28
«La poltrona di Alexander Bermann!»
Nel Pensatoio la squadra era concentrata sulle parole di Gavila.
Tornarono con la memoria al quartiere ghetto dove il pedofilo teneva la sua tana e il computer con cui andava a caccia su Internet.
«Krepp non ha rilevato impronte sulla vecchia poltrona di pelle che c’era nel seminterrato!»
A Goran quella sembrava ora improvvisamente una rivelazione.
«Su tutto il resto sì, a centinaia, ma lì sopra no! Perché? Perché qualcuno s’è preso la briga di eliminarle!»
Poi il criminologo si mosse verso la parete su cui erano attaccati con le puntine da disegno tutti i rapporti, le foto e i fogli con le risultanze del caso dell’orfanotrofio. Ne staccò uno e iniziò a leggere. Era la trascrizione della registrazione in cui Ronald Dermis bambino si confessava con padre Rolf, ritrovata nel mangianastri nella bara di Billy Moore.
«‘Tu sai quello che è successo a Billy, vero Ron?’, ‘Dio se l’è portato via’, ‘Non è stato Dio, Ron. Tu sai chi è stato?’, ‘È caduto. È caduto dalla torre’, ‘Ma tu eri con lui’, ‘Sì’... E poi più avanti il prete afferma: ‘Nessuno ti punirà se dici come sono andate le cose. È una promessa’, e sentite come risponde Ronald: ‘Lui mi ha detto di farlo’... Capite? ‘Lui’.»
Goran passò in rassegna i volti che lo osservavano perplessi.
«Sentite adesso cosa domanda padre Rolf: ‘Lui chi? Te l’ha chiesto Billy di spingerlo?’ ‘No’ replica Ronald. ‘Allora uno degli altri ragazzi?’ e Ronald ancora ‘No’. ‘Allora chi? Avanti, rispondimi. Questa persona che dici non esiste, non è vero? È solo frutto della tua immaginazione’, e Ronald sembra sicuro quando nega ancora, ma padre Rolf lo incalza ‘Non c’è nessun altro qui. Solo io e i tuoi compagni.’ E Ronald finalmente risponde ‘Lui viene solo per me’...»
A poco a poco, ci stavano arrivando tutti.
Goran, eccitato come un ragazzino, corse di nuovo verso i fogli sulla parete e prese una copia della lettera che Ronald adulto aveva inviato agli inquirenti.
«Del biglietto mi aveva colpito una frase: ‘poi è arrivato LUI. mi capiva LUI. mi ha insegnato’.»
Mostrò loro la lettera indicando il passaggio.
«Vedete? Qui la parola ‘lui’ è stata volutamente scritta in lettere maiuscole... Ci avevo già ragionato sopra, ma la conclusione a cui ero pervenuto era errata. Credevo che fosse un chiaro esempio di dissociazione della personalità, in cui l’Io negativo appare sempre separato dall’Io agente. E perciò diventa Lui... ‘Sono stato IO, ma era LUI che mi diceva di farlo, è SUA la colpa di ciò che sono’... Mi sbagliavo! E stavo commettendo lo stesso sbaglio che aveva fatto padre Rolf trent’anni prima! Quando durante la confessione Ronald nominava ‘Lui’, il prete credeva che si riferisse a se stesso, e che stesse solo cercando di esteriorizzare la propria colpa. È tipico dei bambini. Ma il Ronald che abbiamo conosciuto noi non era più un bambino...»
Mila vide spegnersi un po’ d’energia nello sguardo di Goran. Accadeva ogni volta che commetteva un errore di valutazione.
«Questo ‘Lui’ a cui si riferisce Ronald non è una proiezione della sua psiche, un doppio a cui attribuire la responsabilità delle proprie azioni! No, è lo stesso ‘Lui’ che si accomodava sulla poltrona di Alexander Bermann ogni volta che questi andava su Internet a caccia di bambini! Feldher lascia una miriade di tracce nella casa di Yvonne Gress ma si preoccupa di ridipingere la stanza del massacro perché sul muro c’è l’unica cosa che gli preme occultare... o forse evidenziare: l’immagine immortalata dal sangue dell’uomo che assiste! Perciò ‘Lui’ è Albert.»
«Mi spiace, ma non regge», affermò Sarah Rosa con una calma e una sicurezza che stupì gli altri. «Abbiamo visionato i filmati del sistema di sorveglianza di Capo Alto e, a parte Feldher, nessuno è entrato in quella casa.»
Goran si voltò verso di lei, puntandola con un dito: «Esatto! Perché lui ogni volta ha oscurato le telecamere con un piccolo blackout. A ben pensarci, lo stesso effetto sul muro si poteva ottenere con una sagoma di cartone o un manichino. E questo cosa ci insegna?»
«Che è un ottimo creatore di illusioni», disse Mila.
«Esatto anche questo! È dall’inizio che quest’uomo ci sfida a capire i suoi trucchi. Prendete ad esempio il rapimento di Sabine alle giostre... Magistrale! Decine di persone, decine di paia di occhi nel luna park e nessuno nota niente!»
Goran dava l’impressione di essere veramente esaltato dall’abilità del suo sfidante. Non perché non provasse pietà per le vittime. Non era una dimostrazione di scarsa umanità da parte sua. Albert era il suo oggetto di studio. Comprendere i dispositivi che muovevano la sua mente era una sfida affascinante.
«Personalmente, però, credo che Albert fosse realmente presente nella stanza mentre Feldher massacrava le sue vittime. Escluderei manichini o trucchi simili. E sapete perché?» Il criminologo si godette per un secondo l’espressione d’incertezza sulle loro facce. «Nella disposizione delle macchie di sangue sulla parete intorno alla sagoma, Krepp ha individuato delle ‘variazioni costanti’ - così le ha definite. E significa che, qualunque ostacolo si frapponesse fra il sangue e il muro, non se ne stava immobile ma si muoveva!»
Sarah Rosa rimase a bocca aperta. Non c’era più molto da dire.
«Siamo pratici», affermò Stern. «Se Albert ha conosciuto Ronald Dermis quando questi era un bambino, quanti anni poteva avere? Venti, trenta? Perciò adesso ne avrà cinquanta o sessanta.»
«Giusto», disse Boris. «E considerando le dimensioni dell’ombra che si è formata sul muro della stanza del massacro, direi che è alto all’incirca un metro e settanta.»
«Un metro e sessantanove», precisò Sarah Rosa che aveva già fatto effettuare quella misurazione.
«Abbiamo una descrizione parziale dell’uomo che dobbiamo cercare, è già qualcosa.»
Goran riprese la parola e disse: «Bermann, Ronald, Feldher: sono come lupi. E i lupi spesso agiscono in branco. Ogni branco ha un capo. E Albert ci sta dicendo proprio questo: è lui il loro leader. C’è stato un momento nella vita di questi tre individui in cui l’hanno incontrato, separatamente oppure insieme. Ronald e Feldher si conoscevano, erano cresciuti nello stesso orfanotrofio. Ma è presumibile che non sapessero chi fosse Alexander Bermann... L’unico elemento comune è lui, Albert. Per questo ha lasciato la sua firma su ogni scena del crimine».
«E adesso cosa accadrà?» domandò Sarah Rosa.
«Lo potete immaginare da soli... Due. Mancano all’appello ancora due cadaveri di bambine e, di conseguenza, due componenti del branco.»
«C’è anche la bambina numero sei», specificò Mila.
«Sì... Ma quella Albert la riserva per sé.»
Sostava da circa mezz’ora sul marciapiede di fronte, senza trovare il coraggio di suonare. Stava cercando le parole giuste per motivare la sua presenza. Ormai s’era così disabituata ai rapporti interpersonali che anche gli approcci più semplici le sembravano impossibili. E intanto infreddoliva là fuori senza sapersi decidere.
“Alla prossima auto blu mi muovo, promesso.”
Erano le nove passate e il traffico era scarso. Le finestre di casa di Goran, al terzo piano dello stabile, erano accese. La strada bagnata dalla neve disciolta era un concerto di sgocciolii metallici, di tossenti grondaie e di rauchi canali di scolo.
“Va bene: vado.”
Mila si mosse dal cono d’ombra che l’aveva protetta fino ad allora dagli sguardi di possibili vicini curiosi, e giunse rapidamente al portone. Era un vecchio palazzo, che alla metà del Novecento doveva aver ospitato un opificio, con le sue ampie finestre, i larghi cornicioni e i comignoli che ancora ornavano il tetto. Ce n’erano parecchi in zona. Probabilmente tutto il quartiere era stato riqualificato dall’opera di qualche architetto che aveva trasformato i vecchi laboratori industriali in condomini.
Suonò al citofono, e attese.
Passò quasi un minuto prima che le giungesse gracchiante la voce di Goran.
«Chi è?»
«Sono Mila. Scusami, ma avevo bisogno di parlarti e preferivo non farlo al telefono. Prima, allo Studio, eri molto occupato, e allora ho pensato di...»
«Sali. Terzo piano.»
Seguì un breve segnale elettrico e la serratura del portone scattò.
Un montacarichi fungeva da ascensore. Per azionarlo bisognava chiudere a mano le porte a scorrimento e manovrare una leva. Mila salì lentamente lungo i piani, fino al terzo. Sul pianerottolo trovò un’unica porta, socchiusa per lei.
«Entra, accomodati.»
La voce di Goran la raggiunse dall’interno dell’appartamento. Mila la seguì. Era un ampio loft, su cui si affacciavano varie stanze. Il pavimento era di legno grezzo. I caloriferi erano in ghisa e circondavano i pilastri. Un grande camino acceso conferiva all’ambiente un colore ambrato. Mila si richiuse la porta alle spalle, domandandosi dove fosse Goran. Poi lo vide apparire fugacemente sulla soglia della cucina.
«Un attimo e arrivo.»
«Fai pure con comodo.»
Si guardò intorno. A differenza dell’aspetto sempre trascurato del criminologo, la sua casa era molto ordinata. Non c’era un solo dito di polvere in giro e tutto sembrava rispecchiare la cura che quell’uomo stava mettendo per offrire un po’ di armonia all’esistenza del figlio.
Poco dopo, lo vide arrivare con in mano un bicchiere d’acqua.
«Mi dispiace, sono piombata qui all’improvviso.»
«Non fa niente, di solito vado a dormire tardi.» Poi, indicando il bicchiere: «Stavo mettendo a letto Tommy. Non ci vorrà molto. Siediti, oppure serviti qualcosa da bere: c’è un mobile bar proprio là in fondo».
Mila annuì e lo vide dirigersi verso una delle stanze. Per sciogliere un po’ l’imbarazzo, andò a prepararsi una vodka con ghiaccio. Mentre beveva, in piedi accanto al camino, intravide il criminologo attraverso la porta semiaperta della cameretta di suo figlio. Era seduto sul letto del bambino e gli stava raccontando qualcosa, mentre con una mano gli accarezzava il fianco. Nella penombra di quella stanza, rischiarata appena da una lampada notturna a forma di clown, Tommy appariva come una forma sotto le coperte, descritta dalle carezze del padre.
In quel contesto familiare, Goran sembrava un altro.
Chissà perché le tornò in mente il ricordo della prima volta che, da piccola, era andata a trovare suo padre in ufficio. L’uomo in giacca e cravatta che usciva da casa tutte le mattine, lì si trasformava. Diventava una persona dura e seriosa, così diversa dal suo dolcissimo papà. Mila ricordò d’esserne rimasta quasi sconvolta.
Per Goran valeva il ragionamento opposto. Le ispirava un’immensa tenerezza vedergli compiere il mestiere di padre.
Per Mila non si era mai realizzata quella dicotomia. Di lei c’era soltanto una versione. Non esisteva soluzione di continuità nella sua vita. Non smetteva mai di essere la poliziotta che inseguiva le persone scomparse. Perché le cercava sempre. Nei suoi giorni liberi, quando era in permesso, mentre faceva la spesa. Scrutare i volti degli estranei era diventata un’abitudine.
I minori che scompaiono, come tutti, hanno una storia. Ma questa storia a un certo punto s’interrompe. Mila ripercorreva i loro piccoli passi smarriti nel buio. Non dimenticava mai i loro volti. Potevano anche trascorrere degli anni, ma lei sarebbe stata in grado di riconoscerli sempre.
“Perché i bambini sono tra noi”, pensava. “A volte basta cercarli negli adulti che sono diventati.”
Goran stava raccontando una fiaba al figlio. Mila non volle turbare oltre quella scena così intima con il suo sguardo. Non era uno spettacolo per i suoi occhi. Si voltò, ma subito incrociò il sorriso di Tommy su un portafotografie. Se l’avesse incontrato, l’avrebbe messa a disagio e aveva tardato a salire nella speranza di trovarlo già a letto.
Tommy era una parte della vita di Goran che ancora non era disposta a conoscere.
Poco dopo la raggiunse e, con un sorriso, annunciò: «Si è addormentato».
«Non volevo disturbare. Ma pensavo fosse importante.»
«Ti sei già scusata. Ora avanti, dimmi che succede...»
Prese posto su uno dei divani e la invitò a sedersi accanto a lui. Il fuoco del camino proiettava sul muro ombre danzanti.
«È accaduto di nuovo: sono stata seguita.»
Il criminologo corrugò la fronte.
«Ne sei sicura?»
«L’altra volta no, ma ora sì.»
Gli raccontò l’accaduto cercando di non tralasciare alcun particolare. L’auto a fari spenti, il riflesso della luna sulla carrozzeria, il fatto che l’inseguitore avesse preferito fare inversione una volta scoperto.
«Perché qualcuno dovrebbe seguire proprio te?»
Le aveva già posto quella domanda quando, al ristorante, lei gli aveva riferito di quella sensazione di pedinamento avvertita nel piazzale del motel. Stavolta Goran sembrava rivolgerla soprattutto a se stesso.
«Non riesco a trovare una ragione valida», concluse infatti dopo una breve riflessione.
«Escludo che a questo punto possa essere utile mettermi qualcuno alle spalle, cercando di cogliere in flagrante il mio inseguitore.»
«Ora è certo che tu sai, perciò non lo ripeterà.»
Mila annuì.
«Però non sono venuta solo per questo.»
Goran tornò a guardarla. «Hai scoperto qualcosa?»
«Più che scoperto, credo di aver capito qualcosa. Uno degli illusionismi di Albert.»
«Quale fra i tanti?»
«Come ha fatto a portar via la bambina dalla giostra senza che nessuno si accorgesse di nulla.»
Ora gli occhi di Goran brillarono per l’interesse.
«Avanti, ti ascolto...
«Abbiamo sempre dato per scontato che fosse Albert il rapitore. Quindi un uomo. Ma se invece si trattasse di una donna?»
«Perché lo pensi?»
«Veramente è stata la madre di Sabine a farmi considerare per la prima volta questa ipotesi. Senza che glielo domandassi, mi ha detto che se ci fosse stato un uomo estraneo su quella giostra - perciò non un padre -, lei se ne sarebbe accorta. Aggiungendo anche che una madre ha una specie di sesto senso per queste cose. E io le credo.»
«Perché?»
«Perché la polizia ha visionato centinaia di foto scattate quella sera e anche i filmati amatoriali, e nessuno ha notato un uomo sospetto. Da ciò abbiamo anche dedotto che il nostro Albert abbia un aspetto del tutto comune... Allora mi sono detta che per una donna sarebbe stato ancora più facile portar via la bambina.»
«Secondo te ha una complice...» L’idea non gli dispiaceva. «Però non abbiamo elementi che supportino una tesi del genere.»
«Lo so. Ed è questo il problema.»
Goran si alzò e cominciò a camminare per la stanza. Si massaggiava la barba incolta e rifletteva.
«Non sarebbe la prima volta... È già accaduto in passato. A Gloucester, per esempio, con Fred e Rosemary West.»
Il criminologo ripercorse rapidamente il caso dei coniugi serial killer. Lui muratore, lei casalinga. Dieci figli. Insieme adescavano e uccidevano ragazze innocenti dopo averle costrette a partecipare ai loro festini erotici, per poi seppellirle nel cortile di casa, al numero 25 di Cromwell Road. Sotto il pavimento del portico c’era finita anche la figlia sedicenne della coppia che probabilmente aveva osato ribellarsi. Altre due vittime furono ritrovate in altri luoghi riconducibili a Fred. Dodici cadaveri in tutto. Ma la polizia smise di scavare nella grigia villetta per timore di crolli.
Alla luce di quel caso esemplare, Gavila riteneva che non fosse poi così campata in aria la teoria di Mila sull’esistenza di una complice di Albert.
«Forse è la donna a prendersi cura della sesta bambina.»
Goran sembrava molto intrigato. Ma non voleva farsi travolgere dall’entusiasmo.
«Non mi fraintendere, Mila: la tua è un’ottima intuizione. Ma dobbiamo verificarla.»
«Ne parlerai agli altri?»
«La prenderemo in considerazione. Intanto chiederò a uno dei nostri di riguardarsi le foto e i filmini del luna park.»
«Potrei farlo io.»
«Va bene.»
«C’è un’altra cosa... È una mia curiosità. Ho cercato la risposta da sola, ma non sono riuscita a darmela.»
«Di che si tratta?»
«Nei processi di decomposizione, gli occhi di un cadavere subiscono una trasformazione, vero?»
«Be’, di solito l’iride si schiarisce col tempo...»
Goran si fermò a fissarla, non capiva dove volesse arrivare.
«Perché me lo chiedi?»
Mila tirò fuori da una tasca la foto di Sabine che le aveva dato la madre al termine della sua visita. La stessa che aveva tenuto per tutto il viaggio di ritorno sul sedile accanto al suo. Quella che, dopo la paura dell’inseguimento, si era ritrovata a fissare, e che le aveva generato quel dubbio.
C’era qualcosa di sbagliato.
Goran la prese, la guardò.
«Il cadavere della bambina che abbiamo trovato nella casa dei Kobashi aveva gli occhi azzurri», gli fece notare Mila. «Quelli di Sabine, invece, erano marroni.»
Durante il tragitto in taxi, Goran non aveva detto una parola. Dopo avergli fatto quella rivelazione, Mila l’aveva visto cambiare improvvisamente umore. E aveva detto una cosa che l’aveva molto colpita.
«Stiamo accanto a persone di cui pensiamo di conoscere tutto, invece non sappiamo niente di loro...» E poi aveva aggiunto: «Ci ha fregati».
Sulle prime, aveva pensato che il criminologo si riferisse ad Albert. Ma non era così.
Assistette a un rapido giro di telefonate che comprendeva, oltre ai membri della squadra, anche la babysitter per Tommy.
«Dobbiamo uscire», le aveva annunciato poi, senza spiegarle.
«E tuo figlio?»
«La signora Runa sarà qui entro venti minuti, lui continuerà a dormire.»
E avevano chiamato il taxi.
La sede della Polizia federale era ancora illuminata a quell’ora. Nel palazzo c’era un viavai di agenti che si davano il cambio. Quasi tutti erano impegnati sul caso. Da giorni ormai si protraevano le perquisizioni nelle abitazioni di sospetti o presso i, luoghi indicati dalle telefonate di volenterosi cittadini, alla ricerca della prigione della sesta bambina.
Pagato il tassista, Goran si avviò verso l’entrata principale senza neanche attendere Mila che faticava a stargli dietro. Al piano del Dipartimento di scienze comportamentali trovarono Rosa, Boris e Stern che li aspettavano.
«Che succede?» chiese l’agente più anziano.
«È necessario un chiarimento», gli rispose Goran. «Dobbiamo vedere subito Roche.»
L’ispettore capo se lo vide piombare nel bel mezzo di una riunione, che si stava protraendo già da diverse ore fra le alte gerarchie della Polizia federale. L’argomento era proprio il caso di Albert.
«Ti dobbiamo parlare.»
Roche si alzò dalla poltrona e lo indicò ai presenti: «Signori, voi conoscete tutti il dottor Gavila, che presta il suo contributo ormai da anni al mio Dipartimento...»
Goran gli sussurrò all’orecchio: «Adesso».
Il sorriso di circostanza si spense sul volto di Roche.
«Vi chiedo scusa, ci sono novità che richiedono la mia presenza altrove.»
Mentre raccoglieva i fogli dal tavolo della riunione, Roche si sentì addosso gli sguardi dei presenti. Intanto Goran lo attendeva due passi più indietro, mentre il resto della squadra era rimasto sulla soglia.
«Mi auguro che sia davvero importante», disse l’ispettore capo dopo aver gettato la cartellina coi fogli sulla scrivania del suo ufficio.
Goran attese che tutti entrassero nella stanza, prima di chiudere la porta e affrontare Roche a muso duro.
«Il cadavere trovato nel soggiorno dei Kobashi non apparteneva alla terza bambina scomparsa.»
Il tono e la fermezza non lasciavano spazio a una smentita. L’ispettore capo si sedette e intrecciò le mani.
«Continua...»
«Quella non è Sabine. È Melissa.»
Mila si ricordò della bambina numero quattro. Anagraficamente era la più grande delle sei, ma il suo corpo ancora acerbo poteva trarre in inganno. E aveva gli occhi azzurri.
«Continua, ti ascolto...» ripeté Roche.
«Questo può significare solo due cose. Che Albert ha modificato il suo modus operandi, perché finora ci ha fatto ritrovare le bambine secondo l’ordine in cui le ha rapite. Oppure che Chang ha fatto confusione con gli esami del dna...»
«Credo che siano plausibili entrambe le ipotesi», affermò Roche, sicuro.
«Io invece penso che la prima sia quasi impossibile... E, riguardo alla seconda, credo proprio che gliel’abbia ordinato tu di falsificare i risultati prima di darli a Mila!»
Roche diventò paonazzo. «Senti dottore, non me ne starò qui ad ascoltare le tue accuse!»
«Dove è stato rinvenuto il corpo della bambina numero tre?»
«Cosa?»
L’ispettore capo faceva di tutto per sembrare sorpreso da quell’affermazione.
«Perché è evidente che è stato ritrovato, altrimenti Albert non sarebbe andato avanti con la progressione passando alla numero quattro.»
«Il cadavere era in casa dei Kobashi da più di una settimana! Forse avremmo dovuto trovare prima la bambina numero tre, come dici tu. O forse, semplicemente, abbiamo trovato prima la quattro! E Chang poi ha fatto casino, che ne so!»
Il criminologo piantò gli occhi nei suoi. «È per questo che dopo i fatti dell’orfanotrofio ci hai dato ventiquattrore di libertà. Perché non ti stessimo tra i piedi!»
«Goran, ne ho abbastanza di queste accuse ridicole! Non puoi, provare nulla di quello che dici!»
«È per via del caso Wilson Pickett, non è vero?»
«Quello che è accaduto allora non c’entra niente, te l’assicuro.»
«Invece non ti fidi più di me. E forse non hai tutti i torti... Ma se credi che anche questa indagine mi stia sfuggendo di mano, preferisco che tu me lo dica in faccia, senza giochetti politici. Tu dillo e noi facciamo tutti un passo indietro, senza crearti imbarazzi e assumendoci le nostre responsabilità.»
Roche non rispose subito. Teneva le mani intrecciate sotto al mento e si dondolava sulla poltrona. Poi, con molta calma, cominciò: «Onestamente, non so proprio di che stai...»
«Avanti, glielo dica.»
Era stato Stern a interromperlo. Roche lo fulminò con lo sguardo.
«Lei stia al suo posto!»
Goran si voltò a guardarlo. Poi fissò anche Boris e Rosa. Si rese conto subito che tutti sapevano, tranne lui e Mila.
“Ecco perché Boris è stato così evasivo quando gli ho domandato cosa avesse fatto nel suo giorno di libertà”, pensò lei. E si ricordò anche del tono lievemente minaccioso usato dal collega nei confronti di Roche fuori dalla casa di Yvonne Gress, quando questi si rifiutava di mandarlo dentro prima delle squadre speciali. La minaccia sottintendeva un ricatto.
«Sì ispettore. Gli dica tutto e facciamola finita», incalzò Sarah Rosa, dando rinforzo a Stern.
«Non può tenerlo fuori, non è giusto», aggiunse Boris, accennando all’indirizzo del criminologo.
Sembrava che volessero scusarsi con lui per averlo tenuto all’oscuro e che si sentissero in colpa per aver obbedito a un ordine che ritenevano ingiusto.
Roche fece trascorrere ancora qualche istante, poi puntò lo sguardo alternativamente su Goran e Mila.
«D’accordo... Ma se vi fate scappare una parola, vi rovino.»