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A Hanoi, la sera cala ben dodici ore prima rispetto a New York, perciò il sole che era ancora alto mentre Reacher e Jodie lasciavano il Bronx era già scivolato dietro gli altipiani del Laos settentrionale, trecentoventi chilometri a ovest dell'aeroporto di Noi Bai. Il cielo era color arancio carico e le lunghe ombre del tardo pomeriggio lasciarono spazio all'improvvisa oscurità del crepuscolo tropicale. Gli odori della città e della giungla erano coperti dal puzzo del cherosene; i rumori dei clacson e degli insetti notturni venivano spazzati via dal sibilo costante dei motori dei jet al minimo.

Un gigantesco Starlifter C-141 dell'aeronautica americana si trovava nell'area di stazionamento, a circa due chilometri dagli affollati terminal civili, accanto a un hangar non contrassegnato da nessun numero o scritta. La rampa del velivolo era abbassata e i motori giravano abbastanza veloci da alimentare l'illuminazione interna. Anche nell'hangar le luci erano accese, un centinaio di lampade ad arco, appese in alto sotto il tetto di lamiera ondulata, che inondavano quello spazio cavernoso di un bagliore giallo intenso. L'hangar sembrava grande come uno stadio, ma non conteneva nulla eccetto sette casse. Ognuna misurava due metri, era fatta d'alluminio sca-nalato e lucido, aveva pressappoco la forma di una bara, cosa che in effetti era. Le casse erano allineate su cavalietti, coperte da bandiere americane fresche di lavanderia e accuratamente stirate; la striscia centrale di ogni bandiera si allineava con la scanalatura centrale di ogni bara. Nove uomini e due donne stavano accanto alle sette bare. Sei di loro fungevano da guardia d'onore. Erano soldati dell'esercito, rasati, vestiti con immacolate uniformi cerimoniali, sull'attenti e lontani dalle altre cinque persone. Fra queste, tre erano vietnamite, due uomini e una donna, bassi, scuri, impassibili e in uniforme, ma non da cerimonia: indossavano indumenti verde oliva, logori e stropicciati, sui quali spiccavano le mostrine poco familiari dei lo-ro gradi. Le ultime due persone erano americane. Portavano abiti civili, ma di quel tipo che indica chiaramente l'appartenenza al mondo militare, quasi come l'uniforme. La donna era giovane e indossava una gonna di tela grossa di media lunghezza, una camicia color kaki a maniche lunghe e un paio di pesanti scarpe marroni. L'uomo, sui cinquantacinque anni, era alto, aveva i capelli argentei e indossava abiti kaki sotto un impermeabile leggero allacciato in vita. In mano teneva una valigetta portadocumenti di pelle marrone molto rovinata; una borsa per abiti dello stesso tipo era accanto ai suoi piedi.

L'uomo annuì rivolto a una guardia d'onore, un movimento lieve, quasi impercettibile. Il più alto in grado mormorò un comando e i sei uomini si misero in fila per tre. Avanzarono marciando lentamente, si voltarono verso destra e proseguirono fino ad allinearsi accanto alla prima bara, tre per lato. Fecero una breve pausa, si chinarono e sollevarono la cassa, portan-dosela sulle spalle con un unico movimento fluido. L'ufficiale impartì un altro comando e tutti avanzarono, marciando verso la porta dell'hangar, la bara appoggiata in equilibrio sulle spalle. Gli unici rumori udibili erano lo scricchiolio degli stivali sul cemento e il sibilo dei motori in attesa.

Giunti all'area di stazionamento, gli uomini piegarono a destra ed ese-guirono un ampio e lento semicerchio nell'aria calda spostata dal jet, fino ad allinearsi con la rampa dello Starlifter. Si portarono al centro della rampa, cercando coi piedi le barre metalliche imbullonate appositamente su di essa per facilitare la salita, ed entrarono nel ventre del velivolo. Il pilota li stava aspettando: era una donna, capitano dell'aeronautica militare americana, impeccabile nella sua uniforme di volo in versione tropicale. L'equipaggio stava sull'attenti e comprendeva un secondo pilota, un tecnico di volo, un ufficiale di rotta e un operatore radio. Sul lato opposto, c'erano l'ufficiale di carico e i suoi uomini, silenziosi nelle tute verdi. Si trovavano a faccia a faccia, schierati in due file immobili, e le guardie d'onore vi sfilarono in mezzo lentamente, fino ad arrivare al vano anteriore di carico. Là s'inginocchiarono e abbassarono la bara fino a posarla su uno scaffale lungo la parete della fusoliera. I quattro uomini centrali si scansarono, le teste chine, mentre quelli alle due estremità sistemarono la cassa. L'ufficiale di carico la raggiunse e l'assicurò con alcune cinghie di gomma; poi indietreggiò e si unì alla guardia d'onore in un lungo saluto silenzioso.

Occorse un'ora per caricare tutte e sette le bare. Gli individui all'interno dell'hangar rimasero in silenzio per tutto il tempo, poi seguirono la settima bara nell'area di stazionamento, al passo lento della guardia d'onore, e attesero al fondo della rampa dello Starlifter, nell'umidità calda e rumorosa della sera tropicale. Terminato il suo compito, la guardia d'onore uscì dal velivolo. L'americano alto li salutò, strinse la mano ai tre ufficiali vietnamiti e fece un cenno alla donna americana. Nessuno proferì parola. L'uomo si mise in spalla la borsa per abiti e risalì la rampa dell'aeroplano. Un meccanismo lento e potente si mise in moto e la rampa si chiuse alle sue spalle.

I motori aumentarono la velocità e il gigantesco aereo iniziò a rullare. Virò a sinistra e scomparve dietro l'hangar. Il rumore divenne più debole, poi s'intensificò ancora, in lontananza, e gli individui rimasti a terra videro l'apparecchio correre sulla pista, i motori al massimo, e infine decollare. Il velivolo salì di quota e virò inclinando le ali finché non scomparve, ridotto a un minuscolo triangolo di luci ammiccanti in una vaga scia di fumo nero che ne contrassegnava il percorso nell'aria notturna.

La guardia d'onore ruppe le file nell'improvviso silenzio, la donna americana strinse la mano agli ufficiali vietnamiti e raggiunse la sua auto. I tre s'incamminarono in una direzione diversa, per raggiungere anch'essi la loro macchina, una berlina giapponese ridipinta di un cupo verde militare. La donna si mise al volante e i due uomini sedettero dietro. Pochi minuti do-po, giunsero nel centro di Hanoi. La donna parcheggiò l'auto in un'area re-cintata dietro un edificio di cemento basso color sabbia. Gli uomini scesero in silenzio ed entrarono nella struttura da una porta anonima. La donna chiuse l'auto e fece il giro dell'edificio, diretta verso un'altra entrata. Salì una breve rampa di scale ed entrò nel suo ufficio. Sulla scrivania c'era un registro aperto; vi annotò, in bella calligrafia, l'avvenuta partenza del car-go, chiuse il libro e lo ripose in un armadietto. Lo chiuse a chiave e sbirciò fuori della porta, nel corridoio. Poi tornò alla scrivania, sollevò la cornetta del telefono e compose il numero di un apparecchio distante diciottomila chilometri: un numero di New York.

Marilyn svegliò Sheryl e costrinse Chester a riprendersi dalla sua apatia prima che l'uomo tarchiato entrasse nel bagno col caffè. Aveva tre tazze, due in una mano e una nell'altra, e non sapeva dove poggiarle. Si fermò, poi si diresse verso il lavandino e le allineò sullo stretto ripiano di granito sotto lo specchio. Quindi si voltò, senza parlare, e uscì dalla stanza, chiudendo la porta dietro di sé, con forza, ma senza sbatterla.

Marilyn prese una tazza alla volta: stava tremando ed era sicura che avrebbe rovesciato il caffè se avesse tentato di portarne due insieme. Si accucciò e la porse a Sheryl, aiutandola a bere il primo sorso. Poi andò a prendere quella per Chester. Lui la prese con volto inespressivo e guardò la tazza come se non ne avesse mai vista una. Quindi la signora Stone prese la sua, si appoggiò al lavabo e bevve, con avidità. Era buono. La panna e lo zucchero ebbero subito un effetto rinvigorente.

«Dove sono i certificati azionari?» sussurrò, rivolta al marito.

Chester sollevò lo sguardo con aria indifferente. «In banca, nella cassetta di sicurezza.»

Marilyn si rese conto che non sapeva neppure quale fosse la banca di Chester, né dove fosse, e a che cosa servissero i certificati. «Quanti sono?»

s'informò.

«In origine erano mille. Ne ho usati trecento come garanzia per i prestiti.

Li ho dovuti cedere al prestatore, temporaneamente.»

«E ora li ha Hobie?»

«Ha comprato il debito. Probabilmente gli spediranno oggi la garanzia.

Loro non ne hanno più bisogno. Gliene ho dati in pegno altri novanta; sono ancora nella cassetta. Immagino che glieli avrei dovuti consegnare presto.»

«Come avviene il trasferimento?»

Con aria stanca, Chester spiegò: «Io gli giro le azioni, lui prende i certificati e li registra in Borsa e, quando ne ha cinquecentouno registrati a suo nome, diventa azionista di maggioranza».

«Dov'è la tua banca?»

L'uomo sorseggiò il caffè. «A circa tre isolati da qui. Cinque minuti a piedi. In altri cinque minuti si arriva alla Borsa. In tutto, dieci minuti: è quello che ci separa dal lastrico.» Posò la tazza sul pavimento e ricominciò a fissare nel vuoto.

Anche Sheryl aveva un'aria assente. Non stava bevendo il caffè e la sua pelle sembrava umidiccia. Forse aveva subito un trauma cranico, forse era ancora sotto shock. Marilyn non era un'esperta, ma il naso sembrava in condizioni disastrose, nero e gonfio. Il livido si era esteso sotto gli occhi; le labbra apparivano screpolate e secche, dato che aveva respirato dalla bocca per tutta la notte.

«Bevi ancora un po' di caffè. Ti farà bene», la esortò Marilyn.

Si accovacciò accanto a lei e le portò la mano alla bocca. Inclinò la tazza e Sheryl ne bevve un sorso; qualche goccia di liquido caldo le corse giù per il mento. Ne bevve un altro sorso. Sollevò lo sguardo verso Marilyn, una strana espressione negli occhi che la donna non seppe decifrare, ma le fece un ampio sorriso d'incoraggiamento.

«Ti porteremo in ospedale», le sussurrò.

Sheryl chiuse gli occhi e annuì, come sollevata. Marilyn, inginocchiata accanto a lei, le teneva la mano e fissava la porta, domandandosi come avrebbe fatto a mantenere quella promessa.

«Hai intenzione di tenerla?» gli chiese Jodie.

Stava parlando della Lincoln Navigator. Reacher sembrò riflettervi mentre attendevano, fermi nel traffico, all'imbocco del Triborough.

«Forse», rispose.

L'auto era quasi nuova, molto silenziosa e maneggevole; la carrozzeria era color nero metallizzato, gli interni di pelle marrone chiaro. Il contachilometri ne indicava seicentocinquanta e l'abitacolo odorava ancora di plastica, di pelle e di tappetini nuovi. I sedili erano enormi, identici a quello del conducente, e c'erano ripiani ovunque, con portabibite e piccoli vani portaoggetti.

«Mi sembra ingombrante», osservò Jodie.

«Paragonata a cosa? A quella macchinina che avevi prima?»

«Era molto più piccola di questa.»

«Tu sei molto più piccola di me.»

Dopo un breve silenzio, lei protestò: «Era di Rutter. È marcia».

Il traffico riprese a scorrere, per poi ribloccarsi a metà strada, sull'Har-lem. A sinistra si vedevano gli edifici di Midtown, immersi in una lieve foschia, simili a un miraggio.

«È solo uno strumento. Gli strumenti non hanno memoria», la contraddisse Reacher.

«Lo odio come non ho mai odiato nessuno», mormorò Jodie.

«Lo so. Per tutto il tempo in cui siamo stati in quel negozio ho pensato agli Hobie, soli nella loro casetta, a Brighton, lo sguardo malinconico.

Hanno perso il figlio in guerra e, per di più, sono stati truffati in quel mo-do. Jodie, non esistono scuse per ciò che ha fatto quell'individuo. Con qualche anno in meno avrebbero potuto essere i miei genitori. E, come se non bastasse, l'ha fatto quindici volte! Avrei dovuto trattarlo con mano più pesante.»

«Sempre che non lo rifaccia», affermò la donna.

«L'elenco dei bersagli si sta esaurendo. Le famiglie dei dispersi non sono più molte.»

Giunsero dall'altra parte del ponte e si diressero a sud, sulla 2nd Avenue, scorrevole e poco trafficata per almeno sessanta isolati.

«Non è stato lui a seguirci. Non sapeva chi fossimo», asserì Jodie.

«No. Quante foto fasulle avrebbe dovuto vendere per potersi permettere di sfasciare una Chevy Suburban? Dobbiamo riesaminare la situazione dall'inizio, Jodie. Due scagnozzi assoldati a tempo pieno, più le armi, i biglietti aerei e tutto il resto; una Tahoe e un terzo uomo con una Suburban che viene sacrificata in quel modo. Sono un sacco di soldi e, probabilmente, rappresentano solo la punta dell'iceberg. Tutto ciò implica un affare di milioni di dollari, come minimo. Rutter non può aver accumulato tutti quei soldi rubando ai vecchietti diciottomila dollari a botta.»

«Allora di chi diamine si tratta?»

Reacher si limitò ad alzare le spalle e continuò a guidare, senza perdere di vista lo specchietto retrovisore.

Hobie ricevette la telefonata da Hanoi nella propria abitazione. Ascoltò il breve rapporto della vietnamita e riattaccò, senza parlare. Rimase immobile, al centro del salotto, inclinò la testa di lato e chiuse l'occhio buono come se stesse guardando qualcosa di fronte a sé. Come se stesse osservando una palla da baseball uscire dal diamante e salire verso i riflettori, poi un giocatore esterno indietreggiare sotto di essa, la recinzione sempre più vicina. La palla avrebbe superato la rete? Oppure no? Hobie non poteva saperlo.

Attraversò il salotto e uscì sul terrazzo. L'appartamento, al trentesimo piano, era rivolto a ovest e si affacciava su un parco. Hobie odiava quella vista: tutti quegli alberi gli ricordavano l'infanzia. Tuttavia quella posizione aumentava il valore dell'immobile, il che cambiava tutto. Lui non era responsabile del modo in cui i gusti degli altri pilotavano il mercato, era lì solo per beneficiarne. Volse lo sguardo a sinistra e scorse il grattacielo che ospitava il suo ufficio. Le Twin Towers sembravano più basse di quanto non fossero in realtà, a causa della curvatura terrestre. Hobie rientrò in salotto, chiuse la porta scorrevole e uscì dall'appartamento, prendendo l'ascensore fino al garage.

La sua auto non era stata modificata per facilitarlo nella guida. Era una berlina Cadillac ultimo modello, con accensione e marce automatiche a destra del volante. Inserire e ruotare la chiave era difficoltoso: doveva pie-garsi e usare la sinistra. I problemi si limitavano però all'accensione. Inserì la prima usando l'uncino e uscì dal garage, maneggiando il volante con la sola mano sinistra, l'uncino sulle ginocchia. Superata la 59th Street, iniziò a sentirsi meglio. Il parco terminava e iniziavano i canyon profondi e rumorosi dei palazzi di Midtown. Il traffico lo confortava; l'aria condizionata della Cadillac gli alleviava il prurito delle cicatrici. Giugno era il mese peggiore: la combinazione di umidità e caldo lo faceva impazzire, anche se l'aria condizionata dell'auto gli dava un po' di sollievo. Si domandò se l'impianto della Mercedes di Stone sarebbe stato altrettanto efficace. Forse no. Non si era mai fidato delle macchine straniere. Decise che l'avrebbe venduta; conosceva un tizio, nel Queens, che l'avrebbe presa a occhi chiusi... però sarebbe stata una faccenda in più da sbrigare. C'era ancora molto da fare e il tempo stringeva.

Parcheggiò nel garage sotterraneo, nello spazio precedentemente occupato dalla Suburban. Si protese, sfilò la chiave e chiuse la Cadillac. Salì con l'ascensore rapido. Tony era alla reception.

«Hanoi ha chiamato ancora. È in volo», annunciò Hobie.

Tony distolse lo sguardo.

«Che c'è?» s'insospettì Hobie.

«Dovremmo abbandonare l'affare Stone», suggerì il segretario.

«C'impiegheranno qualche giorno, giusto?»

«Qualche giorno potrebbe non essere abbastanza. Ci sono alcuni impre-visti. La donna sostiene che ha parlato col marito e che firmeranno, ma che esistono complicazioni che noi non conosciamo», riferì Tony.

«Quali complicazioni?»

«Non ha voluto dirmelo. Vuole parlare direttamente con te.»

Hobie fissò la porta dell'ufficio. «Sta scherzando, vero? Sarà meglio che non faccia sul serio. Non posso permettermi complicazioni, in questo momento. Ho appena concordato la vendita dei terreni, tre contratti separati.

Ho dato la mia parola. Il meccanismo è ormai in moto. Quali complicazioni?»

«Non ha voluto dirmelo», ripeté il segretario.

A Hobie cominciò a prudere il volto. Non c'era aria condizionata nel garage e la breve camminata fino all'ascensore gli aveva irritato la pelle. Si premette l'uncino sulla fronte, cercando un po' di sollievo nel metallo, ma anche quello sembrava caldo.

«E che mi dici della Jacob?» s'informò.

«È stata in casa tutta la notte. Con quel Reacher. Ho controllato. Stavano ridendo di qualcosa, stamattina: li ho sentiti dal corridoio. Poi sono andati in auto da qualche parte, a nord sulla FDR Drive. Forse sono tornati a Garrison.»

«Non la voglio a Garrison. La voglio qui. E anche lui.»

Tony rimase in silenzio.

«Portami la signora Stone», ordinò Hobie.

Entrò in ufficio e andò alla scrivania. Tony si diresse in bagno. Ne uscì un istante dopo, spingendo Marilyn. La donna aveva l'aria stanca; il vestito di seta appariva grottescamente inadeguato alla situazione.

Hobie indicò il divano. «Siediti, Marilyn», la invitò.

La donna rimase in piedi. Il sofà era troppo basso. Troppo basso per se-dervisi con una gonna corta e troppo basso per ottenere il vantaggio psicologico di cui aveva bisogno. Ma anche rimanere in piedi davanti alla scrivania non le avrebbe giovato perché sarebbe sembrata troppo supplicante.

Quindi aggirò il tavolo e si avvicinò alle finestre. Aprì le veneziane e osservò il paesaggio. Poi si voltò e si appoggiò al davanzale, obbligando Hobie a ruotare la sedia per guardarla.

«Quali sono queste complicazioni?» chiese lui.

Marilyn lo guardò e trasse un respiro profondo. «Ci arriveremo tra poco.

Prima però portiamo Sheryl in ospedale.»

Nella stanza calò il silenzio, interrotto soltanto dai soliti rumori dell'edificio. A ovest, in lontananza - forse addirittura da Jersey City -, si udì il debole suono di una sirena.

«Quali sono queste complicazioni?» chiese di nuovo Hobie con la medesima voce e la stessa intonazione, quasi fosse disposto a sorvolare sull'errore che lei aveva commesso.

«Prima l'ospedale», insistette Marilyn.

Di nuovo silenzio. Hobie si voltò a guardare Tony. «Porta qui Stone», ordinò.

Stone giunse, barcollante, in canottiera e mutande, le nocche di Tony af-fondate nella schiena per tutto il tragitto fino alla scrivania; sbatté la tibia contro il tavolino da caffè ed emise un gemito di dolore.

«Di quali complicazioni si tratta?» gli chiese Hobie.

Chester si limitò a guardarsi intorno con gli occhi strabuzzati, come se fosse troppo impaurito e disorientato per parlare. Hobie attese, poi ordinò a Tony: «Rompigli una gamba».

Quindi si voltò verso Marilyn. Ancora silenzio. Nessun rumore eccetto la respirazione affannosa di Stone e il rimbombo del grattacielo. Hobie fissò la donna e lei fece altrettanto.

«Fallo. Spaccagli quella dannata gamba. Perché dovrebbe importarmi?»

sbottò Marilyn. «Mi ha gettato sul lastrico, mi ha rovinato la vita. Spacca-gliele tutte e due, se credi. Ma questo non ti farà ottenere ciò che vuoi più rapidamente. Se esistono difficoltà, prima ne parleremo, meglio sarà. Però non lo faremo finché Sheryl non sarà in ospedale.» Si appoggiò al davanzale, le spalle e le braccia rigide. Sperava la facessero apparire rilassata, ma, in realtà, si era messa in quella posizione per non cadere a terra. «Prima l'ospedale», ripeté. Era tanto concentrata sulla propria voce che le sembrò appartenere a un'altra persona. Ne fu lieta. Aveva proprio il tono giusto: suonava bassa, decisa, uniforme e tranquilla in quell'ambiente silenzioso. «Poi trattiamo. A te la scelta», aggiunse.

Il giocatore esterno stava saltando sempre più in alto, il guanto sollevato, e la palla stava scendendo. Il guanto era più alto della recinzione. La traiet-toria della palla, però, era troppo vicina. Hobie picchiettò l'uncino sulla scrivania e il rumore riecheggiò forte, nel silenzio. Stone lo stava fissando.

Hobie lo ignorò e si rivolse a Tony. «Porta quella troia in ospedale», ordinò, brusco.

«Chester deve andare con loro per controllare. La deve vedere entrare, da sola, al pronto soccorso. Io rimango come garanzia», incalzò Marilyn.

Hobie smise di picchiettare. La guardò e sorrise. «Non ti fidi di me?»

«No. Non mi fido di te. Potresti portarla via di qui e rinchiuderla da qualche altra parte.»

Hobie stava ancora sorridendo. «Lungi da me un pensiero simile! Avevo intenzione di farla uccidere da Tony e di farla gettare in mare.»

Di nuovo una pausa di silenzio. Dentro di sé, Marilyn tremava come una foglia.

«Sei sicura di voler fare così? Se dice una sola parola a quelli dell'ospedale, tu verrai uccisa. Questo lo sai, vero?» chiese Hobie.

«Non dirà niente a nessuno. Non se sa che io sono ancora qui.»

«Prega che non lo faccia.»

«Non lo farà. Ma qui non si tratta di noi. Si tratta di lei. Ha bisogno di aiuto.»

Marilyn lo fissò, aggrappandosi alla finestra. Sentiva le gambe cedere.

Stava cercando un segno di compassione sul volto dell'usuraio, una minima ammissione di colpa. Lui ricambiò lo sguardo, ma non c'era traccia di pentimento sul suo viso, soltanto irritazione. La donna deglutì, respirò pro-fondamente e aggiunse: «Ha bisogno di una gonna. Non può uscire senza.

La guarderanno con sospetto e l'ospedale coinvolgerà la polizia. Nessuno di noi lo vuole, perciò Tony deve andare a comprarle una gonna nuova».

«Prestale il tuo vestito. Toglitelo e daglielo», propose Hobie, ironico.

Seguì un lungo silenzio.

«Non le andrebbe», rispose Marilyn.

«Ma non è questa la ragione, vero?»

La donna non rispose.

«D'accordo», acconsentì Hobie.

La signora Stone deglutì ancora. «E un paio di scarpe», incalzò.

«Che cosa?»

«Ha bisogno di un paio di scarpe. Non può andare scalza.»

«Gesù! Poi che altro?» sibilò Hobie.

«Poi trattiamo. Non appena Chester torna e mi conferma che l'ha vista entrare in ospedale, da sola, sana e salva.»

Hobie sfiorò con le dita della mano sinistra la curva dell'uncino. «Sei una donna intelligente», ammise.

Lo so. E questa è la prima delle tue complicazioni, pensò Marilyn.

Reacher posò la borsa sportiva sul divano bianco, sotto la copia di Mondrian. La aprì e la rovesciò. 39.300 dollari in contanti, in mazzette da cinquanta. Li divise a metà, gettando le mazzette a destra e a sinistra, alle estremità opposte del sofà. Quando ebbe terminato, c'erano due mucchi impressionanti.

«Quattro viaggi in banca e versamenti inferiori ai 10.000 dollari, per evitare controlli e interrogatori, intesi? Li metteremo sul mio conto e spedi-remo agli Hobie un assegno circolare di 19.650 bigliettoni. Usufruiremo della nostra metà mediante la mia carta di credito, va bene?» propose Jodie.

Reacher annuì. «Abbiamo bisogno di due biglietti aerei per St. Louis, nel Missouri, e di una camera in un hotel. Con 19.000 dollari in banca possiamo permetterci un albergo decente e la business class!»

«Come potrei volare in economica?» scherzò Jodie. Gli gettò le braccia intorno alla vita, si alzò sulle punte dei piedi e lo baciò sulla bocca. Lui ricambiò appassionatamente.

«È divertente, vero?» chiese la donna.

«Forse per noi, ma non per gli Hobie», rispose Jack.

Insieme, fecero tre viaggi in tre banche distinte; in una quarta, Jodie fece il deposito finale e ordinò l'emissione di un assegno circolare a favore di Tom e Mary Hobie per la somma di 19.650 dollari. L'impiegato infilò l'assegno in una busta e la donna lo mise in borsa. Poi, tenendosi per mano, tornarono verso la casa di Jodie, in modo che lei potesse preparare una valigia per il viaggio. Lei mise l'assegno nell'armadio e si diresse al telefono.

Decise che, dal JFK, a quell'ora della giornata, la compagnia aerea più adatta sarebbe stata la United. «Prendiamo un taxi?» chiese poi.

«Andremo in macchina», rispose Jack.

Il potente motore V-8 fece un rumore infernale nel garage sotterraneo.

Jack premette l'acceleratore e frenò bruscamente un paio di volte, un ghigno divertito sul volto. L'auto ballonzolò a destra e a sinistra sugli ammor-tizzatori.

«Il prezzo dei giocattoli», esclamò Jodie.

Reacher la guardò, incuriosito da quell'espressione.

«Non l'hai mai sentito dire? La differenza tra gli uomini e i bambini sta nel prezzo dei loro giocattoli», spiegò lei.

Jack diede un'accelerata e, sorridendo, precisò: «Questo è costato solo un dollaro».

«Due li hai già sprecati in benzina», lo riprese scherzosamente Jodie.

Reacher guidò l'auto su per la rampa del garage, si diresse a est, verso il Midtown Tunnel, e prese la 495 per la Van Wyck Expressway, per poi in-filarsi nel labirinto di strade che conducevano al JFK.

«Va' nel parcheggio a pagamento», gli consigliò Jodie. «Ora possiamo permettercelo, giusto?»

Jack dovette lasciare la Steyr col silenziatore sotto il sedile dell'auto. Sarebbe stato impossibile superare i controlli dell'aeroporto con un'arma in tasca. Lasciarono la Lincoln nel parcheggio di fronte all'edificio della United e cinque minuti più tardi si trovavano alla biglietteria della United a comprare due biglietti in business class, di sola andata, per St. Louis. I biglietti costosi diedero loro il diritto di attendere in una sala speciale, in cui una hostess servì loro il caffè in tazze di porcellana, accompagnandolo con una copia gratuita del Wall Street Journal. Reacher portò la borsa di Jodie fino all'aeroplano. I sedili della business, ampi e comodi, erano disposti a coppie, su sei file.

«È un'esperienza nuova», si entusiasmò Reacher, sorridendo.

Prese posto sul sedile vicino al finestrino. Aveva anche spazio per allun-gare le gambe. La poltrona era tanto larga che avrebbe potuto ospitare ben due Jodie: la ragazza infatti, sottile com'era, quasi vi si perdeva. La hostess portò loro un succo di frutta, ancor prima che l'aereo rullasse. Pochi minuti dopo, erano in volo, diretti a ovest, sopra la punta meridionale di Manhattan.

Tony tornò in ufficio con un sacchetto rosso di Talbot's e una borsa marrone di Bally, i manici di corda che pendevano dal pugno chiuso. Marilyn prese il tutto e lo portò in bagno. Dopo cinque minuti, uscì con Sheryl. La gonna nuova era della taglia giusta, ma del colore sbagliato: non si accordava affatto con le scarpe, che, oltretutto, erano troppo grandi. Il viso della donna era un disastro; lo sguardo era assente e remissivo, come consiglia-tole da Marilyn.

«Che cosa dirai ai medici?» le chiese Hobie, sospettoso.

Sheryl guardò in un'altra direzione, cercando di concentrarsi sulle istruzioni che le aveva dato Marilyn. «Che ho sbattuto contro una porta», rispose, la voce bassa e nasale. Monotona, come se fosse ancora sotto shock.

«Hai intenzione di chiamare la polizia?»

La donna scosse il capo. «No, non lo farò.»

Hobie annuì. «Che cosa accadrebbe se lo facessi?»

«Non lo so», rispose senza inflessione.

«La tua amica Marilyn morirebbe, dopo una terribile agonia. Capisci che cosa intendo?»

Sollevò l'uncino e lasciò che lo sguardo della donna si focalizzasse sul metallo. Poi si alzò, aggirò la scrivania e raggiunse Marilyn alle spalle. Le spostò i capelli con l'uncino e le sfiorò la pelle con la mano sinistra. La signora Stone s'irrigidì. Lui le toccò la guancia con la curva dell'uncino.

Sheryl annuì debolmente. «Sì, capisco», rispose.

Dovevano muoversi rapidamente perché, sebbene Sheryl fosse di nuovo vestita, Chester era ancora in boxer e canottiera. Tony li fece attendere nella reception finché non arrivò il montacarichi, poi li spintonò lungo il corridoio e dentro l'ascensore. Dopo aver sbirciato nel garage per assicurarsi che non ci fosse nessuno, li condusse alla Tahoe, spingendo Chester sul sedile posteriore e Sheryl su quello anteriore. Accese il motore e chiuse le porte con la sicura. Salì la rampa e s'immise sulla strada.

Facendo mente locale, pensò ad almeno sei ospedali di Manhattan che, per quanto ne sapesse, avevano il pronto soccorso. Il suo istinto gli suggeriva di andare a nord, magari fino al Mount Sinai, sulla lOOth Street, perché sarebbe stato più sicuro mettere una certa distanza tra l'ufficio e ovunque Sheryl avesse intenzione di andare. Ma il tempo stringeva. Andare là e tornare avrebbe richiesto almeno un'ora. Un'ora che non potevano permettersi di sprecare. Perciò decise per il St. Vincent, tra la llth Street e la 7th Avenue. Il Bellevue, tra la 27th Street e la 1st Avenue, era più comodo dal punto di vista della collocazione geografica, ma, solitamente, pullulava di sbirri: sembrava quasi che vi abitassero! Perciò sarebbero andati al St.

Vincent. Inoltre sapeva che quell'ospedale aveva un grande piazzale antistante l'entrata del pronto soccorso, dove Greenwich Avenue incrociava la 7th Street. Ricordava la disposizione delle strade dal giorno in cui erano andati a catturare la segretaria di Costello. Una vasta area, dalla quale potevano osservare i suoi movimenti, senza avvicinarsi troppo.

Il viaggio durò otto minuti. Tony parcheggiò accanto al marciapiede, sul lato occidentale della 7th Avenue, e premette il pulsante per aprire le portiere.

«Scendi», ordinò alla donna.

Lei aprì la porta e scivolò, lenta, sul marciapiede. Rimase immobile, in-certa, poi s'incamminò senza voltarsi indietro. Tony chiuse la portiera e si girò verso Stone. «E adesso guardala», esclamò.

Stone la stava già osservando. Vide il traffico fermarsi e la luce del semaforo diventare verde. La vide avanzare in mezzo alla folla, inebetita.

Camminava più lentamente degli altri e strisciava le scarpe troppo grandi sull'asfalto. Teneva una mano sollevata, per coprirsi il volto. Raggiunse il marciapiede opposto quando il semaforo pedonale era già rosso da qualche secondo. Un furgone impaziente sterzò a destra e la scansò. La donna procedette verso l'entrata dell'ospedale, attraverso l'ampio piazzale e la zona delle ambulanze. Davanti a sé, una porta a vento, di plastica rovinata, e un trio d'infermiere, la sigaretta in mano. Sheryl le superò e raggiunse l'entrata. La porta si richiuse alle sue spalle.

«Va bene, hai visto?»

«Sì, ho visto. È entrata», confermò Stone.

Tony diede un'occhiata allo specchietto e s'immise nel traffico. Quand'ebbe percorso cento metri in direzione sud, la donna era ormai seduta nella sala d'attesa, intenta a ripassare mentalmente tutto ciò che Marilyn le aveva detto di fare.

Il tragitto in taxi dall'aeroporto di St. Louis all'edificio del National Per-sonnel Records Center fu breve e poco costoso. Il luogo era familiare a Reacher. Molti dei suoi viaggi di lavoro per conto dello Stato avevano comportato almeno una visita agli archivi, per un motivo o per l'altro. Pe-rò, in quell'occasione, sarebbe stato diverso: si sarebbe presentato in abiti civili, il che, era ovvio, non sarebbe stato lo stesso che indossare un'uniforme da maggiore.

L'accesso al pubblico era controllato dagli addetti alla reception. Sebbene l'archivio fosse pubblico, il personale faceva di tutto per tenere nascosta quella informazione. In passato, anche Reacher era stato d'accordo con quella politica. I documenti militari vanno letti e interpretati in un preciso contesto e lui era lieto che venissero tenuti lontano dal pubblico. Ma, ormai, anche lui era il pubblico, e si stava domandando che cosa sarebbe accaduto. C'erano milioni di fascicoli ammucchiati in decine di stanzoni, e sarebbero potuti passare giorni o settimane prima che il personale trovasse qualcosa, pur facendo finta di correre a destra e a manca e di fare del proprio meglio. Aveva visto più volte la scena, dall'interno.

Dopo aver pagato il taxi, si fermarono qualche istante sotto il sole co-cente del Missouri per decidere la strategia da seguire. Entrarono e videro subito il grande cartello: UN FASCICOLO PER VOLTA. Si misero in fila davanti all'impiegata, una donna grassa, di mezz'età, con l'uniforme da sergente, impegnata a svolgere un lavoro il cui unico scopo era quello di far attendere gli utenti. Dopo una breve attesa, il sergente porse loro due questionari e indicò un tavolino cui era legata una matita con un pezzo di spago. I fogli erano richieste di accesso. Jodie si firmò come Jacob e richiese tutto il materiale informativo sul maggiore Jack Reacher, della divisione investigativa dell'esercito. Reacher, invece, chiese informazioni sul generale Leon Jerome Garber. Consegnò entrambe le richieste al sergente, che, dopo aver dato loro un'occhiata, le ripose nel raccoglitore per i moduli in uscita. Poi la donna suonò un campanello che aveva accanto al gomito e riprese il lavoro. Qualche soldato semplice, sentito il campanello, sarebbe andato a prendere i formulari e avrebbe cominciato a cercare gli incarta-menti.

«Chi funge da sovrintendente, al momento?» s'informò Reacher.

Il sergente cercò un modo per evitare di rispondere a quella domanda diretta, ma non trovò scappatoie. «Il maggiore Theodore Conrad», rispose riluttante.

Conrad? Il nome non ricordava nulla a Reacher.

«Potrebbe dirgli gentilmente che vorremmo parlargli, solo per qualche minuto? E potrebbe mandare quei fascicoli nel suo ufficio?»

Jack pronunciò quelle parole con un tono che era una via di mezzo tra una richiesta gentile e un tacito comando, un tono di voce che aveva sempre trovato molto utile coi sergenti. La donna, in effetti, prese il telefono e chiamò.

«Vi farò accompagnare di sopra», disse lei, come sbalordita dal fatto che Conrad accogliesse la loro richiesta.

«Non ce n'è bisogno. So dove si trova. Sono stato qui altre volte», rispose Reacher.

Jack guidò Jodie lungo le scale, fino a uno spazioso ufficio al secondo piano. Il maggiore Theodore Conrad li stava aspettando sulla porta. Uniforme estiva, il nome scritto su una targhetta sopra il taschino della camicia. Sembrava un tipo amichevole, forse un po' inacidito a causa della posizione: doveva avere sui quarantacinque anni e, se a quell'età era ancora maggiore al secondo piano dell'NPRC, significava che non aveva grosse speranze di fare carriera. Un soldato semplice gli stava andando incontro con due spessi fascicoli in mano. Reacher sorrise. Stavano riservando loro un trattamento speciale: quando volevano, sapevano essere rapidi. Conrad prese i fascicoli e congedò il fattorino.

«Che cosa posso fare per voi, signori?» chiese. La parlata era lenta e strascicata, come il Mississippi che attraversava la terra d'origine di quell'uomo, ma il tono era abbastanza cordiale.

«Be', abbiamo bisogno del suo aiuto, maggiore», rispose Reacher. «E

speriamo che, dopo aver letto quei documenti, non vorrà negarcelo.»

Conrad diede un'occhiata ai fascicoli, poi si scostò e li fece accomodare nel suo ufficio, una stanza tranquilla, rivestita di pannelli di legno. Il maggiore indicò loro una coppia di poltrone di pelle e si sedette alla scrivania.

Apri il primo incartamento, quello su Leon, e si mise a sfogliarlo. Impiegò non più di dieci minuti per capire.

Nel frattempo, Reacher e Jodie guardavano il panorama dalla finestra.

La città pareva cuocere sotto un sole bianco.

Dopo aver terminato coi fascicoli, Conrad si soffermò sui nomi scritti sui formulari. Poi sollevò lo sguardo. «Due fascicoli eccellenti! Molto, molto impressionanti. E, ovviamente, lei è Jack Reacher in persona, e la signora è Jodie Jacob, ossia Jodie Garber, indicata qui come la figlia del generale. Dico bene?» indovinò.

Jodie annuì con un sorriso.

«Immaginavo», continuò Conrad. «E credete che, essendo, per così dire, di famiglia, avrete più facilmente accesso agli archivi?»

Reacher scosse il capo in maniera decisa. «Non ci è mai passato per la mente. Sappiamo che tutte le richieste di accesso sono trattate con assoluta imparzialità», ribatté.

Conrad scoppiò a ridere. «È rimasto impassibile. Molto, molto bene. Lei gioca a poker? Dovrebbe farlo, sa? Allora, in che cosa posso esservi utile?»

«Abbiamo bisogno di tutto ciò che ha su un certo Victor Truman Hobie», rispose Jack.

«Vietnam?»

«Lo conosce?» chiese Reacher, sorpreso.

«Mai sentito nominare. Tuttavia, con Truman come secondo nome, de-v'essere per forza nato tra il 1945 e il 1952, giusto? Troppo giovane per la Corea e troppo vecchio per il Golfo...»

Reacher annuì. Quel Theodore Conrad cominciava a piacergli. Era un ti-po acuto e sarebbe stato curioso di sfogliare il suo fascicolo per scoprire la ragione per cui era ancora un maggiore dietro una scrivania, alla sua età.

«Mi faccio portare ciò che abbiamo. È un piacere», disse Conrad.

Sollevò la cornetta del telefono e chiamò direttamente l'archivio, senza passare per il sergente della reception. Strizzò l'occhio a Reacher e chiese il fascicolo di Hobie. Poi si abbandonò sulla sedia in silenzio finché, cinque minuti dopo, un soldato non giunse col raccoglitore.

«Hanno fatto in fretta», esclamò Jodie.

«In realtà, sono stati un po' lenti», ribatté Conrad. «Consideri la situazione dal punto di vista del soldato semplice. Ascolta la mia richiesta, H

per Hobie, corre alla sezione H, individua il fascicolo grazie alle iniziali, lo prende e corre quassù. I miei uomini ricevono l'addestramento standard dell'esercito americano; questo significa che possono percorrere più di un miglio in cinque minuti. E, per quanto questo luogo sia grande, il percorso dalla sua scrivania alla sezione H e da lì al mio ufficio misura molto meno di un miglio, mi creda. Perciò è stato un po' lento. Sospetto che il sergente l'abbia bloccato per farmi dispetto.»

Sulla copertina del dossier di Hobie, vecchia e impolverata, era allegato un foglio, su cui qualcuno, in bella calligrafia, aveva annotato le richieste di consultazione: due in tutto. Conrad indicò i nomi.

«Richieste telefoniche. Una da parte del generale Garber, nel marzo di quest'anno, l'altra di un certo Costello, che ha chiamato da New York, al-l'inizio della settimana scorsa. Come mai tutto questo interesse?» Conrad appariva incuriosito.

«È quello che speriamo di scoprire», rispose Jack.

Un soldato che ha combattuto ha un fascicolo piuttosto voluminoso, in particolare un soldato che ha combattuto trent'anni or sono. Tre decenni sono sufficienti affinché ogni rapporto e ogni annotazione finiscano esattamente nel posto giusto. I documenti di Victor Hobie formavano, in effetti, una pila compressa di cinque centimetri, intorno alla quale si era model-lata la vecchia copertina impolverata, che a Reacher ricordò il portafoglio di pelle nera di Costello, quello che aveva visto al bar di Key West. Avvicinò la poltrona a quella di Jodie e al bordo della scrivania di Conrad.

Questi posò la cartelletta, la girò sul piano di legno e la aprì, come se stesse mostrando un raro tesoro a collezionisti interessati.

Le istruzioni di Marilyn erano state chiare e Sheryl le seguì alla lettera.

Primo: farsi curare. La donna andò all'accettazione e attese il proprio turno su una dura sedia di plastica. Il pronto soccorso del St. Vincent era me-no affollato del solito, così Sheryl venne visitata dieci minuti dopo da una dottoressa che avrebbe potuto essere sua figlia.

«Com'è accaduto?» le chiese il medico.

«Ho sbattuto contro una porta», rispose Sheryl.

La dottoressa la condusse dietro una tenda e la fece sedere su un lettino per le visite. Iniziò col controllare i riflessi degli arti. «Una porta? Ne è proprio sicura?»

Sheryl annuì, decisa a rimanere fedele alla sua storia, come Marilyn l'aveva supplicata di fare. «Era semiaperta. Mi sono voltata di scatto e non l'ho vista», spiegò.

Il medico le illuminò con una pila l'occhio sinistro, poi il destro. «Vede offuscato?»

«Un po'.»

«Mal di testa?»

«Insopportabile.»

Il medico tacque per un istante e, dopo aver analizzato il modulo d'accettazione, decise: «Bene, faremo una radiografia al viso, ovviamente, ma ne voglio anche una del cranio. Inoltre faremo una TAC per vedere che cos'è accaduto esattamente là dentro. Ha una buona assicurazione, perciò chiamerò subito un chirurgo in modo che le dia un'occhiata, nel caso abbia bisogno di un intervento ricostruttivo. Sa, prima s'inizia meglio è! Ora deve svestirsi e stendersi. Poi le darò un antidolorifico per il mal di testa».

Sheryl ricordò la raccomandazione di Marilyn: Fa' la telefonata prima del sedativo, altrimenti ti addormenterai e te ne scorderai, le aveva detto.

«Devo fare una telefonata», esclamò.

«Possiamo chiamare noi suo marito, se vuole», propose la dottoressa in tono neutro.

«No, non sono sposata. Devo chiamare un avvocato per conto di una persona.»

«Va bene, in fondo al corridoio. Ma sia rapida.»

Sheryl si diresse ai telefoni situati di fronte alla sala d'attesa. Chiamò l'operatore e chiese di poter effettuare una chiamata a carico del destinata-rio, come le aveva suggerito Marilyn. Ripeté il numero memorizzato. Al secondo squillo, udì la risposta.

«Forster & Abelstein. In che cosa posso aiutarla?» chiese una voce argentina.

«Chiamo per conto del signor Chester Stone. Ho bisogno urgente di parlare col suo avvocato.»

«Dovrebbe essere il signor Forster in persona... Attenda, prego.»

Mentre Sheryl ascoltava l'interludio musicale, anche la dottoressa, a pochi metri di distanza, stava facendo una telefonata, ma all'Unità violenze domestiche della polizia di New York. «Qui è il St. Vincent. Ne ho un'altra per voi. Dice che ha sbattuto contro una porta e non ammette nemmeno di essere sposata, figuriamoci di essere stata picchiata. Potete venire a inter-rogarla quando volete.»

Il primo documento del fascicolo era la domanda originale d'arruolamento di Victor Hobie. La carta era vecchia e ingiallita sui bordi, e recava la stessa calligrafia da scolaro mancino che Jack e Jodie avevano visto nelle lettere ai genitori. Conteneva informazioni sulla carriera scolastica, sul desiderio di pilotare elicotteri e nient'altro d'interessante. Da quella richiesta non emergeva di certo l'immagine di un astro nascente, Ma, a quel tempo, per ogni volontario c'era una ventina di ragazzi che acquistavano biglietti di sola andata per il Canada, perciò gli addetti all'arruolamento avevano agguantato Hobie e lo avevano spedito dritto dal medico. Lo avevano sottoposto a un controllo d'idoneità al volo, una visita più severa di quella tradizionale, in particolare per quanto riguardava la vista. Era stato giudicato al massimo della forma: 1,85 di altezza, 76 chili di peso, 10/10 di vista, buona capacità polmonare, nessuna malattia infettiva. La visita risaliva all'inizio della primavera. Reacher riusciva quasi a immaginare il ragazzo, pallido per l'inverno newyorkese, in mutande, in piedi su un pavimento di legno con un metro a nastro intorno al petto.

Il secondo documento indicava che gli erano stati dati alcuni buoni per il viaggio e gli era stato ordinato di recarsi a Fort Dix entro due settimane. Il fascicolo successivo proveniva da laggiù. Iniziava col modulo firmato al-l'arrivo, con cui Hobie s'impegnava irrevocabilmente a prestare servizio nell'esercito statunitense. Fort Dix prevedeva un addestramento base di dodici settimane e sei valutazioni di abilità. In tutte Hobie era risultato superiore alla media, però nessuna recava commenti particolari. C'erano poi una domanda di buoni viaggio per Fort Polk e una copia dell'ordine di recarsi in quella base per un mese di addestramento avanzato in fanteria. Alcune note registravano i suoi progressi con le armi. Aveva ottenuto buoni voti il che, a Polk, aveva una certa importanza. A Fort Dix si era giudicati idonei se si riusciva semplicemente a riconoscere il tipo di fucile a dieci metri di distanza; a Polk, un buon punteggio significava un'eccellente co-ordinazione visivo-motoria, un controllo muscolare costante e un carattere tranquillo. Pur non essendo un esperto di volo, Reacher era convinto che gli istruttori sarebbero stati lieti di affidare un elicottero a un ragazzo del genere. Seguivano altri buoni viaggio, questa volta per Fort Wolters, nel Texas, dove sorgeva la US Army Primary Helicopter School. C'era un'annotazione, inserita dall'ufficiale comandante di Polk: Hobie aveva rifiutato una settimana di licenza e si era recato subito sul luogo dell'addestramento.

Era una semplice nota dalla quale tuttavia traspariva una grande approvazione. «Ecco un ragazzo che non vede l'ora di partire», sembrava dire. A Fort Wolters il volume della documentazione era cresciuto. Era stato un soggiorno di cinque mesi, una cosa seria, simile all'università. In primo luogo, c'era un mese di addestramento teorico pre-volo, che prevedeva lo studio approfondito di materie quali fisica, aeronautica e navigazione. Hobie aveva superato tutti gli esami di fine corso in modo eccellente. Il ta-lento per la matematica che il padre aveva sperato impiegasse per gestire la contabilità della tipografia gli aveva permesso di raggiungere un ottimo punteggio. L'unico breve commento negativo riguardava il suo atteggiamento: un ufficiale lo aveva criticato per aver chiesto favori in cambio di lezioni private. Hobie aveva aiutato alcuni compagni di corso con le equa-zioni complesse e questi, in cambio, gli avevano lucidato gli scarponi e l'e-quipaggiamento. Reacher scrollò le spalle: quell'ufficiale era un coglione.

Il ragazzo stava studiando per diventare un elicotterista, non un santo! I quattro mesi successivi a Wolters erano stati dedicati all'addestramento in volo, inizialmente con gli Hiller H-23. Il primo istruttore di Hobie era stato un certo Lanark, i cui commenti erano sgorbi illeggibili, molto aneddotici e poco militari, talvolta anche divertenti. Il militare sosteneva che imparare a pilotare un elicottero era come imparare ad andare in bicicletta da bambini: all'inizio continui a mettere i piedi a terra, poi, d'un tratto, ti ritrovi a pedalare e non ti dimentichi più come si fa. Secondo Lanark, Hobie aveva forse impiegato più tempo del dovuto a destreggiarsi al comando di un elicottero, ma, successivamente, aveva fatto progressi e la sua valutazione era passata da buono a ottimo. Era stato poi assegnato al Sikorsky H-19, una bicicletta da dieci marce se paragonato all'Hiller, e la sua prestazione era migliorata. Hobie era un istintivo e, quanto più le macchine erano complicate, tanto più riusciva a controllarle. Aveva terminato l'addestramento di Wolters come secondo del corso, con voti ottimi, alle spalle di un asso di nome A.A. DeWitt. Ulteriori buoni viaggio indicavano il trasferimento a Fort Rucker, in Alabama, per quattro mesi di addestramento avanzato.

«Ho già sentito il nome DeWitt. Non mi è nuovo», osservò Reacher.

«Potrebbe essere il generale DeWitt», rispose Conrad. «Attualmente, è a capo della scuola elicotteristi di Wolters. Sembrerebbe logico, no? Verifi-co.»

Chiamò l'archivio e ordinò che gli portassero il fascicolo del generale A.A. DeWitt. Quando riattaccò il telefono, controllò l'orologio. «Dovrebbe impiegarci meno perché la sezione D è più vicina alla sua scrivania rispetto alla H. A meno che quel dannato sergente non lo blocchi di nuovo!»

Reacher accennò un sorriso e si rituffò con Jodie nel passato di Hobie.

Fort Rucker segnava il grande passo: elicotteri d'assalto nuovi di zecca al posto delle vecchie macchine da addestramento, i Bell UH-1 Iroquois, so-prannominati Huey. Macchine tanto enormi da incutere paura, potenti motori a turbina, il tipico uap-uap-uap del rotore, quattordici metri di diametro e con pale larghe cinquanta centimetri. Il giovane Victor ne aveva pilotato uno nei cieli dell'Alabama per diciassette lunghe settimane, poi aveva ricevuto encomi e riconoscimenti alla parata in cui suo padre aveva scattato la foto.

«Tre minuti e quaranta secondi», mugugnò Conrad.

Il soldato entrò in ufficio e gli porse il fascicolo. Conrad si protese per afferrarlo. Il soldato salutò e uscì.

«Questo non ve lo posso mostrare perché il generale è ancora in servizio», spiegò il maggiore. «Ma vi dirò se si tratta dello stesso DeWitt.»

Aprì il fascicolo alla prima pagina e Reacher riconobbe la stessa carta di quello di Hobie.

«È lui. È sopravvissuto alla giungla e, da allora, è rimasto sulla cresta dell'onda. Un fanatico degli elicotteri. Credo che terminerà la carriera giù a Wolters», fece Conrad.

Reacher annuì e guardò fuori della finestra: ormai era pomeriggio.

«Volete un caffè, signori?» chiese Conrad.

«Volentieri», rispose Jodie.

Jack fece un cenno affermativo col capo.

Il maggiore sollevò la cornetta e chiamò la mensa. «Caffè. Non è il no-me di un fascicolo, ma la richiesta di qualcosa da bere. Tre tazze della migliore porcellana, d'accordo?»

Il soldato semplice portò loro il caffè su un vassoio d'argento. Quando arrivò, Reacher era già a Fort Belvoir, in Virginia, con Victor Hobie e il suo nuovo amico A.A. DeWitt della Terza compagnia da trasporto della Prima Divisione cavalleria aerea. I due ragazzi vi restarono per due settimane, abbastanza a lungo perché l'esercito aggiungesse «aerotrasportata»

al nome della loro unità, e poi lo cambiasse in Compagnia B, 229° Battaglione elicotteri d'assalto. Al termine delle due settimane, la compagnia così ridenominata era partita dalla costa dell'Alabama quale parte di un convoglio di diciassette navi, per una traversata di trentuno giorni fino a Long Mai Bay, trentadue chilometri a sud di Qui Nhon, in Vietnam, a diciottomila chilometri dall'America. Trentun giorni in mare, un mese intero, in cui gli ufficiali della compagnia si erano inventati vari lavori per tenere a bada la noia dei loro uomini. Il fascicolo indicava che Hobie aveva fatto domanda in qualità di addetto alla manutenzione, il che significava sciac-quare e ingrassare continuamente gli Huey smontati per proteggerli dalla salsedine. Il commento era positivo. Hobie aveva messo piede sulle spiag-ge dell'Indocina in qualità di tenente, da sottotenente che era quando aveva lasciato gli Stati Uniti, tredici mesi dopo essere entrato nell'esercito come allievo ufficiale. Promozioni meritate per una recluta promettente. Un bravo ragazzo. Reacher ricordò le parole pronunciate da Ed Steven, sotto il sole caldo, fuori del suo negozio di ferramenta: «Molto serio, coscienzioso. Ma in realtà non era fuori dell'ordinario».

«Latte?» chiese Conrad.

Reacher scosse il capo, contemporaneamente a Jodie. «Nero», dissero all'unisono.

Conrad versò il caffè e Reacher continuò a leggere. A quel tempo, esistevano due tipi di Huey: uno era un elicottero da combattimento, l'altro da trasporto, ed era soprannominato Slick, cioè «ottimo, superlativo». Alla Compagnia B vennero assegnati gli Slick per gli approvvigionamenti sul campo di battaglia; ma, sebbene fossero soprattutto «bestie da soma», avevano anche armi. Lo Slick era uno Huey standard, senza portelloni laterali e con una mitragliatrice su ogni lato. Ospitava un pilota e un secondo pilota, due mitraglieri e un capo equipaggio che fungeva da tecnico tuttofare e da meccanico. Lo Slick poteva sollevare tutti i soldati che riusciva a contenere nello spazio compreso tra le due mitragliatrici, oppure una tonnellata di munizioni... o una combinazione di entrambi.

L'addestramento veniva effettuato sul campo perché il Vietnam era molto diverso dall'Alabama. Non esisteva una selezione formale, ma Hobie e DeWitt furono i primi nuovi piloti assegnati alla giungla. Allora si esegui-vano cinque missioni di combattimento come copilota e, se si superavano con successo, si aveva diritto al posto di pilota e a un secondo. Poi iniziava il lavoro serio, come emergeva anche dal fascicolo: la seconda parte era piena di rapporti di missioni, scritti su carta velina. Il linguaggio era tele-grafico e la grafia non apparteneva a Hobie, bensì all'addetto alle comunicazioni della compagnia.

I combattimenti erano stati sporadici. La guerra imperversava intorno a lui, ma Hobie trascorreva lunghi periodi a terra, a causa del brutto tempo.

Magari per giorni, le nebbie e le foschie del Vietnam rendevano rischiosis-simo pilotare gli elicotteri a bassa quota. Poi, all'improvviso, il tempo si rasserenava, ed ecco comparire più rapporti con la stessa data: tre, cinque, a volte sette missioni al giorno per rifornire, trasportare o trarre in salvo le truppe di terra, bersagliate dal fuoco del nemico. Dopodiché la nebbia tornava ad avvolgere la giungla, e gli Huey erano costretti ad attendere pa-zientemente nei loro accampamenti. Reacher s'immaginò Hobie, steso nella sua branda per giorni e giorni, frustrato o sollevato, annoiato o teso, fino al giorno in cui si gettava di nuovo in azioni terrificanti, per ore e ore di snervanti combattimenti.

I rapporti erano divisi in due da documenti che indicavano la fine del primo turno, il conferimento di routine della medaglia, il lungo congedo a New York, e l'inizio del secondo turno. Poi seguivano altri rapporti di combattimenti. Stesso lavoro, stessi schemi. I rapporti del secondo turno erano però meno numerosi. L'ultimo foglio del fascicolo registrava la 991a missione di combattimento del tenente Victor Hobie. Non si trattava di una missione di routine, ma di un incarico speciale. Hobie era decollato da Pleiku, diretto a est, verso una zona d'atterraggio improvvisata, vicino al passo An Khe. Aveva avuto ordine di volare laggiù con uno dei due Slick e di evacuare il personale che attendeva in quell'area. DeWitt gli faceva da pilota d'appoggio. Hobie era giunto per primo sul posto: era atterrato al centro dell'area delimitata, sotto un pesante fuoco di mitragliatrici proveniente dalla giungla. Era stato visto imbarcare solo tre uomini e risalire quasi immediatamente. L'elicottero era stato colpito più volte, al che le sue mitragliatrici avevano iniziato a sparare alla cieca tra la folta vegetazione.

DeWitt gli volteggiava attorno mentre si sollevava, e aveva visto lo Huey di Hobie ricevere una pesante raffica nei motori. Il suo rapporto formale, registrato dall'addetto, riferiva che il pilota aveva visto il rotore fermarsi e una fiammata nella zona del serbatoio. L'elicottero si era schiantato nella foresta, sei chilometri a ovest della zona di atterraggio, a una velocità che DeWitt aveva giudicato superiore ai centotrenta chilometri orari. DeWitt aveva riferito anche di aver visto un lampo verde tra il fogliame, fatto che di solito indicava l'esplosione del serbatoio. Era stata organizzata una missione di salvataggio, subito interrotta a causa del tempo. Non era stato av-vistato nessun rottame dell'elicottero. Inoltre, dal momento che l'area situata sei chilometri a ovest del passo era considerata foresta vergine impenetrabile, si era supposto che non vi fossero truppe nemiche nelle immediate vicinanze, perciò nessun rischio di cattura immediata. Gli otto uomini dello Huey erano stati dichiarati dispersi in azione.

«Ma perché? DeWitt ha visto l'elicottero esplodere. Per quale ragione considerarli dispersi? Sono rimasti tutti uccisi, giusto?» si stupì Jodie.

Il maggiore si strinse nelle spalle. «Credo di sì. Ma nessuno lo sa per certo. DeWitt ha visto un lampo nel fogliame, nient'altro. Magari era un deposito di munizioni del nemico, colpito dall'elicottero mentre precipitava. Avrebbe potuto essere qualsiasi cosa. Ti consideravano morto in azione solo quando ne erano assolutamente certi, quando c'erano testimoni ocula-ri. Molti caccia sono precipitati a trecento chilometri dalla costa, ma il pilota è stato dichiarato disperso, e non morto, perché sarebbe potuto arrivare a nuoto da qualche parte. Potrei mostrarvi un fascicolo dieci volte più alto di questo, pieno zeppo di ordini che definiscono e ridefiniscono come classificare le vittime.»

«Perché? Avevano forse paura della stampa?» insistette Jodie.

Conrad scosse il capo. «No, sto parlando di procedure interne. Se avessero temuto la stampa, si sarebbero limitati a raccontare bugie. Le vere ragioni erano due, la più importante delle quali era che non volevano commettere errori con le famiglie dei soldati. Credetemi, sono accadute cose davvero strane. Il Vietnam ha rappresentato un'esperienza particolare, vissuta in un ambiente totalmente estraneo. Molti uomini sono sopravvissuti a prove molto ardue. Alcuni sono riapparsi più tardi, altri sono stati ritrovati.

Per tutto il tempo, sono state intraprese massicce azioni di ricerca. Alcuni soldati sono stati catturati, e i vietnamiti non hanno reso note le liste dei prigionieri se non qualche anno più tardi. Non si poteva certo dire ai genitori che il figlio era morto, per poi magari vederlo riapparire un paio d'anni dopo! Per questa ragione l'esercito continuava a considerarli dispersi.» Il maggiore tacque per un istante. «Per quanto riguarda il secondo motivo...

Sì, avevano paura. Ma non della stampa. Avevano paura di se stessi. Paura di ammettere di averle prese, e anche duramente.»

Reacher stava riesaminando il rapporto dell'ultima missione, alla ricerca del nome del secondo pilota. Era un sottotenente di nome F.G. Kaplan ed era stato il compagno regolare di Hobie per gran parte del secondo turno.

«Posso vedere il fascicolo di quest'uomo?» chiese Jack.

«Sezione K? C'impiegherà circa quattro minuti», previde Conrad.

Rimasero seduti, in silenzio, a sorseggiare il caffè finché il soldato non arrivò col dossier di F.G. Kaplan. Era un fascicolo vecchio e voluminoso, delle stesse dimensioni di quello di Hobie. Allegato alla copertina, il medesimo foglio che riportava le richieste di consultazione. Quella più recente era una richiesta telefonica fatta in aprile da Leon Garber. Reacher capovolse l'incartamento e lo aprì al contrario, partendo dalla fine. Il pe-nultimo documento era identico a quello di Hobie: lo stesso rapporto di missione, con lo stesso racconto di DeWitt, scritto dallo stesso impiegato con la stessa calligrafia. Ma l'ultimo foglio del dossier di Kaplan era datato due anni dopo il rapporto della missione. Si trattava dell'accertamento formale, effettuato dopo la debita valutazione delle circostanze da parte del Dipartimento della Difesa, che F.G. Kaplan era stato ucciso in azione, sei chilometri a ovest del passo An Khe, quando l'elicottero sul quale era copilota era stato abbattuto dal fuoco terra-aria del nemico. Nessuno era stato recuperato, ma la morte doveva essere considerata effettiva ai fini sia com-memorativi sia del pagamento pensionistico. Reacher posò il foglio sul tavolo. «Perché Victor Hobie non ha uno di questi?»

Conrad scosse il capo. «Non lo so.»

«Voglio andare in Texas», disse Jack.

L'aeroporto di Noi Bai, alla periferia di Hanoi, e l'Hickam Field, poco fuori Honolulu, hanno in comune la stessa latitudine, perciò lo Starlifter dell'aeronautica statunitense si limitò a percorrere una linea retta da ovest a est sopra il Pacifico, fra il Tropico del Cancro e il ventesimo parallelo.

Novemilaseicento chilometri, novecentosessanta all'ora, dieci ore di volo, eppure il velivolo giunse a destinazione sette ore prima del decollo, alle tre del pomeriggio del giorno prima. Il capitano fece il solito annuncio, mentre sorvolavano la linea del cambiamento di data, e l'americano alto dai capelli argentei, seduto nella parte posteriore della cabina, spostò indietro le lancette dell'orologio, regalando così un giorno alla sua vita.

Hickam Field è la principale struttura militare delle Hawaii, ma divide la pista e il controllo del traffico aereo con l'Honolulu International, perciò lo Starlifter dovette compiere un ampio giro sul mare, in attesa che atterrasse uno JAL 747 proveniente da Tokyo. Poi virò, si livellò e scese, con grande stridore di pneumatici. Alla pilota non interessava fare un atterraggio morbido, tipico dei voli civili, perciò azionò bruscamente i freni e arrestò il velivolo appena in tempo per imboccare la prima pista di rullaggio. L'aeroporto faceva continue richieste affinché gli aerei militari fossero tenuti lontani dai turisti, soprattutto se giapponesi. Tuttavia la pilota, originaria del Connecticut, non si curava di tutelare la più importante industria hawaiia-na, quella turistica, né era preoccupata di non scuotere l'impressionabilità orientale; la prima pista di rullaggio costituiva il tragitto più breve verso la base militare, e quella era la vera ragione per cui tentava sempre d'imboc-carla.

Lo Starlifter procedette lentamente, com'era opportuno, fermandosi a cinquanta metri da un edificio lungo e basso di cemento, accanto alla rete metallica. La pilota spense i motori e rimase seduta, in silenzio. Il personale di terra in alta uniforme marciò verso la pancia del velivolo, trascinando con sé un grosso cavo, che venne agganciato a un foro sotto il muso e che, grazie all'elettricità del campo d'aviazione, riattivò i sistemi dell'aereo: in quel modo, la cerimonia avrebbe potuto svolgersi in silenzio, senza il frastuono dei motori.

Quel giorno, la guardia d'onore di Hickam era costituita dai soliti otto uomini con l'usuale mosaico di uniformi americane: due dell'esercito, due della marina, due del corpo dei marines e due dell'aeronautica. Gli otto avanzarono marciando lentamente, si misero in formazione e attesero in silenzio. La pilota azionò un comando e la rampa del velivolo si abbassò. Si fermò contro l'asfalto rovente del territorio americano e la guardia entrò nella pancia del velivolo. I soldati passarono tra le due file silenziose dei membri dell'equipaggio e raggiunsero la parte anteriore. L'ufficiale di carico sganciò le cinghie di gomma, le guardie sollevarono la prima bara e la issarono sulle spalle. Ripercorsero la fusoliera semibuia e scesero dalla rampa nella luce accecante del pomeriggio; l'alluminio scintillante e la bandiera vivace si stagliarono contro il blu del Pacifico e il verde degli altipiani di Oahu. Girarono a destra, nell'area di stazionamento, e marciarono lenti per i cinquanta metri che li separavano dall'edificio di cemento. Entrarono, s'inginocchiarono e deposero la bara; rimasero in silenzio, le mani dietro la schiena, le teste chine; poi fecero dietrofront e tornarono all'aeroplano, sempre a passo di marcia.

Lo scarico delle sette bare richiese un'ora intera. Solo a lavoro ultimato l'americano dai capelli argentei lasciò il suo posto, scese dalle scalette del pilota e si stirò le membra stanche nel sole caldo.