33

 

 

Appartamento denominato «Studio», ora rinominato «5° sito».

22 febbraio.

 

Nulla sarebbe stato mai più come prima.

Con quell’ombra che aleggiava su di loro, si erano confinati nella foresteria in attesa che le squadre di Chang e Krepp facessero i rilievi nell’appartamento. Roche, tempestivamente informato, era a colloquio con Goran da più di un’ora.

Stern se ne stava disteso sulla branda, con un braccio dietro la nuca e lo sguardo al soffitto. Sembrava un cowboy. La piega perfetta del suo abito non aveva risentito dello stress delle ultime ore e lui non aveva avvertito neanche la necessità di allentarsi il nodo della cravatta. Boris era girato su un fianco, ma era evidente che non dormiva. Il piede sinistro continuava a battere nervosamente sul copriletto. Rosa cercava di mettersi in contatto con qualcuno tramite il cellulare, ma il segnale era debole.

Mila osservava a tratti i suoi compagni silenziosi, per poi tornare al monitor del portatile che teneva sulle ginocchia. Aveva richiesto i file con le foto amatoriali scattate al luna park la sera del rapimento di Sabine. Erano già state visionate senza esito, ma lei voleva vederle alla luce della teoria che aveva già esposto a Goran, e cioè che la colpevole potesse essere una donna.

«Io vorrei sapere come diavolo ha fatto a portare dentro il cadavere di Caroline...» ammise Stern, dando voce alla domanda che assillava tutti.

«Già, vorrei saperlo anch’io...» si accodò Rosa.

Il palazzo di uffici in cui era situato lo Studio non era più presidiato come una volta, quando ci portavano i testimoni da proteggere. Lo stabile era praticamente vuoto e i sistemi di sicurezza erano disattivati, ma l’unico accesso all’appartamento era la porta d’ingresso, ed era blindata.

«È passato dall’entrata principale», fece notare laconicamente Boris, emergendo dal suo finto letargo.

Ma c’era una cosa che più di ogni altra li rendeva nervosi. Qual era il messaggio di Albert questa volta? Perché aveva deciso di gettare un’ombra così pesante sui suoi inseguitori?

«Secondo me sta solo cercando di rallentarci», ipotizzò Rosa. «Ci stavamo avvicinando troppo a lui, e così ha rimescolato le carte.»

«No, Albert non fa le cose a casaccio», s’intromise Mila. «Ci ha insegnato che ogni mossa è premeditata con attenzione.»

Sarah Rosa la inchiodò con lo sguardo: «E allora? Che cazzo vuoi dire? Che tra noi c’è un fottuto mostro per caso?»

«Non intendeva questo», intervenne Stern. «Sta solo dicendo che deve essere un motivo legato al disegno di Albert: fa parte del gioco che sta portando avanti con noi fin dall’inizio... La ragione potrebbe avere a che fare con questo posto, con l’uso che se n’è fatto in passato.»

«Potrebbe riguardare un vecchio caso», aggiunse Mila, accorgendosi che l’ipotesi cadeva nel vuoto.

Prima che il dialogo potesse riprendere, Goran entrò nella stanza accostando la porta alle sue spalle.

«Ho bisogno della vostra attenzione.»

Il tono era sbrigativo. Mila lasciò il portatile. Si misero in ascolto.

«Siamo ancora noi i titolari dell’indagine, ma le cose si stanno complicando.»

«Che significa?» ringhiò Boris.

«Lo capirete da soli fra qualche momento, ma v’invito sin d’ora a mantenere la calma. Vi spiegherò dopo...»

«Dopo cosa?»

Goran non fece in tempo a rispondere che la porta si aprì e l’ispettore capo Roche varcò la soglia. Con lui c’era un uomo robusto, sui cinquanta, con la giacca stazzonata, una cravatta troppo sottile per il collo taurino e un sigaro spento stretto fra i denti.

«Comodi, comodi...» disse Roche anche se nessuno fra i presenti aveva accennato a un saluto. L’ispettore capo aveva un sorriso tirato, di quelli che vorrebbero infondere tranquillità e invece generano ansia.

«Signori, la situazione è confusa ma ne verremo fuori: non lascerò certo che uno psicopatico semini dubbi sull’operato dei miei uomini!»

Come sempre, sottolineò l’ultima frase con troppa enfasi.

«Allora ho preso alcune precauzioni nel vostro esclusivo interesse, affiancandovi qualcuno nell’indagine.» Lo annunciò senza menzionare l’uomo che aveva accanto. «Voi mi capirete, ragioni di opportunità mi imporrebbero di sollevarvi dall’incarico. È imbarazzante: noi non riusciamo a trovare questo Albert, e lui viene addirittura a trovare noi! Così, d’accordo con il dottor Gavila, ho affidato al qui presente capitano Mosca il compito di assistervi fino alla chiusura del caso.»

Nessuno fiatò, anche se avevano già capito in cosa consisteva «l’assistenza» di cui avrebbero beneficiato. Mosca avrebbe assunto il controllo, lasciando loro una sola scelta: stare dalla sua parte e cercare di riguadagnare un po’ di credibilità, oppure tagliarsi fuori.

Terence Mosca era molto noto negli ambienti di polizia. Doveva la sua fama a un’operazione d’infiltraggio in un’organizzazione di trafficanti di droga, durata oltre sei anni. Aveva alle spalle centinaia di arresti e diverse altre operazioni sotto copertura. Non s’era mai occupato, però, di omicidi seriali o di crimini patologici.

Roche lo aveva chiamato. per un solo motivo: anni prima, Mosca gli aveva conteso la poltrona di ispettore capo. Visto come si stavano mettendo le cose, gli era sembrato opportuno coinvolgere il suo peggior rivale in modo da scaricargli parte del peso di un fallimento che ormai riteneva più che probabile. Una mossa rischiosa, che mostrava quanto si sentisse alle corde: se Terence Mosca avesse risolto il caso di Albert, Roche avrebbe dovuto cedergli il passo nella gerarchia di comando.

Prima di cominciare a parlare, il capitano fece un passo avanti rispetto a Roche, in modo da ribadire la sua autonomia.

«Il patologo e l’esperto della scientifica non hanno rilevato ancora nulla di significativo. L’unica cosa che sappiamo è che per entrare nell’appartamento il soggetto ha manomesso la porta blindata.»

Quando aveva aperto al loro arrivo, Boris non aveva notato segni d’effrazione.

«È stato molto attento a non lasciare tracce: non voleva rovinarvi la sorpresa.»

Mosca continuava a masticare il sigaro e a squadrare tutti con le mani in tasca. Non aveva l’aria di chi vuole infierire, ma ci riusciva lo stesso.

«Ho incaricato alcuni agenti di fare il giro del vicinato nella speranza di scovare un testimone. Magari riusciamo a ottenere un numero di targa... Quanto alle motivazioni che hanno spinto il soggetto a piazzare il cadavere proprio qui, siamo costretti a improvvisare. Se vi viene qualcosa in mente, non fatevi problemi. Per il momento è tutto.»

Terence Mosca girò i tacchi e, senza dar modo a nessuno di replicare o di aggiungere qualcosa, se ne tornò sulla scena del crimine.

Roche, invece, si fermò. «Non vi resta molto tempo. C’è bisogno di un’idea, ed è necessario che vi venga in fretta.»

Poi anche l’ispettore capo abbandonò la stanza. Goran richiuse la porta e subito gli altri gli si fecero intorno.

«Che cosa sarebbe questa novità?» domandò Boris, indispettito.

«Perché adesso abbiamo bisogno di un cane da guardia?» gli fece eco Rosa.

«Calmi, non avete capito», disse Goran. «Il capitano Mosca è la persona più adatta in questo momento. Sono stato io a richiedere il suo intervento.»

Ne furono stupiti.

«Lo so che cosa state pensando, ma così ho offerto una scappatoia a Roche e ho salvato il nostro ruolo nell’indagine.»

«Ufficialmente siamo ancora in gioco, ma lo sanno tutti che a Terence Mosca piace fare il cane sciolto», fece notare Stern.

«Per questo ho suggerito proprio lui: conoscendolo, non vorrà che gli stiamo fra i piedi, perciò non gli importerà ciò che facciamo. Dovremo solo aggiornarlo su come ci stiamo muovendo, tutto qui.»

Sembrava la migliore delle soluzioni, ma non eliminava il fardello del sospetto che gravava su ognuno di loro.

«Ci staranno con gli occhi addosso.» Stern scosse la testa, seccato.

«E noi lasceremo che Mosca continui a occuparsi di Albert, mentre ci dedichiamo alla bambina numero sei...»

Sembrava una buona strategia: se l’avessero ritrovata ancora viva, avrebbero spazzato via quel clima di sospetto che era venuto a crearsi intorno a loro.

«Penso che Albert abbia lasciato qui il corpo di Caroline per fregarci. Perché, anche se non dovesse spuntare fuori nulla sul nostro conto, rimarrà sempre un dubbio su di noi.»

Anche se cercava in tutti i modi di sembrare calmo, Goran sapeva,bene che le sue affermazioni non erano comunque sufficienti a rasserenare l’atmosfera. Perché da quando era stato ritrovato il quinto cadavere, ognuno aveva iniziato a guardare gli altri in modo diverso. Si conoscevano da una vita, ma nessuno avrebbe potuto escludere che qualcuno di loro custodisse qualche segreto. Era questo il vero scopo di Albert: dividerli. Il criminologo si domandava quanto ci volesse prima che il seme della diffidenza iniziasse a germogliare fra loro.

«All’ultima bambina non rimane molto tempo», affermò poi, sicuro. «Albert è quasi giunto a completare il suo disegno. Si sta solo preparando per il finale. Ma gli serviva campo libero, e ci ha esclusi dalla gara. Ecco perché abbiamo un’unica possibilità per trovarla, e passa attraverso la sola fra noi che è fuori da ogni sospetto, visto che si è aggregata alla squadra quando Albert aveva già pianificato tutto.»

Improvvisamente illuminata dai loro sguardi, Mila si sentì a disagio.

«Tu potrai muoverti molto più liberamente di noi», la incoraggiò Stern. «Se dovessi agire solo di testa tua, che faresti?»

In realtà, Mila un’idea ce l’aveva. Ma se l’era tenuta per sé fino a quel momento.

«Io so perché ha scelto solo bambine.»

Si erano posti quella domanda nel Pensatoio, quando ancora il caso era alle prime battute. Perché Albert non aveva rapito anche dei maschi? Il suo comportamento non celava mire sessuali, visto che non toccava le bambine.

“No, lui le ammazza soltanto.”

Allora perché quella preferenza?

Mila pensava d’essere giunta a una spiegazione. «Dovevano essere tutte di sesso femminile per via della numero sei. Sono quasi convinta che l’abbia scelta per prima, e non per ultima come vuole farci credere. Le altre erano femmine solo per confondere questo particolare. Ma è stata lei il primo oggetto della sua fantasia. Il perché non lo sappiamo. Forse ha una qualità speciale, qualcosa che la distingue dalle altre. Ecco perché deve tenerci segreta la sua identità fino alla fine. Non gli bastava farci sapere che una delle bambine rapite era ancora in vita. No, gli serviva che noi non sapessimo assolutamente chi fosse.»

«Perché questo potrebbe ricondurci a lui», concluse Goran.

Ma si trattava solo di affascinanti congetture che non erano di alcun aiuto.

«A meno che...» disse Mila, intuendo il pensiero degli altri, e ripeté: «A meno che non ci sia sempre stato un legame fra noi e Albert».

Ormai non avevano molto da perdere, e Mila non ebbe più remore a tirar fuori davanti a tutti la storia degli inseguimenti che aveva subito.

«È accaduto due volte. Anche se è solo della seconda che sono assolutamente sicura. Mentre sul piazzale del motel si è trattato più che altro di una sensazione...»

«E allora?» chiese Stern, curioso. «Cosa c’entra?»

«Qualcuno mi ha seguita. Magari è successo anche altre volte, non posso giurarlo, non me ne sono accorta... Ma perché? Per controllarmi? A che pro? Non ho mai posseduto informazioni di vitale importanza e sono sempre stata l’ultima ruota del carro tra voi.»

«Forse per depistarti», azzardò Boris.

«Anche questo: non c’è mai stata una vera ‘pista’, a meno che io non mi sia davvero avvicinata troppo a qualcosa e allora sono diventata importante a mia insaputa.»

«Però quando è accaduto al motel eri appena arrivata. E questo smentisce l’ipotesi del depistaggio», disse Goran.

«Allora rimane solo una spiegazione... Chiunque mi ha seguita voleva intimidirmi

«E per quale ragione?» disse Sarah Rosa.

Mila la ignorò. «In entrambi i casi, il mio inseguitore non ha involontariamente tradito la sua presenza. Penso che, anzi, si sia manifestato volutamente.»

«Va bene, abbiamo capito. Ma perché avrebbe dovuto farlo?» insistette Rosa. «Per favore, questa cosa non ha senso!»

Mila si voltò bruscamente verso di lei, facendo valere la differenza d’altezza.

«Perché fin dall’inizio ero l’unica fra voi in grado di trovare la sesta bambina.» Tornò a guardare tutti. «Non prendetevela a male, ma i risultati che ho ottenuto fino a oggi mi danno ragione. Voi sarete bravissimi a scovare serial killer. Ma io trovo le persone scomparse: l’ho sempre fatto e lo so fare.»

Nessuno la contraddisse. Vista in quell’ottica, Mila rappresentava la minaccia più concreta per Albert perché era l’unica capace di mandare a monte i suoi piani.

«Ricapitoliamo: lui ha rapito la sesta bambina per prima. Se io avessi scoperto subito chi era la numero sei, tutto il suo disegno sarebbe crollato.»

«Ma tu non l’hai scoperto», disse Rosa. «Forse non sei così brava.»

Mila non raccolse la provocazione. «Avvicinandosi così tanto a me sul piazzale del motel, Albert può aver commesso un errore. Dobbiamo tornare a quel momento!»

«E come? Non dirmi che hai anche una macchina del tempo!»

Mila sorrise: senza saperlo, Rosa era andata molto vicino alla verità. Perché c’era un modo per tornare indietro. Ignorando ancora una volta il suo alito di nicotina, si girò verso Boris. «Come te la cavi con gli interrogatori sotto ipnosi?»

 

«Adesso rilassati...»

La voce di Boris era appena un sussurro. Mila era distesa sulla sua branda, le mani lungo i fianchi e gli occhi chiusi. Lui le era seduto accanto.

«Ora voglio che inizi a contare fino a cento...»

Stern aveva appoggiato un asciugamano sulla lampada, immergendo la stanza in una piacevole penombra. Rosa s’era confinata sul suo letto. Goran se ne stava seduto in un angolo, osservando attentamente quanto avveniva.

Mila scandiva i numeri lentamente. Il suo respiro iniziò ad assumere un ritmo regolare. Quando terminò di contare era perfettamente rilassata.

«Adesso voglio che tu veda delle cose nella tua mente. Sei pronta?»

Lei annuì.

«Sei in un grande prato. È mattino e c’è un bel sole. I raggi ti scaldano la pelle del viso e c’è profumo di erba e di fiori. Stai camminando e sei senza scarpe: puoi avvertire il fresco della terra sotto i piedi. E c’è la voce di un ruscello che ti chiama. Ti avvicini e ti chini sull’argine. Immergi le mani nell’acqua, e poi le porti alla bocca per berla. È buonissima.»

La scelta di quelle immagini non era casuale: Boris aveva evocato quelle sensazioni per assumere il controllo di tutti e cinque i sensi di Mila. Così poi sarebbe stato più facile farla tornare con la memoria al momento esatto in cui si trovava nel piazzale del motel.

«Ora che ti sei dissetata, vorrei che tu facessi una cosa per me. Torna a qualche sera fa...»

«Va bene», rispose lei.

«È notte, e un’auto ti ha appena riaccompagnata al motel...»

«Fa freddo», disse subito lei. A Goran parve di vedere il brivido che la percorse.

«E poi, cos’altro?»

«L’agente che mi ha accompagnata mi saluta con un cenno del capo, poi fa inversione. E io sono sola in mezzo al piazzale.»

«Com’è? Descrivimelo.»

«Non c’è molta luce. Solo quella dell’insegna al neon, che cigola mossa dal vento. Di fronte a me ci sono i vari bungalow, ma le finestre sono buie. Sono l’unica cliente stanotte. Alle spalle dei bungalow c’è una cintura di altissimi alberi che ondeggiano. C’è la ghiaia per terra.»

«Incamminati...

«Sento solo i miei passi.»

Sembrava quasi di udire il rumore del brecciolino.

«Dove sei adesso?»

«Mi dirigo verso la mia stanza, e passo davanti all’ufficio del custode. Non c’è nessuno ma la tv è accesa. Con me ho il sacchetto di carta con due toast al formaggio: è la mia cena. Il fiato si condensa nell’aria gelata, così mi affretto. I miei passi sulla ghiaia sono l’unico rumore che mi accompagna. Il mio bungalow è l’ultimo della fila.»

«Stai andando bene.»

«Mancano solo pochi metri e io sono concentrata sui miei pensieri. C’è una piccola buca per terra, non la vedo e inciampo... E lo sento

Goran non se ne rese conto, ma istintivamente si sporse con il busto in direzione del letto di Mila, come se potesse raggiungerla su quel piazzale, proteggendola dalla minaccia che incombeva su di lei.

«Cosa hai sentito?»

«Un passo sulla ghiaia, dietro di me. Qualcuno sta copiando la mia camminata. Vuole avvicinarsi senza che io me ne accorga. Ma ha perso il ritmo dei miei passi.»

«E tu cosa fai adesso?»

«Cerco di rimanere calma, ma ho paura. Proseguo alla stessa velocità verso il bungalow, anche se vorrei mettermi a correre. E intanto penso.»

«Cosa pensi?»

«Che è inutile estrarre la pistola perché, se lui è armato, avrà tutto il tempo per fare fuoco per primo. Penso anche al televisore acceso nell’ufficio del custode, e mi dico che l’ha già fatto fuori. E ora toccherà a me... Il panico sta salendo.»

«Sì, ma tu riesci a conservare il controllo.»

«Mi frugo in tasca in cerca della chiave, perché l’unica possibilità è quella di entrare nella mia camera... Sempre che me lo lasci fare.»

«Sei concentrata su quella porta: ormai mancano pochi metri, giusto?»

«Sì. C’è solo quella nel mio campo visivo, il resto intorno a me è sparito.»

«Ma ora devi farlo tornare...»

«Ci provo...»

«Il sangue pulsa veloce nelle tue vene, l’adrenalina scorre, hai i sensi allertati. Voglio che mi descrivi il gusto...»

«La bocca è secca, ma sento il sapore acido della saliva.»

«Il tatto...»

«È il freddo della chiave della stanza dentro la mia mano sudata.»

«L’olfatto...»

«Il vento porta uno strano odore di rifiuti decomposti. Alla mia destra ci sono i bidoni della spazzatura. E aghi di pino, e resina.»

«La vista...»

«Vedo la mia ombra che si prolunga sul piazzale.»

«E poi?»

«Vedo la porta del bungalow, è gialla e scrostata. Vedo i tre scalini che conducono al portico.»

Boris aveva lasciato intenzionalmente per ultimo il senso più importante, perché l’unica percezione che Mila aveva avuto del suo inseguitore era stata sonora.

«L’udito...»

«Non sento nulla, tranne i miei passi.»

«Ascolta meglio.»

Goran vide che sul viso di Mila si formava una ruga, proprio in mezzo agli occhi, per lo sforzo di ricordare.

«Li sento! Adesso distinguo anche i suoi passi!»

«Ottimo. Ma voglio che ti concentri ancora di più...»

Mila obbedì. Poi disse: «Cosa è stato?»

«Non lo so», le rispose Boris. «Sei sola lì, io non ho sentito nulla.»

«Eppure c’è stato!»

«Cosa?»

«Quel suono...»

«Quale suono?»

«Qualcosa... di metallico. Si! Qualcosa di metallico che cade! Cade per terra, sulla ghiaia!»

«Cerca di essere più precisa.»

«Non lo so...»

«Avanti...»

«È... una moneta

«Una moneta, sei sicura?»

«Sì! Una di quelle da pochi centesimi! Gli è caduta e lui non se n’è accorto!»

C’era una pista insperata. Trovare la moneta in mezzo al piazzale. Trovarla e rilevare le impronte. Così si sarebbe potuto risalire all’inseguitore. La speranza era che si trattasse di Albert.

Mila continuava a tenere gli occhi chiusi, ma non smetteva di ripetere: «Una moneta! Una moneta!»

Boris riprese il controllo. «Va bene, Mila. Ora ti dovrò svegliare. Conterò fino a cinque, poi batterò le mani e tu riaprirai gli occhi.» Cominciò lentamente a scandire: «Uno, due, tre, quattro... e cinque!»

Mila spalancò gli occhi. Sembrava confusa, sperduta. Provò a rialzarsi, ma Boris la rimise giù appoggiandole dolcemente una mano sulla spalla.

«Non ancora», disse. «Potrebbe girarti la testa.»

«Ha funzionato?» gli chiese lei, fissandolo.

Boris sorrise: «A quanto pare abbiamo un indizio».

 

“Devo assolutamente trovarla”, si disse mentre con la mano spazzava la ghiaia del piazzale. “Ne va della mia credibilità... Della mia vita.”

Per questo era così attenta. Ma doveva fare in fretta. Non c’era molto tempo. In fondo erano pochi i metri che avrebbe dovuto setacciare. Esattamente quelli che la separavano dal bungalow, come quella sera. Se ne stava carponi, incurante di sporcarsi i jeans. Affondava le mani nei sassolini bianchi e sulle nocche aveva già i segni sanguinanti di piccole ferite che spiccavano nella polvere che le ricopriva. Ma il dolore non le dava fastidio, anzi aiutava la sua concentrazione.

“La moneta”, continuava a ripetersi. “Come ho fatto a non accorgermene?”

Niente di più facile che l’avesse trovata qualcuno. Un cliente, o magari il custode.

Era venuta al motel prima degli altri, perché non aveva più nessuno di cui fidarsi. E aveva l’impressione che anche i suoi colleghi non si fidassero più di lei.

“Devo fare in fretta!”

Spostava i sassi gettandoseli alle spalle, e intanto si mordeva il labbro. Era nervosa. Ce l’aveva con se stessa, e con il mondo intero. Inspirò ed espirò più volte, cercando di combattere l’agitazione.

Chissà perché le tornò in mente un episodio di quando era appena una recluta sfornata dall’accademia. Già allora erano evidenti il suo carattere chiuso e le difficoltà a legare con gli altri. L’avevano messa di pattuglia insieme a un collega più anziano che non la sopportava. Stavano rincorrendo un sospetto per i vicoli del quartiere cinese. Era troppo veloce e non erano riusciti a prenderlo, ma al suo collega era sembrato che, passando per il retro di un ristorante, avesse gettato qualcosa in una vasca di ostriche. Così la costrinse a immergersi fino alle ginocchia in quell’acqua stagnante e a frugare fra quei molluschi andati a male. Ovviamente non c’era nulla. E probabilmente le aveva solo voluto impartire un insegnamento da recluta. Da allora non mangiava più ostriche. Ma aveva imparato una lezione importante.

Anche i ruvidi sassolini che ora spostava con tanta foga erano un test.

Qualcosa per dimostrare a se stessa che era ancora capace di ricavare il meglio dalle cose. Era stato il suo talento per molto tempo. Ma proprio mentre si compiaceva di sé, un pensiero le attraversò la mente. Come quella volta con il collega anziano, anche adesso qualcuno s’era preso gioco di lei.

Non c’era nessuna moneta, in realtà. Era stato solo un inganno.

Nel momento esatto in cui Sarah Rosa raggiunse questa consapevolezza, sollevò il capo e vide avvicinarsi Mila. Smascherata e impotente, davanti alla collega più giovane la rabbia svanì e le si riempirono gli occhi di lacrime.

«Ha tua figlia, non è vero? È lei la numero sei