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Aveva sempre desiderato un pony.

Ricordava di aver tormentato la madre e il padre perché gliene prendessero uno. Senza considerare che dove abitavano non c’era neanche un posto adatto per tenerlo. Il cortile posteriore era troppo stretto e accanto al garage c’era appena una striscia di terra dove suo nonno coltivava l’orto.

Eppure lei insisteva. I suoi pensavano che prima o poi si sarebbe stancata di quell’assurdo capriccio, ma a ogni compleanno e in ogni letterina a Babbo Natale c’era sempre quella richiesta.

Quando Mila uscì dalla pancia del mostro per tornare a casa, al termine dei suoi ventuno giorni di prigionia e tre mesi d’ospedale, trovò ad attenderla nel cortile un bellissimo pony bianco e marrone.

Il suo desiderio era stato esaudito. Ma lei non riuscì a gioirne.

Suo padre aveva chiesto favori, mosso le sue modeste conoscenze per spuntare un buon prezzo d’acquisto. La sua famiglia non navigava certo nell’oro e in casa avevano sempre fatto grandi sacrifici, ed era soprattutto per motivi economici che lei era rimasta figlia unica.

I suoi non potevano permettersi di darle un fratello o una sorella, invece le avevano comprato un pony. E lei non ne era felice.

Tante volte aveva fantasticato di riuscire ad avere finalmente quel regalo. Ne parlava in continuazione. Immaginava di accudirlo, di mettergli dei fiocchetti colorati sulla criniera, di spazzolarlo per bene. Spesso costringeva il suo gatto a subire i medesimi trattamenti. Forse era anche per quello che Houdini la odiava e le stava alla larga.

C’è una ragione per cui i pony piacciono tanto ai bambini. Perché non crescono mai, rimanendo immortalati nell’incantesimo dell’infanzia. Una condizione invidiabile.

Invece, dopo la sua liberazione, Mila voleva solo diventare subito grande, per mettere una distanza fra lei e ciò che le era accaduto. E, se avesse avuto anche un po’ di fortuna, forse sarebbe pure riuscita a dimenticare.

Quel pony, invece, con la sua assoluta impossibilità di crescere, rappresentava per lei un insostenibile patto con il tempo.

Quando l’avevano estratta, più morta che viva, dal fetido scantinato di Steve, per lei era iniziata una nuova vita. Dopo tre mesi d’ospedale per recuperare l’uso del braccio sinistro, aveva dovuto riprendere confidenza con le cose del mondo, non solo con la quotidianità di casa sua, ma anche con la routine degli affetti.

Graciela, la sua amica del cuore, con cui prima di scomparire nel nulla aveva celebrato il rito delle sorelle di sangue, ora si comportava in maniera strana con lei. Non era più quella con cui divideva sempre rigorosamente l’ultimo chewingum del pacchetto, quella davanti a cui non s’imbarazzava a fare pipì, quella con cui aveva scambiato un bacio «alla francese» per far pratica per quando sarebbero arrivati i ragazzi. No, Graciela era diversa. Le parlava con un sorriso fisso sulla faccia, e lei temeva che, se fosse andata avanti così, dopo un po’ avrebbe sentito male alle guance. Si sforzava di essere carina e gentile, e aveva perfino smesso di dirle parolacce, quando fino a qualche tempo prima non la chiamava neanche per nome - «vacca ammorbante» e «troietta lentigginosa» erano i soprannomi che usavano sempre fra loro.

S’erano punte il polpastrello dell’indice con un chiodo arrugginito perché sarebbero rimaste per sempre amiche, perché mai nessun ragazzo o fidanzato le avrebbe divise. E invece erano bastate poche settimane a scavare un solco incolmabile.

A ben guardare, quella puntura sul polpastrello era stata la prima ferita di Mila. Ma le aveva procurato più dolore quando s’era totalmente rimarginata.

«Smettetela di trattarmi come se fossi tornata dalla luna!» avrebbe voluto gridare a tutti quanti. E quell’espressione sul volto della gente! Lei non la sopportava. Piegavano la testa da un lato e increspavano le labbra. Anche a scuola, dove non aveva mai eccelso, i suoi errori ora venivano tollerati con bonarietà.

Era stanca dell’accondiscendenza degli altri. Le sembrava di essere in un film in bianco e nero, come quelli che davano a notte fonda in tv, dove gli abitanti della terra erano stati sostituiti da cloni marziani, mentre lei s’era salvata perché era rimasta nel ventre caldo di quella tana.

Allora le possibilità erano due. O il mondo era davvero cambiato, o dopo ventuno giorni di gestazione il mostro aveva partorito una nuova Mila.

Intorno a lei nessuno menzionava più ciò che era accaduto. La facevano vivere come sospesa in una bolla, come se fosse fatta di vetro e potesse andare in pezzi da un momento all’altro. Non capivano che lei invece avrebbe solo voluto un po’ di autenticità dopo tutti gli inganni che aveva dovuto subire.

Dopo undici mesi era iniziato il processo a Steve.

Aveva atteso a lungo quel momento. Ne parlavano tutti i giornali e i telegiornali che i suoi non le facevano vedere per proteggerla, dicevano. Ma che lei guardava di nascosto appena poteva.

Sia lei sia Linda avrebbero dovuto testimoniare. Il pubblico ministero contava molto più su di lei, perché la sua compagna di prigionia continuava imperterrita a difendere il suo aguzzino. Aveva ripreso a pretendere che la chiamassero Gloria. I dottori dicevano che Linda soffriva di serie turbe mentali. Sarebbe toccato dunque a Mila il compito d’inchiodare Steve.

Nei mesi successivi alla cattura, Steve aveva fatto di tutto per apparire infermo di mente. S’era inventato assurde teorie su ipotetici complici a cui diceva di aver soltanto ubbidito. Stava cercando di rifilare anche al mondo la storia che aveva usato con Linda. Quella di Frankie, il socio malvagio. Ma era stato smentito non appena un poliziotto aveva scoperto che quello era solo il nome della tartaruga che aveva da piccolo.

Ma la gente voleva bersi lo stesso quella storia. Steve era troppo «normale» per essere un mostro. Troppo uguale a loro. L’idea che ci fosse qualcun altro dietro, un essere ancora misterioso, un vero mostro, paradossalmente li rassicurava.

Mila era arrivata al processo determinata a restituire a Steve tutte le sue colpe, nonché un po’ di quello stesso male che le aveva procurato. L’avrebbe fatto marcire in galera, e per questo era anche disposta a recitare la parte della povera vittima, che fino ad allora s’era ostinatamente rifiutata d’interpretare.

Sedette al banco dei testimoni, di fronte alla gabbia in cui Steve era tenuto in manette, con l’intenzione di raccontare ogni cosa senza staccargli mai gli occhi di dosso.

Ma quando lo vide - con quella camicia verde abbottonata fin sul colletto, troppo grande per lui che s’era ridotto pelle e ossa, con quelle mani che gli tremavano mentre cercava di prendere appunti su un blocco, con quei capelli che s’era accorciato da solo e che erano più lunghi da un lato -, provò qualcosa che non si sarebbe mai aspettata: pena, ma anche rabbia per quel miserabile, proprio perché le faceva pena.

Quella fu l’ultima volta che Mila Vasquez provò empatia per qualcuno.

 

Nel momento in cui aveva scoperto il segreto di Goran, aveva pianto.

Perché?

Una memoria sperduta dentro di lei le diceva che erano state lacrime di empatia.

All’improvviso un argine s’era rotto da qualche parte, liberando una gamma sorprendente di emozioni. Adesso le sembrava perfino di riuscire ad avvertire anche ciò che provavano gli altri.

Come quando Roche era giunto sul luogo e lei aveva percepito la sua tremenda consapevolezza di avere ormai le ore contate, perché il suo uomo migliore, la sua «punta di diamante», gli aveva servito il peggiore dei bocconi avvelenati.

Terence Mosca invece le era sembrato combattuto fra la gioia per il sicuro avanzamento di carriera e il disagio per la sua motivazione.

Scorse nitidamente lo sconcerto e la tristezza di Stern non appena questi varcò la soglia di quella casa. E capì immediatamente che si sarebbe subito rimboccato le maniche per rimettere ordine in quella brutta faccenda.

Empatia.

L’unica persona per cui non riusciva a provare nulla, era Goran.

Non era caduta come Linda nel tranello di Steve: Mila non aveva mai creduto all’esistenza di Frankie. Invece era cascata nell’inganno che in quella casa ci vivesse un bambino, Tommy. Aveva sentito parlare di lui. Ma aveva anche assistito alle telefonate che suo padre faceva alla sua tata per accertarsi che stesse bene e per raccomandarsi per lui. Aveva perfino creduto di vederlo mentre Goran lo metteva a letto. Tutte cose che non riusciva a perdonargli, perché la facevano sentire una stupida.

Goran Gavila era sopravvissuto a un volo di dodici metri, ma adesso combatteva fra la vita e la morte in un letto di terapia intensiva.

La sua casa era presidiata, ma solo esternamente. All’interno si aggiravano soltanto due persone. L’agente speciale Stern, che aveva momentaneamente congelato le sue dimissioni, e Mila.

Non cercavano niente, stavano solo provando a collocare gli eventi in ordine cronologico, per trovare le risposte alle uniche domande possibili. In che momento un essere umano equilibrato e tranquillo come Goran Gavila aveva maturato il suo progetto di morte? Quando era scattata in lui la molla della vendetta? Quando aveva iniziato a trasformare la sua rabbia in un disegno?

Mila era nello studio e sentiva Stern che ispezionava la camera accanto. Aveva eseguito molte perquisizioni nella sua carriera. Era incredibile quanto potessero essere rivelatori i dettagli della vita di qualcuno.

Mentre esplorava il rifugio in cui Gavila maturava le sue riflessioni, cercava di mantenersi distaccata, prendendo nota dei particolari, delle piccole abitudini che avrebbero potuto svelarle accidentalmente qualcosa d’importante.

Goran conservava le graffette in un posacenere di vetro. Temperava le matite direttamente nel cestino della carta. E teneva un portafotografie senza foto sulla scrivania.

Quella cornice vuota era una finestra sull’abisso dell’uomo che Mila aveva creduto di poter amare.

Mila distolse lo sguardo, quasi per timore di esserne ingoiata. Quindi aprì un cassetto al lato del tavolo. Dentro c’era una cartellina. La prese e la mise sopra quelle che già aveva visionato. Questa era diversa, perché dalla data si trattava dell’ultimo caso di cui Gavila si era occupato prima che venisse alla luce la storia delle bambine scomparse.

Oltre ai documenti, conteneva una serie di audiocassette.

Cominciò a leggere il contenuto dei fogli; avrebbe ascoltato i nastri se ne fosse valsa la pena.

Si trattava del carteggio intercorso fra il direttore di un penitenziario - tale Alphonse Bérenger - e l’ufficio del procuratore. E riguardava il singolare comportamento di un detenuto che veniva individuato soltanto con il numero di matricola.

RK-357/9.

Il soggetto era stato trovato, mesi prima, da due poliziotti mentre vagava di notte, solo e senza vestiti, per le campagne. Aveva rifiutato sin da subito di fornire le proprie generalità ai pubblici ufficiali. Dall’esame delle sue impronte digitali era emerso soltanto che non era schedato. Ma un giudice l’aveva condannato per ostacolo alla giustizia.

Stava ancora scontando la pena.

Mila prese una delle audiocassette e la guardò, cercando d’immaginare cosa potesse contenere. Sull’etichetta erano riportate solo un’ora e una data. Poi chiamò Stern e gli riassunse rapidamente quel che aveva letto.

«Però senti cosa scrive il direttore del carcere... ‘Dal momento in cui ha messo piede al Penitenziario, il detenuto RK-357/9 non ha mai dato segni d’indisciplina, dimostrandosi sempre rispettoso del regolamento carcerario. Inoltre l’individuo è di indole solitaria e poco incline a socializzare... Forse anche per questo nessuno si è mai accorto del particolare comportamento, notato solo di recente da uno dei nostri secondini. Il detenuto RK-357/9 deterge e ripassa con un panno di feltro ogni oggetto con cui entra in contatto, raccoglie tutti i peli e i capelli che perde quotidianamente, lustra alla perfezione le posate e il water ogni volta che li usa’... Che te ne sembra?»

«Mah, non lo so. Anche mia moglie ha una fissa per le pulizie.»

«Senti come continua però: ‘Siamo dunque di fronte a un maniaco igienista o, molto più verosimilmente, a un individuo che vuole a tutti i costi evitare di lasciare “materiale organico”. Nutriamo, di conseguenza, il serio sospetto che il detenuto RK-357/9 abbia commesso qualche crimine di particolare gravità e voglia impedirci di prelevare il suo dna per identificarlo...’ Allora?»

Stern le prese il foglio dalle mani e lo lesse. «È successo a novembre... Ma non c’è scritto se alla fine sono riusciti a scoprire qualcosa dal suo dna

«A quanto pare non potevano obbligarlo a sottoporsi al test, e neanche prelevarlo arbitrariamente perché questo avrebbe le, so le sue libertà costituzionali...»

«Allora cos’hanno fatto?»

«Hanno provato a recuperare qualche pelo o capello con delle ispezioni a sorpresa nella sua cella.»

«Lo tenevano in isolamento?»

Mila scorse i fogli per cercare il punto in cui aveva letto qualcosa in proposito. Lo trovò. «Ecco qui, il direttore scrive: ‘Fino a oggi il soggetto ha potuto condividere la cella con un altro recluso, il che l’ha certamente favorito nell’opera di confondere le proprie tracce biologiche. Però La informo che come prima misura lo abbiamo tolto da tale condizione di promiscuità, mettendolo in isolamento’.»

«Allora, sono riusciti a prendergli il dna o no?»

«A quanto pare il detenuto era più furbo di loro e ha fatto trovare sempre la cella perfettamente pulita. Ma poi si sono accorti che parlava da solo e gli hanno piazzato un microfono nascosto per capire cosa dicesse...»

«E il dottor Gavila che c’entrava?»

«Gli avranno domandato un parere da esperto, non so...»

Stern ci pensò un attimo. «Forse dovremmo ascoltare le cassette.»

Su un mobile dello studio c’era un vecchio registratore che probabilmente Goran usava per incidere i suoi appunti vocali. Mila passò un’audiocassetta a Stern, che si avvicinò all’apparecchio, la introdusse ed era sul punto di premere il tasto play.

«Aspetta.»

Sorpreso, Stern si voltò a guardarla: era impallidita.

«Cazzo!»

«Che succede?»

«Il nome.»

«Che nome?»

«Quello del detenuto con cui divideva la cella prima che lo mettessero in isolamento...»

«E allora?»

«Si chiamava Vincent... Era Vincent Clarisso