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Non poteva trattarsi solo di una coincidenza.
Mila rievocò, a beneficio dei presenti, gli aspetti più salienti dell’ultimo caso di cui si era occupata. Quello del maestro di musica. Mentre riportava le parole del sergente Morexu in merito al ritrovamento di quel nome - Priscilla - su un’agenda del «mostro», Sarah Rosa levò gli occhi al cielo, e Stern fece eco al suo gesto scuotendo il capo.
Non le credevano. Ma era comprensibile. Eppure Mila non si rassegnava all’idea che non ci fosse un nesso. Solo Goran la lasciava fare. Chissà cosa sperava d’ottenere il criminologo. Mila voleva a tutti i costi approfondire quello scherzo del caso. Ma dal resoconto della sua chiacchierata con Veronica Bermann aveva ottenuto solo un risultato: la donna aveva detto di aver seguito il marito fino alla casa della sua amante, dove ora erano diretti. Era possibile che in quel luogo si celassero altri orrori.
Forse anche i corpi delle bambine mancanti.
E la risposta al quesito riguardante la numero sei.
Mila avrebbe voluto dire agli altri: «L’ho chiamata Priscilla...» Ma non lo fece. Le sembrava quasi una bestemmia, adesso. Era come se quel nome l’avesse scelto Bermann in persona, il suo carnefice.
La struttura della palazzina era tipica di un sobborgo di periferia. Il classico quartiere ghetto, costruito intorno agli anni Sessanta come naturale corollario di una neonata area industriale. Era composto da palazzi grigi, che col tempo si erano ricoperti della polvere rossastra di una vicina acciaieria. Immobili di scarso valore commerciale, con un bisogno impellente di manutenzione. Ci viveva un’umanità precaria, composta soprattutto da immigrati, disoccupati e famiglie che andavano avanti grazie al sussidio pubblico.
Goran si era accorto che nessuno osava guardare Mila. Si tenevano lontani da lei perché la poliziotta, avendo fornito uno spunto inatteso, aveva come varcato un limite.
«Perché mai uno dovrebbe venire a vivere in un posto come questo?» si domandò Boris guardandosi intorno con aria schifata.
Il numero civico che stavano cercando si trovava al termine dell’isolato. Corrispondeva a un seminterrato a cui si accedeva attraverso una scala esterna. La porta era in ferro. Le uniche tre finestre, che si affacciavano al livello del piano stradale, erano protette da grate e schermate all’interno con assi di legno.
Stern provò a guardarci attraverso, piegato in una posizione ridicola, con le mani a coppa intorno agli occhi e il bacino all’indietro per non sporcarsi i pantaloni.
«Da qui non si vede niente.»
Boris, Stern e Rosa si fecero un cenno col capo e si posizionarono intorno all’entrata. Stern invitò Goran e Mila a stare indietro.
Fu Boris ad avvicinarsi. Non c’era un campanello, perciò bussò. Lo fece energicamente, col palmo della mano. Il rumore serviva a intimidire, mentre il tono di voce di Boris si manteneva volutamente calmo.
«Signora, qui è la polizia. Apra, per favore...»
Era una tecnica di pressione psicologica per far perdere l’orientamento all’interlocutore: rivolgerglisi con falsa pazienza e, contemporaneamente, mettendogli fretta. Ma in questo caso non funzionò, perché in casa sembrava non esserci nessuno.
«Va bene: entriamo», propose Rosa, che era la più impaziente di verificare.
«Dobbiamo aspettare che Roche ci chiami per dirci che ha ottenuto il mandato», rispose Boris e guardò l’ora: «Non dovrebbe metterci troppo...»
«‘Fanculo Roche e ‘fanculo il mandato!» si oppose Rosa. «Potrebbe esserci qualsiasi cosa là dentro!»
Goran intervenne: «Ha ragione lei: entriamo».
Da come tutti accolsero la decisione, Mila ebbe la conferma che Goran contava più di Roche in quel piccolo consesso.
Si disposero davanti alla porta. Boris tirò fuori un kit di cacciaviti e si mise a trafficare con la serratura. Dopo pochi istanti il congegno di apertura scattò. Tenendo la pistola bene in pugno, con l’altra mano spinse la porta di ferro.
La prima impressione fu di un luogo disabitato.
Un corridoio, stretto e spoglio. La luce del giorno non era sufficiente a illuminarlo. Rosa puntò la sua torcia e scorsero tre porte. Le prime due sulla sinistra, la terza in fondo.
La terza era chiusa.
Iniziarono ad avanzare nei locali. Boris davanti, dietro di lui Rosa, quindi Stern e Goran. Mila chiudeva la fila. Tranne il criminologo, avevano tutti in mano un’arma. Mila era solo «aggregata» alla squadra e non avrebbe potuto, ma la teneva infilata nei jeans, dietro la schiena, con le dita chiuse intorno al calcio, pronta a estrarla. Per questo era entrata per ultima.
Boris provò l’interruttore che era su una delle pareti. «Non c’è luce.»
Sollevò la torcia per guardare nella prima delle tre stanze. Era vuota. Sul muro si poteva notare una macchia di umido che risaliva dalle fondamenta, mangiandosi come un cancro tutto l’intonaco. I tubi del riscaldamento e quelli degli scarichi s’incrociavano sul soffitto. Sul pavimento si era creata una pozza di liquami.
«Che fetore!» disse Stern.
Nessuno avrebbe potuto vivere in quelle condizioni.
«A questo punto è evidente che non c’è alcuna amante», disse Rosa.
«Allora cos’è questo posto?» si domandò Boris.
Arrivarono nei pressi della seconda stanza. La porta era rigida sui cardini arrugginiti, lievemente discosta dal muro: quell’angolo poteva offrire un facile rifugio a un eventuale aggressore. Boris la spalancò con un calcio, ma dietro non c’era nessuno. La stanza era del tutto identica alla prima. Le piastrelle del pavimento erano saltate, lasciando scoperto il cemento che ricopriva le fondamenta. Non c’erano mobili, solo lo scheletro d’acciaio di un divano. Proseguirono oltre.
Restava un ultimo locale. Quello in fondo al corridoio, la cui porta era chiusa.
Boris sollevò le prime due dita della mano sinistra, portandosele agli occhi. Un segno concordato con Stern e Rosa che presero posizione ai lati della porta. Quindi il giovane poliziotto indietreggiò di un passo, caricò un calcio e lo scagliò contro il punto in cui c’era la maniglia. La porta si spalancò e i tre agenti si misero subito in linea di tiro, illuminando contemporaneamente con le torce ogni angolo. Non c’era nessuno.
Goran si spinse fra loro, lasciando scivolare la mano col guanto di lattice sulla parete. Trovò l’interruttore. Dopo due brevi singhiozzi, si accese un neon sul soffitto, facendo ricadere sulla stanza la sua luce polverosa. Era un ambiente del tutto diverso dagli altri. Per prima cosa era pulito. Le pareti non presentavano segni d’umidità, perché erano rivestite di carta plastificata e impermeabile. Qui il pavimento aveva ancora le piastrelle, ed erano sane. Non c’erano finestre, ma un condizionatore d’aria entrò in azione dopo qualche secondo. L’impianto elettrico era esterno ai muri, segno che era stato aggiunto dopo. Canaline di plastica conducevano i cavi all’interruttore che aveva permesso a Goran di attivare la luce, ma anche a una presa di corrente sul lato destro della stanza dove, appoggiato al muro, c’era un tavolino con una sedia per ufficio. E, sopra il tavolo, un personal computer spento.
Era l’unico arredo, fatta eccezione per una vecchia poltrona di pelle che invece si trovava accostata alla parete opposta, a sinistra.
«A quanto pare, ad Alexander Bermann interessava solo questa camera», disse Stern rivolgendosi a Goran.
Rosa avanzò nel locale, dirigendosi verso il computer: «Sono sicura che lì ci sono le risposte che stiamo cercando».
Ma Goran la fermò, trattenendola per un braccio. «No, è meglio procedere con ordine. Ora usciamo tutti di qui per non alterare l’umidità dell’ambiente.» Quindi si rivolse a Stern: «Chiama Krepp perché venga con la sua squadra a rilevare le impronte. Io avverto Roche».
Mila osservò attentamente la luce che brillava negli occhi del criminologo. Era convinta che fosse sicuro di essere molto vicino a qualcosa d’importante.
Si passò le dita sulla testa, come se si stesse pettinando i capelli, che però non aveva. Gli era rimasto solo un folto collarino sulla nuca, da cui spuntava una coda di cavallo che scendeva sulla schiena. Un serpente verde e rosso si allungava sull’avambraccio destro, con le fauci che si aprivano sulla mano. Anche l’altro braccio aveva un tatuaggio simile, come nella porzione di torace che s’intravedeva sotto al camice. In mezzo agli svariati piercing che gli ricoprivano il volto c’era Krepp, l’esperto della scientifica.
Mila era rapita dal suo aspetto, così lontano da quello di un comune sessantenne. Pensò: “Ecco come finiscono i punk quando invecchiano”. Eppure, fino a qualche anno prima, Krepp era un normalissimo signore di mezz’età, abbastanza austero e piuttosto grigio nei modi. Da un giorno all’altro, il cambiamento. Ma, dopo che tutti avevano verificato che quell’uomo non era affatto uscito di senno, nessuno aveva più detto una parola sul suo nuovo look, perché Krepp era il migliore nel suo campo.
Dopo aver ringraziato Goran per aver preservato l’umidità originaria della scena, Krepp si era messo subito al lavoro. Aveva trascorso un’ora nella stanza con la sua squadra, tutti muniti di camice e con le maschere sul volto per proteggersi dalle sostanze che utilizzavano per rilevare le impronte, poi era uscito dal seminterrato e si era avvicinato al criminologo e a Roche, che nel frattempo li aveva raggiunti.
«Come va Krepp?» l’aveva salutato l’ispettore capo.
«Questa storia del cimitero di braccia mi sta mandando fuori di testa», esordì l’esperto. «Stavamo ancora analizzando quegli arti in cerca di un’impronta utile, quando ci avete chiamati.»
Goran sapeva che rilevare un’impronta sulla pelle umana era la cosa più difficile in assoluto, per via di una possibile contaminazione, o per la sudorazione del soggetto da esaminare o, se si tratta di tessuti di un cadavere come nel caso delle braccia, per via dei fenomeni putrefattivi.
«Ho provato con i fumi di iodio, con il krome-kote e perfino con l’elettronografia.»
«Che roba sarebbe?» chiese il criminologo.
«È il metodo più moderno per cogliere le impronte lasciate sulla pelle: una radiografia in emissione elettronica... Quel maledetto Albert è piuttosto abile nel non lasciare impronte», disse Krepp. E Mila notò che era rimasto l’unico a riferirsi all’assassino con quel nome, perché per gli altri aveva ormai assunto l’identità di Alexander Bermann.
«Allora cosa abbiamo qui, Krepp?» chiese Roche che era stanco di sentire cose che non gli servivano.
Il tecnico si sfilò i guanti e tenendo lo sguardo sempre basso, iniziò a descrivere ciò che avevano fatto: «Abbiamo usato la ninidrina, l’effetto non era del tutto nitido al laser, così l’ho migliorata col cloruro di zinco. Abbiamo rilevato alcune serie d’impronte sulla carta da parati adesiva accanto all’interruttore della luce e sul rivestimento poroso dei tavolo. Per il computer è stato più difficile: le impronte si sovrapponevano, avremmo bisogno del cianoacrilato, ma dovremmo portare la tastiera nella camera barica e...»
«Dopo. Non abbiamo tempo di procurarci una tastiera sostitutiva e dobbiamo analizzare il computer ora», lo interruppe Roche che aveva fretta di sapere. «Insomma: le impronte appartengono a una sola persona...»
«Sì, sono tutte di Alexander Bermann.»
La frase colpì tutti, tranne uno: colui che sapeva già la risposta. E la conosceva sin dal momento in cui avevano messo piede in quel seminterrato.
«A quanto pare, Priscilla non è mai esistita», disse infatti Gavila.
Lo affermò senza guardare Mila, che avvertì una fitta all’orgoglio quando lui la privò del conforto del suo sguardo.
«C’è un’altra cosa...» Krepp aveva ripreso a parlare. «La poltrona di pelle.»
«Cosa?» domandò Mila, emergendo dal silenzio.
Krepp la guardò come quando si nota qualcuno per la prima volta, poi abbassò gli occhi sulle sue mani bendate, lasciandosi scappare un’espressione stranita. Mila non poté fare a meno di pensare che era proprio assurdo che Krepp, conciato com’era, guardasse lei in quel modo. Ma non si scompose.
«Non ci sono impronte sulla poltrona.»
«Ed è strano?» domandò Mila.
«Non saprei», si limitò ad affermare Krepp. «Dico solo che ce ne sono dappertutto ma lì sopra no.»
«Però abbiamo le impronte di Bermann su tutto il resto: che c’importa, giusto?» si inserì Roche. «Ci bastano per incastrarlo come si deve... E, se proprio volete saperlo, a me questo tizio piace sempre meno.» E Mila pensò che invece doveva piacergli proprio parecchio visto che era la soluzione per tutti i suoi grattacapi.
«Allora cosa faccio con la poltrona, continuo ad analizzarla?»
«Fregatene di quella dannata poltrona e lascia che i miei uomini diano un’occhiata al personal computer.»
Sentendosi chiamare in causa in quel modo, quelli della squadra cercarono di non incrociare gli sguardi per non ridere. A volte il tono da sergente di ferro usato da Roche poteva essere paradossale più dell’aspetto di Krepp.
L’ispettore capo si allontanò verso l’auto che l’aspettava alla fine dell’isolato, non senza aver prima rinfrancato i suoi con un: «Forza ragazzi, conto su di voi».
Quando fu abbastanza lontano, Goran si rivolse a tutti. «Va bene», disse, «vediamo cosa c’è in quel computer.»
Ripresero possesso della stanza. Le pareti rivestite di plastica la facevano somigliare a un grande embrione, e il covo di Alexander Bermann stava per schiudersi solo per loro. Almeno era quello che speravano. Indossarono i guanti di lattice. Poi Sarah Rosa si sedette al terminale: ora toccava a lei.
Prima di accendere il Pc, collegò un piccolo congegno a una delle porte usb. Stern accese un registratore, poggiandolo accanto alla tastiera. Rosa descrisse l’operazione: «Ho connesso il computer di Bermann con una memoria esterna: nel caso il Pc andasse in stallo il dispositivo riverserà tutta la memoria in un lampo».
Gli altri erano in piedi dietro di lei, raccolti in silenzio.
Accese il computer.
Il primo segnale elettrico fu seguito dal tipico rumore dei drive che cominciavano ad avviarsi. Tutto sembrava normale. Con una certa lentezza, il Pc iniziò a risvegliarsi dal letargo. Era un vecchio modello ormai fuori produzione. Sullo schermo apparvero nell’ordine i dati del sistema operativo che, poco dopo, lasciarono il posto all’immagine del desktop. Niente di importante: solo una schermata azzurra con le icone di programmi molto diffusi.
«Sembra il computer di casa mia», azzardò Boris. Ma la battuta non fece ridere nessuno.
«Va bene... Adesso vediamo cosa c’è nella cartella Documenti del signor Bermann...»
Rosa cliccò sulla cartella. Vuota. Come lo erano anche quella Immagini e quella Dati recenti.
«Non ci sono file di testo... È molto strano», notò Goran.
«Forse gettava via tutto alla fine di ogni sessione», suggerì Stern.
«Se è vero, posso cercare di recuperarli», affermò Rosa, sicura. Quindi inserì un cd nell’apposito lettore e scaricò rapidamente un software che sarebbe stato capace di riacquisire qualsiasi file cancellato.
La memoria dei computer non si svuota mai completamente ed è quasi impossibile cancellare certi dati, che è come se si imprimessero indelebilmente. Mila ricordava di aver sentito dire da qualcuno che quel composto di silicio, imprigionato in ogni computer, funziona un po’ come il cervello umano. Anche quando sembra che abbiamo dimenticato qualcosa, in realtà da qualche parte nella nostra testa c’è un gruppo di cellule che trattiene quell’informazione e magari ce la fornirà di nuovo all’occorrenza sotto forma, se non d’immagini, d’istinto. Non è essenziale ricordare la prima volta che ci siamo scottati col fuoco da bambini. Ciò che conta è che quella conoscenza, depurata da tutte le circostanze biografiche in cui si è formata, ci rimarrà impressa nella mente per riaffiorare tutte le volte che ci avvicineremo a qualcosa di caldo. Questo pensò Mila guardandosi ancora una volta le mani fasciate... A quanto pareva, in una parte di lei era conservata l’informazione sbagliata.
«Qui non c’è nulla.»
Fu la sconsolata constatazione di Rosa a riportare Mila alla realtà. Il computer era completamente vuoto.
Ma Goran non ne era convinto. «C’è un web browser.»
«Però il computer non è connesso a Internet», fece notare Boris.
Sarah Rosa, invece, capì dove voleva andare a parare il criminologo. Afferrò il cellulare e controllò le tacche sul display: «C’è campo... Può essersi connesso con il telefonino».
Rosa aprì subito la schermata del browser di Internet e controllò la lista degli indirizzi nella cronologia. Ce n’era soltanto uno.
«Ecco cosa faceva Bermann qui dentro!»
Era una sequenza di numeri. L’indirizzo era un codice.
http://4589278497.89474525. com
«Probabilmente è l’indirizzo di un server riservato», ipotizzò Rosa.
«Che significa?» domandò Boris.
«Che non ci arrivi attraverso un motore di ricerca e per entrarci devi avere una chiave. È probabile che sia contenuta direttamente nel computer. Ma se non è così, rischiamo di farci negare per sempre l’accesso.»
«Allora dobbiamo essere prudenti e fare esattamente come faceva Bermann...» disse Goran e poi si voltò verso Stern: «Abbiamo il suo cellulare?»
«Sì, ce l’ho in macchina insieme al suo computer di casa.»
«Allora vai a prenderlo...»
Quando Stern fu di ritorno, li trovò in silenzio. Lo aspettavano con impazienza palese. L’agente passò a Rosa il cellulare di Bermann e lei lo collegò al computer. Subito dopo, avviò la connessione. Il server ci mise un po’ a riconoscere la chiamata. Stava elaborando i dati. Poi iniziò a caricarli velocemente.
«A quanto pare ci fa entrare senza problemi...»
Attesero con gli occhi puntati sul monitor l’immagine che sarebbe apparsa da lì a qualche istante. Poteva essere qualsiasi cosa, pensò Mila. Una fortissima tensione univa ora i membri della squadra, come una carica di energia che correva fra un corpo e l’altro. La si poteva percepire nell’aria.
Il monitor cominciò a comporsi di pixel che si disposero ordinatamente sulla sua superficie come piccoli pezzi di un puzzle. Ma quello che videro non era ciò che si aspettavano. L’energia, che fino a poco prima aveva pervaso l’ambiente, si esaurì all’istante e l’entusiasmo svanì.
Lo schermo era nero.
«Deve esserci un sistema di protezione», annunciò Rosa, «che ha interpretato il nostro tentativo come un’intrusione.»
«Hai nascosto il segnale?» domandò Boris, inquieto.
«Certo che l’ho nascosto!» si stizzì la donna. «Mi hai preso per un’imbecille? Probabilmente c’era un codice, o qualcosa...»
«Qualcosa tipo login e password?» chiese Goran che voleva capirne di più.
«Qualcosa del genere», gli rispose distrattamente Rosa. Poi però completò la risposta: «Quello che avevamo noi era un indirizzo per una connessione diretta. Login e password sono meccanismi di sicurezza superati: lasciano tracce e possono sempre ricondurre a qualcuno. Chi entra qui vuole rimanere anonimo».
Mila non aveva ancora detto una parola e quei discorsi la innervosivano. Respirava profondamente e stringeva i pugni facendo scrocchiare le dita. C’era qualcosa che non quadrava, ma lei non riusciva a capire cosa fosse. Goran si voltò verso di lei per un attimo, come se fosse stato punto dal suo sguardo. Mila fece finta di non accorgersene.
Intanto il clima nella sala si stava surriscaldando. Boris aveva deciso di sfogare su Sarah Rosa la sua frustrazione per quel buco nell’acqua. «Se pensavi che ci potesse essere una barriera all’entrata, perché non hai seguito una procedura di connessione parallela?»
«Perché non l’hai suggerito tu?»
«Perché, che succede in questi casi?» chiese Goran.
«Succede che quando un sistema come questo va in protezione non c’è più modo di penetrarlo!»
«Cercheremo di formulare un nuovo codice e faremo un altro tentativo», propose Sarah Rosa.
«Davvero? Saranno milioni di combinazioni!» la schernì Boris.
«Vaffanculo! Vuoi darmi per forza tutta la colpa?»
Mila continuò in silenzio ad assistere a quella strana resa dei conti.
«Se qualcuno aveva qualche idea da proporre o qualche consiglio da dare, poteva farlo prima!»
«Ma se ci salti al collo ogni volta che apriamo bocca!»
«Senti Boris, lasciami stare! Potrei anche farti notare che...»
«Che cos’è quello?»
La frase di Goran calò fra i contendenti come uno sbarramento. Il tono non era allarmato, né spazientito, come invece Mila si sarebbe aspettata, ma provocò lo stesso l’effetto di farli finalmente tacere.
Il criminologo stava indicando qualcosa davanti a sé. Seguendo la linea del suo braccio teso, si ritrovarono a osservare nuovamente lo schermo del computer.
Non era più nero.
Nella parte superiore, confinata al margine sinistro, era apparsa una scritta.
- ci 6?
«Oh, cazzo!» esclamò Boris.
«Allora, che cos’è? Qualcuno di voi me lo sa dire?» chiese di nuovo Goran.
Rosa prese nuovamente posto davanti al monitor, con le mani protese verso la tastiera. «Siamo dentro», annunciò.
Gli altri si raccolsero intorno a lei per guardare meglio.
Il led luminoso sotto la frase continuava a lampeggiare, come in attesa di risposta. Che per il momento non arrivò.
- 6 tu?
«Insomma, qualcuno mi sa spiegare che succede?» Goran adesso stava perdendo la pazienza.
Rosa elaborò rapidamente una spiegazione. «È una door.»
«Cioè?»
«Una porta d’accesso. A quanto pare siamo all’interno di un sistema complesso. E questa è una finestra di dialogo: una specie di chat... Dall’altra parte c’è qualcuno, dottore.»
«E vuole parlare con noi...» aggiunse Boris.
«O con Alexander Bermann», lo corresse Mila.
«Allora cosa aspettiamo? Rispondiamo!» disse Stern con un tono d’urgenza nella voce.
Gavila guardò Boris: era lui l’esperto in comunicazione. Il giovane agente annuì e prese posto alle spalle di Sarah Rosa, per suggerirle meglio cosa scrivere.
«Digli che sei qui.»
E lei scrisse:
- Sì, ci sono.
Attesero qualche istante, poi sul monitor si compose un’altra frase.
- non ti facevi + vivo ero preoccupato
«Ok, è ‘preoccupato’ quindi è un maschio» disse Boris soddisfatto. Quindi dettò a Sarah Rosa la risposta successiva. Ma si raccomandò di usare solo lettere minuscole, come faceva il suo interlocutore, e poi spiegò che alcune persone si sentono intimorite dall’uso delle maiuscole. E loro volevano soprattutto che chi era dall’altra parte si sentisse a proprio agio.
- sono stato molto impegnato, tu come te la passi?
- mi anno fatto un saco di domande ma io non o deto niente
Qualcuno aveva fatto delle domande? A proposito di cosa? L’impressione di tutti, e in particolar modo di Goran, fu subito che l’uomo con cui stavano parlando fosse coinvolto in qualcosa di losco.
«Forse è stato interrogato dalla polizia, ma non hanno ritenuto opportuno fermarlo», suggerì Rosa.
«O forse non avevano prove a sufficienza», le diede manforte Stern.
Nelle loro menti cominciò a delinearsi la figura di un complice di Bermann. Mila ripensò a ciò che era accaduto al motel, quando le era sembrato che qualcuno la seguisse sul piazzale ghiaioso. Non ne aveva fatto parola con nessuno, per timore che si fosse trattato soltanto di una sua sensazione.
Boris decise di chiedere al misterioso interlocutore:
- chi ti ha fatto le domande?
Pausa.
- loro
- loro chi?
Non ci fu risposta. Boris decise di ignorare quel silenzio e provò ad aggirare l’ostacolo domandando qualcosa di diverso.
- cosa gli hai detto?
- li o raccontato la storia che mi avevi deto tu e ha funzionato.
Più che l’oscurità di quelle parole, era la presenza di frequenti errori di grammatica a preoccupare Goran.
«Potrebbe essere una specie di codice di riconoscimento», spiegò. «Forse si aspetta che commettiamo anche noi degli errori. E se non lo facciamo, potrebbe terminare la comunicazione.»
«Ha ragione. Allora copia il linguaggio e inserisci i suoi stessi errori», suggerì Boris a Rosa.
Intanto sullo schermo apparve:
- o preparato tutto come volevi tu non vedo l’ora mi dirai tu cuando?
Quella conversazione non li stava portando da nessuna parte. Allora Boris chiese a Sarah Rosa di rispondere che presto avrebbe saputo «quando», ma che per il momento era meglio ricapitolare tutto il piano, per essere sicuri che funzionasse.
A Mila parve un’ottima idea, così avrebbero recuperato lo svantaggio di conoscenza rispetto al loro interlocutore. Poco dopo, questi rispose:
- il piano e: uscire di notte xchè così non mi vede nesuno. cuando sarano le 2. andare infondo alla strada. nascondermi nei cespugli. aspettare. le luci della machina si acenderano 3 volte. alora potro farmi vedere.
Nessuno ci capiva niente. Boris si guardò intorno, in cerca di suggerimenti. Intercettò lo sguardo di Gavila: «Lei che ne pensa, dottore?»
Il criminologo stava riflettendo. «Non lo so... C’è qualcosa che mi sfugge. Non riesco a inquadrarlo.»
«Anch’io ho avuto la stessa sensazione», disse Boris. «Il tizio che sta parlando sembra... sembra un menomato mentale o qualcuno con un forte deficit psicologico.»
Goran si avvicinò di più a Boris: «Devi farlo venire allo scoperto».
«E come?»
«Non lo so... Digli che non sei più sicuro di lui e che stai pensando di mandare tutto a monte. Digli che ‘loro’ stanno addosso anche a te, e poi domandagli di darti una prova... Ecco: chiedigli di telefonarti a un numero sicuro!»
Rosa si affrettò a battere la domanda. Ma, nello spazio per la risposta, rimase per un bel po’ solo il led lampeggiante.
Poi sullo schermo cominciò a comporsi qualcosa.
- non posso parlare al telefono. loro mi ascoltano.
Era evidente: o era molto furbo o aveva davvero paura di essere spiato.
«Insisti. Giraci intorno. Voglio sapere chi sono ‘loro’», disse Goran. «Chiedigli dove si trovano in questo momento...»
La risposta non si fece attendere troppo.
- loro sono vicini.
«Chiedigli: quanto vicini?» insisté Goran.
- sono qui acanto a me.
«E questo cosa cazzo significa?» Boris sbuffò, portandosi le mani dietro la nuca in un gesto di esasperazione.
Rosa si lasciò cadere sulla spalliera della sedia e scosse il capo, sfiduciata. «Se ‘loro’ sono così vicini e lo tengono d’occhio, perché non possono vedere quello che sta scrivendo?»
«Perché lui non vede quello che stiamo vedendo noi.»
Era stata Mila a dirlo. E notò con piacere che non si erano voltati a guardarla come se avesse appena parlato un fantasma. Invece la sua considerazione riaccese l’interesse del gruppo.
«Cosa intendi dire?» chiese Gavila.
«Abbiamo dato per scontato che lui, come noi, avesse davanti uno schermo nero. Ma, secondo me, la sua finestra di dialogo è inserita in una pagina web in cui ci sono altri elementi: forse animazioni grafiche, scritte o immagini di qualche tipo... Ecco perché ‘loro’, pur essendo vicini, non possono rendersi conto che sta comunicando con noi.»
«Ha ragione!» disse Stern.
La stanza si riempì di nuovo di una strana euforia. Goran si rivolse a Sarah Rosa: «Possiamo vedere ciò che vede lui?»
«Certo», disse lei, «gli mando un segnale di riconoscimento e, quando il suo computer me lo rimbalza, avremo l’indirizzo Internet a cui è collegato.» Mentre spiegava tutto questo, l’agente stava già aprendo il suo notebook per creare una seconda connessione alla rete.
Poco dopo sullo schermo principale apparve:
- 6 ancora lì?
Boris guardò Goran: «Che rispondiamo?»
«Prendi tempo. Ma non insospettirlo.»
Boris scrisse di aspettare qualche secondo, perché avevano suonato alla porta e doveva andare ad aprire.
Intanto, sul notebook, Sarah Rosa riuscì a copiare l’indirizzo Internet da cui l’uomo stava comunicando. «Ecco, ci siamo...» annunciò.
Inserì i dati nella barra e premette invio.
Dopo pochi secondi, si compose una pagina web.
Nessuno avrebbe saputo dire se fu lo stupore o l’orrore a togliere a tutti le parole.
Sullo schermo gli orsi danzavano insieme alle giraffe, gli ippopotami battevano il ritmo sui bonghi e uno scimpanzé suonava l’ukulele. La stanza si riempì di musica. E mentre la foresta si animava tutt’intorno, una farfalla multicolore dava loro il benvenuto sul sito.
Si chiamava Priscilla.
Rimasero attoniti e increduli. Poi Boris spostò lo sguardo sullo schermo principale dove ancora spiccava la domanda:
- 6 ancora lì?
Fu solo allora che l’agente riuscì a pronunciare quelle pesantissime quattro parole: «Cazzo... È un bambino».