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1944
Nulla era cambiato nella routine e nelle consuetudini della villa, eppure ad Antonina sembrava che una nuova inquietudine aleggiasse nell’ aria, mentre tutti continuavano a occuparsi delle loro faccende con un sorriso amichevole, cercando di dissimulare i nervi a fior di pelle. Le persone sembravano «distratte» e «le conversazioni si interrompevano, le frasi erano lasciate a metà». Il 20 luglio una bomba piazzata dal conte von Stauffenberg esplose nel quartier generale di Hitler, la Wolfsschanze (Tana del lupo), nella foresta prussiana, ma Hitler se la cavò con qualche ferita superficiale. Dopo questo episodio il panico crebbe all’ interno della locale colonia tedesca, e colonne di soldati in ritirata cominciarono ad affollare le strade di Varsavia, facendo saltare in aria gli edifici a mano a mano che fuggivano verso ovest. Membri della Gestapo diedero fuoco ai loro archivi, smantellarono i magazzini e rispedirono i loro effetti personali in Germania. Il governatore, il sindaco e gli altri funzionari tedeschi fuggirono a bordo di ogni tipo di autocarro o carrozza che avessero a disposizione, lasciandosi dietro solo un presidio di duemila soldati. Mentre i tedeschi si riversavano fuori dalla città in tutta fretta, lasciando un vuoto, molti polacchi dai villaggi vicini si affrettarono a ritornare in città, temendo che i soldati in fuga potessero saccheggiare le loro case e fattorie.
Jan, convinto che la rivolta avrebbe avuto inizio da un momento all’ altro, era sicuro che sarebbero bastati pochi giorni perché i trecentocinquantamila uomini dell’ Armia Krajowa avessero la meglio sui tedeschi rimasti. In teoria, appena i ponti fossero tornati in mano ai polacchi, i battaglioni su entrambi i lati della Vistola avrebbero potuto unire le loro fila e creare un’ unica potente armata per liberare la città.
Il 27 luglio, quando le truppe russe raggiunsero la Vistola a un centinaio di chilometri da Varsavia (Antonina disse che riusciva a sentirne i colpi di cannone), il governatore tedesco Hans Frank convocò centomila polacchi tra i diciassette e i settantacinque anni perché lavorassero per nove ore al giorno alla costruzione di fortificazioni intorno alla città, pena la fucilazione. L’ Armia Krajowa incoraggiò tutti a ignorare l’ ordine di Frank e cominciò a prepararsi per la battaglia, una chiamata alle armi cui il giorno seguente si unirono i russi, che, avvicinandosi, esortavano via radio in polacco: «È arrivato il momento di agire!»
Entro il 3 agosto, mentre l’ Armata Rossa si accampava a una quindicina di chilometri dal quartiere dello zoo, sulla riva destra della Vistola, l’ atmosfera nella villa divenne ancora più tesa e le persone continuavano a chiedersi: «Quando avrà inizio la rivolta?»
I personaggi del dramma che andava in scena allo zoo cambiarono bruscamente. La maggior parte degli Ospiti se n’ erano già andati per unirsi all’ esercito o erano fuggiti in melinas più sicuri: l’ Uomo Volpe aveva intenzione di trasferirsi in una fattoria vicino a Grójec; Maurycy raggiunse Magdalena a Saska Kejpa, mentre, sebbene l’ avvocato e sua moglie fossero fuggiti dall’ altra parte di Varsavia, le loro due figlie, Nunia ed Ewa, decisero di restare nella villa, perché, insistevano, se fosse accaduto qualcosa ad Antonina, la piccola Teresa, Rys, la madre settantenne di Jan e la governante avrebbero dovuto cavarsela da soli, cosa che era impossibile.
Nonostante i soldati avessero iniziato a evacuare i civili dalle zone più vicine al fiume, Jan sperava che la sua famiglia potesse rimanere nello zoo, dato che le difficoltà di un viaggio avrebbero potuto stroncare la vita della neonata e dell’ anziana madre malata.
Nella sua testimonianza presso l’Istituto Ebraico, Jan ricorda come, alle sette del mattino del 1° agosto, passò una ragazza per convocarlo perché si unisse alla battaglia. Probabilmente si trattava della staffetta dell’ Armia Krajowa Halina Dobrowolska (in tempo di guerra chiamata Halina Korabiowska), che incontrai a Varsavia in un pomeriggio estivo pieno di sole. Quella che durante la guerra era un’ adolescente, oggi è una vivace donna sugli ottant’ anni, che ricorda il giorno in cui venne inviata in bicicletta e poi in tram per una lunga e pericolosa missione nelle periferie per chiamare a raccolta i combattenti e avvisare le famiglie che la rivolta stava per cominciare. Racconta infatti che doveva prendere un tram e quando finalmente ne trovò uno, il conducente stava per andarsene, dato che la maggior parte degli abitanti di Varsavia aveva già abbandonato il posto di lavoro per prepararsi alla battaglia. Prevedendo proprio questo tipo di problema, il movimento clandestino aveva dato a Halina dei dollari americani, che vennero prontamente accettati dal conducente del tram, che, con guida nervosa, la portò a destinazione.
Jan si precipitò al piano di sopra dove Antonina dormiva insieme a Teresa e le comunicò la notizia.
«Ma ieri avevi ricevuto istruzioni diverse!» gli disse angosciata.
«Neanch’ io capisco che cosa stia succedendo, ma devo andare e scoprirlo da me.»
Il loro amico Stefan Korbohski, ugualmente sorpreso per la tempestività della rivolta, non avendo ricevuto alcun avvertimento in merito, immortala il fervore e la frenesia che dominavano nelle strade quel giorno:
I tram erano affollati di giovani. [...] Sui marciapiedi, gruppi di due o tre donne camminavano velocemente, con un’ evidente premura, portando pesanti borse e fagotti. «Stanno trasportando delle armi nei punti convenuti», mormorai tra me e me. Una fiumana di biciclette scorreva lungo la strada. Ragazzi in stivali al ginocchio e incerate pedalavano a più non posso. [...] Qua e là si vedevano un tedesco in uniforme, o una pattuglia tedesca, che procedevano per la loro strada senza rendersi conto di nulla, senza sapere che cosa stesse succedendo intorno a loro.
[...] Superai molti uomini che correvano avanti e indietro in tutte le direzioni con un’ aria seria e risoluta, e che mi rivolgevano taciti sguardi d’ intesa. (1)
Quattro ore dopo, Jan ritornò a casa per accomiatarsi da Antonina e sua madre, spiegando che la rivolta avrebbe avuto inizio da un momento all’ altro. Poi porse alla moglie una gamella di metallo e le disse: «Dentro c’ è un revolver carico, nel caso si facessero vivi dei tedeschi...»
Antonina si irrigidì. «Rimasi come paralizzata», scrisse poi. Chiese a Jan: «Soldati tedeschi? Che cosa ti viene in mente? Hai forse dimenticato che solo pochi giorni fa pensavamo che l’ esercito della rivolta avrebbe vinto? Non ci credi più?»
Jan rispose amaramente: «Ascoltami, una settimana fa avevamo delle buone possibilità di vincere questa battaglia. Adesso è troppo tardi. Non è il momento giusto per la rivolta. A questo punto dovremmo aspettare. Ventiquattr’ore fa anche i nostri capi la pensavano allo stesso modo. Ma la notte scorsa improvvisamente hanno cambiato idea. Questo genere di indecisione può portare a conseguenze molto gravi».
Jan non sapeva che i russi, che i polacchi supponevano essere loro alleati, avevano un loro famelico programma, e che Stalin, a cui era stato promesso un pezzo di Polonia dopo la guerra, voleva sconfiggere sia i tedeschi sia i polacchi. Nel frattempo, negava agli aerei Alleati in rotta per la Polonia il permesso di atterrare negli aeroporti russi.
«Abbracciai stretto Jan, premendo forte il mio viso contro la sua guancia», ricorda Antonina. «Lui mi baciò i capelli, guardò la bambina e poi corse di sotto. Il mio cuore batteva all’ impazzata.» Antonina nascose la gamella sotto il suo letto e andò a occuparsi della madre di Jan, che trovò seduta su una poltrona intenta a dire un rosario, «con il viso rigato di lacrime».
La madre di Jan conservava l’ abitudine di farsi un veloce segno della croce sulla fronte e pregare la Madonna di proteggere il cammino di suo figlio. Nostra Signora dell’ Armia Krajowa fu la santa patrona dei combattenti nel corso della rivolta, durante la quale in tutta la città vennero eretti in fretta e furia altarini e piccole cappelle in suo onore lungo le strade. I soldati e le loro famiglie pregavano anche Gesù, e spesso conservavano nei portafogli un’ immaginetta del Cristo con la scritta JEZU, UFAM TOBIE (Crediamo in Gesù).
Non sappiamo che cosa abbia fatto Antonina per alleviare la propria angoscia, ma Jan riferì a un giornalista che era stata cresciuta rigidamente nella religione cattolica e, siccome aveva fatto battezzare entrambi i figli e portava sempre una medaglietta con un’ immagine religiosa al collo, molto probabilmente si mise a pregare. Durante la guerra, quando ogni speranza era svanita e non restavano che i miracoli, anche i non credenti spesso ritornavano alla preghiera. Alcuni degli Ospiti ricorrevano alla cartomanzia nella speranza di risollevarsi il morale, ma, poiché si dichiarava un uomo razionale, e in quanto figlio di un padre apertamente ateo, Jan disapprovava sia la superstizione sia la religione; questo molto probabilmente significa che Antonina e la madre di Jan, devotissima cattolica, condivisero alcuni segreti.
Mentre gli aeroplani passavano a volo radente sulla città bombardandola, Antonina cercava di capire che cosa stesse succedendo dall’ altra parte della Vistola; alla fine si risolse a salire in terrazza, e da lì cercò il brillante sfrigolio del bombardamento al di là del fiume, leggendo ogni schianto come un segno. I colpi sembravano «intervallati, distinti», non la gragnola di spari tipica di una grande battaglia militare.
Si rese conto che il comando del piccolo feudo dello zoo - costituito da Rys, la piccola Teresa di appena quattro settimane, le due ragazze Nunia ed Ewa, sua suocera, la governante, l’ Uomo Volpe e i suoi due aiutanti - toccava proprio a lei. Il «pesante onere dell’ essere responsabile della vita degli altri» le piombò addosso e invase la sua mente come un’ ossessione:
La gravità della situazione non mi lasciava fiatare neanche per un attimo. Volente o nolente, dovevo prendere in mano la mia famiglia [...], essere vigile ogni istante, come mi avevano insegnato quando facevo la scout. E sapevo che Jan aveva dei doveri ancora più grandi. Ero incredibilmente cosciente della responsabilità di dovermi occupare di tutto in casa; quel pensiero mi ossessionava. [...]
Tutto quello che sapevo era che dovevo farlo.
Anche il sonno si arrese alla guerra: per ventitré notti Antonina si obbligò a stare sveglia, terrorizzata all’ idea di addormentarsi e non sentire un rumore, per quanto minimo, che potesse segnalare un pericolo. In un certo senso, questo spirito da custode non era nuovo per lei, che ricordava di come, durante il bombardamento del 1939, avesse fatto scudo al figlio con il suo corpo. Arrivò alla conclusione che l’ istinto di combattere nel caso in cui la sua famiglia fosse in pericolo derivasse dalla ferocia propria della maternità.
Anche se il campo di battaglia era lungo il fiume, Antonina poteva sentire l’ odore di morte, zolfo e decomposizione portato dalle brezze che soffiavano da ovest, e udiva i colpi incessanti delle pistole, delle granate dell’ artiglieria e delle bombe. Senza notizie né contatti con il resto della città, immaginava che la villa si fosse trasformata «da un’ arca in una minuscola barca in un vasto oceano, disperatamente alla deriva, senza bussola né timone», e si aspettava che da un momento all’ altro vi cadesse una bomba.
Di guardia sulla terrazza, Antonina e Rys si sporgevano per vedere i colpi delle armi da fuoco lungo il fiume e cercare di indovinare il succedersi degli eventi. Quando calò la notte poterono osservare i lampi brillanti del cannoneggiamento e gli aeroplani che ronzavano e sfrecciavano al di sopra della città fino alle prime luci dell’ alba.
«Papà sta combattendo nella parte più a rischio della città», continuava a ripetere Rys, indicando la Città Vecchia.
Per ore e ore rimase a fare da sentinella, percorrendo il campo di battaglia con un binocolo, alla ricerca della figura di suo padre, abbassandosi a terra ogniqualvolta sentiva avvicinarsi il brontolio di una bomba.
Appena fuori dalla porta della camera da letto di Antonina, una scaletta a pioli di metallo permetteva di raggiungere il tetto, e spesso Rys ci si arrampicava, binocolo alla mano. I tedeschi di guardia nel parco Praski avevano occupato un piccolo luna park vicino al ponte, che includeva una torre da cui ci si lanciava con il paracadute: da lì videro Rys che li stava osservando. Un giorno, un soldato passò dallo zoo e minacciò Antonina che se avessero di nuovo sorpreso il ragazzo a spiarli gli avrebbero sparato.
Nonostante le nottate frenetiche e senza sonno e gli allarmi quotidiani, Antonina confessò di avere provato «dei brividi di esaltazione» nel corso della rivolta, «avendo immaginato spesso quel giorno nel corso dei lunghi e orribili anni dell’ occupazione», anche se poteva solo indovinare quello che stava effettivamente succedendo. Al di là del fiume, nel cuore della città, cibo e acqua cominciavano a scarseggiare, ma c’ erano grandi quantità di zucchero e vodka (sottratti alle scorte dei tedeschi) ad alimentare l’ Armia Krajowa mentre costruiva le barricate anticarro con le lastre della pavimentazione stradale. Dei trentottomila combattenti (di cui quattromila donne), solo uno su quindici era adeguatamente armato; gli altri utilizzavano bastoni, fucili da caccia, coltelli e spade, sperando di riuscire a impadronirsi di qualche arma del nemico.
Dal momento che i tedeschi potevano ancora controllare le comunicazioni telefoniche, un gruppo di coraggiose ragazze avevano l’ incarico di portare messaggi in tutta la città, proprio come avevano sempre fatto in segreto nel corso dell’ occupazione. Quando Halina Korabiowska ritornò a Varsavia, si diresse in centro per aiutare a trasmettere altri messaggi, allestire cucine e ospedali da campo e rifornire i soldati.
«C’ erano barricate ovunque», mi raccontò Halina con voce eccitata.
«All’ inizio tutti erano felici. Alle cinque del pomeriggio la rivolta cominciò e tutti ci mettemmo al braccio delle fasce bianche e rosse. [...] Durante le prime settimane della rivolta, tiravamo avanti con un pasto al giorno a base di minestra e carne di cavallo, ma alla fine mangiavamo solamente piselli secchi, cani, gatti e uccelli. Vidi un’ amica diciassettenne trascinare l’ estremità di una barella con sopra un soldato ferito. Un aereo passò sulle loro teste, lei vide il terrore negli occhi del soldato e gli si buttò sopra, coprendolo con il suo corpo: venne ferita gravemente al collo. Un altro giorno, durante il giro per la consegna dei messaggi, incontrai due donne che trasportavano delle pesanti borse fuori da un edificio. Mi fermai a chiedere se avessero bisogno di aiuto e loro mi dissero che avevano scoperto un nascondiglio in cui si trovavano dei farmaci tedeschi e anche degli enormi sacchi pieni di caramelle e me ne offrirono un po'’. Mi riempii le tasche e le maniche della giacca e continuai la mia ricerca dei soldati, tenendo le braccia alzate quanto bastava perché non scivolassero fuori. Quando incrociavo dei soldati dicevo loro di unire le mani a coppa e poi stendevo le braccia e vi lasciavo cadere un po'’ di caramelle!»
Per la prima volta da anni, con i tedeschi in ritirata, tutti potevano finalmente muoversi e parlare liberamente; visto che le leggi razziali erano svanite con loro, gli ebrei potevano riemergere dai loro nascondigli; la gente esponeva la bandiera della Polonia alle finestre, cantava inni patriottici e portava al braccio fasce bianche e rosse. Feliks Cywinski era alla testa di una brigata di soldati tra i quali si trovava Samuel Kenigswein, che comandava a sua volta un suo proprio battaglione. La vita culturale di Varsavia, soppressa da anni, cominciò a rifiorire, i cinema riaprirono, ricomparvero improvvisamente i periodici letterari, ritornarono spumeggianti concerti negli eleganti salotti. Un servizio postale gratuito emise nuovi francobolli: erano i boy scout a occuparsene e a consegnare le lettere. Una fotografia d’ archivio mostra una cassetta delle lettere di metallo decoratacon un’ aquila e un giglio, a significare che gli scout più giovani rischiavano la vita nel consegnare le lettere, Quando la notizia della rivolta giunse alle orecchie di Hitler, questi ordinò a Himmler di inviare a Varsavia le sue truppe più violente, uccidere i polacchi dal primo all’ ultimo e ridurre in polvere la città casa per casa, bombardarla, darle fuoco e raderla al suolo finché non ne fosse rimasto niente, a monito per tutto il resto dell’ Europa occupata. A questo scopo Himmler scelse le unità più feroci delle SS, composte da criminali, poliziotti ed ex prigionieri di guerra. Il quinto giorno della rivolta, che in seguito sarebbe diventato noto come il «Sabato nero», le SS di Himmler, indurite da anni di guerra, e i soldati della Wehrmacht si riversarono in città, massacrando trentamila persone, uomini, donne e bambini. Il giorno successivo, mentre squadriglie di Stuka bombardavano in picchiata la città (nei film d’ archivio le si sente ronzare come enormi zanzare), i polacchi male armati e male addestrati combatterono coraggiosamente; comunicarono via radio con Londra, chiedendo lanci aerei di cibo e rifornimenti, e implorarono i russi perché ordinassero un attacco immediato.
Antonina scrisse nel suo diario che due uomini delle SS spalancarono la porta, pistola alla mano, urlando: «Alles rrrauss!! (Tutti fuori)».
Terrorizzati, lei e gli altri uscirono di casa e rimasero in attesa nel giardino, non sapendo che cosa attendersi, ma aspettandosi il peggio.
«Mani in alto», ordinarono. Antonina notò che tenevano l’ indice sul grilletto, pronti a farlo scattare.
Stringendo la sua bambina tra le braccia, poté alzare un braccio soltanto, e il suo cervello fece fatica a «comprendere la brutalità delle loro frasi volgari», mentre sbraitavano: «Pagherete per la morte dei nostri eroici soldati tedeschi massacrati dai vostri mariti e dai vostri figli. I vostri bambini», dissero indicando Rys e Teresa, «hanno succhiato l’ odio per i tedeschi insieme al latte materno. Finora vi abbiamo permesso di comportarvi in questo modo, ma quando è troppo, è troppo! D’ ora in poi, mille polacchi verranno uccisi per la morte di ogni singolo tedesco».
«Questa è sicuramente la fine», si disse Antonina, abbracciando forte la piccola Teresa, mentre cercava affannosamente di escogitare un piano, con il cuore in gola e le gambe troppo deboli per potersi muovere. Non era la prima volta che si ritrovava paralizzata dalla paura. Sebbene non riuscisse a muoversi, sapeva che doveva direqualcosa, qualunque cosa, e cercare di stare calma, parlare con quegli uomini nel modo in cui era solita fare con gli animali arrabbiati per tranquillizzarli e guadagnare la loro fiducia. La sua bocca si riempì di parole in tedesco che non sapeva nemmeno di conoscere, e cominciò a parlare degli antichi clan e della grandezza della cultura tedesca. Mentre continuava a stringere la bambina, le parole le uscivano dalla bocca come un fiume in piena, e nel frattempo, in un’ altra parte del suo cervello, si concentrava profondamente e ripeteva incessantemente l’ ordine:
Calmatevi! Mettete giù quelle pistole! Calmatevi! Mettete giù quelle pistole! Calmatevi! Mettete giù quelle pistole!
I tedeschi non smettevano di urlare, e non abbassarono le armi; ma Antonina, in un turbine di pensieri che si affastellavano gli uni sugli altri, continuò a parlare e a ripetere il suo ordine silenzioso.
All’ improvviso un soldato guardò l’ aiutante quindicenne dell’ Uomo Volpe e gli gridò in malo modo di andare dietro al capanno, nel giardino. Il ragazzo cominciò a incamminarsi, seguito da uno dei tedeschi che si frugò in tasca e tirò fuori una rivoltella, mentre i due scomparivano dalla vista. Un unico sparo.
L’ altro tedesco disse a Rys: «Tu sei il prossimo!»
Antonina vide impallidire il viso di suo figlio, sfigurato dalla paura, mentre le sue labbra assumevano un colore violaceo. Rys alzò le mani e cominciò a camminare lentamente, come un automa, «come se la vita avesse già cominciato ad abbandonare il suo corpicino», ricordò sua madre in seguito.
Guardandolo sparire dalla sua vista, continuò a seguirlo con gli occhi della mente: «Ora si trova vicino al cespuglio della malvarosa», pensò, «adesso sarà vicino alla finestra dello studio».
Risuonò un secondo colpo. Antonina sentì come se «una baionetta mi avesse attraversato il cuore [...] e poi sentimmo il terzo colpo. [...] Non riuscivo a vedere più niente; la mia vista si offuscò, poi tutto divenne nero. Mi sentivo così debole, ero sul punto di svenire».
«Tu siediti su una panchina», le ordinò uno dei tedeschi.
«È difficile stare in piedi con un bambino in braccio.» Un attimo dopo lo stesso uomo disse:
«Ehi, ragazzi! Portatemi quel gallo! Prendetelo, è tra i cespugli!»
Entrambi i ragazzi corsero fuori dai cespugli, tremanti di paura. Rys stringeva per le ali Kuba, la sua gallina, morta, e Antonina fissava ipnotizzata le grandi gocce di sangue che si riversavano dai fori delle pallottole.
«Vi abbiamo fatto un bello scherzetto!» esclamò uno dei soldati. Antonina vide le loro facce di marmo sciogliersi in una risata mentre lasciavano il giardino, portandosi via la gallina uccisa, e guardò Rys scivolare lentamente a terra cercando di non piangere, finché perse la sua battaglia e le lacrime cominciarono a inondargli gli occhi. Che cosa poteva fare una madre per consolare un bambino dopo un’ esperienza del genere?
Andai verso di lui e gli sussurrai in un orecchio: «Sei il mio eroe, sei stato così coraggioso, bambino mio. Adesso potresti aiutarmi a rientrare? Perché mi sento molto debole». Forse una responsabilità l’ avrebbe aiutato ad alleggerire la sua emozione. Sapevo quanto fosse difficile per lui mostrare i suoi sentimenti. A ogni modo, avevo davvero bisogno che mi tenesse in piedi, insieme alla bambina, perché le gambe, per lo spavento, non mi reggevano più.
In un secondo momento, quando si fu calmata, Antonina cercò di analizzare il comportamento delle SS: avevano davvero preso in considerazione l’ idea di sparare, oppure era stato solo un disgustoso gioco di potere e paura? Certamente non potevano sapere nulla riguardo a Kuba, quindi dovevano avere improvvisato. Non riusciva a comprendere la loro inaspettata gentilezza, quando l’ avevano invitata a sedersi. Erano davvero preoccupati che potesse svenire tenendo in braccio la neonata? «Se è così», si disse, «forse, dopotutto, il loro orribile cuore contiene ancora un briciolo di umanità, e se questo è vero, allora il male assoluto non esiste sul serio.»
Era stata talmente sicura che i colpi di pistola avessero ucciso i ragazzi, che Rys fosse crollato al suolo con una pallottola in testa... Il sistema nervoso di una madre in un momento come quello non può che cedere e, anche se erano entrambi sopravvissuti, si ritrovò a scivolare in una terribile depressione, per la quale si rimproverava aspramente nel suo diario:
«La mia debolezza mi faceva vergognare di me stessa, proprio nel momento preciso in cui avrei dovuto essere un punto di riferimento per il mio piccolo gruppo».
Nei giorni che seguirono, Antonina soffrì anche di forti mal di testa, causati dal baccano infernale prodotto dall’ esercito tedesco che radunava file di lanciarazzi, mortai e artiglieria pesante vicino allo zoo. Seguivano i lamenti sismici delle bombe, con proiettili di ogni calibro e forma che producevano ognuno il loro diabolico suono: sibili, esplosioni, scoppiettìi, schianti, rombi.
Poi c’ erano le cosiddette screaming meemies (le «Mimi urlanti»), un termine ispirato alle ragazze francesi di nome «Mimi», che nel gergo militare indicava un tipo di bomba tedesca che in volo produceva un rumore stridulo; il termine, in seguito, passò a indicare lo stress da battaglia causato dalla lunga esposizione al fuoco nemico.
I tedeschi utilizzavano anche dei lanciarazzi conosciuti come «vacche muggenti», che emettevano per l’ appunto sei «muggiti» di seguito nel momento in cui sei razzi venivano caricati nei tubi di lancio prima di una serie di sei esplosioni.
«Non lo dimenticherò mai fino alla fine dei miei giorni», scrisse Jacek Fedorowicz, che all’ epoca della rivolta aveva sette anni. «Dopo che erano state caricate, non c’ era altro da fare. Se si sentivano le esplosioni, voleva dire che non si era rimasti uccisi. [...] Io avevo un buon orecchio nel distinguere i vari rumori che portavano la morte.» (2) Fedorowicz riuscì a scappare con il suo orso di pezza, «c’ erano cuciti dentro i resti della fortuna della mia famiglia, sotto forma di ‘porcellini’, le monete d’ oro da cinque rubli. A parte questo, le sole cose che sono riuscito a salvare dopo la rivolta sono stati un bicchiere e una copia mezza bruciacchiata del Dottor Dolittle»
Gli aeroplani sganciavano bombe sui combattenti nella Città Vecchia; i soldati sparavano raffiche di mitraglia sui civili polacchi nelle strade; squadre di demolizione iniziarono ad appiccare il fuoco e a far saltare in aria le costruzioni più grandi. L’ aria si riempì di polvere, fuoco e zolfo. Quando cominciò a imbrunire, Antonina sentì un rombo ancora più terrificante provenire dalla direzione del ponte Kierbedz: il ruggito di un’ enorme macchina.
Alcune persone dissero che i tedeschi avevano costruito un forno crematorio per bruciare i cadaveri, per proteggere Varsavia dalle epidemie, mentre altri pensavano che avessero liberato una grande arma nucleare. L’ acqua del fiume rifletteva una pallida luce verde fosforescente, così brillante che Antonina poteva vedere la gente affacciata alle finestre sull’ altra sponda; dopo il tramonto a quel rombo soprannaturale si unì un coro invisibile di soldati ubriachi che cantarono fino a tardi.
Secondo quanto riporta, Antonina rimase sveglia tutta la notte, raggelata dalla paura, sentendo i suoi sottili capelli che le si drizzavano sulla nuca. Come poi risultò, la strana luce era qualcosa di molto più semplice di quello che si era immaginata: nel parco Praski i tedeschi avevano installato un generatore che alimentava dei giganteschi riflettori per abbagliare il nemico.
Anche dopo che il combattimento si fu spostato dal quartiere in cui si trovava lo zoo, i soldati ne invasero i terreni per saccheggiarlo e razziarlo. Un giorno arrivò una banda di russi dagli «occhi famelici». (3) Si misero freneticamente a frugare nei mobili di casa e a perlustrare muri e pavimenti alla ricerca di qualsiasi cosa potesse essere rubata, comprese le fotografie incorniciate e i tappeti. Quando si avvicinò come per difendere silenziosamente il suo territorio, li sentì sfrecciarle intorno «come delle iene» che correvano da una stanza all’ altra. «Se si accorgono della mia paura, mi divoreranno», pensò. Il loro capo, un uomo dai tratti asiatici e gli occhi di ghiaccio, le si avvicinò e la fissò con severità, mentre Teresa dormiva poco lontano in una piccola culla di vimini. Antonina si impose di non distogliere lo sguardo e di restare immobile. All’ improvviso, l’ uomo afferrò la medaglietta che portava sempre al collo, «e i suoi denti bianchi lampeggiarono».
Lentamente, dolcemente, Antonina indicò la bambina e poi, rispolverando il russo appreso nella sua infanzia, ordinò con voce alta e ferma: «Vietato! Tua madre! Tua moglie! Tua sorella!
Capisci?»
Quando gli posò una mano sulla spalla, l’ uomo parve sorpreso, e Antonina vide la furia omicida abbandonare i suoi occhi e la bocca rilassarsi. Il suo sussurro mentale aveva funzionato un’ altra volta, pensò. Subito dopo l’ uomo mise la mano nella tasca posteriore dei pantaloni e per un orribile istante Antonina ripensò al soldato tedesco che puntava la pistola su Rys. Invece, quello tirò fuori la mano e la aprì, rivelando alcune caramelle di un rosa sporco.
«Per la bambina!» mormorò, indicando la culla.
Mentre Antonina stringeva la sua mano in segno di ringraziamento, l’ uomo le sorrise con ammirazione e osservò le sue mani prive di anelli, fece una faccia impietosita, si tolse uno dei suoi anelli e glielo offrì.
«E questo è per te», disse. «Prendilo! Mettitelo al dito!»
Il suo cuore «tremò» mentre si faceva scivolare l’ anello al dito, poiché era sormontato dall’ effige di un’ aquila, un simbolo polacco, il che significava probabilmente che era stato strappato dal dito di un soldato polacco caduto.
Poi, l’ uomo richiamò ad alta voce i suoi soldati e ordinò:
«Lasciate giù tutto quello che avete preso! Vi ammazzerò come cani se non obbedite!»
Sorpresi, gli uomini lasciarono le suppellettili e il bottino che avevano raccolto e tirarono fuori dalle tasche gli oggetti più piccoli.
«Adesso andiamocene, e non toccate niente!» aggiunse.
E su quelle parole, Antonina guardò gli uomini «rimpicciolire mentre se ne andavano uno dopo l’ altro, come cani a cui avessero messo la museruola».
Una volta che furono usciti, la donna si sedette al tavolo, guardò di nuovo l’ anello con l’ aquila d’ argento e pensò: «Se ascoltare parole come madre, moglie, sorella può cambiare lo spirito di un uomo bestiale e avere la meglio sui suoi istinti omicidi, allora dopo tutto forse c’ è ancora una speranza per l’ umanità».
Di tanto in tanto, altri soldati fecero visita allo zoo, senza ulteriori incidenti, e poi un giorno arrivò un’ automobile da cui scesero diversi impiegati tedeschi che gestivano gli allevamenti di animali da pelliccia del Terzo Reich, che conoscevano l’ Uomo Volpe fin da quando viveva a Grójec. L’ Uomo Volpe assicurò che gli animali erano sopravvissuti e avevano tutti una folta pelliccia, così i tedeschi gli diedero il permesso di trasferire animali e personale in Germania. Il trasferimento avrebbe richiesto del tempo, cosa che significava che tutti avrebbero potuto restare ancora per un po'’ nella villa, magari fino a quando la Rivolta non avesse trionfato e i tedeschi avessero abbandonato Varsavia, cosicché nessuno avrebbe più dovuto lasciare lo zoo.
Nel frattempo, nel tentativo di indebolire la Resistenza, gli aeroplani tedeschi continuavano a lanciare messaggi che invitavano la popolazione civile di Varsavia a lasciare la città prima che fosse rasa al suolo. Subito dopo, l’ esercito tedesco trasportò un numero ancora maggiore di pezzi di artiglieria nel parco Praski, nascondendoli tra gli alberi e i cespugli vicino al fiume. Spesso i tedeschi, che montavano di guardia a poca distanza, si fermavano nello zoo per un bicchiere d’ acqua, una scodella di minestra e qualche patata bollita. Una sera un giovane ufficiale di alta statura espresse la sua preoccupazione per quei civili che abitavano così vicino al campo di battaglia, e Antonina gli spiegò che lei e gli altri gestivano un allevamento di animali da pelliccia di grande importanza per la Wehrmacht, e che non potevano andarsene perché quello era un momento poco propizio per spostare i cani procione, cui cresceva un folto e morbido mantello, dopo la muta estiva, seguita dalla ricrescita della pelliccia invernale nei mesi di settembre, ottobre e novembre. Interferire nel loro ciclo vitale mettendoli in gabbia e trasferendoli in una zona con un clima diverso, avvertì Antonina, avrebbe fatto sì che la pelliccia non ricrescesse a tempo debito. La spiegazione sembrò soddisfare l’ ufficiale.
I tuoni non le avevano mai fatto paura prima: «Dopotutto, è solo un suono che riempie il vuoto creato dalla scia di un fulmine». Ma l’ artiglieria rimbombava incessantemente, l’ aria non diventava umida come accadeva prima di un temporale, non cadevano gocce di pioggia, e quel tuono a secco la snervava. Un pomeriggio, l’ artiglieria smise improvvisamente di sparare, e durante quel raro momento di quiete le donne di casa si distesero e si riposarono, godendosi quella pace. La madre di Jan, Nunia ed Ewa facevano tutte un sonnellino in camera loro, e Antonina allattava Teresa al pianterreno, in un torrido pomeriggio, con tutte le porte e le finestre spalancate.
Inaspettatamente la porta della cucina cigolò e un ufficiale tedesco irruppe nella stanza. Si fermò per un attimo quando la vide con la neonata e, mentre si avvicinava, Antonina poté sentire l’ odore di alcol nel suo alito. Aggirandosi intorno con aria sospettosa, si avventurò nello studio di Jan.
«Oooh! Un piano... degli spartiti! Sa suonare?» le chiese eccitato.
«Solo un po'’», rispose Antonina.
Sfogliando qualche pagina di Bach, si fermò e cominciò a fischiettare una fuga con grande senso musicale. Antonina pensò che fosse un musicista professionista.
«Mi sembra che abbia un orecchio straordinario per la musica», disse.
Quando le chiese di suonare per lui, Antonina si sedette al piano, anche se c’ era qualcosa che le sembrava strano. Era tentata di afferrare Teresa e scappare via, ma temeva che se ci avesse provato il soldato le avrebbe sparato, per cui cominciò a suonare Ständchen, una serenata romantica di Schubert, nella speranza che il famoso componimento tedesco potesse calmarlo suscitando in lui dei ricordi sentimentali.
«No, non quella! Non quella!» urlò. «Perché stai suonando proprio quella?!»
Le dita di Antonina abbandonarono di colpo la tastiera.
Era stata evidentemente una scelta sbagliata, ma perché?
Aveva sentito e suonato quella serenata tedesca così tante volte. Mentre l’ ufficiale si dirigeva a grandi passi verso la libreria e si metteva a cercare tra gli spartiti, Antonina abbassò gli occhi a leggere il testo di Ständchen:
Sommessi nella notte i miei canti ti supplicano; diletta, vieni da me giù nel bosco silenzioso!
Sussurrando stormiscono le flessuose cime degli alberi nella luce lunare.
Non temere, amata, il traditore che origlia ostile.
Senti cantare gli usignoli?
Ah! ti implorano, con i dolci lamenti ti supplicano per me.
Capiscono l’ ardente desiderio del mio cuore, conoscono il male d’ amore, commuovono con toni argentini ogni cuore sensibile.
Lascia che anche il tuo cuore si commuova, amata, ascoltami, tremante ti attendo con ansia!
Vieni, colmami di felicità!
Un cuore spezzato, che avrebbe commosso chiunque, pensò Antonina. Improvvisamente il viso del soldato si illuminò mentre apriva una raccolta di inni nazionali, in cui cercava affannosamente qualcosa, che alla fine trovò.
Piazzando il libro aperto sul pianoforte, l’ ufficiale tedesco disse: «Per favore, suona questo per me».
Non appena Antonina cominciò a suonare, il militare iniziò a seguirla cantando, pronunciando le parole in inglese con un forte accento tedesco, e lei si domandò che cosa avrebbero potuto pensare i soldati di stanza al parco Praski nel sentirlo cantare a pieni polmoni l’ inno nazionale degli Stati Uniti. Di tanto in tanto, Antonina osservava i suoi occhi semichiusi e quando finì il pezzo con un ultimo svolazzo musicale, l’ uomo la salutò e lasciò in silenzio la villa.
Chi poteva essere quell’ ufficiale così preparato in fatto di musica, si chiese Antonina, e perché aveva scelto l’ inno americano?
«Forse era uno scherzo tra lui e qualche altro tedesco che stava nei pressi della villa» pensò. «Sicuramente verrà qualcuno a interrogarmi perché ho suonato quella musica.
Adesso dovrò anche preoccuparmi di avere provocato le SS.» In seguito, giunse alla conclusione che l’ ufficiale aveva semplicemente voluto terrorizzarla, e, in quel caso, ci era perfettamente riuscito, perché la melodia le rimase impressa nella testa e continuò a risuonarle nella mente finché una serie di cannonate non squarciarono la notte.
Quando i tedeschi sferrarono il loro attacco alla Città Vecchia, Antonina sperava ancora che l’ esercito del movimento clandestino potesse avere la meglio, ma poi cominciarono a circolare voci secondo cui Hitler aveva ordinato di demolire la città. Ben presto venne a sapere che Parigi era stata liberata dalle forze di Francia Libera, Stati Uniti e Inghilterra, e che Aquisgrana, la prima città tedesca a cadere, era stata devastata da diecimila tonnellate di bombe.
Antonina non aveva alcuna notizia da parte di Jan o comunque su di lui; sapeva solo che era appostato nella Città Vecchia, dove l’ Armia Krajowa, costretta in uno spazio ristretto, combatteva da un edificio all’ altro, perfino da una stanza all’ altra, che fosse all’ interno di una casa o di una cattedrale.
Molti testimoni riportano che la prima linea nemica improvvisamente riuscì a penetrare in un edificio e dilagò da un piano all’ altro, mentre coloro che erano rimasti all’ esterno erano sottoposti a un’ incessante grandinata di bombe e pallottole. Tutto quello che Antonina e Rys potevano fare era guardare il pesante fuoco che si riversava sulla Città Vecchia e immaginarsi Jan e i suoi amici che si muovevano lungo strade acciottolate che conoscevano a menadito.
In una fotografia d’ archivio scattata il 14 agosto dal reporter di guerra Sylwester «Kris» Braun, alcuni soldati polacchi mostrano con orgoglio un veicolo corazzato per trasporto fanteria di cui si sono appena impadroniti. Jan non è immortalato nella foto, ma non può essere semplicemente una coincidenza il fatto che, nella didascalia, il veicolo dalla forma elefantiaca venga soprannominato «Jas», lo stesso nome dell’ elefante dello zoo di Varsavia, ucciso all’ inizio della guerra.