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Sei braccia. Cinque nomi.
Con quell’enigma la squadra aveva lasciato la radura in mezzo al bosco e si era trasferita nell’unità mobile piazzata sulla statale. La presenza di caffè fresco e tramezzini sembrava stonare con quella situazione, ma serviva a fornire una parvenza di controllo. Comunque nessuno in quella fredda mattina di febbraio avrebbe messo mano al buffet.
Stern tirò fuori dal taschino una scatola di mentine. La agitò e se ne fece scivolare un paio in una mano, lanciandosele poi direttamente in bocca. Diceva che lo aiutavano a pensare. «Com’è possibile?» chiese poi, più a se stesso che agli altri.
«Cazzo...» si lasciò scappare Boris. Ma lo pronunciò così piano che nessuno lo sentì.
Rosa cercava un punto all’interno del camper in cui concentrare la propria attenzione. Goran se ne accorse. La capiva, lei aveva una figlia dell’età di quelle bambine. E la prima cosa che pensi quando ti trovi al cospetto di un crimine contro minori. I tuoi figli. E ti domandi cosa sarebbe successo se... Ma non riesci a finire la frase, perché anche solo il pensiero fa male.
«Ce le farà ritrovare a pezzi», disse l’ispettore capo Roche.
«Allora è questo il nostro compito? Raccogliere cadaveri?» chiese Boris con un tono di stizza. Lui, che era un uomo d’azione, non ci stava a vedersi relegato al ruolo di necroforo. Pretendeva un colpevole. E anche gli altri, che infatti non tardarono ad annuire alle sue parole.
Roche li tranquillizzò. «La priorità è sempre quella di un arresto. Ma non possiamo sottrarci alla straziante ricerca dei resti.»
«È stato intenzionale.»
Tutti fissarono Goran, in bilico su quell’ultima frase.
«Il Labrador che fiuta il braccio e scava la buca: faceva parte del ‘disegno’. Il nostro uomo teneva d’occhio i due ragazzini col cane. Sapeva che lo portavano nel bosco. Per questo ha piazzato lì il suo piccolo cimitero. Un’idea semplice. Ha completato la sua ‘opera’, e ce l’ha mostrata. Tutto qui.»
«Vuol dire che non lo prenderemo?» chiese Boris, incapace di crederci e furioso per questo.
«Voi lo sapete meglio di me come vanno queste cose...»
«Ma lo farà, vero? Ucciderà di nuovo...» Stavolta era Rosa che non voleva rassegnarsi. «Gli è riuscito bene, ci riproverà.»
Voleva essere smentita, ma Goran non aveva una risposta. E, anche se avesse avuto un’opinione in proposito, non avrebbe saputo tradurre in termini umanamente accettabili la crudeltà di doversi dividere fra il pensiero di quelle morti tremende e il cinico desiderio che l’assassino tornasse a colpire. Perché - e questo lo sapevano tutti - l’unica possibilità per prenderlo era che non si fermasse.
L’ispettore capo Roche riprese la parola: «Se ritroviamo i corpi di quelle bambine, almeno potremo dare alle loro famiglie un funerale e una tomba su cui piangere».
Come al solito Roche aveva ribaltato i termini della questione, presentandola nel modo più politicamente corretto. Era la prova generale di ciò che avrebbe detto alla stampa, per addolcire la storia a beneficio della propria immagine. Prima il lutto, il dolore, per prendere tempo. Poi l’indagine e i colpevoli.
Ma Goran sapeva che l’operazione non gli sarebbe riuscita, e che i giornalisti si sarebbero avventati su ogni boccone, scarnificando voracemente la vicenda e condendola con tutti i dettagli più sordidi. E, soprattutto, da quel momento non gli avrebbero perdonato più nulla. Ogni loro gesto, ogni parola avrebbe acquistato il valore di una promessa, di un impegno solenne. Roche era convinto di poter tenere a bada i cronisti, imboccandoli un poco alla volta con quello che avrebbero voluto sentire. E Goran lasciò all’ispettore capo la sua fragile illusione di controllo.
«Mi sa che a questo tizio dovremo dare un nome... Prima che lo faccia la stampa», disse Roche.
Goran era d’accordo, ma non per lo stesso motivo dell’ispettore capo. Come tutti i criminologi che prestavano la loro opera alla polizia, il dottor Gavila aveva i propri metodi. Primo fra tutti quello di attribuire al criminale dei tratti, in modo da trasformare una figura ancora rarefatta e indefinita in qualcosa di umano. Perché, davanti a un male così feroce e gratuito, si tende sempre a dimenticare che l’autore, come la vittima, è una persona, con un’esistenza spesso normale, un lavoro e magari anche una famiglia. A sostegno della sua tesi, il dottor Gavila faceva notare ai suoi allievi d’università che quasi tutte le volte che veniva arrestato un omicida seriale i suoi vicini di casa e i familiari cadevano dalle nuvole.
«Li chiamiamo mostri perché li sentiamo lontani da noi, perché li vogliamo ‘diversi’», diceva Goran nei suoi seminari. «Invece ci assomigliano in tutto e per tutto. Ma noi preferiamo rimuovere l’idea che un nostro simile sia capace di tanto. E questo per assolvere in parte la nostra natura. Gli antropologi la definiscono ‘spersonalizzazione del reo’ e costituisce spesso il maggior ostacolo all’identificazione di un serial killer. Perché un uomo ha dei punti deboli e può essere catturato. Un mostro no.»
Per questo motivo, nella sua aula Goran teneva appesa al muro da sempre la foto in bianco e nero di un bambino. Un piccolo, paffuto e indifeso cucciolo di uomo. I suoi studenti la vedevano ogni giorno e finivano con l’affezionarsi a quell’immagine. Quando - più o meno verso metà semestre - qualcuno trovava il coraggio di domandargli chi fosse, lui li sfidava a indovinarlo. Le risposte erano le più varie e fantasiose. E lui si divertiva davanti alle loro espressioni quando svelava che quel bambino era Adolf Hitler.
Nel dopoguerra il leader del nazismo era diventato un mostro nell’immaginario collettivo, e per anni le nazioni che erano uscite vincitrici dal conflitto si erano opposte a una visione diversa. Per questo nessuno conosceva le foto dell’infanzia del Führer. Un mostro non poteva essere stato un bambino, non poteva aver avuto dei sentimenti diversi dall’odio e un’esistenza simile a quella di altri suoi coetanei che poi sarebbero diventati le sue vittime.
«Per molti, umanizzare Hitler significa ‘spiegarlo’ in qualche modo», diceva allora Goran alla classe. «Ma la società pretende che il male estremo non possa essere spiegato, e non possa essere capito. Provare a farlo vuol dire cercargli anche una qualche giustificazione.»
Nel camper dell’unità mobile, Boris propose per l’artefice del cimitero di braccia il nome «Albert», in ricordo di un vecchio caso. L’idea fu accolta con un sorriso dai presenti. La decisione fu presa.
Da quel punto in poi, i membri della squadra si sarebbero riferiti all’assassino con quel nome. E, giorno dopo giorno, Albert avrebbe cominciato ad acquistare una fisionomia. Un naso, due occhi, un volto, una vita propria. Ciascuno gli avrebbe attribuito la propria visione, e non l’avrebbero più visto solo come un’ombra sfuggente.
«Albert, eh?» Al termine della riunione, Roche stava ancora soppesando il valore mediatico di quel nome. Se lo ripassava tra le labbra, cercandone il sapore. Poteva funzionare.
Ma c’era qualcosa d’altro che tormentava l’ispettore capo. Ne fece parola a Goran.
«Se vuoi sapere la verità, sono d’accordo con Boris. Cristo santo! Non posso costringere i miei uomini a raccattare cadaveri mentre un pazzo psicopatico ci fa fare la figura dei fessi!»
Goran sapeva che quando Roche parlava dei «suoi» uomini in realtà si riferiva soprattutto a se stesso. Era lui che aveva paura di non potersi fregiare di alcun risultato. Ed era sempre lui che temeva che qualcuno avrebbe invocato l’inefficienza della Polizia federale se non fossero riusciti a fermare il colpevole.
E poi c’era ancora la questione del braccio numero sei.
«Ho pensato di non diffondere per il momento la notizia dell’esistenza di una sesta vittima.»
Goran era sconcertato. «Ma così come faremo a sapere chi è?»
«Ho pensato già a tutto, non preoccuparti...»
Nella sua carriera Mila Vasquez aveva risolto ottantanove casi di sparizione. Le erano state conferite tre medaglie e una serie di encomi. Veniva considerata un’esperta nel suo campo e la chiamavano spesso per consulenze, anche all’estero.
L’operazione di quella mattina, in cui erano stati liberati contemporaneamente Pablo ed Elisa, era stata definita un clamoroso successo. Mila non aveva detto nulla. Ma le dava fastidio. Avrebbe voluto ammettere tutti i suoi errori. L’essersi introdotta nella casa marrone senza attendere rinforzi. Aver sottovalutato l’ambiente e le possibili trappole. Aver messo a rischio se stessa e gli ostaggi permettendo che il sospettato la disarmasse e le puntasse una pistola alla nuca. Infine, non aver impedito il suicidio del maestro di musica.
Ma tutto questo era stato omesso dai suoi superiori, che avevano invece enfatizzato i suoi meriti mentre si facevano immortalare dalla stampa per le foto di rito.
Mila non appariva mai in quegli scatti. La ragione ufficiale era che preferiva salvaguardare il proprio anonimato per le future indagini. Ma la verità era che odiava essere fotografata. Non sopportava neanche la sua immagine riflessa nello specchio. Non perché non fosse bella, anzi. Ma, a trentadue anni, ore e ore di palestra avevano sradicato tenacemente ogni traccia di femminilità. Ogni curva, ogni morbidezza. Come se essere donna fosse un male da debellare. Anche se spesso indossava abiti maschili, non era neanche mascolina. Semplicemente non aveva nulla che facesse pensare a un’identità sessuale. Ed era così che lei voleva apparire. I suoi abiti erano anonimi. Jeans non troppo fascianti, scarpe da ginnastica ben rodate, giacca di pelle. Erano abiti, e basta. La loro funzione era di tenerla al caldo o di coprirla. Non perdeva tempo a sceglierli, li comprava soltanto. Magari più capi tutti uguali. Non le importava. È così che voleva essere.
Invisibile fra gli invisibili.
Forse anche per questo riusciva a condividere lo spogliatoio del distretto con gli agenti maschi.
Mila se ne stava da dieci minuti a fissare il suo armadietto aperto, mentre ripercorreva tutti gli eventi di quella giornata. C’era qualcosa che doveva fare ma la sua mente al momento era altrove. Poi una fitta lancinante alla coscia la riportò in sé. La ferita si era riaperta, aveva cercato di tamponare il sangue con un assorbente e del nastro adesivo, ma inutilmente. I lembi di pelle intorno al taglio erano troppo corti e non era riuscita a fare un buon lavoro con ago e filo. Forse stavolta avrebbe dovuto davvero consultare un medico, ma non se la sentiva di andare in ospedale. Troppe domande. Decise che si sarebbe fatta una fasciatura più stretta, nella speranza che l’emorragia si arrestasse, poi avrebbe riprovato una nuova sutura. Ma avrebbe comunque dovuto assumere un antibiotico per evitare che facesse infezione. Si sarebbe procurata una ricetta falsa da uno che ogni tanto le passava notizie sui nuovi arrivi fra i senzatetto della stazione ferroviaria...
Stazioni.
“È strano”, pensò Mila. Mentre per il resto del mondo sono solo un posto di passaggio, per alcuni sono un termine. Si fermano lì e non ripartono più. Le stazioni sono una specie di antinferno, dove le anime che si sono perse si ammassano nell’attesa che qualcuno vada a riprenderle.
Ogni giorno spariscono in media dai venti ai venticinque individui. Mila conosceva bene la statistica. All’improvviso queste persone non danno più notizie di sé. Svaniscono senza un preavviso, senza un bagaglio. Così, come se si fossero dissolte nel nulla.
Mila sapeva che, per la maggior parte, si trattava di sbandati, di gente che viveva di droga, di espedienti, sempre pronta a macchiarsi di qualche reato, individui che entravano e uscivano continuamente di galera. Ma poi c’era anche chi - e quella era una strana minoranza - a un certo punto della propria vita decideva di sparire per sempre. Come la madre di famiglia che andava a fare la spesa al supermercato e non tornava più a casa, o il figlio o il fratello che salivano su un treno senza arrivare mai a destinazione.
Mila pensava che ognuno di noi ha una strada. Una strada che porta a casa, alle persone più care, a ciò cui siamo maggiormente legati. Di solito la strada è sempre quella, la s’impara da piccoli, e ognuno la segue per tutta la vita. Ma capita che quel cammino si spezzi. A volte ricomincia da un’altra parte. O, dopo aver disegnato un percorso tortuoso, ritorna al punto in cui si era spezzato. Oppure rimane come sospeso.
A volte, però, si perde nel buio.
Mila sapeva che più della metà di quelli che spariscono tornano indietro e raccontano una storia. Alcuni invece non hanno niente da raccontare, e riprendono la stessa esistenza di prima. Altri sono meno fortunati, di loro rimane solo un corpo muto. Poi ci sono quelli di cui non si saprà mai nulla.
Fra questi, c’è sempre un bambino.
Ci sono genitori che darebbero la vita per sapere com’è andata. In cosa hanno sbagliato. Quale distrazione ha dato inizio a quel dramma del silenzio. Che fine ha fatto il loro cucciolo. Chi se l’è preso, e perché. C’è chi interroga Dio per sapere per quale colpa sia stato punito. Chi si tormenta per il resto dei propri giorni in cerca di risposte, oppure si lascia morire mentre insegue quelle domande. «Fatemi sapere almeno se è morto», dicevano. Alcuni arrivavano ad augurarselo, perché volevano solo piangere. L’unico loro desiderio non era rassegnarsi, ma poter smettere di sperare. Perché la speranza uccide più lentamente.
Mila però non credeva alla storia della «verità liberatoria». L’aveva imparato sulla sua pelle, la prima volta che aveva ritrovato qualcuno. L’aveva riprovato quel pomeriggio, dopo aver riaccompagnato a casa Pablo ed Elisa.
Per il bambino c’erano state grida di gioia nel quartiere, clacson festosi e caroselli di auto.
Per Elisa no, era passato troppo tempo.
Dopo averla salvata, Mila l’aveva condotta in un centro specializzato dove gli assistenti sociali si erano presi cura di lei. Le avevano dato da mangiare e dei vestiti puliti. Chissà perché risultavano sempre di una o due taglie più grandi, pensava Mila. Forse perché gli individui a cui erano destinati si erano consumati in quegli anni di oblio, ed erano stati ritrovati appena prima che svanissero del tutto.
Elisa era rimasta in silenzio per tutto il tempo. Si era lasciata accudire, accettando tutto ciò che le facevano. Poi Mila le aveva annunciato che l’avrebbe riportata a casa. Anche allora, lei non aveva detto niente.
Fissando il suo armadietto, la giovane poliziotta non poteva fare a meno di rivedere le facce dei genitori di Elisa Gomes quando si era presentata con lei alla loro porta. Erano impreparati, e anche un po’ imbarazzati. Forse pensavano che gli avrebbe riportato indietro una bambina di dieci anni e non quella ragazza cresciuta con cui non avevano più niente in comune.
Elisa era stata una ragazzina intelligente e molto precoce. Aveva iniziato a parlare presto. La prima parola che aveva detto era stata «May», il nome del suo orsetto di peluche. Sua madre, però, avrebbe ricordato anche l’ultima, «domani». A completamento della frase «ci vediamo domani», pronunciata sulla porta di casa, prima di andare a dormire da un’amica. Ma quel giorno non c’era mai stato. Il domani di Elisa Gomes non era ancora arrivato. Ma il suo «ieri» era una lunghissima giornata che non accennava a finire.
In questo giorno prolungato nel tempo, per i suoi genitori Elisa aveva continuato a vivere come una bambina di dieci anni, con la sua cameretta piena di bambole e i regali di Natale che si accumulavano accanto al camino. Sarebbe rimasta sempre come se la ricordavano. Immortalata in una foto della memoria come prigioniera di un incantesimo.
E, anche se Mila l’aveva trovata, loro avrebbero continuato ad aspettare la bambina che avevano perduto. Senza trovare mai pace.
Dopo un abbraccio condito di lacrime e una commozione fin troppo scontata, la signora Gomes le aveva fatte entrare in casa e aveva offerto tè e biscotti. Si era comportata con la figlia come ci si comporta con un ospite. Forse con la segreta speranza che sarebbe andata via alla fine di quella visita, lasciando lei e il marito con quell’ormai confortevole senso di privazione.
Mila aveva sempre paragonato la tristezza a quei vecchi armadi di cui vorresti disfarti ma che alla fine rimangono al loro posto e dopo un po’ emanano un odore tipico, che impregna la stanza. E col tempo ti ci abitui, e finisci con l’appartenere anche tu a quell’odore.
Elisa era tornata, e i suoi genitori avrebbero dovuto dismettere il proprio lutto, e restituire tutta la compassione di cui erano stati fatti oggetto in quegli anni. Non avrebbero avuto più motivo per essere tristi. Con che coraggio potevano raccontare al resto del mondo quella nuova infelicità di avere un’estranea che si aggirava per casa?
Dopo un’ora di convenevoli, Mila si era congedata e le era sembrato di scorgere nello sguardo della madre di Elisa un’invocazione d’aiuto. «Adesso cosa faccio?» gridava muta quella donna, nell’angoscia di dover fare i conti con quella nuova realtà.
Anche Mila aveva una verità da affrontare. Quella che Elisa Gomes era stata ritrovata per puro caso. Se il suo rapitore dopo tutti quegli anni non avesse avvertito l’esigenza di allargare la «famiglia» prendendo anche Pablito, nessuno avrebbe mai saputo com’erano andate effettivamente le cose. Ed Elisa sarebbe rimasta chiusa in quel mondo creato solo per lei e per l’ossessione del suo carceriere. Prima come figlia, poi come sposa fedele.
Mila richiuse l’armadietto su questi pensieri. “Dimentica, dimentica.”, si disse. “Questa è l’unica medicina.”
Il distretto si stava svuotando, e lei aveva voglia di tornarsene a casa. Avrebbe fatto una doccia, aperto una bottiglia di Porto e arrostito castagne sul gas. Poi si sarebbe messa a guardare l’albero davanti alla finestra del soggiorno. E forse, con un po’ di fortuna, si sarebbe addormentata presto sul divano.
Ma, mentre si apprestava a premiarsi con la sua serata solitaria, uno dei colleghi si affacciò allo spogliatoio.
Il sergente Morexu voleva vederla.
Una lucida bava d’umidità rivestiva le strade in quella sera di febbraio. Goran scese dal taxi. Non aveva un’auto, non aveva la patente, lasciava che qualcun altro si occupasse di portarlo dove doveva andare. Non che non ci avesse provato, a guidare, e gli riusciva pure. Ma per uno che ha l’abitudine di perdersi nelle profondità dei propri pensieri, non è consigliabile mettersi al volante. Così Goran aveva rinunciato.
Pagato l’autista, la seconda cosa che fece dopo aver piantato i suoi quarantaquattro di scarpe sul marciapiede, fu estrarre dalla giacca la terza sigaretta della giornata. L’accese, fece due tiri e la gettò via. Era un’abitudine consolidata da quando aveva deciso di smettere. Una sorta di compromesso con se stesso, tanto per ingannare il bisogno di nicotina.
Mentre se ne stava lì in piedi, incontrò la sua immagine riflessa in una vetrina. Rimase per qualche istante a contemplarsi. La barba incolta che gli incorniciava il viso sempre più stanco. Le occhiaie e i capelli arruffati. Era consapevole di non prendersi molta cura di sé. Ma chi di solito se ne occupava aveva da tempo abdicato a quel ruolo.
Quello che spiccava di Goran - lo dicevano tutti - erano i suoi lunghi e misteriosi silenzi.
E gli occhi, grandissimi e attenti.
Era quasi l’ora di cena. Salì lentamente le scale di casa. Entrò nel suo appartamento e si mise in ascolto. Passarono alcuni secondi e, quando si abituò a quel nuovo silenzio, riconobbe il suono familiare e accogliente della voce di Tommy che giocava in camera sua. Lo raggiunse ma rimase a osservarlo dalla porta, senza avere il coraggio d’interromperlo.
Tommy aveva nove anni ed era senza pensieri. Aveva i capelli castani e gli piacevano il rosso, il basket e il gelato, anche d’inverno. Aveva un amico del cuore, Bastian, con il quale organizzava fantastici «safari» nel giardino della scuola. Erano entrambi negli scout e quell’estate sarebbero andati insieme in campeggio. Ultimamente non parlavano d’altro.
Tommy assomigliava incredibilmente alla madre, ma del padre possedeva una cosa.
Due occhi grandissimi e attenti.
Quando si accorse della presenza di Goran, si voltò e gli sorrise.
«È tardi», lo ammonì.
«Lo so. Mi dispiace», si difese Goran. «La signora Runa è andata via da molto?»
«È venuta a prenderla il figlio mezz’ora fa.»
Goran si infastidì: la signora Runa era la loro governante da qualche anno ormai. Perciò doveva saperlo che non gli piaceva che Tommy restasse solo in casa. E questo era uno di quei piccoli inconvenienti che a volte facevano sembrare impossibile l’impresa di andare comunque avanti con l’esistenza. Goran da solo non riusciva a risolvere tutto. Come se l’unica persona che possedeva quel misterioso potere avesse dimenticato di lasciargli il manuale con le formule magiche prima di andar via.
Doveva mettere le cose in chiaro con la signora Runa e magari essere anche un po’ duro con lei. Le avrebbe detto di fermarsi sempre la sera, fino a quando lui non fosse rincasato. Tommy percepì qualcosa di quei pensieri, e si rabbuiò. Per questo Goran cercò subito di distrarlo, domandandogli: «Hai fame?»
«Ho mangiato una mela, dei cracker e ho bevuto un bicchiere d’acqua.»
Goran scosse il capo, divertito. «Non è un granché come cena.»
«Era la mia merenda. Ma adesso vorrei qualcos’altro...»
«Spaghetti?»
Tommy applaudì alla proposta. Goran lo accarezzò.
Prepararono insieme la pasta e apparecchiarono la tavola, come in un collaudato ménage, dove ognuno aveva i suoi compiti e li portava a termine senza consultare l’altro. Imparava in fretta suo figlio, e Goran ne era orgoglioso.
Gli ultimi mesi non erano stati facili per nessuno dei due.
La loro vita rischiava di sfilacciarsi. E lui cercava di tenere insieme i lembi e di riannodarli con pazienza. Sopperiva con l’ordine all’assenza. Pasti regolari, orari precisi, abitudini consolidate. Da quel punto di vista, niente era cambiato rispetto a prima. Tutto si ripeteva uguale e questo era rassicurante per Tommy.
Alla fine avevano imparato insieme, l’uno dall’altro, a convivere con quel vuoto, senza per questo negare la realtà. Anzi, quando uno dei due aveva voglia di parlarne, se ne parlava.
L’unica cosa che non facevano mai era chiamare quel vuoto per nome. Perché quel nome era uscito dal loro vocabolario. Usavano altri modi, altre espressioni. Era strano. L’uomo che si preoccupava di battezzare ogni serial killer che incontrava, non sapeva più come chiamare quella che un tempo era stata sua moglie, e aveva permesso al figlio di «spersonalizzare» sua madre. Quasi fosse un personaggio delle fiabe che lui gli leggeva tutte le sere.
Tommy era l’unico contrappeso che lo tenesse ancora legato al mondo. Sarebbe stato un attimo, altrimenti, scivolare nell’abisso che esplorava ogni giorno là fuori.
Dopo cena, Goran andò a rintanarsi nello studio. Tommy lo seguì. Lo facevano tutte le sere. Lui si sedeva sulla vecchia poltrona cigolante e suo figlio si sistemava a pancia sotto sul tappeto, riprendendo i suoi dialoghi immaginari.
Goran osservò la sua biblioteca. I libri di criminologia, di antropologia criminale e di medicina legale facevano bella mostra sugli scaffali. Alcuni con il profilo damascato e le incisioni dorate. Altri più semplici, rilegati alla buona. Lì dentro c’erano le risposte. Ma il difficile - come diceva sempre ai suoi allievi - era trovare le domande. Quei testi erano pieni di foto angoscianti. Corpi feriti, piagati, martoriati, bruciati, fatti a pezzi. Tutto rigorosamente sigillato in lucide pagine, annotato in precise didascalie. La vita umana ridotta a freddo oggetto di studio.
Per questo, fino a qualche tempo prima, Goran non permetteva a Tommy di entrare in quella specie di sacrario. Temeva che la sua curiosità avesse il sopravvento e che aprendo uno di quei libri scoprisse quanto può essere violenta l’esistenza. Una volta, però, Tommy aveva trasgredito. L’aveva trovato disteso, come adesso, intento a sfogliare uno di quei tomi. Goran lo ricordava ancora, si era soffermato sull’immagine di una giovane donna ripescata in un fiume, d’inverno. Era nuda, la pelle viola, gli occhi immobili.
Tommy però non sembrava affatto turbato e, anziché sgridarlo, Goran si era messo a sedere a gambe incrociate accanto a lui.
«Sai che cos’è?»
Tommy, impassibile, aveva atteso un lungo momento. Poi aveva risposto, elencando diligentemente tutto ciò che vedeva. Le mani affusolate, i capelli in cui si era formata la brina, lo sguardo perso in chissà quali pensieri. Infine aveva iniziato a fantasticare su ciò che faceva per vivere, sui suoi amici e sul posto dove abitava. Goran allora si accorse che Tommy notava tutto in quella foto, tranne una cosa. La morte.
I bambini non vedono la morte. Perché la loro vita dura un giorno, da quando si svegliano a quando vanno a dormire.
Goran quella volta capì che, per quanto si sforzasse, non avrebbe mai potuto proteggere il figlio dal male del mondo. Come, anni dopo, non aveva potuto sottrarlo a quello che gli aveva fatto la madre.
Il sergente Morexu non era come gli altri superiori di Mila. Non gliene fregava niente della gloria, né delle foto sui giornali. Per questo la poliziotta si aspettava una strigliata per come aveva condotto l’operazione a casa del maestro di musica.
Morexu era sbrigativo nei modi e negli umori. Non riusciva a trattenere per più di qualche secondo un’emozione. Così un momento era adirato o scontroso, e subito dopo sorridente e incredibilmente gentile. Per non perdere tempo, poi, abbinava i gesti. Per esempio, se ti doveva consolare, allora ti teneva una mano sulla spalla e intanto ti accompagnava alla porta. O telefonava e con la cornetta si grattava la tempia.
Ma quella volta non aveva fretta.
Lasciò Mila in piedi davanti alla sua scrivania, senza invitarla a sedersi. Poi iniziò a fissarla, coi piedi allungati sotto al tavolo e le braccia conserte.
«Non so se ti rendi conto di quello che è successo oggi...»
«Lo so, ho sbagliato», disse lei, precedendolo.
«Invece ne hai salvati tre.»
Quell’affermazione la paralizzò per un lunghissimo istante.
«Tre?»
Morexu si tirò su sulla poltrona e abbassò gli occhi su un foglio che gli stava davanti.
«Hanno trovato un appunto in casa del maestro di musica. Pare che avesse intenzione di prenderne un’altra...»
Il sergente porse a Mila la fotocopia della pagina di un’agenda. Sotto al giorno e al mese, c’era un nome.
«Priscilla?» domandò lei.
«Priscilla», ripeté Morexu.
«E chi è?»
«Una ragazzina fortunata.»
E non disse altro. Perché non sapeva altro. Non c’era un cognome, un indirizzo, una foto. Niente. Solo quel nome. Priscilla.
«Perciò smettila di darti la croce addosso», proseguì Morexu e, prima che Mila potesse replicare, aggiunse: «Ti ho vista oggi alla conferenza stampa: sembrava che non te ne importasse nulla».
«Infatti non me ne importa.»
«Cazzo, Vasquez! Ma ti rendi conto di quanto ti debbano essere grate le persone che hai salvato? Per non parlare delle loro famiglie!»
«Perché lei non ha visto lo sguardo della madre di Elisa Gomes», avrebbe voluto dirgli Mila. Invece si limitò ad annuire. Morexu la guardò scuotendo il capo.
«Da quando sei qui non ho sentito una sola lamentela su di te.»
«Ed è un bene o un male?»
«Se non lo capisci da sola, allora hai un bel problema, ragazza mia... Per questo ho deciso che ti gioverebbe un po’ di lavoro di squadra.»
Mila, però, non era d’accordo. «Perché? Io faccio il mio mestiere, ed è la sola cosa che m’interessa. Ormai sono abituata a cavarmela così. Dovrei adattare i miei metodi a qualcuno. Come faccio a spiegare che...»
«Va’ a fare le valigie», la interruppe Morexu, liquidando la sua lamentela.
«Perché tanta fretta?»
«Parti stasera stessa.»
«Sarebbe una specie di punizione?»
«Non è una punizione, e nemmeno una vacanza: vogliono la consulenza di un’esperta. E tu sei molto popolare.»
La poliziotta si fece seria.
«Di che si tratta?»
«La storia delle cinque bambine rapite.»
Mila ne aveva sentito parlare sommariamente dai telegiornali. «Perché io?» chiese.
«Perché pare che ce ne sia anche una sesta, ma non sanno ancora chi è...»
Avrebbe voluto altre delucidazioni, ma Morexu evidentemente aveva deciso che la conversazione era finita. Ritornò a essere sbrigativo, limitandosi a tenderle un fascicolo con cui contemporaneamente le indicava la porta.
«Qui dentro c’è anche il biglietto del treno.»
Mila afferrò la cartellina e si diresse verso l’uscita. Ma, prima di lasciare la stanza, si voltò di nuovo verso il sergente:
«Priscilla, eh?»
«Già...»