29
Una timida alba si diffondeva sui campi.
Rischiarava appena i profili delle colline che si susseguivano come gigantesche onde di terra. Il verde intenso dei prati liberati dalla neve spiccava sulle nubi grigie. Una striscia d’asfalto scivolava fra le valli, danzando in armonia con quell’idea di movimento che era impressa nel paesaggio.
Con la fronte appoggiata al finestrino posteriore dell’auto, Mila avvertiva una strana quiete, forse dovuta alla stanchezza, forse alla rassegnazione. Qualunque cosa avesse scoperto alla fine di quel breve viaggio, non l’avrebbe più sorpresa. Roche non si era sbottonato molto. Dopo aver intimato a lei e a Goran di tenere le bocche cucite, si era chiuso nel suo ufficio con il criminologo per un confronto faccia a faccia.
Lei era rimasta in corridoio, dove Boris le aveva spiegato i motivi per i quali l’ispettore capo aveva deciso di tenere fuori lei e Gavila.
«Lui in effetti è un civile e tu... Be’, tu sei qui come consulente, perciò...»
Non c’era molto altro da aggiungere. Qualunque fosse il grande segreto che Roche cercava di custodire, la situazione doveva rimanere sotto controllo. Perciò era vitale evitare fughe di notizie. L’unico modo era quello di riservarne la conoscenza solo a coloro che ricadevano sotto il suo diretto comando e che potevano essere perciò intimiditi.
Oltre questo, Mila non aveva saputo più nulla. E non aveva neanche fatto domande.
Dopo un paio d’ore, la porta dell’ufficio di Roche si era aperta e l’ispettore capo aveva ordinato a Boris, Stern e Rosa di condurre il dottor Gavila al terzo sito. Pur non nominandola direttamente, aveva acconsentito che anche Mila partecipasse alla spedizione.
Erano usciti dal palazzo e si erano recati in un garage poco distante. Avevano preso due berline con targhe anonime, non riconducibili alla polizia, per evitare di essere seguiti dai cronisti che stazionavano costantemente fuori dallo stabile.
Mila era salita sull’auto con Stern e Gavila, evitando volutamente quella in cui era Sarah Rosa. Dopo il tentativo di gettare un’ombra sul suo rapporto con Goran, non credeva di riuscire più a sopportarla e temeva di esplodere da un momento all’altro.
Avevano percorso diversi chilometri, e lei aveva anche cercato di dormire un po’. In parte c’era riuscita. Al suo risveglio erano quasi arrivati.
Non era una strada molto trafficata. Mila notò tre auto scure ferme sul ciglio della carreggiata, ciascuna con due uomini a bordo.
“Sentinelle”, pensò. “Messe apposta per bloccare eventuali curiosi.”
Fiancheggiarono un alto muro di mattoni rossi per un chilometro scarso, finché giunsero a un pesante cancello di ferro.
La strada s’interrompeva lì.
Non c’era campanello né citofono. Su un palo era appollaiata una telecamera che, appena si fermarono, li andò a cercare col suo occhio elettronico. Rimase fissa su di loro. Trascorse almeno un minuto, poi il cancello cominciò ad aprirsi elettricamente.
La strada continuava, per sparire quasi subito dietro un dislivello. Non si vedeva alcuna casa oltre quel limite. Solo una distesa di prato.
Ci vollero almeno altri dieci minuti prima di scorgere le guglie di un antico edificio. La casa apparve davanti a loro come se stesse emergendo dalle viscere della terra. Era immensa e austera. Lo stile era quello tipico delle dimore dei primi del Novecento, edificate dai magnati dell’acciaio o del petrolio per celebrare la propria fortuna.
Mila riconobbe lo stemma di pietra che dominava la facciata. Vi campeggiava un’enorme R in bassorilievo.
Era la casa di Joseph B. Rockford, il presidente dell’omonima Fondazione che aveva messo una taglia da dieci milioni per ritrovare la sesta bambina.
Superarono la casa e parcheggiarono le due berline nei pressi delle scuderie. Per raggiungere il terzo sito, che si trovava al margine ovest di una tenuta di parecchi ettari, dovettero prendere delle auto elettriche simili a golf-cart.
Mila salì su quella guidata da Stern che iniziò a spiegarle chi fosse Joseph B. Rockford, le origini della sua famiglia e della sua enorme ricchezza.
La dinastia era iniziata più di un secolo prima con Joseph B. Rockford I, il nonno. La leggenda raccontava che questi fosse l’unico figlio di un barbiere immigrato. Non sentendosi portato per forbici e rasoi, aveva venduto la bottega paterna per cercare fortuna. Mentre tutti all’epoca investivano nella nascente industria del petrolio, Rockford I aveva avuto la felice intuizione di utilizzare i propri risparmi per mettere su un’impresa per la trivellazione di pozzi artesiani. Partendo dal presupposto che il petrolio si trova quasi sempre nei posti meno ospitali della terra, Rockford aveva concluso che, a quegli uomini che si stavano dannando la vita per arricchirsi in fretta, sarebbe mancato molto presto un bene essenziale: l’acqua. Quella che veniva estratta dai pozzi artesiani, sorti nei pressi dei principali giacimenti di oro nero, veniva venduta quasi al doppio del prezzo del petrolio.
Joseph B. Rockford I era morto miliardario. La sua fine era giunta poco prima di compiere cinquant’anni per una forma piuttosto rara e fulminante di cancro allo stomaco.
Joseph B. Rockford II aveva ereditato dal padre una fortuna enorme, che era riuscito a raddoppiare speculando su tutto quello che gli era capitato a tiro: dalla canapa indiana all’edilizia, dall’allevamento di bovini all’elettronica. Per coronare la sua ascesa, aveva sposato una reginetta di bellezza che gli aveva dato due bei figli.
Ma, poco prima di tagliare il traguardo dei cinquant’anni, aveva mostrato i primi sintomi del cancro allo stomaco che l’avrebbe portato via in meno di due mesi.
Suo figlio maggiore, Joseph B. Rockford III, gli successe molto giovane alla guida del vastissimo impero. Il suo primo e unico atto di comando fu quello di eliminare dal suo nome la fastidiosa appendice di numeri romani. Non avendo traguardi economici da raggiungere e potendo permettersi qualsiasi lusso, Joseph B. Rockford conduceva un’esistenza priva di scopo.
L’omonima Fondazione di famiglia era stata un’idea di sua sorella Lara. L’istituzione si proponeva di assicurare cibo sano, un tetto sulla testa, adeguate cure mediche e un’istruzione a bambini meno fortunati di quanto lo fossero stati lei e il fratello. Alla Fondazione Rockford era stata subito destinata la metà del patrimonio di famiglia. Nonostante la generosità di questa disposizione, secondo i calcoli dei loro consulenti i Rockford avrebbero avuto di che vivere nell’agiatezza per almeno un altro secolo.
Lara Rockford aveva trentasette anni e a trentadue era scampata miracolosamente a un pauroso incidente d’auto. Suo fratello Joseph ne aveva quarantanove. La forma genetica di cancro allo stomaco che aveva stroncato prima il nonno e poi il padre, si era manifestata anche in lui appena undici mesi prima.
Da trentaquattro giorni, Joseph B. Rockford era in coma in attesa di morire.
Mila ascoltò attentamente l’esposizione di Stern mentre l’auto elettrica su cui viaggiavano sobbalzava per le asperità del terreno. Stavano seguendo un sentiero che doveva essersi formato in quei due giorni in maniera del tutto spontanea, a causa del continuo passaggio di mezzi come quello.
Dopo circa mezz’ora giunsero in vista del perimetro del terzo sito. Mila riconobbe da lontano le operose tute bianche che animavano ogni scena del crimine. Ancor prima di arrivare a vedere con i propri occhi lo spettacolo che Albert aveva preparato per loro stavolta, fu proprio quella vista a sconvolgerla di più. Gli specialisti al lavoro erano più di un centinaio.
Una pioggia lacrimosa si abbatteva senza alcuna pietà. Facendosi strada in mezzo agli addetti intenti a rimuovere grandi porzioni di terra, Mila si sentiva a disagio. Man mano che le ossa venivano riportate alla luce, qualcuno le catalogava e le riponeva in buste trasparenti, su cui veniva affissa un’etichetta, per essere messe in apposite scatole.
In una, Mila contò almeno una trentina di femori. In un’altra, dei bacini.
Stern si rivolse a Goran. «La bambina è stata ritrovata più o meno li...»
Indicò una zona recintata, coperta da teli di plastica per preservarla dalle intemperie. Sul suolo era evidente una sagoma del corpo realizzata con il lattice. La linea bianca ne riproduceva i contorni. Ma senza il braccio sinistro.
Sabine.
«Era distesa sull’erba, in condizioni di avanzato deterioramento. È rimasta esposta per troppo tempo perché gli animali non fiutassero la sua presenza.»
«Chi si è accorto di lei?»
«L’ha notata uno dei guardiacaccia che controllano la tenuta.»
«Avete iniziato a scavare subito?»
«Prima abbiamo portato i cani, ma non sentivano nulla. Poi abbiamo sorvolato la zona con un elicottero per verificare se c’erano disuguaglianze evidenti nella conformazione del terreno. Ci siamo accorti che intorno al punto in cui è stato ritrovato il corpo, la vegetazione era differente. Abbiamo mostrato le foto a un botanico e lui ci ha confermato che quelle variazioni potevano indicare che qualcosa vi era sepolto sotto.»
Mila ne aveva già sentito parlare: tecniche simili erano state usate in Bosnia per trovare le fosse comuni contenenti le vittime della pulizia etnica. La presenza di corpi nel sottosuolo ha effetti sulla vegetazione sovrastante, perché il terreno si arricchisce delle sostanze organiche derivanti dalla decomposizione.
Goran si guardò intorno. «Quanti saranno?»
«Trenta, quaranta corpi, chi può dirlo...»
«E da quanto tempo si trovano qui sotto?»
«Abbiamo rinvenuto delle ossa molto vecchie, altre sembrano più recenti.»
«A chi appartenevano?»
«Maschi. Per lo più giovani, fra i sedici e i ventidue, ventitré anni. L’analisi delle arcate dentali ce l’ha confermato in parecchi casi.»
«Roba da far dimenticare qualsiasi precedente», fu il commento del criminologo che già pensava alle conseguenze quando quella storia si sarebbe risaputa. «Roche non crederà mica d’insabbiare la faccenda, vero? Con tutta la gente che c’è qui...»
«No, l’ispettore capo sta solo cercando di rimandare l’annuncio a quando ogni cosa sarà chiarita come si deve.»
«E questo perché nessuno ancora si spiega cosa ci faccia una fossa comune in mezzo alla bella tenuta dei Rockford.» Lo disse con una punta d’indignazione che non sfuggì a nessuno dei presenti. «Invece io penso proprio che il nostro ispettore capo un’idea se la sia fatta... E voi?»
Stern non sapeva cosa rispondere. Nemmeno Boris e Rosa.
«Stern, una curiosità... Il ritrovamento è avvenuto prima o dopo che mettessero la taglia?»
L’agente ammise con un filo di voce: «Prima».
«Lo sospettavo.»
Quando tornarono alle scuderie, trovarono Roche che li attendeva accanto all’auto del Dipartimento con cui era giunto.
Goran scese dal golf-cart e gli andò incontro con aria decisa.
«Allora, sono ancora io che devo occuparmi di questa indagine?»
«Certo che sì! Cosa credi, che sia stato facile per me tenerti fuori?»
«Facile no, visto che ho scoperto comunque tutto. Direi piuttosto che è stato conveniente.»
«Cosa vuoi dire?»
L’ispettore capo iniziava a indispettirsi.
«Che io avrei già dato al responsabile la sua giusta definizione.»
«Come fai a essere così sicuro della sua identità?»
«Perché se non avessi pensato anche tu che è Rockford il vero artefice di tutto questo, non ti saresti scomodato tanto a tenere nascosta questa storia.»
Roche lo prese per un braccio. «Ascolta Goran, tu pensi che stia solo a me. Invece non è così, credimi. Ci sono tante di quelle pressioni dall’alto, che neanche te le puoi immaginare.»
«Chi cerchi di coprire? Quanta gente è coinvolta in questo schifo?»
Roche si voltò per far cenno all’autista di allontanarsi. Poi si rivolse nuovamente alla squadra.
«Va bene, mettiamo le cose in chiaro una volta per tutte... Mi viene da vomitare se penso a questa storia. E non vi devo neanche minacciare di tenervi tutto per voi perché, se solo vi lasciate scappare una parola, perdete in un istante tutto. La carriera e la pensione. E io con voi.»
«Abbiamo capito... Ora, cosa c’è sotto?» lo incalzò Goran.
«Joseph B. Rockford non ha mai lasciato questo posto e questa casa dalla nascita.»
«Com’è possibile?» domandò Boris. «Mai?»
«Mai», confermò Roche. «Pare che all’inizio fosse una fissazione di sua madre, l’ex reginetta di bellezza. Lo ha nutrito di un amore morboso, impedendogli di vivere normalmente infanzia e adolescenza.»
«Però, quando lei è morta...» provò a obiettare Sarah Rosa.
«Quando è morta era già troppo tardi: quel ragazzo non era in grado di stabilire il ben che minimo contatto umano. Fino ad allora era stato circondato solo da persone deferenti, al servizio della sua famiglia. In più incombeva su di lui la cosiddetta maledizione dei Rockford, cioè il fatto che tutti gli eredi maschi dovessero morire intorno ai cinquant’anni per un tumore allo stomaco.»
«Forse sua madre cercava inconsciamente di salvarlo da quel destino», ipotizzò Goran.
«E sua sorella?» chiese Mila.
«Una ribelle», la definì Roche. «Più piccola di lui, è stata capace di sottrarsi appena in tempo alle fissazioni materne. Poi ha fatto della sua vita ciò che le pareva: ha girato il mondo, sperperando i suoi averi, consumandosi nelle relazioni più improbabili e provando ogni genere di droga e di esperienza. Tutto per sembrare diversa dal fratello rimasto prigioniero di questi luoghi... Finché l’incidente stradale di cinque anni fa non l’ha praticamente rinchiusa insieme a lui in questa casa.»
«Joseph B. Rockford era omosessuale», disse Goran.
E Roche confermò: «Sì, lo era... E ce lo dicono anche i cadaveri ritrovati nella fossa comune. Tutti nel fiore dell’età.»
«Perché ucciderli allora?» chiese Sarah Rosa.
Fu Goran a rispondere. L’aveva visto accadere altre volte.
«L’ispettore capo mi correggerà se sbaglio, ma credo che Rockford non accettasse di essere com’era. O forse, quando era giovane qualcuno ha scoperto le sue preferenze sessuali e non gliel’ha mai perdonato.»
Tutti pensarono alla madre, anche se nessuno la nominò.
«Così ogni volta che ripeteva l’atto, provava un senso di colpa. Ma invece di punire se stesso, puniva i suoi amanti... con la morte», concluse Mila.
«I cadaveri sono qui e lui non si è mai mosso», disse Goran. «Allora è qui che li ha uccisi. È possibile che nessuno - la servitù, i giardinieri, i guardiacaccia - si sia mai accorto di nulla?»
Roche aveva una risposta, ma lasciò che la intuissero da soli..
«Non ci posso credere», affermò Boris. «Li ha pagati!»
«Si è comprato il loro silenzio in tutti questi anni», aggiunse Stern, schifato.
“Quanto costa l’anima di un uomo?” pensò Mila. Perché di questo, in fondo, si trattava. Passi che un essere umano scopra di possedere un’indole malvagia, per cui gli procura gioia solo l’uccisione dei suoi simili. Per lui c’è un nome: assassino, o serial killer. Ma gli altri, quelli che gli sono intorno e che non impediscono tutto questo e che, anzi, ne traggono pure vantaggio, come si possono definire?
«In che modo si procurava i ragazzi?» domandò Goran.
«Non lo sappiamo ancora. Abbiamo spiccato un mandato di cattura nei confronti del suo segretario personale che, da quando è stato rinvenuto il corpo della bambina, è praticamente svanito nel nulla.»
«E con il resto del personale come vi comporterete?»
«Sono in stato di fermo finché non avremo chiarito se hanno preso soldi o meno e quanto sapevano.»
«Rockford non si è limitato a corrompere quelli che aveva intorno, vero?»
Goran aveva letto nel pensiero di Roche, che ammise: «Alcuni anni fa, un poliziotto si è insospettito: stava indagando sulla scomparsa di un adolescente che era scappato da casa e aveva rapinato un emporio. La sua pista l’ha portato fin qui. A quel punto, Rockford si è rivolto ad amici potenti e lo sbirro è stato trasferito... Un’altra volta, una coppia si era appartata sulla strada che costeggia il muro di cinta della tenuta. Videro qualcuno che scavalcava: era un ragazzo seminudo, ferito a una gamba e sotto shock. Lo presero in macchina e lo portarono in ospedale. Lì ci rimase solo qualche ora: qualcuno venne a prelevarlo dicendo di essere della polizia. Da allora del ragazzo non si è saputo più nulla. I dottori e le infermiere furono messi a tacere con laute mance. I due della coppia erano amanti, così bastò la minaccia di far sapere tutto ai rispettivi coniugi».
«È terribile», disse Mila.
«Lo so.»
«E della sorella che ci può dire?»
«Credo che Lara Rockford non ci stia tanto con la testa. L’incidente stradale l’ha ridotta davvero male. È successo non molto lontano da qui. Ha fatto tutto da sola: è uscita di strada e si è schiantata contro una quercia.»
«Dovremmo parlarle comunque. E anche con Rockford», affermò Goran. «Probabilmente quell’uomo sa chi è Albert.
«Come diavolo fai a parlarci? È in coma irreversibile!»
«Allora col suo tumore ci ha fregati!» Boris era una maschera di rabbia. «Non solo non può esserci di alcun aiuto, ma non sconterà un solo giorno di galera per quello che ha fatto!»
«Oh no, ti sbagli», disse Roche. «Se esiste un inferno, è lì che lo stanno aspettando. Ma lui ci sta andando molto lentamente e dolorosamente: è allergico alla morfina il bastardo, perciò non può essere sedato.»
«Allora perché lo tengono ancora in vita?»
Roche sorrise ironico alzando le sopracciglia: «È sua sorella che vuole così».
L’interno della dimora dei Rockford lasciava intenzionalmente pensare a un castello. I marmi neri dominavano l’architettura degli ambienti, le loro venature s’impadronivano di tutta la luce. Pesanti tende di velluto oscuravano le finestre. I quadri e gli arazzi riproducevano perlopiù scene bucoliche o di caccia. Dal soffitto pendeva un enorme lampadario di cristallo.
Mila provò una sensazione di freddo intenso appena varcò la soglia. Per quanto fosse lussuosa, quella casa era dominata da un’atmosfera decadente. Prestando molta attenzione, si poteva udire l’eco di silenzi passati, sedimentati nel tempo fino a costituire quella quiete granitica e incombente.
Lara Rockford aveva «acconsentito a riceverli». Sapeva bene che non avrebbe potuto sottrarsi, ma aver fatto riferire loro quella frase era indicativo del tipo di persona che si sarebbero trovati di fronte.
Li attendeva in biblioteca. Mila, Goran e Boris l’avrebbero interrogata.
Mila la vide di profilo, seduta su un divano di cuoio, il braccio che descriveva un’elegante parabola mentre portava alle labbra una sigaretta. Era bellissima. A distanza furono tutti colpiti dalla curva leggera della fronte che scendeva lungo un naso sottile fino a una bocca carnosa. L’occhio di un verde intenso, magnetico, incorniciato da ciglia lunghissime.
Ma quando la raggiunsero e le furono di fronte, si smarrirono alla vista dell’altra metà del viso. Era devastato da un’enorme cicatrice che, partendo dall’attaccatura dei capelli, proseguiva scavandole la fronte per poi immergersi in un’orbita vuota e precipitare come il solco di una lacrima, per terminare infine sotto al mento.
Mila notò anche la gamba rigida, che l’accavallamento dell’altra non poteva nascondere del tutto. Accanto a sé, Lara teneva un libro. La copertina era rivolta verso il basso e non si vedevano né il titolo né l’autore.
«Buongiorno», li accolse. «A cosa debbo la vostra visita?»
Non li invitò a sedere. Restarono in piedi sul grande tappeto che copriva quasi per metà la stanza.
«Vorremmo farle qualche domanda», disse Goran. «Se è possibile, naturalmente...»
«Prego, vi ascolto.»
Lara Rockford spense quel che rimaneva della sigaretta in un posacenere di alabastro. Quindi ne prese un’altra dal pacchetto che teneva in grembo, dentro un astuccio di pelle insieme a un accendino d’oro. Mentre l’accendeva, le dita sottili tremarono impercettibilmente.
«È stata lei a offrire la taglia di dieci milioni per ritrovare la sesta bambina», disse Goran.
«Mi sembrava il minimo che potessi fare.»
Li stava sfidando sul terreno della verità. Forse voleva sconvolgerli, forse era solo per via del suo singolare anticonformismo, che contrastava nettamente con l’austerità della casa in cui aveva scelto di rintanarsi.
Goran decise di accettare la sfida.
«Lei sapeva di suo fratello?»
«Tutti sapevano. Tutti hanno taciuto.»
«Perché stavolta no?»
«Cosa intende?»
«Il guardiacaccia che ha trovato il corpo della bambina: immagino che fosse anche lui a libro paga...»
Mila intuì ciò che aveva già capito Goran, cioè che Lara avrebbe potuto facilmente insabbiare tutta la vicenda. Ma non aveva voluto.
«Lei crede all’esistenza dell’anima?»
Mentre lo chiedeva. Lara accarezzò il profilo del libro che aveva accanto.
«E lei?»
«Ci sto riflettendo da un po’...»
«È per questo che non consente ai medici di staccare suo fratello dalle macchine che ancora lo tengono in vita?»
La donna non rispose subito. Sollevò invece lo sguardo al soffitto. Joseph B. Rockford era al piano di sopra, nel letto in cui aveva dormito sin da bambino. La sua stanza era stata trasformata in una camera di terapia intensiva degna di un moderno ospedale. Era collegato a macchinari che respiravano per lui, che lo nutrivano di farmaci e di liquidi, gli ripulivano il sangue e gli liberavano le viscere.
«Non fraintendetemi: io voglio che mio fratello muoia.»
Sembrava sincera.
«Probabilmente suo fratello ha conosciuto l’uomo che ha rapito e ucciso le cinque bambine, e che ora tiene prigioniera la sesta. Lei non immagina chi possa essere...»
Lara voltò il suo unico occhio verso Goran: finalmente lo guardava in faccia. O, meglio, si lasciava ostentatamente guardare da lui.
«Chissà, potrebbe essere uno del personale. Qualcuno di quelli che ci sono adesso o qualcuno che è stato qui in passato. Dovreste controllare.»
«Lo stiamo già facendo, ma temo che l’uomo che cerchiamo sia troppo furbo per concederci un simile favore.»
«Come avrete già capito, qui in casa entrava solo gente che Joseph avrebbe potuto pagare. Assunti e stipendiati, sotto il suo controllo. Estranei non ne ho mai visti.»
«E i ragazzi li vedeva?» chiese Mila d’impulso.
La donna si prese un lungo istante per rispondere. «Pagava anche loro. Ogni tanto, specie negli ultimi tempi, si divertiva a sottoporre loro una specie di contratto con cui gli vendevano l’anima. Pensavano che fosse un gioco, uno scherzo per spillare un po’ di soldi a un miliardario matto. E così firmavano. Firmavano tutti. Ho trovato alcune delle pergamene nella cassaforte dello studio. Le firme sono abbastanza leggibili, anche se quello usato non è propriamente inchiostro...»
Rise della macabra allusione, ma era una risata strana, che turbò Mila. Le era sgorgata dal profondo. Come se l’avesse macerata a lungo nei polmoni, e poi sputata fuori. Era rauca di nicotina, ma anche di dolore. Poi prese fra le mani il libro che teneva accanto a sé.
Era il Faust.
Mila mosse un passo verso di lei.
«Ha nulla in contrario se proviamo a interrogare suo fratello?»
Goran e Boris la guardarono come se fosse uscita di senno.
Lara rise ancora. «E come intendete fare? È più morto che vivo ormai.» Poi si fece seria quando disse: «È troppo tardi».
Ma Mila insistette: «Lei ci lasci provare.»