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Hanno chiamato il suo nome.

Ne è sicura. Non l’ha sognato. È stato questo a strapparla dal sonno stavolta, non la paura, né l’improvvisa consapevolezza di dove si trova da chissà quanto tempo.

L’effetto della droga che le confonde i sensi è svanito nel momento stesso in cui ha sentito il suo nome rimbombare nella pancia del mostro. Quasi come un’eco venuta a cercarla da chissà dove, e che finalmente l’ha trovata.

«Sono qui.» vorrebbe gridare, ma non ci riesce, la bocca è ancora impastata.

E poi adesso ci sono anche i rumori. Suoni che prima non c’erano. Cosa sembrano, passi? Sì, sono passi di scarpe pesanti. Più scarpe, insieme. C’è gente! Dove? Sono sopra di lei, intorno a lei. Ovunque, ma comunque lontani, troppo lontani. Cosa ci fanno lì? Sono venuti a cercarla? Sì, è così. Si trovano lì per lei. Ma non possono vederla nella pancia del mostro. Allora l’unica è farsi sentire da loro.

«Aiuto», prova a dire.

La voce le esce strozzata, infettata da giorni di agonia indotta, di sonno violento e vigliacco, che le viene somministrato a piacimento, senza criterio, solo per tenerla buona mentre il mostro la digerisce nel suo stomaco di pietra. E il mondo, là fuori, si dimentica lentamente di lei.

“Ma se loro sono qui adesso, allora non mi hanno ancora dimenticata!”

Il pensiero le infonde una forza che non credeva di possedere. Una riserva trattenuta dal suo corpo in un nascondiglio profondo e da usare solo per le emergenze. Comincia a ragionare.

“Come posso segnalare la mia presenza?”

Il braccio sinistro è sempre fasciato. Le gambe sono pesanti. Il braccio destro è la sua unica possibilità, la propaggine che ancora la tiene attaccata alla vita. Il telecomando è sempre assicurato al palmo della sua mano. Connesso soltanto con quel folle cartone animato che ormai le ha consumato la mente. Lo solleva, lo punta verso lo schermo. Il volume è normale, ma forse si può anche alzare. Ci prova, ma non riesce a trovare il pulsante giusto. Forse perché tutti funzionano per impartire un solo comando. Intanto di sopra i rumori continuano. La voce che sente appartiene a una donna. Ma c’è un uomo con lei. Anzi, sono due.

“Devo chiamarli! Devo fare in modo che si accorgano di me, altrimenti morirò qua sotto!”

È la prima volta che nomina la possibilità di morire. Fino a ora ha sempre evitato quel pensiero. Forse l’ha fatto per una specie di scaramanzia. Forse perché una bambina non dovrebbe pensare alla morte. Ma adesso si rende conto che, se nessuno verrà a salvarla, sarà questo il suo destino.

Assurdo è che chi metterà fine alla sua breve esistenza, adesso la sta curando. Le ha fasciato il braccio, le dà le medicine attraverso la flebo. Si occupa scrupolosamente di lei. Perché lo fa, se tanto alla fine la ucciderà lo stesso? La domanda non le porta sollievo. C’è un solo motivo per tenerla in vita là sotto. E sospetta che le procurerà molto altro dolore.

Perciò forse questa è l’unica occasione che ha per uscire da lì, per tornare a casa sua, e rivedere i suoi cari. Sua madre, suo padre, suo nonno, perfino Houdini. Giura che vorrà bene pure a quel gatto maledetto se solo finirà quell’incubo.

Solleva la mano, e inizia a picchiare forte col telecomando sul bordo d’acciaio del letto. Il suono che riesce a produrre è fastidioso anche per lei, ma è liberatorio. Più forte, sempre più forte. Finché sente che l’aggeggio di plastica inizia a rompersi. Non le importa. Quei rintocchi metallici diventano sempre più rabbiosi. Dalla gola le esce anche un urlo spezzato.

«Sono qui!»

Il telecomando si stacca dal palmo e lei è costretta a fermarsi. Ma sente qualcosa di sopra. Può essere positivo oppure no. È silenzio. Forse si sono accorti di lei e adesso cercano di sentire meglio. È così, non possono essersene già andati! Allora ricomincia a battere, anche se il braccio destro le fa male. Anche se il dolore le attraversa le spalle andando a confluire in quello sinistro. Anche se ciò non fa che aumentare la sua disperazione. Perché, se per caso nessuno la dovesse sentire, sarà anche peggio dopo, ne è sicura. Qualcuno si vendicherà di lei. E gliela farà pagare.

Lacrime fredde le scendono lungo le guance. Ma i rumori ricominciano e riprende coraggio.

Un’ombra si stacca dalla parete di roccia e viene verso di lei.

La vede, ma continua lo stesso. Quando l’ombra è abbastanza vicina, può scorgerne le mani delicate, il vestitino azzurro, i capelli castani che le ricadono morbidamente sulle spalle.

L’ombra si rivolge a lei con la voce di una bambina.

«Ora basta», le dice. «Ci sentiranno.»

Poi appoggia una mano sulla sua. Quel contatto è sufficiente a farla fermare.

«Ti prego», aggiunge poi.

E la sua supplica è così accorata che lei si convince, e non ricomincia. Non conosce il motivo per cui quella bambina desideri una cosa tanto assurda come rimanere là dentro. Ma le ubbidisce lo stesso. Non sa se mettersi a piangere per quel tentativo fallito, oppure se essere felice per la scoperta di non essere sola. È talmente grata che la prima presenza umana di cui ha cognizione sia una ragazzina come lei, che non vuole deluderla. E così dimentica pure di voler andar via.

Le voci e i rumori al piano di sopra non ci sono più. Stavolta il silenzio è definitivo.

La bambina sfila la mano dalla sua.

«Rimani...» la supplica adesso lei.

«Non ti devi preoccupare, ci vedremo ancora...»

E si allontana tornando nel buio. E lei la lascia andare. E si afferra a quella piccola e insignificante promessa per continuare a sperare.