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«A Sabine piacciono i cani, sa?»
L’aveva detto al presente, pensò Mila. Era normale: quella madre non aveva ancora fatto i conti con il dolore. Fra poco sarebbe cominciata. E la donna non avrebbe trovato pace né sonno per parecchi giorni.
Ma ora no, era troppo presto.
In casi come questi, a volte, chissà perché, il dolore lascia uno spazio, un diaframma fra sé e la notizia, una barriera elastica che si allunga e torna indietro, senza permettere che le parole «abbiamo trovato il corpo di sua figlia» portino a destinazione il loro messaggio. Le parole rimbalzano su quello strano sentimento di quiete. Una breve pausa di rassegnazione prima del crollo.
Un paio d’ore prima, Chang aveva consegnato a Mila una busta con i risultati del confronto del dna. La bambina sul divano dei Kobashi era Sabine.
La terza a essere stata rapita.
E la terza a essere stata trovata.
Era ormai uno schema consolidato. Un modus operandi, avrebbe detto Goran. Anche se nessuno aveva azzardato ipotesi sull’identità del cadavere, tutti si aspettavano che fosse lei.
Mila aveva lasciato i suoi compagni a interrogarsi sulla disfatta subita a casa di Feldher e a cercare, in quella montagna di rifiuti, possibili tracce che riconducessero ad Albert. Aveva chiesto una macchina del Dipartimento e adesso era nel soggiorno della casa dei genitori di Sabine, in una zona di campagna abitata soprattutto da allevatori di cavalli e da gente che aveva scelto di vivere a contatto con la natura. Aveva percorso quasi centocinquanta chilometri per arrivarci. Il sole stava tramontando e lei aveva potuto godere del paesaggio di boschi attraversati da fiumiciattoli che poi sfociavano in laghetti color ambra. Pensava che per i genitori di Sabine ricevere la sua visita, anche a quell’ora così insolita, potesse essere rassicurante, per avere un segno che qualcuno si era preso cura della loro bambina. Non si sbagliava.
La madre di Sabine era minuta, dal fisico asciutto, il volto scavato da piccole rughe che gli imprimevano forza.
Mila osservava le foto che la donna le aveva messo fra le mani, l’ascoltava raccontare i primi e unici sette anni di vita di Sabine. Il padre, invece, se ne stava in piedi in un angolo della stanza, appoggiato al muro con lo sguardo basso e le mani dietro la schiena: si dondolava, concentrato solo sul suo respiro. Mila era convinta che fosse la moglie la vera personalità forte di casa.
«Sabine è nata prematura: otto settimane prima del previsto. Allora ci dicemmo che era successo perché aveva una voglia matta di venire al mondo. E un po’ è vero...» Sorrise e guardò il marito, che annuì. «I dottori ci dissero subito che non sarebbe sopravvissuta, perché il suo cuore era troppo debole. Ma contro ogni previsione, Sabine resisteva. Era lunga quanto la mia mano e pesava appena cinquecento grammi, ma lottava tenacemente dentro la culla termica. E, settimana dopo settimana, il suo cuore diventava sempre più forte... Allora i medici furono costretti a cambiare idea, e ci dissero che probabilmente sarebbe sopravvissuta ma che la sua vita sarebbe stata costellata di ospedali, medicine e interventi chirurgici. Insomma, che avremmo fatto meglio ad augurarci. che morisse...» Si prese una pausa. «L’ho fatto. A un certo punto ero così convinta che la mia bambina avrebbe sofferto per il resto dei suoi giorni, che ho pregato perché il suo cuore si fermasse. Sabine è stata più forte anche delle mie preghiere: si è sviluppata come una bambina normale e, otto mesi dopo la sua nascita, l’abbiamo riportata a casa.»
La donna s’interruppe. Per un attimo, la sua espressione cambiò. Si fece più cattiva.
«Quel figlio di puttana ha vanificato tutti i suoi sforzi!»
Sabine era la più piccola fra le vittime di Albert. Era stata prelevata da una giostra. Di sabato sera. Davanti alla madre e al padre e sotto gli occhi di tutti gli altri genitori.
«Invece ognuno guardava solo il proprio figlio», aveva detto Sarah Rosa nella prima riunione nel Pensatoio. E Mila ricordò che aveva anche aggiunto: «La gente se ne frega, questa è la realtà».
Mila, però, non era andata in quella casa solo per consolare i genitori di Sabine, ma anche per fare loro alcune domande. Sapeva di dover approfittare di quei momenti prima che la sofferenza prorompesse dal suo rifugio temporaneo e cancellasse tutto, irrimediabilmente. Era anche consapevole del fatto che i due coniugi erano stati interrogati decine di volte sulle circostanze in cui era sparita la piccola. Ma chi se n’era occupato forse non possedeva la sua esperienza in materia di bambini scomparsi.
«Il fatto», esordì la poliziotta, «è che voi siete gli unici che possono aver visto o notato qualcosa. Tutte le altre volte il rapitore ha agito in posti isolati, o quando era da solo con le sue vittime. In questo caso ha corso un rischio. Ed è anche possibile che qualcosa non abbia funzionato.»
«Vuole che le racconti tutto dall’inizio?»
«Sì, per favore.»
La donna raccolse le idee, poi cominciò: «Quella era una sera speciale per noi. Deve sapere che quando mia figlia compì tre anni, noi decidemmo di lasciare il lavoro in città per trasferirci qui. Ci attiravano la natura e la possibilità di crescere la nostra bambina lontano dai rumori e dallo smog».
«Ha detto che la sera in cui sua figlia è stata rapita era speciale per voi...»
«Infatti.» La donna cercò lo sguardo del marito, poi proseguì: «Abbiamo vinto alla lotteria. Una bella somma. Non tanto da diventare proprio ricchi, ma abbastanza per garantire anche a Sabine e ai suoi figli un futuro dignitoso... Io non avevo mai giocato, veramente. Ma una mattina ho comprato un biglietto ed è successo».
La donna si concesse un sorriso forzato.
«Scommetto che si è sempre chiesta che faccia avesse un vincitore della lotteria.»
Mila annuì.
«Be’, ora lo sa.»
«Allora siete andati al luna park per festeggiare, giusto?»
«Giusto.»
«Vorrei che lei ricostruisse per me i momenti esatti in cui Sabine era su quella giostra.»
«Avevamo scelto insieme il cavalluccio azzurro. Durante i primi due giri suo padre era rimasto con lei. Poi Sabine aveva insistito per fare il terzo da sola. Era molto testarda, così l’abbiamo accontentata.»
«Capisco, coi bambini è naturale», disse Mila per assolverla preventivamente da qualsiasi senso di colpa.
La donna sollevò gli occhi su di lei, poi disse sicura: «Sulla pedana della giostra c’erano altri genitori, ciascuno accanto al proprio figlio. Io tenevo gli occhi inchiodati sulla mia. Le giuro che non ho perso un solo istante di quel giro. Tranne che per gli attimi in cui Sabine si trovava dal lato opposto al nostro».
«L’ha fatta sparire come in un gioco di prestigio», aveva detto Stern al Pensatoio riferendosi al cavalluccio che ricompariva senza di lei.
Mila spiegò: «La nostra ipotesi è che il rapitore si trovasse già sulla giostra: un genitore fra tanti altri. Da ciò ci siamo fatti l’idea che abbia l’aspetto di un uomo comune: è riuscito a passare per un padre di famiglia, scappando via subito con la bambina e confondendosi nella folla. Forse Sabine ha anche pianto o protestato. Ma nessuno ha dato peso alla cosa perché, agli occhi degli altri, sembrava solo una bambina che faceva i capricci».
Probabilmente l’idea che Albert si fosse fatto passare per il padre di Sabine faceva più male di tutto il resto.
«Le assicuro, agente Vasquez, che se ci fosse stato un uomo estraneo su quella giostra, io me ne sarei accorta. Una madre ha un sesto senso per queste cose.»
Lo disse con una tale convinzione che Mila non se la sentì di darle torto o di controbattere.
Albert era riuscito a mimetizzarsi perfettamente.
Venticinque agenti di polizia, chiusi in una stanza per dieci giorni, avevano esaminato attentamente centinaia di foto scattate al luna park quella sera. Erano stati anche visionati i filmati amatoriali realizzati con le videocamere dalle famiglie. Niente. Nessuno scatto aveva immortalato Sabine col suo rapitore, neppure di sfuggita. Non comparivano in nessun fotogramma, nemmeno come ombre scolorite sullo sfondo.
Non aveva altre domande da rivolgere, perciò Mila si congedò. Prima di andare, la madre di Sabine insistette perché si portasse via una foto di sua figlia.
«Così non la dimenticherà», disse, senza sapere che Mila non l’avrebbe fatto comunque, e che di lì a qualche ora avrebbe impresso su di sé un tributo a quella morte sotto forma di una nuova cicatrice.
«Lo prenderete, vero?»
La domanda del padre di Sabine non la sorprese, anzi, se l’aspettava. Lo chiedevano tutti. Troverete mia figlia? Catturerete l’assassino?
E lei diede la risposta che dava sempre in questi casi.
«Faremo il possibile.»
* * *
La madre di Sabine aveva desiderato che sua figlia morisse. Era stata esaudita con sette anni di ritardo. Mila non poteva fare a meno di pensarci mentre guidava per tornare allo Studio. I boschi che all’andata le avevano allietato il viaggio, ora erano dita scure che si arrampicavano sul cielo mosse dal vento.
Aveva programmato il navigatore satellitare perché la riportasse indietro indicandole il percorso più breve. Poi aveva impostato il display nella modalità notturna. Quella luce blu era rilassante.
L’autoradio prendeva solo stazioni am e, dopo un vano peregrinare sulle frequenze, era riuscita a sintonizzarne una che trasmetteva vecchi classici. Mila teneva sul sedile accanto la foto di Sabine. Grazie al cielo, ai suoi era stata risparmiata la dolorosa prassi del riconoscimento delle spoglie, con i resti decomposti e già preda della fauna cadaverica. Benedisse per questo le conquiste fatte nel campo dell’estrazione del dna.
La breve chiacchierata le aveva messo addosso un senso di incompiutezza. C’era qualcosa che non andava, qualcosa che non aveva funzionato, e che l’aveva bloccata. Era una semplice considerazione. Quella donna un giorno aveva comprato un biglietto della lotteria e aveva vinto. La sua bambina era stata vittima di un serial killer.
Due eventi improbabili in una sola vita.
La cosa terribile, tuttavia, era che i due eventi erano collegati.
Se non avessero vinto la lotteria, non sarebbero mai andati a festeggiare al luna park. E Sabine non sarebbe stata rapita e uccisa brutalmente. La retribuzione definitiva di quel colpo di fortuna era stata la morte.
“Non è vero”, si ripeté. “Lui ha scelto le famiglie, non le bambine. L’avrebbe presa comunque.”
Ma quel pensiero la metteva comunque a disagio, e non vedeva l’ora di arrivare allo Studio per rilassarsi e riuscire a scacciarlo.
La strada s’incuneava fra le colline. Di tanto in tanto, apparivano le insegne degli allevamenti di cavalli. Erano parecchio distanti l’uno dall’altro, e per raggiungerli era necessario prendere strade secondarie che spesso correvano in mezzo al nulla per chilometri. In tutto il viaggio Mila aveva incrociato solo un paio di vetture che procedevano in senso opposto e una mietitrebbia con i lampeggianti accesi per segnalare il suo lento incedere agli altri veicoli.
La stazione radio mandò un vecchio successo di Wilson Pickett, You Can’t Stand Alone.
Ci mise qualche secondo a ricollegare l’artista con il nome del caso a cui aveva accennato Boris quando avevano parlato di Goran e sua moglie.
«È andata male. Ci sono stati degli errori, e qualcuno ha minacciato di sciogliere la squadra dando il benservito al dottor Gavila. È stato Roche a difenderci e a pretendere che rimanessimo ai nostri posti,» le aveva spiegato.
Cos’era accaduto? C’entrava forse con le foto della bella ragazza che aveva intravisto allo Studio? Era da quella volta che i suoi nuovi compagni non avevano messo più piede nell’appartamento?
Erano domande a cui comunque non avrebbe potuto fornire da sola una risposta. Le scacciò. Poi girò di una tacca la manopola del climatizzatore: fuori c’erano meno tre gradi ma nell’abitacolo si stava bene. S’era perfino sfilata il parka prima di mettersi alla guida e aveva atteso che l’auto si scaldasse gradualmente. Quel passaggio dal freddo intenso al calore alla fine le aveva calmato i nervi.
Si lasciò andare piacevolmente alla stanchezza che, a poco a poco, si stava impadronendo di lei. Tutto sommato, quel viaggio in macchina le giovava. In un angolo del parabrezza, il cielo che per tutti quei giorni era stato coperto da una spessa coltre di nubi, improvvisamente si aprì. Come se qualcuno ne avesse scucito un lembo, rivelando un mucchio di stelle sparse e lasciando filtrare la luce della luna.
In quel momento, nella solitudine di quei boschi, Mila si sentì una privilegiata. Come se quello spettacolo inatteso fosse solo per lei. Mentre la strada curvava, lo strappo luminoso si spostò sullo schermo del parabrezza. Lo seguì con lo sguardo. Ma quando i suoi occhi si posarono per un istante sul retrovisore, vide un riflesso.
La luce della luna si era specchiata sulla carrozzeria dell’auto che la stava seguendo a fari spenti.
Il cielo si richiuse sopra di lei. E fu di nuovo buio. Mila cercò di conservare la calma. Ancora una volta, qualcuno stava copiando i suoi passi, come era accaduto nel piazzale ghiaioso del motel. Ma se la prima volta aveva accettato che potesse essere un frutto della sua fantasia, ora era assolutamente convinta della sua realtà.
“Devo restare calma e riflettere.”
Se avesse accelerato, avrebbe rivelato il proprio stato d’allarme. E poi non conosceva l’abilità alla guida del suo inseguitore: in quelle strade impervie e a lei sconosciute, un fuga avrebbe potuto rivelarsi fatale. Non c’erano case in vista e il primo centro abitato distava almeno una trentina di chilometri. Inoltre l’avventura notturna all’orfanotrofio, con Ronald Dermis e il suo tè drogato, aveva messo a dura prova il suo coraggio. Fino ad allora non l’aveva ammesso, anzi aveva sostenuto con tutti che si sentiva bene e di non aver subito alcuno shock. Ma ora non era più tanto sicura di riuscire ad affrontare un’altra situazione di pericolo. I tendini delle braccia s’irrigidirono, la tensione nervosa salì. Sentiva il cuore prendere velocità e non sapeva come fermarlo. Il panico si stava impossessando di lei. “Devo restare, calma, restare calma e ragionare.”
Smorzò la radio per concentrarsi meglio. Capì che l’inseguitore si serviva del riferimento offerto dalle sue luci di posizione per guidare a fari spenti. Allora fissò per un attimo lo schermo del navigatore satellitare. Lo staccò dal suo alloggiamento e se lo piazzò sulle gambe.
Quindi allungò il braccio verso l’interruttore delle luci e le spense.
Accelerò di colpo. Davanti aveva solo un muro di buio. Senza sapere dove stava andando, confidava solo nella traiettoria indicata dal navigatore. Curva a destra di quaranta gradi. Obbedì e vide il cursore sul display disegnare il percorso. Rettilineo. Lo imboccò in leggera derapata. Teneva le mani ben salde sullo sterzo, perché senza orientamento sarebbe bastata la minima variazione per spedirla fuori strada. Curva a sinistra, sessanta gradi. Stavolta dovette scalare repentinamente la marcia per non perdere il controllo, e lavorò di controsterzo. Un altro rettilineo, più lungo del precedente. Quanto tempo poteva resistere senza dover riaccendere le luci? Era riuscita a ingannare chi le stava alle costole?
Approfittando della strada dritta che aveva davanti, spostò per un attimo gli occhi sul retrovisore.
I fari dell’auto dietro di lei si accesero.
Il suo inseguitore si era finalmente palesato, e non la mollava. Le luci della sua vettura proiettavano il loro fascio anche su di lei e oltre lei, sulla strada che aveva davanti. Mila sterzò in tempo per imboccare la curva e, contemporaneamente, riaccese i fari. Accelerò percorrendo poco più di trecento metri a tutta velocità.
Quindi inchiodò di colpo in mezzo alla carreggiata e fissò nuovamente lo specchietto.
Il ticchettio del motore insieme al tamburo che aveva nel petto erano gli unici rumori che sentiva. L’altra macchina si era fermata prima della curva. Mila poteva scorgere lo strascico bianco dei fari che si allungava sull’asfalto. Il ruggito degli scappamenti faceva pensare a una belva feroce pronta a compiere l’ultimo balzo per azzannare la preda.
“Vieni, ti sto aspettando.”
Prese la pistola e fece scivolare un proiettile in canna. Non sapeva da dove provenisse quel coraggio che solo poco prima aveva sentito di non possedere. La disperazione la spingeva a un duello assurdo, in mezzo al nulla.
Ma l’inseguitore non raccolse l’invito. I fari oltre la curva sparirono lasciando il posto a due deboli riflessi rossi.
La macchina aveva fatto inversione.
Mila non si mosse. Poi tornò a respirare normalmente.
Abbassò per un attimo lo sguardo sul sedile accanto, quasi volesse cercare conforto nel sorriso di Sabine.
Soltanto allora si accorse che in quella foto c’era qualcosa di sbagliato.
Era da poco passata la mezzanotte quando arrivò allo Studio. Aveva ancora i nervi tesi e per tutto il resto del tragitto non aveva fatto altro che pensare alla foto di Sabine, guardandosi contemporaneamente intorno, in attesa che chiunque l’avesse seguita spuntasse da un momento all’altro da una via laterale o le tendesse un agguato dietro qualche curva.
Salì velocemente le scale che portavano all’appartamento. Voleva parlare subito a Goran e avvertire la squadra di quanto era successo. Forse era Albert a pedinarla. Anzi, si trattava sicuramente di lui. Ma perché proprio lei? E poi c’era quella storia di Sabine, ma poteva anche trattarsi di un suo errore...
Giunta al piano, aprì la pesante porta blindata con le chiavi che le aveva affidato Stern, superò la guardiola e si ritrovò immersa nel più completo silenzio. Il gemito delle sue scarpe di gomma sul pavimento di linoleum era l’unico suono in quelle stanze che passava velocemente in rassegna. Prima la sala comune, dove sul bordo di un posacenere notò una sigaretta che si era consumata in una lunga striscia di cenere grigia. Sul tavolo della cucina c’erano i resti di una cena - la forchetta appoggiata su un lato del piatto, una porzione di sformato appena toccata - come se qualcuno fosse stato costretto a interrompere improvvisamente il suo pasto. Le luci erano tutte accese, anche quelle nel Pensatoio. Mila accelerò il passo verso la foresteria: era sicuramente accaduto qualcosa. Il letto di Stern era disfatto, sul suo cuscino c’era una scatola di mentine.
Un cicalino dal suo telefono le annunciò l’arrivo di un sms. Lo lesse.
Stiamo andando a casa Gress.
Krepp vuole mostrarci qualcosa.
Raggiungici. Boris