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Estate 1935


ALL'ALBA, in un quartiere periferico di Varsavia, la luce del sole si arrampicava lungo i tronchi dei tigli e saliva lentamente i muri bianchi di una villa in stucco e vetro degli anni Trenta. All'interno il direttore dello zoo e sua moglie dormivano in un letto artigianale di betulla bianca, un legno chiaro usato per le canoe, gli abbassalingua e le sedie Windsor. A sinistra, due alte finestre coronavano un largo davanzale sotto il quale c'era un piccolo termosifone. Tappeti orientali riscaldavano il parquet e una poltrona anch'essa di betulla completava un angolo della stanza.

Quando la brezza sollevò la tenda di voile permettendo alla luce del sole di spandersi senza gettare ombre, gli oggetti visibili a malapena cominciarono ad ancorare Antonina al mondo sensibile. Presto il gibbone avrebbe iniziato a gridare, e allora nessuno sarebbe più riuscito a dormire in quel baccano infernale: né uno studente rimasto sveglio fino a tardi, né un neonato. Certamente non la moglie del custode dello zoo.

Ogni giorno la aspettavano i consueti lavori domestici, e lei se la cavava bene con la cucina e con l'ago. Ma doveva risolvere anche questioni legate allo zoo, talvolta problemi fuori del comune (come calmare un cucciolo di iena), che mettevano alla prova la sua istruzione e le sue doti naturali.

Il marito Jan di solito si alzava di buonora, indossava un paio di pantaloni e una maglia con le maniche lunghe e infilava al villoso polso sinistro un grosso orologio, per poi scendere silenziosamente di sotto. Alto e magro, con un naso importante, occhi scuri e spalle muscolose, aveva una corporatura simile al padre di lei, Antoni Erdman, un ingegnere ferroviario polacco di stanza a San Pietroburgo, che per la sua professione aveva viaggiato per la Russia in lungo e in largo. Come Jan, il padre di Antonina aveva molto cervello, quel tanto che bastò a far uccidere lui e la moglie Maria, in quanto membri dell'intellighenzia, i primi giorni della Rivoluzione d'ottobre nel 1917, quando Antonina aveva solo nove anni. E come il padre di lei, anche Jan era una specie di ingegnere, benché le connessioni che promuoveva fossero tra le persone e gli animali, oltre che tra le persone e la loro natura animale.

Jan, con la sua calvizie incipiente e una corona di capelli color testa di moro, aveva bisogno di un copricapo per difendersi dalle scottature in estate e dal gelo in inverno, ragion per cui nelle fotografìe all'aria aperta indossa sempre un cappello di feltro, che gli dà un'aria seria e risoluta. Qualche fotografìa al chiuso lo coglie alla sua scrivania o in uno studio radiofonico, la mascella serrata per la concentrazione, come quella di un uomo che si indispettisce facilmente. Anche quando era rasato, un velo di barba gli ombreggiava il volto, specialmente sul prolabio tra il naso e la bocca. Il labbro superiore, pieno, dal disegno nitido, sfoggiava quelle perfette punte superiori che le donne creano ad arte con la matita per le labbra, una bocca a cuore; era la sua unica caratteristica femminea.

Dopo la morte dei genitori, la nonna di Antonina mandò la nipote al conservatorio per studiare pianoforte e le fece frequentare la scuola a Tashkent, in Uzbekistan, dove si diplomò a quindici anni. La famiglia si trasferì nella capitale polacca, dove Antonina seguì corsi di lingue, disegno e pittura. Per un breve periodo insegnò, poi superò un esame da archivista e come tale lavorò alle collezioni della facoltà di Agraria di Varsavia. Qui conobbe Jan Zabinski, uno zoologo di undici anni più vecchio di lei, che aveva studiato disegno e pittura all'Accademia di Belle Arti e condivideva con la giovane la passione per gli animali. Quando si liberò un posto come direttore dello zoo, nel 1929 (il primo direttore era morto due anni dopo la nomina), Jan e Antonina colsero al volo l'occasione di dare forma a un nuovo zoo e di trascorrere la loro vita tra gli animali. Nel 1931 si sposarono e si trasferirono dall'altra parte del fiume, nel difficile quartiere di Praga, una zona industriale e povera, ma a soli quindici minuti di tram dal centro.

In passato i giardini zoologici erano proprietà privata e conferivano prestigio. Chiunque poteva possedere un gabinetto delle meraviglie, ma ci voleva denaro, e un po' di pazzia, per riunire il coccodrillo più grande, la tartaruga più vecchia, il rinoceronte più pesante, l'aquila più rara. Nel diciassettesimo secolo re Giovanni III di Polonia teneva molti animali esotici a corte, e talvolta ricchi aristocratici ospitavano zoo privati all'interno delle loro proprietà, come segno di opulenza.

Per anni gli scienziati polacchi sognarono nella capitale un grande zoo che potesse eguagliare quelli europei, in particolare quelli tedeschi, famosi in tutto il mondo. Anche i bambini polacchi ne chiedevano uno a gran voce. L'Europa godeva di un patrimonio di racconti fantastici pieni di animali parlanti che accendevano le fantasie dei più piccoli e riportavano gli adulti ai tempi felici dell'infanzia. Antonina era contenta che il suo zoo fosse un giardino ricco di creature leggendarie, dove le pagine dei libri si animavano e le persone potevano conversare con gli animali feroci. Pochi avrebbero mai avuto la possibilità di vedere nel loro habitat pinguini selvatici scivolare sulla pancia giù per il pendio fino al mare, o gli istrici arboricoli dell'Argentina settentrionale, raggomitolati come pigne giganti; lei era convinta che incontrarli dal vivo allo zoo ampliasse nel visitatore la visione della natura, la rendesse più personale, la arricchisse con la conoscenza di nomi e di comportamenti. Qui, in gabbia e addomesticato, viveva l’ animale selvaggio, il mostro feroce e bellissimo.

Ogni mattina, quando lo zoo si risvegliava, uno storno riversava un miscuglio di canzoni rubate, gli scriccioli lontani iniziavano qualche arpeggio e i cuculi emettevano il loro richiamo monotono, come orologi inceppati. Allora, all'improvviso, i gibboni cominciavano a urlare: richiami così potenti che i lupi e i cani da caccia iniziavano a ululare, le iene a strillare, i leoni a ruggire, i corvi a gracchiare, i pavoni a stridere, i rinoceronti a sbuffare, le volpi a guaire, gli ippopotami a ruggire. Poi i gibboni passavano a duettare, con i maschi che intervallavano alle urla dei suoni delicati, e le femmine che emettevano lunghe note. Lo zoo ospitava diversi animali in coppia: le coppie di gibboni gorgheggiano arie formali, con tanto di ouverture, code, interludi, duetti e assoli.

Antonina e Jan avevano imparato a vivere in base al ciclo delle stagioni, non alla mera cronicità. Come molti esseri umani, si conformavano agli orologi, ma la loro routine non era mai una vera routine, poiché si componeva di realtà così diverse: una in sintonia con gli animali, l'altra con gli esseri umani. Quando gli schemi cronologici entravano in conflitto, Jan tornava a casa tardi e Antonina si svegliava nel cuore della notte per assistere al parto di una giraffa (una faccenda sempre complicata perché la madre, che comunque non vuole essere aiutata, partorisce in piedi, e il piccolo cade di testa). Era prevedibile che questo portasse ogni giorno una novità, e sebbene i problemi potessero essere gravosi, la vita era punteggiata di gradite sorprese.

Dalla camera di Antonina una porta a vetri si apriva su un'ampia terrazza al primo piano della casa, sul retro, accessibile da ognuna delle tre camere da letto e da uno stretto ripostiglio che chiamavano «il solaio». Dalla terrazza si poteva scrutare attraverso le cime dei sempreverdi e sopra i lillà, piantati vicino alle alte finestre del soggiorno per catturare la brezza del fiume e diffondere il profumo all'interno. Stando appollaiati sul terrazzo, inalando l'aria all'altezza del ginkgo e dell'abete rosso, si diventa creature delle cime degli alberi: all'alba, quando migliaia di umidi prismi adornano il ginepro, si può guardare al di sopra dei rami carichi di una quercia, oltre la Casa dei Fagiani, giù verso il cancello principale dello zoo, a una cinquantina di metri di distanza, su via Ratuszowa. Si attraversa e si entra nel parco Praski, come fanno molti degli abitanti di Varsavia nelle giornate calde, quando le infiorescenze giallo crema dei tigli riempiono l'aria del narcotizzante odore del miele e della rumba delle api.

I tigli, tradizionalmente, colgono lo spirito dell'estate: lipa in polacco significa «tiglio», mentre Lipiec significa «luglio».

Una volta consacrati alla dea dell'amore, all'affermarsi della Cristianità questi alberi divennero rifugio della devozione mariana, e nei santuari lungo la strada, proprio sotto i tigli, i viaggiatori continuano a pregare la Madonna perché conceda loro una sorte favorevole. A Varsavia i tigli ravvivano i parchi, cingono cimiteri e mercati, fiancheggiano i viali. Riverite come serve di Dio, le api attirate dai loro fiori procurano idromele e miele per la tavola e cera vergine per le funzioni religiose, ragion per cui i tigli vengono piantati nei cortili di molte chiese. Il legame ape- chiesa divenne così forte che, al volgere del quindicesimo secolo, gli abitanti del villaggio di Mazowsze vararono una legge che condannava a morte chi rubava miele o danneggiava gli alveari.

Ai tempi di Antonina, il sentimento polacco nei confronti delle api era meno violento, ma ancora appassionato; Jan teneva alcuni alveari ai margini estremi del giardino zoologico, raggruppati come capanne tribali. Le massaie usavano il miele per dolcificare il caffè freddo, per preparare il krupnik, una vodka forte con miele, "Apiernik, una torta semidolce a base di miele e spezie, o i pierniczki, biscotti al miele e alle spezie.

Oppure bevevano infuso di tiglio per curare un raffreddore o calmare i nervi. All'inizio dell'estate, ogni volta che Antonina attraversava il parco per andare alla fermata del tram, in chiesa o al mercato, camminava immersa nel profumo dei fiori di tiglio, in un gran fermento di «mezze verità»: nel gergo locale, infatti, lipa significa anche «bugie innocenti».

Sull'altra sponda del fiume, il profilo della Città Vecchia si levava dalla foschia del primo mattino nello stesso modo in cui appaiono le parole scritte con l'inchiostro invisibile: prima soltanto i tetti, con le tegole di terracotta sovrapposte come piume di piccioni, poi un piano di villette a schiera verde mare, rosa, gialle, rosse, rame e beige che fiancheggiavano le strade di acciottolato che conducevano alla piazza del mercato. Negli anni Trenta anche il quartiere di Praga era servito da un mercato all'aperto, vicino alla fabbrica di vodka di via Zabkowska (via Dente). Ma non era festoso come quello della Città Vecchia, dove dozzine di ambulanti vendevano prodotti agricoli, manufatti e cibo sotto tendoni gialli e marroni, le vetrine mettevano in mostra l'ambra del Baltico e per pochi spiccioli un pappagallo ammaestrato pescava la fortuna da un recipiente colmo di bigliettini arrotolati.

Appena oltre la Città Vecchia si trovava l'ampio quartiere ebraico, con le sue strade intricate, piene di donne con le parrucche, uomini con le basette arricciate, religiosi impegnati in danze: una mescolanza di dialetti e di aromi, negozietti, sete ed edifici dal tetto piatto, con balconi di ferro, dipinti di nero o di verde muschio, che spuntavano uno sull'altro come palchi del teatro dell'opera, ornati di vasi di pomodori e fiori. Vi si trovava anche un tipo speciale di pierogi, grossi kreplach dalla consistenza gommosa: fagottini grandi quanto un pugno ripieni di carne stufata e cipolle che venivano bolliti, cotti in forno e poi fritti, e infine glassati e induriti come bagel, il tipico pane a forma di ciambella diffuso nelle comunità ebraiche.

Cuore pulsante della cultura ebraica dell'Est Europa, il quartiere offriva teatro e cinema, giornali e riviste, artisti e case editrici, associazioni sportive e letterarie, e movimenti politici. Per secoli la Polonia aveva dato asilo agli ebrei che fuggivano dalle persecuzioni subite in Inghilterra, Francia, Germania e Spagna. Alcune monete polacche del dodicesimo secolo recavano anche iscrizioni in ebraico, e una leggenda narra che gli ebrei trovarono piacevole la Polonia perché il nome del Paese suonava alle loro orecchie come l'imperativo ebraico po' Un («riposati qui»).

Tuttavia l'antisemitismo si infiltrò anche nella Varsavia del ventesimo secolo, una città di un milione e trecentomila abitanti, un terzo dei quali ebrei. La maggior parte di loro si era sistemata nel quartiere ebraico, ma alcuni vivevano anche in zone più eleganti, sebbene generalmente mantenessero gli abiti, la lingua e la cultura caratteristici, e alcuni non parlassero affatto polacco.

In un tipico mattino estivo, Antonina stava appoggiata all'ampio davanzale del muro del terrazzo, dove le tegole color albicocca, che avevano raccolto la rugiada, inumidivano le maniche del suo vestito rosso. Non tutti i muggiti, i lamenti, i ragli e i brontolii che la circondavano venivano da fuori; alcuni scaturivano dalle viscere sotterranee della villa, altri dalla veranda, dal terrazzo o dal solaio. Gli Zabihski condividevano la casa con animali orfani appena nati o malati, e il nutrimento e l'educazione degli inquilini spettava ad Antonina, i cui «pupilli» invocavano rumorosamente cibo.

Agli animali era perfino concesso di stare in soggiorno.

Con i sei alti riquadri delle finestre che potevano facilmente essere scambiati per dipinti di paesaggi, il lungo e stretto salone confondeva il confine tra interno ed esterno. Un'ampia credenza di legno metteva in mostra libri, periodici, nidi, penne, piccoli teschi, uova, corna e manufatti vari. Su un tappeto orientale, vicino ad alcune poltrone dai cuscini in tessuto rosso, c'era un pianoforte. Nell'angolo più caldo, all'altro lato della stanza, il focolare era adorno di tegole color testa di moro e il cranio di un bisonte, sbiancato dal sole, poggiava sulla mensola del caminetto. Le poltrone, accanto alle finestre, erano inondate dalla luce del pomeriggio.

Un giornalista in visita alla villa per intervistare Jan fu sorpreso dalla vista di due gatti che entravano nel soggiorno, il primo con la zampa e il secondo con la coda bendate, seguiti da un pappagallo con un cono metallico intorno al collo e da un corvo zoppicante con un'ala rotta. La casa brulicava di animali, cosa che Jan spiegava semplicemente così: «Non basta fare ricerca da lontano. Soltanto vivendo a fianco degli animali se ne apprendono il comportamento e la psicologia». Nei suoi giri quotidiani dello zoo, in bicicletta, era costantemente seguito da un grosso alce di nome Adam, compagno inseparabile.

C'era qualcosa di alchemico nel vivere così in intimità con creature quali leoncini, piccoli di volpe, scimmie che muovevano i primi passi e aquilotti: gli odori, le grattate e i richiami degli animali si mescolavano agli odori del corpo umano e della cucina, alle chiacchiere e alle risate delle persone, in un'assortita famiglia di compagni- di- tana. Se inizialmente un nuovo membro della famiglia dormiva e si nutriva secondo le proprie vecchie abitudini, gradualmente gli animali cominciavano a vivere in sincronia, e i ritmi di ciascuno si avvicinavano sempre più a quelli degli altri. Tutto, tranne la respirazione: di notte il ritmo dormiente dei respiri creava una cantata zoologica difficile da orchestrare.

Antonina si identificava con gli animali, affascinata dal modo in cui i loro sensi analizzavano il mondo. Lei e Jan impararono presto a muoversi lentamente nei paraggi di predatori come i gatti selvatici, perché gli occhi molto vicini conferiscono loro una percezione esatta e profonda, e tendono ad agitarsi quando colgono movimenti rapidi. Prede come cavalli e cervi, invece, godono di una visione panoramica (per avvistare i predatori che si avvicinano furtivamente), ma si spaventano con facilità. L'aquila maculata zoppa, legata sul terrazzo, era fondamentalmente un binocolo con le ali. I piccoli di iena riuscivano a distinguere l'arrivo di Antonina nel buio più completo. Gli altri animali potevano sentirne l'odore, udire il più lieve fruscio del suo vestito, percepire il peso dei suoi passi che faceva vibrare appena le assi del pavimento, o addirittura avvertire le particelle di polvere dell'aria che spostava di lato. Invidiava il loro apparato di antichi sensi, finemente accordati; gli occidentali avrebbero chiamato « stregone» un essere umano dotato di tali ordinari talenti.

Antonina amava scivolare per un po' fuori dal suo corpo e spiare il mondo attraverso gli occhi di ogni animale; spesso scriveva da quella prospettiva, attraverso la quale intuiva le loro ansie e il loro sapere, nonché quello che potevano vedere, sentire, temere, avvertire, ricordare. Quando penetrava nel loro modo di percepire, si verificava una trasmigrazione di sensibilità e, come i cuccioli di lince che allevava, poteva guardare su, verso un mondo di esseri che ciondolavano rumorosamente con gambe piccole o grandi, che camminavano dentro morbide pantofole o in scarpe solide, in silenzio o rumorosamente, con il profumo leggero della stoffa o l'odore intenso di lucido da scarpe. Le lievi pantofole di stoffa si muovevano delicatamente, senza far rumore, non urtavano contro i mobili e non c'era pericolo a stare lì intorno [...] emettendo il richiamo, «ki- chi, ki- chi», [fino] all'apparire di una testa dai vaporosi capelli color miele e al chinarsi di un paio di occhi dietro grandi lenti di vetro. [...]

Non ci voleva molto per capire che le morbide pantofole di stoffa, la testa vaporosa e la voce acuta appartenevano al medesimo oggetto.

Spesso, perdendosi in questi slittamenti del sé, allineando i propri sensi a quelli degli animali, Antonina sorvegliava i suoi pupilli con affettuosa curiosità, e qualcosa in quell'atteggiamento li metteva a loro agio. La sua straordinaria capacità di acquietare animali turbolenti le guadagnò il rispetto sia dei guardiani sia di suo marito, che trovava il suo dono strano e misterioso, anche se era certo che la scienza potesse spiegarlo.

Jan, scienziato serio, attribuiva ad Antonina le «onde metafisiche» di un'empatia quasi sciamanica: «E così sensibile, è praticamente in grado di leggere nelle loro menti. [...] Lei diventa loro. [...] Ha un dono preciso, molto speciale, un modo di osservare e capire gli animali che è raro, un sesto senso. [...] È così da quando era piccola».

In cucina, ogni mattina, Antonina si versava una tazza di tè e cominciava a sterilizzare biberon di vetro e tettarelle di gomma per i più giovani della famiglia. Come nutrice dello zoo ebbe la fortuna di adottare due piccoli di lince provenienti da Bialowieza, la sola foresta primordiale rimasta in tutta Europa, un ecosistema che i polacchi chiamavano puszcza, parola che evoca antichi boschi non profanati dalla mano dell'uomo.

Bialowieza, a cavallo di quello che oggi è il confine tra Bielorussia e Polonia, accomuna questi due Paesi per quanto riguarda la fauna selvatica e le figure mitologiche; tradizionalmente rappresentava una rinomata riserva di caccia dei re e degli zar (come testimonia un padiglione riccamente decorato) e ai tempi di Antonina finì per interessare scienziati, politici e cacciatori di frodo. I più grandi animali terrestri in Europa, i bisonti europei (o «bisonti della foresta»), si scontrarono in quei boschi, e la loro diminuzione contribuì a infiammare il movimento polacco di tutela. In quanto polacca bilingue, nata in Russia e ritornata in Polonia, Antonina si sentiva a casa in quell'istmo verde che univa due diversi regimi, mentre camminava all'ombra di alberi centenari, dove la foresta si chiude su se stessa, come una seconda pelle, un fragile organismo completo di tutto, senza confini visibili. Ettari incorrotti di foresta vergine, dichiarata inviolabile, creano un regno che gli aerei sorvolano tenendosi ad alta quota, per non spaventare gli animali o contaminare il fogliame.

Sebbene fosse illegale, si continuava a cacciare, rendendo orfani giovani animali, i più rari dei quali di solito giungevano agli Zabinski in una cassa contrassegnata dalla scritta ANIMALE VIVO. Lo zoo faceva da scialuppa di salvataggio, e in aprile, maggio e giugno, la stagione delle nascite, Antonina aspettava l'arrivo di cuccioli capricciosi, ognuno con la sua dieta speciale e le sue abitudini. In condizioni normali, il lupacchiotto di un mese sarebbe stato cresciuto dalla madre e dai membri della famiglia, fino ai due anni di età. Il piccolo del tasso, pulito e socievole, rispondeva bene alle lunghe camminate e ai pranzi a base di insetti ed erba. I cuccioli striati di cinghiale facevano onore a tutti gli avanzi. Un cerbiatto, nutrito con il biberon fino al pieno inverno, scivolava, con le zampette divaricate, sui pavimenti di legno.

I preferiti di Antonina erano Tofi e Tufa, i piccoli di lince di tre settimane, che per sei mesi dovettero essere allattati con il biberon e non diventarono realmente indipendenti per un anno. Già allora amavano passeggiare al guinzaglio per le strade più trafficate del quartiere Praga, lasciando i passanti a bocca aperta. Dal momento che in Europa rimanevano poche linci selvatiche, Jan andò personalmente a Bialowieza a prendere i cuccioli, e Antonina si offrì di allevarli in casa.

Quando il taxi arrivò al cancello principale, una sera d'estate, un custode corse ad aiutare Jan a scaricare una piccola scatola di legno e insieme la portarono alla villa, dove Antonina aspettava impaziente con i biberon sterilizzati e l'omogeneizzato caldo. Quando sollevarono il coperchio, due minuscole palle di pelo maculato alzarono gli occhi fissando rabbiosamente i volti umani; poi soffiarono e cominciarono a mordere e graffiare le mani che volevano afferrarli.

«Le mani, con tutte quelle dita che si muovono, li spaventano», spiegò dolcemente Antonina, «come anche le nostre voci chiassose e la luce intensa della lampada.»

I cuccioli tremavano, «mezzi morti di paura», scrisse nel suo diario. Con delicatezza ne prese uno per l'ampia e calda collottola e lo sollevò dalla paglia; il piccolo penzolò moscio e quieto, allora la donna sollevò anche l'altro: «A loro piace.

La loro pelle conserva memoria delle mascelle della madre che li trasportava da un posto all'altro».

Quando li depose sul pavimento della sala da pranzo, si misero a correre in fretta tutt'intorno, esplorando per qualche minuto il nuovo paesaggio sdrucciolevole, poi si nascosero sotto il guardaroba come se fosse una sporgenza rocciosa, muovendosi lentamente all'indietro negli anfratti più bui che riuscivano a trovare.

Nel 1932, attenendosi alla tradizione cattolica polacca, Antonina aveva scelto per suo figlio appena nato il nome di un santo, Ryszard, abbreviato in Rys, parola che in polacco significa lince. Sebbene non facesse parte della brigata «a quattro zampe, lanuginosa o alata» dello zoo, suo figlio era entrato a far parte della famiglia quasi fosse un altro cucciolo vivace, che balbettava e stava aggrappato come una scimmia, si aggirava gattoni come un orso, diventava più chiaro in inverno e più scuro in estate come un lupo. Uno dei libri per bambini di Antonina descrive tre cuccioli di casa che imparano a camminare contemporaneamente: suo figlio, il leone e lo scimpanzé.

Trovava adorabili tutti i giovani mammiferi, dal rinoceronte all'opossum, e lei stessa, come una madre mammifero, regnava su di loro e li proteggeva. Non è un'immagine bizzarra in una città il cui simbolo plurisecolare era metà donna e metà animale: una sirena che brandisce una spada. Lo zoo divenne ben presto, secondo le sue parole, il suo «regno verde di animali sulla riva destra della Vistola», un rumoroso eden fiancheggiato dal paesaggio urbano e dal parco.