in atto quando si sentivano alle corde.

No. L’agente speciale Klaus Boris cercava di ottenere solo la piena confessione.

Mila lo vide nella cucina dello Studio mentre si preparava a entrare in scena. Perché di questo, in fondo, si trattava: di una recita in cui le parti spesso s’invertono. Servendosi della menzogna, Boris avrebbe penetrato le difese di Kobashi.

Aveva le maniche della camicia arrotolate, una bottiglietta d’acqua in una mano e camminava avanti e indietro per allenare le gambe: a differenza di Kobashi, infatti, Boris non si sarebbe mai seduto, dominandolo per tutto il tempo con la sua stazza.

Intanto Stern lo aggiornava su quanto aveva rapidamente scoperto sul conto del sospettato.

«Il dentista evade parte delle tasse. Ha un conto off-shore in cui fa confluire i proventi in nero dell’ambulatorio e i premi dei tornei di golf a cui partecipa come semiprofessionista praticamente ogni fine settimana... La signora Kobashi, invece, preferisce un altro tipo di passatempo: ogni mercoledì pomeriggio s’incontra con un noto avvocato in un hotel del centro. Inutile aggiungere che l’avvocato gioca a golf tutti i fine settimana col marito...»

Quelle informazioni avrebbero costituito il grimaldello dell’interrogatorio. Boris le avrebbe centellinate, usandole al momento opportuno per far crollare il dentista.

La stanza per gli interrogatori era stata allestita molto tempo prima allo Studio accanto alla foresteria. Era angusta, quasi soffocante senza finestre e con quell’unico ingresso che Boris avrebbe chiuso a chiave non appena fosse entrato insieme all’indiziato. Quindi si sarebbe infilato la chiave in tasca, come faceva sempre: un semplice gesto che avrebbe sancito le posizioni di forza.

La luce al neon era potente e il lampadario emetteva un fastidioso ronzio: anche quel suono faceva parte degli strumenti di pressione di Boris. Lui ne avrebbe mitigato l’effetto indossando dei tappi di cotone.

Uno specchio finto separava la stanza da un’altra saletta, con ingresso indipendente, per gli altri della squadra che avrebbero assistito all’interrogatorio. Era molto importante che l’interrogato fosse sempre posizionato di profilo rispetto allo specchio e mai di fronte: doveva sentirsi osservato senza poter ricambiare quello sguardo invisibile.

Sia il tavolo che le pareti erano dipinti di bianco: la monocromia serviva a non offrirgli alcun punto su cui concentrare l’attenzione per riflettere sulle risposte. La sua sedia aveva una gamba più corta, e avrebbe zoppicato tutto il tempo per infastidirlo.

Mila entrò nella sala attigua mentre Sarah Rosa preparava il vsa (Voice Stress Analyzer), un apparecchio che avrebbe consentito di misurare lo stress dalle variazioni della voce. Microtremori, associati alle contrazioni muscolari, determinano oscillazioni al minuto a una frequenza tra i 10 e i 12 hertz. Quando una persona mente, la quantità di sangue nelle corde vocali diminuisce a causa della tensione, facendo ridurre di conseguenza la vibrazione. Un computer avrebbe analizzato le microvariazioni nelle parole di Kobashi, svelando le sue bugie.

Ma la tecnica più importante che l’agente speciale Klaus Boris avrebbe usato - e quella in cui praticamente era un maestro - era l’osservazione del comportamento.

Kobashi venne condotto nella sala degli interrogatori dopo essere stato cortesemente invitato - ma senza alcun preavviso a fornire dei chiarimenti. Gli agenti che avevano il compito di scortarlo lì dall’hotel in cui risiedeva con la sua famiglia, l’avevano fatto sedere da solo sul sedile posteriore dell’auto e avevano compiuto un percorso più ampio per portarlo allo Studio, per accrescere il suo stato di dubbio e d’incertezza.

Dato che doveva trattarsi solo di un colloquio informale, Kobashi non aveva chiesto l’assistenza di un avvocato. Temeva che quella richiesta lo esponesse a sospetti di colpevolezza. Era proprio su questo che puntava Boris.

Nella sala il dentista aveva un’aria provata. Mila lo osservò. Indossava pantaloni di colore giallo, estivi. Probabilmente facevano parte di uno dei completi da golf che si era portato appresso nella vacanza ai tropici e che adesso costituivano il suo unico guardaroba. Aveva un maglione fucsia di cachemire dal cui scollo s’intravedeva una polo bianca.

Gli avevano detto che di lì a poco sarebbe arrivato un inquirente per rivolgergli qualche domanda. Kobashi aveva annuito, mettendo le mani in grembo, in una posizione di difesa.

Boris intanto lo osservava dall’altra parte dello specchio, concedendosi una lunga attesa per studiarlo bene.

Kobashi notò sul tavolo una cartellina con sopra il suo nome. Era stato Boris a piazzarla lì. Il dentista non l’avrebbe mai toccata, così come non avrebbe mai spostato lo sguardo in direzione dello specchio sapendo benissimo di essere osservato.

In realtà la cartellina era vuota.

«Sembra la sala d’attesa di un dentista, no?» ironizzò Sarah Rosa, fissando il malcapitato dietro il vetro.

Poi Boris annunciò: «Bene: si comincia».

Poco dopo varcò la soglia della sala degli interrogatori. Salutò Kobashi, chiuse a chiave la porta e si scusò per il ritardo. Mise ancora una volta in chiaro che le domande che gli avrebbe posto erano soltanto delle richieste di chiarimenti, poi prese la cartellina sul tavolo e l’aprì fingendo di leggervi qualcosa.

«Dottor Kobashi, lei ha quarantatré anni, giusto?»

«Esatto.»

«Da quanto tempo esercita la professione di dentista?»

«Sono un chirurgo ortodontista», ci tenne a specificare. «Comunque sono quindici anni che esercito.»

Boris si prese un po’ di tempo per esaminare le sue carte invisibili.

«Posso chiederle qual è stato il suo reddito l’anno scorso?»

L’uomo ebbe un piccolo sussulto. Boris aveva messo a segno il primo colpo: il riferimento al reddito sottintendeva un’allusione alle tasse.

Come previsto, il dentista mentì spudoratamente sulla sua situazione economica, e Mila non poté fare a meno di notare quanto fosse stato ingenuo a farlo. Quel colloquio riguardava un omicidio e le informazioni fiscali che fossero emerse non avrebbero avuto alcuna rilevanza né avrebbero potuto essere trasmesse all’ufficio delle imposte.

L’uomo mentì anche su altri particolari, credendo di poter gestire agevolmente le risposte. E Boris per un po’ lo lasciò fare.

Mila conosceva il gioco di Boris. L’aveva visto fare ad alcuni colleghi della vecchia scuola, anche se l’agente speciale lo praticava a livelli indubbiamente superiori.

Quando un individuo mente deve effettuare un lavorio psicologico per compensare una serie di tensioni. Per rendere più credibili le sue risposte è costretto ad attingere a informazioni veritiere, già sedimentate nella sua memoria, e a ricorrere a meccanismi di elaborazione logica per amalgamarle alla menzogna che sta raccontando.

Ciò richiede uno sforzo enorme, nonché un impiego notevole dell’immaginazione.

Ogni volta che si racconta una bugia, bisogna ricordarsi di tutti i fatti con cui la si tiene in piedi. Quando le bugie sono molte, il gioco si fa complesso. È un po’ come il giocoliere che al circo tenta di far ruotare i piatti sui bastoni. Ogni volta che ne aggiunge uno, l’esercizio diviene sempre più difficile e lui è costretto a correre da una parte all’altra senza sosta.

E proprio allora che si diventa più deboli ed esposti.

Qualora Kobashi si fosse servito della propria fantasia, Boris l’avrebbe subito capito. L’incremento dell’ansia genera microazioni anomale, come incurvare la schiena, stropicciarsi le mani, massaggiarsi le tempie o i polsi. Spesso queste si accompagnano ad alterazioni fisiologiche, come aumento della sudorazione, innalzamento della tonalità della voce e movimenti oculari incontrollati.

Ma uno specialista ben addestrato come Boris sapeva anche che questi sono solo indizi di menzogne, e come tali devono essere trattati. Per giungere alla prova che il soggetto sta mentendo è necessario portarlo ad ammettere le proprie responsabilità.

Quando Boris ritenne che Kobashi si sentisse abbastanza sicuro di sé, passò al contrattacco insinuando nelle domande elementi che avevano a che fare con Albert e la scomparsa delle sei bambine.

Due ore dopo, Kobashi era stremato da un fuoco di fila di quesiti sempre più intimi e insistenti. Boris aveva stretto il cerchio intorno a lui, riducendo il suo spazio di difesa. Ormai il dentista non pensava più di chiamare un avvocato, voleva solo uscire al più presto di lì. Per il modo in cui era psicologicamente crollato, avrebbe detto qualsiasi cosa pur di riottenere la libertà. Forse avrebbe anche ammesso di essere Albert.

Solo che non sarebbe stata la verità.

Quando Boris se ne rese conto, uscì dalla stanza con la scusa di portargli un bicchiere d’acqua e raggiunse Goran e gli altri nella saletta dietro lo specchio.

«Non c’entra niente», disse. «E non sa niente.»

Goran annuì.

Sarah Rosa era da poco tornata con le risultanze delle analisi sui computer e sulle utenze dei cellulari in dotazione alla famiglia Kobashi, che non avevano offerto alcuno spunto. E non c’erano elementi d’interesse nemmeno fra le loro amicizie e frequentazioni.

«Allora si tratta certamente della casa», concluse il criminologo.

Che l’abitazione dei Kobashi fosse stata teatro - come nel caso dell’orfanotrofio - di qualcosa di terribile che non era mai venuto alla luce?

Ma anche questa teoria era debole.

«La villa è stata costruita per ultima sull’unico lotto del complesso rimasto libero. L’hanno terminata all’incirca tre mesi fa, e i Kobashi sono stati i primi e i soli proprietari», disse Stern.

Goran, però, non si dette per vinto: «Quella casa nasconde un segreto».

Stern capì al volo e chiese: «Da dove cominciamo?»

Goran ci pensò un attimo, poi ordinò: «Iniziate scavando in giardino».

 

Dapprima furono condotti i cani da cadavere, in grado di fiutare resti umani fino a grandi profondità. Poi fu la volta dei georadar per scandagliare il sottosuolo, ma sugli schermi verdi non apparve alcunché di sospetto.

Mila osservava gli uomini all’opera e il susseguirsi di quei tentativi: era ancora in attesa che Chang le fornisse l’identità della bambina ritrovata nella casa attraverso il confronto col dna dei genitori delle vittime.

Iniziarono a scavare verso le tre del pomeriggio. Le piccole ruspe rimuovevano la terra del giardino distruggendo la sapiente architettura di esterni che doveva essere costata fatica e molti soldi. Ora tutto veniva asportato e accatastato senza riguardo sopra i camion.

Il rumore dei motori diesel disturbava la quiete di Capo Alto. Come se non bastasse, le vibrazioni prodotte dalle ruspe facevano scattare continuamente l’allarme della Maserati di Kobashi.

Dopo il giardino, le ricerche si spostarono dentro la villa. Venne contattata un’impresa specializzata per rimuovere le pesanti lastre di marmo del salone. I muri interni vennero auscultati alla ricerca di vuoti, portati poi alla luce a colpi di piccone. Anche i mobili subirono una sorte infelice: smontati e sezionati, ormai erano da buttare. Gli scavi erano proseguiti anche in cantina e nella zona delle fondamenta.

Era stato Roche ad autorizzare quello scempio. Il Dipartimento non poteva permettersi di fallire un’altra volta, anche a costo di subire una causa milionaria per danni. Ma i Kobashi non avevano alcuna intenzione di tornare a vivere lì. Quanto gli apparteneva era stato irrimediabilmente inquinato dall’orrore. Avrebbero venduto la proprietà a un prezzo inferiore a quello d’acquisto, poiché la loro vita dorata non sarebbe stata più la stessa col ricordo di quanto era accaduto.

Verso le sei del pomeriggio, il nervosismo degli addetti ai lavori sulla scena del crimine era palpabile.

«Qualcuno vuol far smettere quel maledetto allarme?» urlò Roche indicando la Maserati di Kobashi.

«Non riusciamo a trovare i telecomandi delle auto», gli rispose Boris.

«Chiamate il dentista e fateveli dare! È possibile che vi debba dire tutto io?»

Stavano girando a vuoto. Invece di unirli, la tensione li metteva uno contro l’altro, frustrandoli per l’incapacità di venire a capo dell’enigma che Albert aveva ideato per loro.

«Perché ha vestito la bambina come una bambola?»

L’interrogativo faceva impazzire Goran. Mila non l’aveva mai visto così. C’era un che di personale nella sfida che aveva ingaggiato. Qualcosa di cui forse neanche il criminologo si rendeva conto. E che minava irrimediabilmente la sua capacità di ragionare lucidamente.

Mila si manteneva a distanza, snervata da quell’attesa. Che senso aveva il comportamento di Albert?

Nei pochi giorni che era stata a stretto contatto con la squadra e con i metodi del dottor Gavila, aveva imparato molte cose. Ad esempio, che un serial killer è un soggetto che uccide a intervalli di tempo variabili - da poche ore a mesi e perfino ad anni - con una coazione a ripetere il comportamento, che non è in grado di fermare. Per questo nel suo background mancano motivi quali l’ira o la vendetta. Il serial killer agisce per il ripetersi di una particolare motivazione, che è il solo bisogno o piacere di uccidere.

Ma Albert smentiva nettamente questa definizione.

Aveva rapito le bambine e le aveva uccise subito, l’una dopo l’altra, per poi tenerne in vita solo una. Perché? Non traeva piacere dall’uccisione in quanto tale, se ne serviva come strumento per attirare l’attenzione. Ma non su di sé. Su altri. Alexander Bermann, un pedofilo. Ronald Dermis, un suo simile che stava per mettersi all’opera.

Grazie a lui erano stati entrambi fermati. In fondo, aveva reso un servizio alla società. Paradossalmente si poteva dire che il suo male era a fin di bene.

Ma chi era Albert, veramente?

Un uomo qualsiasi - perché di questo si trattava, non di un mostro né di un’ombra - che in quel preciso istante si muoveva nel mondo come se nulla fosse. Faceva la spesa, girava per strada, incontrava persone - commesse, passanti, vicini di casa che non immaginavano minimamente chi fosse in realtà.

Camminava fra loro, ed era invisibile.

Oltre quella facciata, poi, c’era la verità. E la verità era fatta di violenza. Con essa i serial killer sperimentano una sensazione di potere, che risolve almeno temporaneamente il loro senso d’inferiorità. La violenza perpetrata consente di raggiungere un doppio risultato: ottenere il piacere e sentirsi potenti. Senza bisogno di avere rapporti con nessuno. Il massimo risultato con il minimo dispendio di ansia relazionale.

“È come se questi individui esistessero solo attraverso la morte degli altri”, pensò Mila.

A mezzanotte l’allarme dell’auto di Kobashi scandiva ancora il passaggio a vuoto del tempo, rammentando a tutti inesorabilmente che gli sforzi fatti fino ad allora erano stati pressoché inutili.

Dal sottosuolo non erano emerse novità. La villa era stata praticamente sventrata, ma i muri non avevano svelato alcun segreto.

Mentre Mila era seduta sul marciapiede davanti alla casa, le si avvicinò Boris che teneva fra le mani un cellulare.

«Sto cercando di telefonare ma non c’è campo...»

Mila controllò anche il suo apparecchio. «Forse è per questo che Chang non ha ancora chiamato per darmi l’esito dell’esame del dna

Boris indicò intorno a sé. «Be’, è consolante sapere che anche ai ricchi manca qualcosa, no?»

Sorrise, si rimise in tasca il telefono e si sedette accanto a lei. Mila non l’aveva ancora ringraziato per il regalo del parka, così ne approfittò per farlo adesso.

«Di niente», rispose lui.

In quel momento notarono che le guardie private di Capo Alto si stavano disponendo intorno alla villa a formare un cordone di sicurezza.

«Che succede?»

«Sta arrivando la stampa», le annunciò Boris. «Roche ha deciso di autorizzare le riprese della villa: pochi minuti per i telegiornali per dimostrare che stiamo facendo tutto il possibile.»

Lei guardò quei poliziotti fittizi prendere posto: erano ridicoli nelle divise blu e arancione, confezionate su misura per mettere in evidenza la corporatura muscolosa, con l’espressione dura del viso e l’auricolare del walkie-talkie che doveva conferire loro un aspetto molto professionale.

“Albert vi ha fregati facendo un buco nel muro e mandando in tilt le vostre telecamere con un semplice cortocircuito, idioti!” pensò.

«Dopo tante ore senza risposte, Roche starà schiumando...»

«Quello trova sempre il modo di uscirne bene, non preoccuparti.»

Boris prese le cartine e una busta di tabacco e iniziò a prepararsi una sigaretta in silenzio. Mila ebbe la netta sensazione che volesse chiederle qualcosa, ma non in modo diretto. E se fosse rimasta in silenzio non l’avrebbe aiutato.

Decise di dargli una mano: «Come hai passato le ventiquattrore di libertà che vi ha concesso Roche?»

Boris fu evasivo. «Ho dormito e ho pensato al caso. A volt serve schiarirsi le idee... Ho saputo che ieri sera sei uscita con Gavila.»

“Ecco, finalmente l’ha detto!” Ma Mila si sbagliava a pensare che il riferimento di Boris fosse motivato dalla gelosia. Eran altre le sue intenzioni e lo capì da quello che le disse dopo.

«Credo che lui abbia sofferto molto.»

Stava parlando della moglie di Goran. E lo faceva con un tono talmente afflitto da far pensare che, qualunque cosa fosse accaduta a quella coppia, aveva finito per coinvolgere anche la squadra.

«Veramente non so nulla», disse lei. «Lui non me ne ha parlato. Solo un accenno al termine della serata.»

«Allora forse è meglio che tu lo sappia adesso...»

Prima di proseguire, Boris si accese la sigaretta, tirò una profonda boccata ed espirò il fumo. Stava cercando le parole.

«La moglie del dottor Gavila era una donna magnifica, oltre che bella anche gentile. Non ho tenuto il conto delle volte che siamo stati tutti quanti a mangiare a casa loro. Faceva parte di noi, era come se anche lei avesse un ruolo nella squadra. Quando avevamo un caso difficile per le mani, quelle cene erano l’unico sollievo dopo una giornata in mezzo al sangue e ai cadaveri. Un rito di riconciliazione con la vita, non so se mi spiego...»

«E poi che le è successo?»

«È accaduto un anno e mezzo fa. Senza alcun preavviso, senza un’avvisaglia, se n’è andata.»

«L’ha lasciato?»

«Non solo Gavila, ma anche Tommy, il loro unico figlio. È un bambino dolcissimo, da allora vive con il padre.»

Mila aveva intuito che sul criminologo gravava la tristezza di una separazione, ma non avrebbe mai potuto immaginare tanto. “Come fa una madre ad abbandonare un figlio?” si chiese.

«Perché è andata via?»

«Nessuno ci ha mai capito niente. Forse aveva un altro, forse s’era stancata di quella vita, chi può saperlo... Non gli ha lasciato nemmeno un biglietto. Ha fatto le valigie e se n’è andata. Punto.»

«Io non avrei resistito senza conoscere il motivo.»

«La cosa strana è che lui non ci ha mai chiesto di scoprire dove fosse.» Il tono di Boris cambiò, si guardò intorno prima di proseguire, verificando che Goran non fosse nei paraggi. «E c’è qualcosa che Gavila non sa e non deve sapere...»

Mila annuì, facendogli capire che poteva fidarsi.

«Be’... Pochi mesi dopo, io e Stern l’abbiamo rintracciata. Viveva in una località sulla costa. Non siamo andati direttamente da lei, ci siamo fatti riconoscere per strada con la speranza che si avvicinasse per parlarci.»

«E lei...»

«È stata sorpresa di vederci. Ma poi ci ha salutati con un gesto, ha abbassato lo sguardo e ha proseguito.»

Seguì un silenzio che Mila non fu in grado d’interpretare. Boris gettò via il mozzicone, incurante dell’occhiataccia di una delle guardie private che andò subito a raccoglierlo dal prato.

«Perché me l’hai raccontato, Boris?»

«Perché il dottor Gavila è mio amico. E anche tu lo sei, anche se da meno tempo.»

Boris doveva aver compreso qualcosa che sia lei che Goran non avevano ancora focalizzato. Qualcosa che li riguardava. Stava solo cercando di proteggerli entrambi.

«Quando la moglie se n’è andata, Gavila ha tenuto duro. Doveva farlo, per via del figlio soprattutto. Con noi non è cambiato nulla. Sembrava sempre lo stesso: preciso, puntuale, efficiente. Ha cominciato a lasciarsi andare solo nell’abbigliamento. Era una cosa da poco, non ci doveva allarmare. Ma poi è arrivato il caso ‘Wilson Pickett’...»

«Come il cantante?»

«Sì, lo abbiamo chiamato così.» Era evidente che Boris si era già pentito di averne accennato. Così si limitò ad aggiungere: «È andata male. Ci sono stati degli errori, e qualcuno ha minacciato di sciogliere la squadra dando il benservito al dottor Gavila. È stato Roche a difenderci e a pretendere che rimanessimo ai nostri posti».

Mila stava per domandare cosa fosse successo, sicura che Boris alla fine gliel’avrebbe raccontato, quando l’allarme della Maserati di Kobashi riprese a suonare.

«Cazzo, questo suono ti perfora il cervello!»

In quel momento, Mila spostò casualmente lo sguardo verso la casa e, in un istante, catalogò una serie d’immagini che colpirono la sua attenzione: sul volto delle guardie private era comparsa la stessa espressione di fastidio e tutte si erano portate la mano all’auricolare del walkie-talkie, come se ci fosse stata un’improvvisa e insopportabile interferenza.

Mila guardò di nuovo la Maserati. Quindi si sfilò dalla tasca il cellulare: continuava a non esserci campo. Le venne un’idea.

«C’è un posto dove non abbiamo ancora cercato...» disse a Boris.

«Che posto?»

Mila indicò in alto.

«Nell’etere.»

 

Meno di mezz’ora dopo, nel freddo della notte, gli esperti della squadra elettronica avevano già iniziato a sondare l’area. Ognuno di loro indossava una cuffia e teneva fra le mani una piccola parabola puntata verso l’alto. Se ne andavano in giro - lentissimi e silenziosi come fantasmi - cercando di captare eventuali segnali radio o frequenze sospette, nel caso in cui l’etere nascondesse un qualche messaggio.

Il messaggio, in effetti, c’era.

Era quello che interferiva con l’allarme della Maserati di Kobashi e inibiva il campo dei cellulari. E che si era inserito nei walkie-talkie delle guardie private sotto forma di fischio insopportabile.

Quando gli uomini della squadra elettronica lo individuarono, dissero anche che era piuttosto debole.

Poco dopo, la trasmissione venne trasferita su una ricevente.

Si radunarono intorno all’apparecchio, per ascoltare ciò che il buio aveva da dirgli.

Non erano parole, ma suoni.

Erano immersi in un mare di fruscio in cui ogni tanto annegavano, per poi tornare a riemergere. Però c’era un’armonia in quel susseguirsi di note esatte. Brevi e poi prolungate.

«Tre punti, tre linee e ancora tre punti», tradusse Goran a beneficio dei presenti. Nella lingua del codice radio più famoso del mondo, quei suoni elementari avevano un significato univoco.

S.O.S.

«Da dove proviene?» domandò il criminologo.

Il tecnico osservò per un istante lo spettro del segnale che si scomponeva per poi ricomporsi sul monitor. Poi alzò lo sguardo verso la strada e indicò: «Dalla casa di fronte».