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«Come può questa barbaria avere luogo nel ventesimo secolo?!!!!!!» si chiedeva Antonina, in un grido di incredulità con non meno di sei punti esclamativi. «Non molto tempo fa il mondo guardava ai secoli bui dell'Alto Medioevo con disprezzo per la loro brutalità, eppure eccolo di nuovo, in tutta la sua pienezza, un sadismo privo di leggi, e nemmeno attenuato dalle lusinghe della religione e della civiltà.»

Seduta al tavolo della cucina, preparava piccoli pacchi di cibo per gli amici nel Ghetto, e badava che nessuno di essi spuntasse dai vestiti di Jan o dai secchi quando andava a fare i suoi soliti giri per raccogliere avanzi di cucina per l'allevamento di maiali. Jan era senza dubbio divertito dall'idea di trasportare cibo dall'allevamento fin dentro il Ghetto, e benché apparisse quasi osceno portare agli ebrei un cibo proibito come la carne di maiale, le regole dell'alimentazione erano state abbandonate da molto tempo, e tutti erano riconoscenti per quelle proteine, un dono raro da entrambi i lati del muro.

All'inizio, né gli ebrei né i polacchi compresero appieno l'oltraggio delle leggi razziste e nemmeno credettero alle voci raccapriccianti a proposito delle retate e delle uccisioni degli ebrei. «Finché non fummo noi stessi testimoni di tali eventi e non li sentimmo sulla nostra pelle», scrisse in seguito Antonina, «liquidavamo quelle voci come dicerie crudeli ed esagerate, cose dell'altro mondo, o forse scherzi di cattivo gusto.

Perfino quando il Dipartimento per la Purezza Razziale avviò un censimento particolareggiato della popolazione ebraica della città, parve ancora possibile attribuire una tale pazzia alla rinomata inclinazione tedesca per la sistematicità e la buona organizzazione», dunque alla semplice burocrazia.

Comunque sia, tedeschi, polacchi ed ebrei facevano tre code separate per ricevere il pane, e il razionamento veniva calcolato minuziosamente: ai tedeschi spettavano 2613 calorie al giorno, ai polacchi 669 e agli ebrei soltanto 184. Nel caso qualcuno non avesse afferrato il concetto, il governatore tedesco Frank dichiarò: «Chiedo solo una cosa agli ebrei: che scompaiano».

Verboten! (Vietato!) divenne un comando familiare, urlato dai soldati o stampato bello grosso e accompagnato da un minaccioso punto esclamativo su manifesti e giornali antisemiti come Der Stürmer. Ignorare quelle tre sillabe poteva costare la vita.

Mentre avvertimenti e umiliazioni aumentavano di giorno in giorno, agli ebrei erano vietati i parchi, i servizi igienici pubblici e perfino le panchine comunali. Marchiati da una stella di David blu su una fascia bianca al braccio, non potevano usare ferrovie e tram e venivano pubblicamente stigmatizzati, trattati brutalmente, denigrati, violentati e uccisi. Alcuni decreti vietavano ai musicisti ebrei di eseguire o cantare musica di compositori non ebrei, gli avvocati ebrei erano radiati dall'albo, gli impiegati statali licenziati senza preavviso e senza pensione, gli insegnanti e gli agenti di viaggio ebrei rimossi dai loro incarichi. I matrimoni e le relazioni sessuali tra ebrei e ariani erano illegali, agli ebrei non era permesso creare arte o partecipare a eventi culturali, ai medici ebrei veniva ordinato di abbandonare la pratica (eccetto per qualcuno all'interno del Ghetto). Se le vie avevano nomi che sembravano ebrei, venivano ribattezzate, e gli ebrei che portavano un nome di battesimo che suonava ariano dovevano sostituirlo con «Israel» o «Sarah». Le licenze di matrimonio rilasciate ai polacchi necessitavano di un certificato di «idoneità». Agli ebrei non era consentito assumere ariani come domestici. Le mucche non potevano essere fecondate da tori di un proprietario ebreo, e agli ebrei non era concesso di allevare piccioni viaggiatori. Una gran quantità di libri per bambini promuovevano l'ideologia nazista con caricature antisemitiche.

I soldati, per divertirsi, issavano gli ebrei ortodossi su barili e tagliavano loro le barbe religiose, o schernivano vecchi e donne, a volte ordinando loro di ballare sotto la minaccia di un'arma da fuoco. Filmati d'archivio mostrano sconosciuti che ballano il walzer per le strade, abbracciandosi goffamente, i volti amareggiati e impauriti, mentre i soldati nazisti applaudono e ridono. Ogni ebreo che superava un tedesco senza inchinarsi e togliere il cappello meritava percosse feroci. I nazisti sequestravano il denaro e i risparmi, rubavano mobili, gioielli, libri, pianoforti, giocattoli, vestiti, scorte di farmaci, radio e qualunque altra cosa di valore. Oltre centomila persone, strappate dalle loro case, sopportarono orribili giornate di lavori pesanti senza paga, e le donne ebree, come ulteriore umiliazione, furono costrette a usare i loro indumenti intimi come stracci per pulire pavimenti e bagni.

Infine, il 12 ottobre 1940 i nazisti cacciarono dalle loro case tutti gli ebrei di Varsavia e li ammassarono in un quartiere nella parte settentrionale della città, opportunamente situato tra la principale stazione dei treni, il Giardino Sassone (Ogród Saski), e il terminal ferroviario per Danzica. I soldati tedeschi circondavano un isolato e davano mezz'ora di tempo alle persone per sgomberare i loro appartamenti, lasciandosi dietro tutto tranne qualche effetto personale. Se si aggiungono gli ebrei trasferitisi dalla campagna, questo decreto confinava quattrocentomila persone in quello che era appena il 5 per cento della città, un quadrato di circa quindici, venti isolati, in un'area che aveva approssimativamente le dimensioni di Central Park; qui il semplice chiasso, un «continuo clamore carico di tensione», (1) come lo descrisse uno dei residenti, logorava i nervi. Quel vortice di ventisettemila appartamenti, dove in media quindici persone dividevano due stanze e mezza, era funzionale all'obiettivo nazista di opprimere, indebolire, umiliare e fiaccare la resistenza.

I ghetti ebraici avevano proliferato in Europa nel corso della storia e, per quanto remoti o disprezzati, tendevano a essere permeabili e pieni di vita, dal momento che permettevano ai viaggiatori, ai mercanti e alla cultura di entrare e uscire. Il Ghetto di Varsavia era drammaticamente diverso, come ricorda Michel Mazor, un superstite: «[...] a Varsavia, il Ghetto non fu altro che una forma organizzata della morte.

"Piccolo scrigno della morte {Todeskästchen), come lo definì una delle sentinelle tedesche a guardia delle entrate», (2) una città che i tedeschi consideravano un cimitero. Solo le persone astute e vigili riuscivano a sopravvivere, e nessuno si avventurava fuori di casa senza prima aver valutato i possibili pericoli. I passanti si aggiornavano reciprocamente quando si superavano, e un «semplice accenno di minaccia, il più lieve gesto, poteva rimandare a casa una folla di diverse migliaia di persone, lasciando la strada vuota e deserta». (3)

Ma il debole tumulto della vita fioriva ancora nel Ghetto, come e quando poteva. Norman Davies ci offre questa istantanea della vivace atmosfera del Ghetto dei primi tempi:

«Per due o tre anni fu affollata di passanti e risciò, ed ebbe una sua linea di tram con la stella di David. C'erano poi caffè e ristoranti; al numero 40 c'erano una "Mensa per scrittorì e diversi luoghi di divertimento. Al 27 di via Leszno il Fotoplastikon offriva uno sguardo sul mondo esterno mostrando una serie di immagini popolari di luoghi esotici come l'Egitto, la Cina e la California. Un clown con il naso rosso ballava sul marciapiede cercando di persuadere i passanti a comprare un biglietto per 6 grosz. Al 2 di via Leszno il Caffè delle Arti aveva spettacoli quotidiani di cabaret e una serie di concerti con cantanti tra cui Vera Gran o Marysia Ajzenstatt, "l'Usignolo del Ghetto e con musicisti quali Wladyslaw Szpilman e Arthur Goldfeder. Al 35 di via Leszno il teatro Femina metteva in scena produzioni più ambiziose da un ampio repertorio polacco, tra cui l'operetta Principessa della Csardas e la commedia intitolata a proposito L'amore cerca un appartamento. Tutto ciò rappresentava un tentativo disperato di fuga dalla realtà: "Lo humour è l'unica forma di difesa del Ghetto». (4) Molte delle vie più conosciute del Ghetto evocavano visioni di luoghi paradisiaci, prosperità e avventura: via del Giardino, via del Pavone, via della Frescura, via Selvaggia, via del Nuovo Tiglio, via del Drago, via dell'Oca, via del Caldo, via dei Prodi, via dei Liquori, via Piacevole.

In un primo tempo, quando il Ghetto era ancora permeabile, gli amici ebrei degli Zabinski credevano che fosse una temporanea colonia di lebbrosi, che il regime di Hitler sarebbe presto crollato e la giustizia avrebbe prevalso, che avrebbero resistito ai violenti gorghi, e che l'espressione «soluzione finale» si riferisse all'espulsione degli ebrei dalla Germania e dalla Polonia, tutto fuorché l'annientamento.

Scegliendo un futuro ignoto piuttosto che un presente violento, molti ebrei sgomberarono le case come era stato loro ordinato, ma alcuni, muovendosi in direzione contraria rispetto alle persone che si ammassavano, si nascosero nella parte ariana della città, preferendo una vita incerta. Da quanto racconta Antonina, un sinistro argomento di conversazione tra i suoi amici di discendenza mista o tra le coppie sposate nelle quali uno dei coniugi era ebreo era rappresentato dalle leggi razziste di Norimberga del 15 settembre 1935, che stabilivano quanto sangue ebreo si poteva avere nelle vene senza essere contaminato. Il famoso esploratore della Via della seta e apologeta del nazismo Sven Hedin, che stava accanto a Hitler sul palco delle Olimpiadi del 1936, era esente da questa regola, benché suo bisnonno fosse un rabbino, cosa che la cerchia ristretta di Hitler non poteva ignorare.

Erano in pochi a credere che le leggi naziste potessero realmente diventare questione di vita o di morte, eppure qualcuno si convertì rapidamente al cristianesimo e altri comprarono documenti falsi. Adam e Wanda Englert, amici degli Zabinski, nel timore che i tedeschi potessero scoprire l'asse ereditario parzialmente ebreo di Wanda, organizzarono un falso divorzio seguito da un evento chiamato la «Scomparsa di Wanda». Ma, prima di scomparire, Wanda decise di dare una festa di addio per la famiglia e gli amici intimi all'antico arsenale, in centro, e come data scelse il solstizio d'estate.

Quella vigilia festiva, l'arsenale era decorato con ramoscelli di artemisia, una pianta alta, della famiglia dell'assenzio, con steli violacei, foglie grigioverdi e piccoli fiori gialli. L'antica erba veniva usata per rompere incantesimi e cacciare streghe e stregoni, specialmente il 23 giugno, vigilia della festa dedicata al solstizio d'estate, giorno che si associava a san Giovanni Battista: secondo la leggenda, quando fu decapitato, la sua testa cadde proprio tra i cespugli di artemisia. I contadini polacchi superstiziosi appendono rami di questa pianta sotto le grondaie dei fienili per impedire che durante la notte le streghe mungano le mucche fino all'ultima goccia di latte; le ragazze di Varsavia portano ghirlande di artemisia tra i capelli e le massaie ne legano alcuni rametti all'uscio e ai davanzali delle finestre per annientare il Maligno. Durante l'occupazione dei diavoli in carne e ossa, una festa organizzata la vigilia del solstizio d'estate non poteva essere una coincidenza.

Il 22 giugno Jan e Antonina si prepararono per partecipare all'evento, intenzionati ad attraversare il ponte Kierbedz: un rapido tragitto in tram, o una piacevole passeggiata con il bel tempo. Nelle vecchie fotografie le travature metalliche del ponte sembrano una lunga fila di graffette, e la loro trama intrecciata imprime sulla strada piccoli riquadri di luce.

Ponti di questo genere emettono un suono discordante quando il vento vi fischia attraverso, e vibrano di una musica particolare, una nota bassa che risuona fin nelle ossa, la stessa che emettono gli elefanti, che parlano e sentono tramite infrasuoni.

Jan e Antonina di solito prendevano una scorciatoia attraverso il parco Praski, la cui oasi urbana si estendeva per settantaquattro ettari oltre le antiche fortificazioni napoleoniche.

Nel 1927 il nuovo zoo assorbì circa metà del parco, lasciando al loro posto il maggior numero possibile di vecchi alberi, cosicché le persone che arrivavano in tram passavano sotto le fronde ombrose e poi scoprivano che lo zoo ne portava avanti il preludio e la storia attraverso le stesse specie di triacanto, di acero montano, di capelvenere e di castagno.

Ma quel pomeriggio, accorgendosi di aver finito le sigarette, Jan e Antonina optarono per una strada più lunga, seguendo via Lukasinski, che costeggiava il parco e sbucava di fronte a un negozietto pervaso dell'odore dolce del tabacco polacco.

Proprio mentre si stavano allontanando accendendo una sigaretta, una forte, tonante onda d'urto li scagliò contro una palizzata e una pioggia di pietre si rovesciò in una nuvola di terra sabbiosa. Immediatamente l'aria divenne densa e nera.

Un istante dopo sentirono il motore di un aeroplano e videro una sottile linea rosa che solcava velocemente il cielo. Le loro labbra si mossero senza emettere suoni mentre barcollavano, assordati e confusi per l'esplosione. Poi, appena le sirene ululanti ebbero suonato il cessato allarme, capirono che si trattava di un bombardiere solitario intenzionato ad abbattere il ponte Kierbedz, che invece era rimasto intatto, come anche il parco Praski. Da un tram distrutto salì una folata improvvisa di fumo nero.

«Se avessimo preso la strada più veloce, avremmo potuto essere lì sopra», disse Jan con rabbia.

Un nuovo timore strinse il cuore di Antonina quando guardò l'orologio: «Ma quello è il tram che prende a volte Rys per tornare a casa da scuola!»

Schizzando lungo la strada, corsero fino al mezzo deragliato che vibrava e sprigionava scintille, disteso davanti alla chiesa cattolica come un mammut incandescente, le lamiere contorte e i cavi di alimentazione metallici allentati, e una cinquantina di persone stremate sparpagliate dentro e fuori.

«Con le lacrime che mi rigavano il viso, esaminai i volti dei morti, cercando la faccia del mio Rys», ricorda Antonina.

Non trovando il figlio in mezzo al fumo e alle macerie, corsero a scuola, ma i bambini se n'erano già andati. Poi tornarono indietro di corsa, oltre il tram e la folla che si ingrossava, e, attraverso il parco Praski, si precipitarono tra le gabbie fino alla villa. Salirono d'un fiato le scale sul retro, irruppero in cucina e cercarono per tutta la casa, chiamando Rys.

«Non c'è», esclamò Jan alla fine, accasciandosi su una sedia.

Finalmente, dopo pochi minuti, lo sentirono salire le scale sul retro.

«Siediti», disse Jan brusco ma calmo, sospingendo il ragazzo verso una sedia. «Dove sei andato, monellaccio? Hai dimenticato che tornare immediatamente a casa da scuola è la tua principale responsabilità?»

Rys spiegò che le lezioni erano appena finite quando era scoppiata una bomba, e allora uno sconosciuto, preoccupato, aveva radunato i bambini dentro casa sua finché non era suonata la sirena di cessato allarme.

Ovviamente, Antonina e Jan persero la festa di Wanda, ma non la sua compagnia, perché poco tempo dopo, secondo i piani, lei «scomparve» nello zoo, nei panni dell'insegnante privata non ebrea di Rys.