10

Chester Stone era solo, nel bagno all'ottantottesimo piano. Tony lo aveva costretto a entrarvi, ma senza usare la forza. Gli aveva indicato la porta e Stone si era affrettato a muoversi, in canottiera e mutande, con le calze scure e le scarpe lucide ai piedi. Tony gli aveva ordinato di rimanere là dentro. Quindi aveva chiuso la porta. Chester aveva udito rumori sordi provenire dall'ufficio e, pochi minuti dopo, aveva anche sentito le porte sbattere e l'ascensore avviarsi: il segretario e il sicario dovevano essersene andati. Poi tutto si era fatto buio e silenzioso.

Stone si sedette sul pavimento del bagno, la schiena contro il granito grigio, lo sguardo fisso nel vuoto. La porta non era chiusa a chiave e Chester lo sapeva: non aveva udito clic né scatti quand'era stata chiusa. Aveva freddo; il gelo delle piastrelle si stava insinuando attraverso il cotone sottile dei boxer. Prese a tremare. Inoltre aveva fame e sete. Si mise in ascolto.

Nulla. Si sollevò da terra e raggiunse il lavandino. Aprì il rubinetto, chinò la testa e bevve; toccò coi denti il rubinetto metallico e percepì il gusto clo-rato dell'acqua cittadina. Tenne l'acqua in bocca per idratare la lingua secca, poi la deglutì e chiuse il rubinetto. Attese per un'ora. Un'intera ora seduto sul pavimento, lo sguardo fisso sulla porta. Gli doleva il punto in cui l'uomo l'aveva colpito, un dolore insistente là dove il pugno aveva sfiorato le costole. Ossa contro ossa. Una sensazione di nausea allo stomaco. Tenne lo sguardo fisso sulla porta, tentando di scacciare il dolore. L'edificio rimbombava e brontolava, come se nel mondo vi fossero altre persone, ma molto lontane. Gli ascensori, l'aria condizionata, lo scorrere dell'acqua nei tubi e il fruscio della brezza fuori si univano in un sussurro lieve e confortante, appena udibile. Credette di sentire le porte dell'ascensore aprirsi e chiudersi, forse ottantotto piani più in basso, lievi tonfi sordi che si propa-gavano verso l'alto attraverso le trombe. Aveva freddo, era attanagliato dai crampi, affamato e spaventato. Si alzò, si piegò in preda al dolore e continuò ad ascoltare. Nulla. Trascinò le suole di cuoio sulle piastrelle e rimase immobile, la mano sulla maniglia. Tese l'orecchio, però non udì nessun rumore. Aprì la porta; il grande ufficio era buio e silenzioso. Vuoto. Trascinò i piedi sul tappeto e si fermò accanto alla porta che conduceva nella reception. Trovandosi più vicino all'ascensore, riusciva a udire le cabine in movimento. Avvicinò l'orecchio alla porta e, non udendo nessun rumore, l'aprì. Anche la reception era buia e deserta. Il legno di quercia luccicava debolmente e gli inserti in ottone riflettevano gli scarsi raggi di luce. Sentì il motore di un frigorifero nella cucina alla sua destra, da dove proveniva un odore di caffè.

La porta che dava sul corridoio era chiusa a chiave. Era spessa, probabilmente antincendio, in conformità con le severe direttive cittadine, e rivestita di legno di quercia chiaro; si vedeva il luccichio dell'acciaio nel punto in cui il legno incontrava il telaio. Stone impugnò con forza la maniglia, che non si mosse neppure di un millimetro. Rimase a lungo immobile davanti alla porta, sbirciando dalla minuscola finestrella di vetro reti-colato, a dieci metri dai pulsanti dell'ascensore e dalla libertà. Poi tornò verso il bancone. Visto dal davanti, gli arrivava al petto, mentre dietro era, in realtà, una normale scrivania. La maggiore altezza era dovuta a vari scomparti contenenti articoli di cancelleria e raccoglitori, tutti disposti ordinatamente. Sul tavolo, di fronte alla sedia di Tony, c'era un telefono. Un apparecchio complicato con un ricevitore a sinistra e numerosi pulsanti a destra, disposti sotto un piccolo display oblungo a cristalli liquidi, su cui si leggeva OFF.

Chester portò il ricevitore all'orecchio, ma non udì nessun suono. Premette un paio di pulsanti a caso. Non accadde nulla. Allora li schiacciò tutti, da sinistra a destra, finché non trovò quello con la scritta ON. Lo premette e sul display apparve l'indicazione di digitare il codice. Compose alcuni numeri a caso e il display tornò su OFF. Sotto la scrivania c'era un armadietto con piccole ante di quercia, tutte chiuse. Stone cercò di aprirle, ma udì le linguette metalliche colpire le rispettive placche. Tornò allora nell'ufficio di Hobie. Zigzagò tra i mobili, fino al tavolo. I suoi vestiti parevano scomparsi: sulla scrivania non c'erano e i cassetti erano chiusi a chiave. Era un mobile massiccio, costoso, rovinato dai solchi dell'uncino di Hobie, e la serratura dei cassetti era resistente. Si accucciò, ridicolo negli indumenti intimi, e provò a tirare le maniglie. Si mossero solo di qualche millimetro. Poi notò il cestino della carta, sotto la scrivania. Era un cilindro di ottone, piuttosto basso; lo inclinò e vide il suo portafoglio, vuoto e abbandonato. La fotografia di Marilyn vi giaceva accanto, rovesciata. Sul retro, si leggeva la scritta KODAK. La prese e la voltò. La donna della fo-to gli sorrise. Era un'istantanea a mezzo busto: Marilyn indossava il vestito di seta, quello sexy che si era fatta fare su misura. Lei non sapeva che lui ne era al corrente: si trovava a casa da solo quando il negozio aveva chiamato. Lui li aveva pregati di ritelefonare e di lasciarle credere che lui non sapesse nulla. In quella foto, lo aveva indossato per la prima volta. Sorrideva timidamente, gli occhi luminosi che gli intimavano di non scendere troppo in basso con l'obiettivo, di evitare il punto in cui la seta le fasciava il seno. Fissò l'immagine per qualche istante, poi la ripose nel cestino, non avendo tasche in cui infilarla. Si alzò di scatto, girò attorno alla poltrona di pelle e si diresse verso le finestre. Scostò le veneziane e guardò fuori. Doveva assolutamente fare qualcosa. Ma, sfortunatamente, si trovava all'ottantottesimo piano e fuori della finestra non c'era nulla, eccetto il fiume e il New Jersey. Nessun vicino cui poter chiedere aiuto, magari gesticolando.

Lasciò ricadere le veneziane e perlustrò ogni centimetro dell'ufficio e della reception, per poi tornare nell'ufficio. Niente da fare. Era in una prigione.

Rimase al centro della stanza, tremante, lo sguardo fisso nel nulla. Aveva fame e non aveva idea di che ore fossero. L'ufficio non aveva orologi, lui nemmeno. Il sole stava tramontando. Era tardo pomeriggio, o già sera, e non aveva neppure pranzato. Si trascinò fino alla porta dell'ufficio e tese l'orecchio, per l'ennesima volta. Nessun suono, eccetto i confortanti rumori di sottofondo dell'edificio e il ronzio del frigorifero. Uscì ed entrò in cucina. Si arrestò con le dita sull'interruttore, poi trovò il coraggio di premerlo.

Una luce al neon si accese, tremolò per un secondo e poi gettò un bagliore freddo nello stanzino, accompagnato da un ronzio rabbioso del circuito. La cucina era stretta, ospitava un lavello d'acciaio e un piccolo banco, su cui poggiavano varie tazze rovesciate e una macchina per il caffè tutta mac-chiata. Sotto il bancone c'era un minuscolo frigorifero. Al suo interno, Stone vide un cartoccio di latte, una confezione di sei birre e una busta di carta di un supermercato, accuratamente chiusa. La estrasse. Dentro, c'era qualcosa avvolto in carta di giornale, qualcosa di pesante e di solido. Si al-zò in piedi, srotolò la carta sul bancone e ne tolse un sacchetto di plastica afferrandolo per il fondo. La mano amputata cadde. Le dita erano bianche e contratte, all'attaccatura del polso la carne appariva spugnosa e purpurea, l'osso bianco e scheggiato, alcuni tubicini vuoti, di colore blu, penzolavano nel vuoto. D'un tratto, il bagliore della luce al neon si affievolì e Chester cadde a terra, svenuto.

Reacher posò la pizza sul pavimento dell'ascensore, estrasse la pistola dalla cintura e la mise nella borsa sportiva, coi proiettili di riserva. Poi si accucciò e raccolse la scatola prima che l'ascensore arrivasse al quarto piano. La porta d'ingresso si aprì non appena Jack fu visibile dallo spioncino.

Jodie, sulla soglia, lo attendeva con indosso ancora il vestito di lino. Era stropicciato sui fianchi, dato che era stata seduta tutto il giorno; le lunghe gambe abbronzate erano incrociate, un piede davanti all'altro.

«Ho portato la cena», annunciò Jack.

La donna guardò la borsa sportiva. «Ultima chance, Reacher. Dobbiamo parlare con qualcuno di questa storia.»

«No», ribatté lui.

Posò la borsa sul pavimento e lei gli passò accanto per chiudere la porta.

«D'accordo. Se c'è di mezzo il governo, forse hai ragione. Forse dovremo stare alla larga dai poliziotti.»

«Esatto», concordò lui.

«Io sto dalla tua parte.»

«Ora mangiamo.»

Reacher si diresse in cucina con la pizza. Jodie aveva già apparecchiato la tavola: si sarebbero seduti l'uno di fronte all'altra. C'erano i piatti, i coltelli, le forchette, i tovaglioli di carta e due bicchieri di acqua gelata. Non mancava nulla, come se nell'appartamento vivessero due persone.

Reacher posò la scatola sul bancone e l'aprì. «Scegli», la esortò.

Lei era alle sue spalle, ne sentiva la presenza, il profumo. Sentì il palmo della sua mano toccargli la schiena. Bruciava. Rimase in quella posizione per un secondo, poi usò la mano per scansarlo.

«Dividiamola», propose Jodie.

Appoggiò la scatola su un braccio e la portò sul tavolo. Cercando di tener ferma la scatola, tagliò le fette e le distribuì nei due piatti. Reacher si sedette e sorseggiò l'acqua, mentre guardava la donna. Era snella ed energica e poteva svolgere qualsiasi attività pratica con la grazia di una danza-trice. Jodie si voltò per gettare la scatola unta e poi si rigirò verso il tavolo.

Il vestito leggero seguì il suo movimento. Quando si sedette, Jack udì il fruscio del lino sulla pelle e il suo piede urtargli il ginocchio sotto il tavolo.

«Scusa», esclamò lei. Si pulì le dita nel tovagliolo, gettò i capelli dietro le spalle e inclinò la testa per dare il primo morso. Afferrò un triangolo di pizza con la mano sinistra, lo piegò nel mezzo e lo addentò voracemente.

«Non ho pranzato. Mi hai detto di non lasciare l'edificio», mugugnò. Poi allungò la lingua per catturare un filo di formaggio penzolante e sorrise imbarazzata mentre lo succhiava con le labbra lucide d'olio. Infine, bevve un lungo sorso d'acqua. «Acciughe, le adoro! Come facevi a saperlo? Poi però ti fanno venire una sete incredibile!»

Il vestito era senza maniche e Jack le osservò le braccia. Erano magre e abbronzate. Al posto dei bicipiti sembravano esserci solo tendini. Era di una bellezza mozzafiato, ma per lui il suo fisico restava un mistero. Era al-ta, eppure anche minuta, tanto che Jack non capiva come il suo corpo potesse contenere gli organi essenziali. Era magra come un chiodo, tuttavia appariva dinamica, forte ed energica. Un vero mistero. Ricordò la sensazione che gli aveva procurato il suo braccio attorno alla vita, quindici anni prima. Era come se qualcuno gli avesse stretto una corda robusta intorno al corpo.

«Non posso rimanere qui stanotte», disse Reacher.

La donna sollevò lo sguardo dalla pizza. «Perché no? Se hai qualcosa da fare, vengo anch'io. Come ti ho detto, sono dalla tua parte.»

«No, è solo che non posso rimanere», ribadì lui.

«Perché no?» ripeté Jodie.

Jack trasse un respiro profondo e trattenne il fiato. I capelli di lei scintil-lavano nella luce. «Non è il caso», disse.

«Ma perché?»

Reacher era imbarazzato. «Perché no, Jodie. Perché, a causa di Leon, tu pensi a me come a un fratello o a uno zio, o a qualcosa del genere, ma io non sono niente di tutto questo, giusto?»

Lei lo fissò, attonita.

«Mi dispiace», continuò lui.

Jodie sgranò gli occhi. «Per che cosa?»

«Non è giusto. Tu non sei mia sorella né mia nipote. È solo un'illusione, nata dal fatto che ero molto vicino a tuo padre. Per me tu sei una donna stupenda, e non posso rimanere solo con te.»

«Perché no?» insistette Jodie, senza fiato.

«Cristo, Jodie! Perché non è il caso, ecco perché. Non c'è bisogno che entri nei particolari. Non sei mia sorella, non sei mia nipote, e non posso far "finta che tu lo sia. Questa finzione mi sta facendo impazzire.»

Jodie stava immobile, lo sguardo fisso nel suo, ancora senza fiato. «Da quanto tempo provi questo?» gli chiese.

«Da sempre, credo. Dal primo giorno che ti ho vista. Credimi, Jodie, non eri una bambina. Ero molto più vicino a te che a Leon, per età.»

La donna rimase in silenzio. Lui trattenne il respiro, in attesa delle lacrime, dello sdegno, del trauma. Jodie continuava a fissarlo e Jack si era già pentito di aver parlato. Avrebbe dovuto tenere chiusa quella dannata boccaccia, mordersi la lingua e soffrire in silenzio. Ne aveva passate di peggio, sebbene non ricordasse né dove né quando.

«Mi dispiace», ripeté.

Il viso di Jodie sembrava inespressivo, i grandi occhi blu fissi nei suoi.

Teneva i gomiti appoggiati al tavolo: in quella posizione il vestito lasciava intravedere le spalline del reggiseno, sottili e bianche sulla pelle scura.

Jack guardò il suo volto angosciato, chiuse gli occhi e sospirò per la disperazione. L'onestà era la politica migliore? Ma dov'era scritto?

E fu allora che Jodie fece una cosa curiosa. Si alzò, si voltò e spostò la sedia. Fece un passo in avanti, afferrò il tavolo all'estremità, con entrambe le mani, e i suoi muscoli sottili si tesero come corde. Trascinò il tavolo da un lato, dopodiché cambiò posizione, si voltò e lo spinse con le cosce fino ad accostarlo al bancone. Reacher era rimasto seduto sulla sedia, isolato in mezzo alla stanza. Jodie gli si mise di fronte e lui smise di respirare.

«Pensi a me come a una donna?» gli chiese, lentamente.

Lui annuì.

«Non come a una sorella minore? Non come a tua nipote?»

Jack scosse il capo.

Jodie tacque per un istante. «Sessualmente?» domandò con un filo di voce.

«Ovvio. Che pensavi? Guardati. La notte scorsa non ho quasi chiuso occhio.»

Jodie rimase immobile.

«Dovevo dirtelo. Mi dispiace davvero, Jodie.»

Lei chiuse gli occhi, forte. Poi un ampio sorriso le attraversò il volto.

Strinse i pugni lungo i fianchi e si gettò verso di lui. Gli saltò in braccio, incrociò le braccia dietro la sua testa e lo baciò come se non potesse più smettere.

Era l'auto di Sheryl, però Hobie fece guidare Marilyn e si sedette sul sedile posteriore con accanto l'agente immobiliare, le braccia sempre legate dietro la schiena. La donna aveva ancora il nastro adesivo sulla bocca e respirava a fatica. Hobie le teneva l'uncino in grembo, la punta affondata nella pelle della coscia. Con la mano sinistra impugnava la pistola e, ogni tanto, toccava con la canna il collo di Marilyn, in modo che non si dimenti-casse della sua presenza.

Tony li attendeva nel garage sotterraneo. Gli uffici avevano chiuso da un pezzo e il luogo era deserto. Tony prese Sheryl e Hobie scortò Marilyn; insieme salirono col montacarichi. Hobie aprì la porta dell'ufficio ed entrò nella reception. La luce della cucina era accesa; Stone era riverso sul pavimento, in mutande e canottiera. Marilyn emise un gemito di terrore e corse da lui. Hobie osservò l'ondeggiare del suo corpo sotto il vestito e sorrise. Si voltò, chiuse la porta e ripose chiavi e pistola nella tasca della giacca. Marilyn si era fermata a breve distanza dal marito e fissava qualcosa in cucina, le mani premute sulla bocca, gli occhi spalancati per lo shock. Hobie seguì il suo sguardo. La mano giaceva inerte sul bancone, il palmo verso l'alto, le dita piegate come quelle di un mendicante. La donna abbassò lo sguardo, terrorizzata.

«Non preoccuparti, non è una delle sue. Ma ci potremmo fare un pensie-rino, non ti pare? Potrei tagliargli una mano se non fa ciò che gli chiedo», disse Hobie.

Marilyn lo fissò.

«Oppure potrei tagliare una delle tue, mentre lo costringo a guardare.

Forse potrebbe farlo lui al posto mio.»

«Tu sei malato», mormorò lei.

«Lo farebbe, sai. Farebbe qualsiasi cosa. È patetico. Guardalo, in mutande. Credi che stia bene in mutande?» continuò Hobie.

Marilyn non rispose.

«E tu? Tu stai bene in mutande? Vuoi toglierti il vestito e farmi vedere?»

La donna lo fissò, in preda al panico.

«No? Va bene, magari più tardi. E che mi dici della tua agente immobiliare? Pensi che sia bella in mutande?»

Sheryl stava indietreggiando, sempre con le braccia legate, pietrificata.

«Che ne dici? Stai bene solo con le mutandine?»

Sheryl lo fissò e scosse furiosamente il capo. Attraverso il foro nel nastro si udiva il suo respiro.

Hobie le si avvicinò, la spinse contro la porta e le infilò la punta dell'uncino nella cintura. «Vediamo!»

Diede uno strattone, Sheryl vacillò e il tessuto si strappò. I bottoni si sparpagliarono sul pavimento e la donna cadde in ginocchio. Hobie sollevò un piede e usò la suola della scarpa per gettarla a terra. Poi fece un cenno col capo a Tony, il quale si chinò e le sfilò la gonna stracciata dalle gambe che si agitavano.

«Collant. Dio mio, come odio i collant! Sono cosi poco romantici», esclamò Hobie. Si chinò e utilizzò la punta dell'uncino per ridurre a brandelli le calze di nylon. Mentre le strappava, la donna perse le scarpe. Tony prese gonna, scarpe e collant, li portò in cucina e li gettò nella pattumiera.

Sheryl raccolse le gambe nude sotto di sé e rimase seduta, ansimando attraverso il buco nel nastro. Indossava un paio di slip bianchi e stava cercando di nasconderli coi lembi della camicia. Marilyn la stava guardando, la bocca aperta per la paura.

«Bene, ora sì che ci stiamo divertendo! Vero?»

«Ci può scommettere. Ma non quanto ci divertiremo tra poco», ribatté Tony.

Hobie rise e Stone si agitò sul pavimento. Marilyn si chinò accanto a lui e lo aiutò a mettersi seduto.

Hobie entrò e prese la mano dal bancone. «Questa l'ho staccata all'ultimo tizio che mi ha dato noia», sibilò.

Stone aprì e chiuse più volte gli occhi, come se potesse mutare la scena con un battito di ciglia. Poi fissò Sheryl, e Marilyn si rese conto che il marito non l'aveva mai vista prima. Non sapeva chi fosse.

«Nel bagno», ordinò Hobie.

Tony mise in piedi Sheryl e Marilyn aiutò Chester. Hobie li seguì. Entrarono nel grande ufficio e raggiunsero la porta del bagno.

«Dentro!» fece Hobie.

Stone fu il primo a varcare la soglia, le donne lo seguirono. Hobie li guardò entrare e rimase sulla porta. Poi annuì, rivolto a Stone. «Tony dormirà qui fuori, sul divano. Perciò non uscire più. E impiega il tempo in maniera fruttuosa: racconta tutto a tua moglie. Domani faremo il trasferimento delle azioni. Molto meglio per lei se ciò avverrà in un'atmosfera di mutuo accordo. Credimi, le conseguenze potrebbero non essere piacevoli.

Hai capito cosa intendo?»

Stone si limitò a fissarlo. Hobie indugiò con lo sguardo sulle due donne, poi agitò la mano mozzata in segno di saluto e chiuse la porta.

La stanza da letto bianca di Jodie era inondata di luce. Nel mese di giugno, per cinque minuti ogni sera, nel suo tragitto verso ovest il sole trovava un pertugio tra gli alti edifici di Manhattan e colpiva in pieno la sua finestra. Le veneziane scottavano come fossero incandescenti, le pareti riflettevano i raggi tutt'intorno e illuminavano la stanza con un'esplosione di luce.

Reacher era disteso supino, felice come non mai. Se ci avesse riflettuto, forse si sarebbe preoccupato. Gli tornavano in mente sciocche massime che recitavano: «Beato chi non ottiene ciò che desidera», oppure: «È meglio procedere fiduciosi che arrivare alla meta». Ottenere ciò che voleva, dopo quindici anni di desiderio, sarebbe potuto sembrargli strano. Ma non lo era. Era come essere stato lanciato con un razzo in un luogo di cui igno-rava l'esistenza, era come aveva immaginato e sognato, moltiplicato per un milione di volte. Jodie non era un mito, bensì una creatura viva, reale. Una creatura forte, muscolosa, profumata, calda, timida e generosa. La donna stava accoccolata sotto la sua spalla, i capelli sul volto e sulla bocca di lui.

Jack le teneva una mano sulla schiena e le accarezzava delicatamente le costole. La sua colonna vertebrale, contornata da due lunghi fasci muscola-ri, formava una specie di solco. Con un dito, Jack ne seguì l'estensione. Jodie aveva gli occhi chiusi e sorrideva. Reacher lo sapeva. Aveva percepito le sue ciglia sfiorargli il collo, e con la spalla riusciva a sentire la sagoma della sua bocca, a decifrare il movimento dei muscoli del suo volto. Stava sicuramente sorridendo. Jack spostò la mano. La sua pelle era fresca e vel-lutata.

«Ora dovrei mettermi a piangere. Ho sempre pensato che l'avrei fatto.

Mi dicevo che, se mai fosse accaduto, subito dopo avrei pianto», mormorò Jodie.

Lui la strinse forte. «Perché dovremmo piangere?»

«Per aver sprecato tutti questi anni», rispose lei.

«Meglio tardi che mai», ribatté Reacher.

Jodie si sollevò sui gomiti e si stese col busto sopra di lui, i seni schiacciati contro il suo petto. «Quello che mi hai detto prima avrei potuto dirtelo io, parola per parola. Vorrei averlo fatto, tanto tempo fa. Ma non potevo.»

«Nemmeno io. Mi sembrava un... segreto sporco.»

«Sì. Il mio segreto sporco», gli fece eco Jodie. Poi si sollevò di nuovo e si sedette sopra di lui, la schiena dritta, il volto sorridente. «Ma ora non è più un segreto», mormorò.

«No», rispose Reacher.

La donna stese le braccia in alto e fece uno sbadiglio che terminò con un sorriso soddisfatto. Jack le strinse l'esile vita con le mani, poi le toccò i se-ni. Il sorriso di Jodie divenne più ampio. «Ancora?»

Lui la spostò di lato con un movimento dei fianchi, la girò e la depose delicatamente sul letto. «Dobbiamo recuperare il tempo perduto, non ti pa-re?»

Lei annuì, sfregando i capelli sul cuscino. Un movimento appena accennato, accompagnato da un grande sorriso.

Marilyn assunse il controllo della situazione. Sentiva di essere la più forte di loro. Chester e Sheryl erano come storditi, il che era comprensibile. Si domandò quanto si sentissero vulnerabili così, seminudi. Anche lei si sentiva seminuda, ma per il momento non se ne sarebbe preoccupata. Dapprima tolse il nastro adesivo dalla bocca di Sheryl e la tenne fra le braccia mentre piangeva; poi si chinò alle sue spalle e iniziò a liberarle le braccia, partendo dai polsi. Appallottolò il nastro appiccicoso, lo gettò nel cestino e le massaggiò le spalle doloranti. Poi trovò una spugna, fece scorrere l'acqua calda nel lavandino e le lavò il sangue incrostato dal viso. Il naso era gonfio e stava diventando nero. Sarebbe stato necessario portarla da un medico. Marilyn aveva visto vari film in cui venivano presi degli ostaggi; qualcuno si eleggeva sempre a portavoce, diceva niente polizia e faceva portare il ferito rilasciato in ospedale. Ma come funzionava esattamente?

Prese le salviette dal portasciugamani e porse un telo da doccia a Sheryl, perché lo usasse come gonna. Poi divise le rimanenti in tre pile e le posò sul pavimento. Ben presto avrebbero avuto freddo, seduti sulle piastrelle e l'isolamento termico sarebbe stato un fattore importante. Spinse i tre mucchi contro il muro. Lei si sedette con la schiena contro la porta, Chester al-la sua sinistra e Sheryl alla sua destra. Prese entrambi per mano e li strinse forte.

«Mi dispiace», disse Chester in un sussurro.

«Quanto gli dobbiamo?» chiese la moglie.

«Più di diciassette milioni.»

Non si curò di domandargli se potesse pagarli. Non si sarebbe certamente trovato in quel luogo, mezzo nudo sul pavimento di un bagno, se li avesse avuti.

«Che cosa vuole?» chiese ancora.

«Tutto. Vuole l'intera società», rispose Chester, abbattuto.

Marilyn annuì e concentrò lo sguardo sui tubi sotto il lavandino. «Che cosa ci rimarrebbe?»

Dopo un istante di silenzio, Chester rispose: «Briciole, se si degnerà di lasciarcele. Se no, probabilmente nulla».

«E la casa? Quella è nostra, vero? L'ho messa in vendita. Questa signora è l'agente immobiliare; dice che potremmo ricavarne due milioni di dollari.»

Stone guardò Sheryl, poi scosse il capo. «La casa appartiene alla società.

Per un motivo tecnico: era più facile finanziarla in quel modo. Perciò Hobie avrà anche quella, insieme con tutto il resto.»

Marilyn sospirò, lo sguardo fisso nel vuoto. Alla sua destra, Sheryl si era addormentata. La paura l'aveva sfinita.

«Dormi anche tu. Io penserò a una soluzione», promise Marilyn al marito.

Chester le strinse ancora la mano e posò la testa contro la parete, gli occhi chiusi. «Mi dispiace tanto», ripeté.

La moglie non disse nulla. Si sistemò il vestito di seta sulle gambe e fissò un punto davanti a sé, concentrata.

Il sole se n'era andato prima che finissero di farlo per la seconda volta.

Era diventato una striscia luminosa di fianco alla finestra, poi un fascio orizzontale sottile che si spostava lento, illuminando i granelli di polvere.

Infine era scomparso, e la stanza era piombata nella fresca penombra della sera, come se d'un tratto fosse stata spenta una lampada. Jodie e Reacher giacevano esausti, abbracciati in un groviglio di lenzuola, i corpi inerti, la respirazione lenta. Jack si accorse che lei sorrideva ancora. La donna si sollevò su un gomito e lo guardò con la stessa espressione scherzosa che aveva assunto fuori del suo ufficio.

«Che c'è?» le chiese Reacher.

«Devo dirti una cosa.»

Lui restò in attesa.

«Nell'esercizio delle mie funzioni.»

Jack si concentrò sul suo volto sorridente, i denti bianchi e gli occhi di un blu brillante, persino nella penombra. Quali funzioni? si chiese. Lei era un avvocato che sistemava le cose quando qualcuno doveva a qualcun altro un milione di dollari o anche di più.

«Io non devo niente a nessuno. E credo che nessuno abbia debiti con me», puntualizzò.

La donna scosse il capo, sempre sorridendo. «In qualità di esecutrice te-stamentaria di papà.»

Era logico che Leon l'avesse nominata, pensò Reacher. Un avvocato in famiglia, la scelta più ovvia.

«L'ho aperto e l'ho letto. Oggi, al lavoro», continuò lei.

«E che c'è scritto? Era un taccagno? O un miliardario segreto? Sapeva che cos'era accaduto a Victor Hobie e ha scritto tutto nelle sue volontà?»

«Ti ha lasciato qualcosa. Un'eredità.»

Anche quello aveva senso. Era proprio da Leon. Si era ricordato di lui e gli aveva lasciato qualche piccolo oggetto, qualcosa di sentimentale. Ma che cosa? Ripensò al passato. Probabilmente un souvenir. Forse le sue medaglie? Forse il fucile da cecchino che aveva portato a casa dalla Corea?

Era un vecchio Mauser, preso, con ogni probabilità, dai sovietici sul fronte orientale e venduto dieci anni più tardi ai coreani. Una gran bell'arma. Più volte, lui e Leon avevano fatto congetture sulle tante azioni di cui doveva esser stato testimone. Sarebbe stato un bell'oggetto da possedere, un gradevole ricordo. Ma dove diavolo l'avrebbe tenuto?

«Ti ha lasciato la casa», rivelò Jodie.

«La... che?»

«La casa. Quella di Garrison.»

Lui la guardò sbalordito. «La sua casa?»

La donna fece cenno di sì.

«Non ci credo! E non posso accettare. Che me ne farei?»

«Che te ne faresti? Ci vivresti, Reacher. È a questo che servono le case, giusto?»

«Ma io non vivo nelle case. Non l'ho mai fatto.»

«Be', ora potrai farlo.»

«Jodie, non posso proprio accettarla. Dovrebbe essere tua. Avrebbe dovuto lasciarla a te. Si tratta di una tua eredità.»

«Io non la voglio. Papà lo sapeva. Io preferisco vivere in città.»

«Bene, allora vendila. Ma è tua, giusto? Vendila e tieni il denaro.»

«Non ho bisogno di denaro. Leon sapeva anche questo. La casa vale meno di quanto guadagno in un anno.»

«Credevo che quella zona accanto al fiume fosse molto ambita e costosa.»

«Lo è.»

Lui tacque, confuso. «La sua casa? Sapevi che l'avrebbe fatto?»

«Non esattamente. Però sapevo che non l'avrebbe lasciata a me. Pensavo che m'incaricasse della vendita, per donare il ricavato a qualche ente di be-neficenza. Ai reduci di guerra, o qualcosa del genere.»

«Va bene, allora farai così.»

«Reacher, io non posso. Non sta a me. Le sue volontà sono vincolanti, io devo rispettarle.»

«La sua casa... Mi ha lasciato la sua casa?»

«Era preoccupato per te, da due anni a questa parte. Da quando ti hanno congedato. Sapeva come può andare: trascorri l'intera vita nell'esercito e, alla fine, ti ritrovi con un pugno di mosche. Era preoccupato per come stavi vivendo.»

«Ma lui non sapeva come stavo vivendo», obiettò Reacher.

«Di sicuro lo immaginava. Era una vecchia volpe. Sapeva che te ne saresti andato in giro di qua e di là. Diceva sempre che vagabondare era una gran cosa, però soltanto per qualche anno, e si chiedeva che cosa sarebbe accaduto quando avessi avuto cinquanta, sessanta o settant'anni.»

Reacher si strinse nelle spalle, disteso sulla schiena, nudo, lo sguardo rivolto al soffitto. «Non ci ho mai pensato. 'Un giorno alla volta' era il mio motto.»

Lei rimase in silenzio. Abbassò la testa e gli baciò il petto.

«Mi sento come se ti stessi derubando. È la tua eredità, Jodie. Dovresti averla tu, quella casa.»

«Era casa sua. E anche se la volessi, dobbiamo rispettare i suoi desideri.

Ma il fatto è che non la voglio. Non l'ho mai desiderata e lui lo sapeva. Era assolutamente libero di farne ciò che voleva. E l'ha fatto. L'ha lasciata a te perché voleva che l'avessi tu.»

Jack stava ancora guardando il soffitto, tuttavia con la mente vagava per la casa di Leon. Nel vialetto, tra gli alberi, il garage a destra, il passaggio coperto, la grande casa bassa a sinistra. Lo studio, il salotto, l'Hudson ampio e lento che scorreva nei paraggi. I mobili. Gli era sembrata molto confortevole. Forse avrebbe potuto comprarsi uno stereo, qualche libro. Una casa. La sua casa. Provò a pronunciare mentalmente quelle parole: La mia casa. La mia casa. Vi riusciva a fatica. La mia casa. Rabbrividì.

«Voleva che l'avessi tu. È un lascito. Non puoi discutere. È accaduto e per me non è un problema, te lo giuro. Mi credi?» chiese Jodie.

«Va bene. Ma tutto ciò è molto strano. Davvero strano.»

«Vuoi una tazza di caffè?»

Jack si voltò e la guardò negli occhi. Anche lui avrebbe potuto avere una macchina del caffè. Nella sua cucina. Collegata alla rete elettrica. Alla sua rete elettrica.

«Caffè?» gli domandò nuovamente lei.

«Sì», rispose lui.

La donna scivolò dal letto e cercò le scarpe. «Nero senza zucchero, giusto?» Jodie stava in piedi accanto al letto, nuda, a eccezione delle scarpe lucide, coi tacchi, e si sentì osservata. «Il pavimento della cucina è freddo.

Metto sempre le scarpe, là dentro.»

«Lascia perdere il caffè, d'accordo?»

Dormirono nel letto di Jodie. Reacher si svegliò per primo, sfilò piano il braccio da sotto il corpo della donna e controllò l'orologio: erano quasi le sette. Aveva dormito nove ore: il miglior sonno della sua vita, nel letto più comodo che avesse mai provato. Ne aveva sperimentati tanti: centinaia, forse migliaia, ma quello li batteva tutti. Jodie dormiva accanto a lui, prona, il lenzuolo abbassato, la schiena nuda. Jack riusciva a scorgere la curva dei seni. I capelli sparsi sulle spalle, un ginocchio piegato, posato sulla sua coscia, la testa china, nella stessa direzione del ginocchio. Quella posizione le conferiva un aspetto atletico, compatto. Jack le baciò il collo e lei si mosse.

«Buongiorno, Jodie», la salutò.

La donna aprì gli occhi, poi li richiuse e li riaprì. E gli fece un caldo sorriso. «Temevo di aver sognato tutto. Come facevo una volta», mormorò.

Lui la baciò ancora. Teneramente, sulla guancia. Poi un po' meno tene-ramente, sulla bocca. Jodie gli gettò le braccia al collo e rotolarono insieme sul letto. Fecero di nuovo l'amore, per la quarta volta in quindici anni.

Dopodiché, per la prima volta, fecero la doccia insieme, e in seguito colazione. Mangiarono come se non avessero toccato cibo da tre giorni.

«Devo andare nel Bronx», disse Reacher.

«Da quel Rutter? Ti ci porto io. So dove si trova quella strada.»

«E il lavoro? Pensavo dovessi andarci.»

Lei lo guardò, disorientata.

«Mi avevi detto che avevi molto da fare. Sembrava fossi impegnatissi-ma.»

Jodie sorrise. «Ti ho mentito. Sono molto avanti col lavoro e hanno detto che posso prendermi tutta la settimana. Il fatto era che non volevo rimanere sola con te, per via di quello che provavo. Per la stessa ragione sono andata dritta a letto, l'altra sera: avrei dovuto mostrarti la camera degli ospiti, da educata padrona di casa, però non volevo entrare in una stanza con te.

Sarei impazzita. Così vicino, ma così lontano: sai che intendo, vero?»

Jack annuì. «E che cos'hai fatto in ufficio tutto il giorno?»

Jodie ridacchiò. «Nulla. Sono rimasta seduta a non far niente fino alle sette.»

«Tu sei matta. Perché non me l'hai detto?»

«E tu perché non l'hai fatto?»

«L'ho fatto.»

«Alla fine. Dopo quindici anni», ribatté la donna.

«Lo so, ma ero preoccupato. Pensavo di ferirti, pensavo che fosse l'ultima cosa che volessi sentire», ammise Reacher.

«Idem», esclamò Jodie. «Credevo mi avresti odiata per sempre.»

Si guardarono, si sorrisero e scoppiarono in una risata lunghissima.

«Vado a vestirmi», decise lei, senza smettere di ridere.

Lui la seguì nella stanza e ripescò i vestiti dal pavimento. Jodie s'infilò nel guardaroba, in cerca di qualcosa di pulito. Osservandola, Reacher iniziò a domandarsi se la casa di Leon avesse un guardaroba. Anzi, se la sua casa ne avesse uno. Naturalmente sì, tutte le case hanno un guardaroba!

Ciò significava che avrebbe dovuto comprare qualcosa per riempirlo. Jodie s'infilò una camicia e un paio di jeans, li strinse con una cintura di pelle e indossò un paio di scarpe costose. Reacher portò la giacca nuova in corridoio e v'infilò la Steyr che teneva nella borsa sportiva. Nell'altra tasca mise venti munizioni. Tutto quel metallo la rendeva piuttosto pesante. La donna lo raggiunse con in mano la cartella di pelle. Stava controllando l'indirizzo di Rutter.

«Sei pronto?» gli domandò.

«Prontissimo», rispose lui.

La fece attendere più volte mentre controllava i dintorni, come aveva fatto il giorno precedente. Se allora la sua sicurezza gli era sembrata importante, in quel momento era, a dir poco, vitale. Ma tutto appariva calmo e tranquillo. Il corridoio era deserto, e lo stesso si poteva dire dell'ascensore, dell'atrio, del garage. Salirono sulla Taurus, Jodie al volante, e si diressero a nord-est.

«Facciamo la East River Drive fino alla I-95, va bene? Poi imbocchiamo la Cross Bronx Expressway verso est», propose Jodie.

Jack cercò di ricordare la cartina della Hertz. «Prendi la Bronx River Parkway verso nord. Dobbiamo andare allo zoo.»

«Allo zoo? Rutter non vive vicino allo zoo.»

«Non esattamente lo zoo. Intendo dire il Giardino Botanico. C'è una co-sa che devi vedere.»

La donna gli lanciò un'occhiata interrogativa, poi si concentrò sulla guida. Il traffico era intenso - era passata da poco l'ora di punta -, ma, tutto sommato, abbastanza scorrevole. Costeggiarono il fiume in direzione nord-nord-est, fino al George Washington Bridge, se lo lasciarono alle spalle e si diressero a est, nel Bronx. La Expressway era lenta, ma la Parkway risultò più veloce perché conduceva fuori città, e New York, a quell'ora, era presa d'assalto da milioni di pendolari. Alla barriera, in direzione sud, c'era un grosso ingorgo.

«E adesso?» chiese Jodie.

«Supera la Fordham University e la serra, poi parcheggia», rispose Reacher.

Jodie annuì e cambiò corsia. La Fordham scivolò via sulla sinistra e, po-co dopo, oltrepassarono la grande serra sulla destra. La donna imboccò l'entrata del museo e trovò posteggio poco dopo il cancello. Il piazzale era quasi vuoto.

«E ora?» chiese Jodie.

Jack scese dall'auto e prese con sé il raccoglitore di pelle. «Aspetta e ve-drai», esclamò.

La serra si trovava a un centinaio di metri da loro. Il giorno precedente, aveva letto la storia dell'edificio in un opuscolo gratuito: era dedicato a un certo Enid Haupt e la sua costruzione, nel 1902, era costata una fortuna.

Novantacinque anni dopo, era stata spesa una cifra dieci volte superiore per la ristrutturazione ma, a suo giudizio, erano stati soldi ben spesi perché il risultato sembrava eccellente. L'edificio, enorme e riccamente ornato, era un'autentica espressione di filantropia urbana con la sua struttura in ferro e vetro opalescente.

All'interno, il clima era caldo e umido. Reacher condusse Jodie fino al luogo che stava cercando. Le piante esotiche erano ammassate in gigante-sche aiuole, contornate da muretti e recinti; lungo i sentieri erano disposte alcune panchine e il vetro opalescente filtrava il sole, dando l'impressione che il cielo si fosse rannuvolato. Si sentiva un forte odore di terra umida e di fiori.

«Che c'è?» gli chiese lei, tra il divertito e l'impaziente.

Dopo aver trovato la panchina che stava cercando, Jack se ne allontanò di poco, arrivando fino al muricciolo. Fece mezzo passo a sinistra, poi un altro, finché non ne fu certo. «Vieni qui», la esortò. Prese Jodie da dietro, per le spalle, e la guidò nell'esatta posizione in cui lui si era trovato poco prima. Abbassò la testa fino all'altezza di lei e verificò. «Alzati in punta di piedi e guarda davanti a te.»

Jodie si sollevò e guardò dritto, la schiena eretta, i capelli sulle spalle.

«Bene. Dimmi che cosa vedi», la esortò Jack.

«Niente. O, meglio, varie piante», rispose lei.

Lui annuì e aprì la cartelletta, da cui estrasse la foto dell'occidentale emaciato che si allontanava dalla guardia armata. La mostrò a Jodie.

Lei la osservò e chiese ancora, per metà divertita e per metà delusa: «E

allora?»

«Prova a fare un confronto», le suggerì Jack.

La donna scrutò le due scene con rapidi movimenti degli occhi, poi gli strappò di mano la fotografia per guardarla con maggiore attenzione. D'un tratto, sgranò gli occhi e impallidì. «Accidenti! Questa foto è stata scattata qui. Proprio qui! Vero? Queste piante sono le stesse...»

Reacher si abbassò e controllò ancora una volta. A sinistra un gruppo di palme alte quasi cinque metri, a destra e sul fondo un groviglio di felci. Le due figure si erano inoltrate di sei metri circa nell'aiuola rigogliosa ed erano state riprese da un teleobiettivo che comprimeva la prospettiva e sfoca-va la vegetazione più vicina. Sullo sfondo s'intravedeva una grande pianta, tipica della giungla. Nella realtà, si trovava in un'altra aiuola.

«Caspita! Caspita, non è possibile!» esclamò Jodie.

Anche la luce era giusta. Il vetro biancastro sopra di loro dava proprio l'idea del cielo grigio della giungla. In Vietnam il tempo è perlopiù nuvo-loso. Le montagne frastagliate spingono le nubi verso il basso e fanno sì che si formino nebbie e foschie: per questo si ha sempre l'impressione che il terreno fumi.

Jodie spostò lo sguardo dalla foto alla scena di fronte a sé, muovendosi a destra e a sinistra per avere una perfetta visuale. «E il filo spinato? I pali di bambù? Sembrano veri.»

«Materiale di scena. Tre pali, dieci metri di filo. Ci vuole tanto a procu-rarseli? Forse li hanno portati qui arrotolati», suppose Reacher.

«Ma quando? Come?»

«Forse il mattino presto, quand'è ancora tutto chiuso. Magari conoscono qualcuno che lavora qui, oppure l'hanno fatto all'epoca in cui i giardini so-no stati chiusi per ristrutturazione.»

Jodie stava ancora fissando la foto, a distanza ravvicinata. «Aspetta un attimo. Si vede quella panchina. Si vede l'angolo di quella panchina laggiù.» Posò un'unghia sulla superficie lucida della foto. Si notava un qua-dratino offuscato, bianco: era l'angolo di una panchina di ferro, situata a destra, dietro la scena principale. Il teleobiettivo aveva ristretto l'inquadra-tura, ma non a sufficienza.

«Non l'avevo notata. Stai diventando brava», si complimentò Jack.

Jodie si voltò a guardarlo. «No, sto diventando furiosa, Reacher. Quel Rutter si è beccato diciottomila dollari per una foto fasulla.»

«Peggio ancora, ha dato agli Hobie false speranze.»

«Che facciamo?»

«Andiamo a fargli visita», decise Reacher.

Esattamente sedici minuti più tardi erano seduti nella Taurus. Jodie guidò nella direzione da cui erano venuti. Si mise a tamburellare le dita sul volante. «Ma tu mi avevi detto che ci credevi. Io ho affermato che la foto provava l'esistenza di quel luogo, tu mi hai dato ragione e hai aggiunto che c'eri stato, non molto tempo fa, che ti eri avvicinato quanto Rutter.»

«È tutto vero. Sapevo che esisteva il Giardino Botanico. C'ero appena stato e ci ero andato vicino quanto Rutter. Ero stato accanto al muricciolo dove lui deve aver scattato la foto!»

«Cristo, Reacher, che cos'è? Un gioco?»

«Ieri non sapevo che cosa fosse. Intendo dire, non sapevo quante informazioni condividere con te.»

Jodie stava pensando a quante cose erano cambiate in quei due giorni.

«Ma come diavolo pensava di farla franca? La serra del Giardino Botanico di New York?»

Reacher si stirò sul sedile, allungando le braccia fino a toccare il parabrezza.

«Psicologia. È alla base di ogni truffa. Racconti alle persone ciò che vogliono sentire. Quei vecchietti volevano sentirsi dire che il figlio era ancora vivo. Perciò quel tizio dice loro che probabilmente lo è. Loro investono un sacco di soldi e molte speranze, stanno sulle spine per tre mesi interi, poi Rutter dà loro una foto e quelli ci vedono ciò che vogliono vedere. È

stato furbo. Ha chiesto loro il nome esatto e il numero di battaglione, ha voluto foto esistenti del ragazzo, in modo da poter pescare un uomo di mezz'età, pressappoco della stessa corporatura e vagamente somigliante, e ha riproposto loro il nome e il numero di unità corretti. Semplice psicologia. Avrebbe potuto fotografare un uomo in costume da gorilla e gli Hobie avrebbero creduto che si trattava di un animale locale.»

«Come l'hai scoperto?»

«Nello stesso modo. Usando la stessa psicologia, ma al contrario. Volevo smentire tutto, perché sapevo che la storia non poteva essere vera. Ho quindi cercato qualcosa che apparisse strano. E l'ho trovata nell'uniforme dell'uomo. Hai notato? La tuta dell'esercito statunitense, sporca e sgualcita.

Ma quell'uomo si è schiantato al suolo trent'anni fa! Non è assolutamente possibile che un paio di pantaloni durino trent'anni nella giungla. Sarebbero marciti in sei settimane.»

«Ma perché il Giardino Botanico? Perché sei venuto proprio qui?»

Reacher allargò le dita e le premette contro il vetro, per allentare la tensione nelle spalle. «In quale altro luogo avrei potuto trovare una vegetazione come quella? Alle Hawaii, forse, ma perché spendere i soldi del biglietto per tre persone quando la si può avere gratis, dietro casa?»

«E il ragazzo vietnamita?»

«Mah, forse uno studente della Fordham o della Columbia. Magari non era nemmeno vietnamita, ma un cameriere di qualche ristorante cinese.

Rutter gli ha dato un po' di soldi per la foto, che so, una ventina di dollari.

Forse ha quattro amici che fanno a turno a impersonare il prigioniero americano del momento: un bianco alto, un bianco basso, un nero alto e uno basso, così tutte le basi sono coperte. Si tratta di vagabondi, perciò appaio-no magri e macilenti; magari li ricompensa in bourbon ed è anche possibile che abbia scattato tutte le foto nello stesso giorno. Potrebbe aver venduto la stessa foto una decina di volte. Tutti quelli che avevano un figlio alto e bianco ricevono una foto. Lui li convince a mantenere il segreto con la balla della cospirazione governativa, in modo che la voce non si sparga e nessuno scopra la truffa... e il gioco è fatto.»

«È una persona disgustosa», mormorò Jodie.

«Questo è certo. Le famiglie dei soldati uccisi in azione, i cui corpi non sono stati recuperati, sono molto facili da manipolare, e lui le sta dissan-guando come una sanguisuga.»

«Uccisi? Non credi che possano esserci ancora dei prigionieri?»

«Non ci sono prigionieri, Jodie. Non più. Sono tutte stronzate.»

«Ne sei sicuro?»

«Nel modo più assoluto.»

«Come fai a esserne certo?»

«Lo so e basta. Come so che il cielo è blu, l'erba è verde e tu hai un gran bel culo.»

Jodie sorrise, le mani sul volante. «Sono un avvocato, Reacher. Ho bisogno di prove fondate.»

«Fatti storici. Tanto per cominciare, la storia degli ostaggi per ottenere aiuti americani è una balla. I vietnamiti avevano intenzione di riversarsi a sud, lungo l'Ho Chi Minh Trail, non appena ce ne fossimo andati, il che andava contro gli Accordi di Parigi, perciò sapevano che non avrebbero ottenuto nessun aiuto, qualsiasi cosa avessero fatto. Hanno rilasciato tutti i prigionieri nel 73, con un po' di lentezza, certo, però li hanno liberati tutti.

Quando ce ne siamo andati dal Vietnam, nel 75, loro hanno recuperato un centinaio di dispersi e ce li hanno restituiti tutti, il che non mi sembra una strategia di ricatto. Inoltre avevano un disperato bisogno che sminassimo i loro porti, per cui hanno evitato di fare giochi sporchi.»

«Ma i ragazzi rimasti uccisi negli incidenti aerei o in battaglia non sono tornati indietro molto rapidamente... In quell'occasione, hanno fatto giochi sporchi», asserì Jodie.

«In realtà non capivano. Per noi era importante riavere indietro duemila corpi, ma per loro, per i vietnamiti, era una cosa strana. Erano stati in guerra per più di quarant'anni, prima col Giappone, poi con la Francia e infine con gli Stati Uniti e la Cina e avevano probabilmente perso un milione di soldati in azione. I nostri duemila rappresentavano una goccia nel mare. Si tratta di nuovo di una questione psicologica, ma ciò non significa che abbiano tenuto uomini prigionieri in campi segreti.»

«Non è un'argomentazione decisiva», ribatté la donna.

«Leon è l'argomentazione decisiva... Tuo padre e le persone come lui lo sono. Io li conosco: sono coraggiosi e onesti, Jodie. Hanno combattuto laggiù e si sono conquistati il potere e il prestigio solo più tardi. Il Pentagono è pieno di coglioni, questo lo sanno tutti, ma ci sono sempre stati individui come Leon, che hanno fatto sì che i coglioni non diventassero anche disonesti. Rispondi a una domanda: che cosa avrebbe fatto Leon se avesse saputo che in Vietnam c'erano ancora prigionieri americani?»

«Non lo so. Qualcosa, di sicuro», rispose Jodie.

«Ci puoi scommettere», ribatté Reacher. «Leon avrebbe smantellato la Casa Bianca mattone per mattone finché quei ragazzi non fossero tornati a casa sani e salvi. Ma non l'ha fatto. E non perché non sapeva. Leon sapeva tutto ciò che c'era da sapere. Non è possibile che abbiano tenuto segreta una cosa del genere a tutti i Leon in circolazione, non per tutto questo tempo. Una grande cospirazione che dura da sei amministrazioni? Una cospirazione che individui come tuo padre non avrebbero fiutato? No, non ci credo. I vari Leon non hanno reagito, il che significa che ciò non è mai accaduto. Questa è una prova decisiva, per quel che mi riguarda, Jodie.»

«No, questa si chiama fede», obiettò la donna.

«Qualsiasi cosa sia, per me è sufficiente.»

Jodie rifletté sulle parole di Reacher. Poi annuì. La fiducia nel padre era più che sufficiente anche per lei. «Quindi Victor Hobie è morto?» chiese.

«Dev'essere così. Ucciso in azione, ma non ritrovato», ipotizzò Jack.

Jodie continuò a guidare. Stavano procedendo verso sud e il traffico era molto intenso. «D'accordo, niente prigionieri, niente campi. Nessuna cospirazione governativa. Perciò non erano del governo quelli che ci hanno sparato e che ci sono venuti addosso con l'auto...»

«Non ho mai pensato che lo fossero», spiegò Reacher. «Molti degli agenti governativi che ho incontrato sono di gran lunga più efficienti di quei tre. In un certo senso, anch'io lavoravo per il governo. Pensi che avrei mancato il bersaglio per due giorni di fila?»

Jodie si portò sulla destra e fermò l'auto al margine della strada. Si voltò sul sedile e lo guardò, gli occhi blu spalancati. «Allora dev'essere Rutter.

Di chi altri potrebbe trattarsi? Sta mettendo in atto una grossa truffa, giusto? Ed è pronto a difenderla. Crede che stiamo per scoprirlo e dunque ci sta cercando. E adesso stiamo andando dritti nella tana del lupo...»

Reacher sorrise. «Ehi, la vita è piena di pericoli!»

Marilyn si svegliò irrigidita e infreddolita. Da dietro la porta giungevano alcuni rumori. Il bagno non aveva finestre, e lei non aveva idea di che ora fosse. Mattina, pensò, perché si sentiva come se avesse dormito per varie ore. Alla sua sinistra, Chester stava fissando il vuoto, lo sguardo migliaia di chilometri oltre il sifone del lavandino. Era inerte. A destra, Sheryl stava rannicchiata sul pavimento; respirava pesantemente dalla bocca, il naso era diventato nero, lucido e gonfio. Marilyn la fissò e deglutì, poi si voltò e premette un orecchio contro la porta.

Là fuori dovevano esserci due uomini. Sentiva due voci profonde che parlavano piano. Udiva il rumore degli ascensori in lontananza, il debole brontolio del traffico e, di tanto in tanto, alcune sirene che svanivano subito nel silenzio. Udì il rombo di un aereo, forse un jet partito dal JFK che stava sorvolando il porto, diretto a ovest. La donna si alzò. Durante la notte, aveva perso le scarpe, che ritrovò sotto la pila di asciugamani. Se le infilò e raggiunse il lavandino. Chester la fissava, ma senza vederla. Si guardò allo specchio. Meglio del previsto, pensò. L'ultima volta che aveva trascorso la notte sul pavimento di un bagno era stato a una festa universita-ria, più di vent'anni prima, e il suo aspetto non era peggiore di allora. Si pettinò con le dita e si bagnò gli occhi. Poi tornò alla porta, rimettendosi in ascolto.

Sì, due uomini... Però era sicura che Hobie non fosse uno di loro perché i toni delle voci parevano, in certo qual modo, simili: era una conversazione «botta e risposta», niente ordini né cenni di obbedienza. Marilyn spostò col tallone gli asciugamani, trasse un respiro profondo e aprì la porta.

I due uomini smisero di parlare e si voltarono a guardarla. Tony stava seduto sul divano di fronte alla scrivania, mentre l'altro individuo, a lei del tutto sconosciuto, era accanto al tavolo da caffè. Indossava un abito scuro, era robusto, non tanto alto. La scrivania era vuota, nessuna traccia di Hobie. Le veneziane erano semichiuse, ma s'intravedeva comunque la luce del sole. Era più tardi di quanto pensasse; Marilyn volse lo sguardo al divano e vide che Tony le stava sorridendo.

«Dormito bene?» le chiese.

Marilyn non rispose e mantenne un'espressione neutra finché il sorriso sul volto del segretario non svanì. Uno a zero, pensò. «Ho discusso alcune cose con mio marito», mentì poi.

Tony la guardò, ansioso, in attesa che parlasse di nuovo. Marilyn lo fece attendere. Due a zero. «Siamo d'accordo per il trasferimento. Ma sarà un po' complicato: ci vorrà del tempo. Esistono fattori che non credo com-prendiate. Lo faremo, però ci aspettiamo da voi un minimo di collaborazione per tutta la durata della procedura.»

«Per esempio?» fece Tony.

«Ne discuterò con Hobie, non con te.»

Nell'ufficio calò il silenzio, interrotto solo dai deboli rumori provenienti dal mondo esterno. La donna si concentrò sulla propria respirazione.

«Va bene», assentì Tony.

Tre a zero, pensò Marilyn e incalzò: «Vogliamo un po' di caffè. Tre tazze, latte e zucchero».

Di nuovo silenzio. Poi Tony annuì e l'uomo robusto si alzò. Distolse lo sguardo dalla signora Stone e uscì dall'ufficio, diretto in cucina. Quattro a zero.

L'indirizzo sulla lettera di Rutter corrispondeva a uno squallido negozio, alcuni isolati più in là di qualsiasi speranza di ristrutturazione urbana. Si trattava di un edificio rivestito di assi di legno, schiacciato tra due strutture di mattoni cadenti, a quattro piani, che un decennio prima dovevano essere state fabbriche o magazzini. Il negozio di Rutter aveva una vetrina sudicia sulla sinistra, l'entrata al centro e una saracinesca aperta sulla destra, che rivelava l'esistenza di uno stretto garage con all'interno una Lincoln Navigator. Reacher riconobbe il modello di una pubblicità. Era una Ford gigantesca con quattro ruote motrici e moltissimi optional, tali da giustificare la sua iscrizione al rango delle Lincoln. Era nera metallizzata e, probabilmente, valeva più dell'immobile in cui si trovava. Jodie superò l'edificio; procedeva lentamente a causa della strada dissestata. Reacher si guardò intorno, cercando di farsi un'idea del luogo. Svoltarono a sinistra e rifecero il giro dell'isolato. Jack individuò un vicolo che correva dietro gli edifici, con le scale d'emergenza arrugginite che pendevano sopra cumuli di spazzatura.

«Che facciamo?» chiese Jodie.

«Entriamo e basta. Per prima cosa osserviamo la sua reazione. Se ci riconosce, agiamo in un certo modo; se non lo fa, agiamo in un altro», rispose Reacher.

La donna parcheggiò qualche metro a sud del negozio, all'ombra di un magazzino di mattoni tutto annerito. Dopo aver chiuso la macchina, si avviarono insieme verso nord. Dal marciapiede, riuscirono a scorgere il materiale esposto dietro la vetrina sudicia. Equipaggiamento militare dismesso: vecchie tute mimetiche impolverate, anfibi, borracce, radio da campo, razioni K, elmetti da fanteria. Alcuni di quegli oggetti erano già obsoleti prima che Reacher lasciasse West Point. La porta era pesante e, quando si aprì, udirono il suono di un campanello. Il negozio era deserto. A destra si trovavano un bancone con dietro una porta che dava sul garage, una ra-strelliera circolare cromata con una serie d'indumenti appesi e un unico scaffale, sul quale erano impilate altre cianfrusaglie militari. C'era un'altra porta che dava sul vicolo, chiusa con un lucchetto e controllata da un di-spositivo d'allarme. In fila, accanto alla porta, c'erano cinque sedie di vinile imbottite, intorno alle quali erano sparsi mozziconi di sigarette e bottiglie di birra vuote. Nonostante la luce fioca, una polvere vecchia di anni era visibile su ogni superficie.

Reacher precedette Jodie. Il pavimento scricchiolò sotto il suo peso. Do-po due passi, Jack scorse una botola aperta dietro il bancone. Era robusta, fatta di vecchie assi di pino, fissata con cerniere d'ottone e liscia nel punto in cui generazioni di mani l'avevano afferrata per chiuderla. All'interno della botola erano visibili varie travi di legno; una scala stretta, dello stesso legno vecchio, conduceva in basso, verso una luce. Reacher udiva sotto di sé un rumore di piedi che calpestavano un pavimento di cemento.

«Arrivo subito, chiunque voi siate», gridò una voce proveniente dalla botola.

Era la voce di un uomo, forse di mezz'età, in parte sorpresa in parte sec-cata, la voce di uno che non aspetta clienti. Reacher strinse l'impugnatura della Steyr che teneva in tasca.

Dalla botola apparve prima una testa, poi due spalle e il torso. L'uomo era grosso e aveva difficoltà a uscire dall'apertura. Indossava pantaloni militari sbiaditi, aveva i capelli grigi e unti, una barba ispida dello stesso colore, un viso carnoso e occhi stretti. Uscì carponi, poi si alzò. «Posso aiutarvi?» chiese.

Un'altra testa e un altro paio di spalle apparvero dietro di lui. Poi un'altra ancora. E una terza. E una quarta. Ognuno dei quattro uomini si mise in piedi, si fermò per un istante, guardò Reacher e Jodie e s'avviò verso la fila di sedie. Erano individui corpulenti e tatuati, vestiti con pantaloni simili a quelli del primo uomo. Si sedettero con le braccia incrociate sulle enormi pance.

«Posso aiutarvi?» chiese di nuovo l'uomo.

«Lei è Rutter?» gli domandò Reacher.

Il tizio annuì. Non dava segno di riconoscerli. Jack diede una rapida occhiata ai gorilla sulle sedie, una complicazione che non aveva previsto.

«Che cosa vuole?» chiese Rutter.

Reacher cambiò piano. Tirò a indovinare la vera natura delle transazioni che avvenivano nel negozio e che cosa vi fosse nascosto in cantina. «Voglio un silenziatore per una Steyr», improvvisò.

Rutter sorrise, la mascella e gli occhi animati da un moto di autentico divertimento. «È contro la legge: per me venderlo, e per te possederlo.»

La voce monotona con cui pronunciò quelle parole rappresentava una chiara confessione che ne aveva e li vendeva. Ma conteneva anche un tono di superiorità, quasi volesse dire: Io ho qualcosa che tu vuoi, che mi mette in una situazione ài superiorità. Non c'era traccia di prudenza nella sua voce, nessun sospetto che Reacher fosse un poliziotto venuto lì per inca-strarlo. Nessuno aveva mai pensato che Jack fosse un poliziotto, era troppo alto e troppo grezzo, non era pallido e non aveva quell'aria furtiva che la gente associa agli sbirri. In effetti, Rutter non sembrava sospettare di lui...

piuttosto di Jodie. Non sapeva come inquadrarla; mentre parlava con Jack, aveva tenuto lo sguardo fisso su di lei, che lo guardava a sua volta, senza batter ciglio.

«Contro la legge di chi?» chiese la donna, freddamente.

Rutter si grattò la barba. «Sono costosi.»

«Rispetto a che cosa?» gli domandò lei.

Reacher sorrise tra sé. Rutter nutriva dubbi su Jodie e, con due domande, nove parole in tutto, lei l'aveva fuorviato, facendogli pensare che poteva essere di tutto: una VIP di Manhattan preoccupata per la minaccia di rapimento fatta ai suoi figli, la moglie di un miliardario che intendeva ereditare in fretta o una socia del Rotary decisa a sopravvivere a un complicato triangolo amoroso. Jodie lo stava guardando come fosse una donna avvez-za a ottenere tutto senza difficoltà: sia da parte della legge sia, a maggior ragione, da parte di uno squallido trafficante del Bronx.

«Una Steyr? Vuoi il pezzo originale austriaco?» chiese Rutter.

Reacher annuì, recitando la parte di chi doveva trattare i dettagli dell'affare. Rutter schioccò le dita; uno degli uomini si alzò dalla sedia e scese in cantina, per tornare dopo un po' con un cilindro nero avvolto in carta di giornale, che l'olio dell'arma aveva reso unta.

«Duemila testoni», precisò Rutter.

Il prezzo era quasi giusto. La pistola non era più in produzione, ma ipotizzò che l'ultimo prezzo di vendita al dettaglio fosse di ottocento-novecento dollari. Il prezzo di fabbrica finale del silenziatore superava probabilmente i duecento. Due bigliettoni da mille per una fornitura illega-le dieci anni dopo, a seimilacinquecento chilometri dalla fabbrica, era un prezzo quasi ragionevole.

«Fammelo vedere», ribatté Reacher.

Rutter pulì il tubo sui pantaloni e glielo passò. Jack estrasse la pistola e v'infilò il silenziatore. Non come si vede nei film: non lo si tiene ad altezza occhi e lo si avvita lentamente, con aria pensierosa e con cura quasi amo-revole. Si esercita una lieve e rapida pressione e, dopo averlo ruotato di mezzo giro, lo s'inserisce, come fosse l'obiettivo di una macchina fotografica. Il silenziatore migliora notevolmente l'arma, in particolare l'equilibrio. Novantanove volte su cento il colpo viene sparato troppo in alto, poiché il contraccolpo sposta la volata della canna in tale direzione; il peso del silenziatore contrasta quella tendenza. Inoltre serve a disperdere i gas di scoppio con relativa lentezza, diminuendo il rinculo.

«Va davvero bene?» chiese Reacher.

«Sicuro. È un pezzo originale», assicurò Rutter.

L'uomo sceso a prendere il silenziatore era tornato a sedersi. Quattro individui, cinque sedie. Il metodo migliore per sbaragliare una banda è colpire prima il capo. È una verità universale che Jack aveva imparato all'età di quattro anni. Primo: identificare il leader; secondo: atterrarlo con violenza.

Ma la situazione in cui si trovava in quel momento era differente. Rutter era il capo, ma doveva rimanere tutto intero perché Reacher aveva altri programmi per lui.

«Duemila bigliettoni», ripeté Rutter.

«Prova sul campo», propose Jack.

Il primo colpo in una Steyr GB richiede una pressione sul grilletto di circa sei chili, cioè una pressione più che deliberata: ciò è ritenuto sufficiente a evitare che parta un colpo accidentale se l'arma cade a terra. Per tale ragione non esiste nessun meccanismo di sicurezza. Reacher spostò la mano a sinistra ed esercitò quella pressione: la pistola sparò e la sedia vuota si disintegrò. Il rumore fu forte, non certo il colpetto di tosse che si sente nei film... Fu piuttosto come sollevare sopra la testa l'elenco telefonico di Manhattan e sbatterlo su un tavolo con tutta la forza.

Jack puntò l'arma contro l'uomo accanto alla sedia distrutta. «Di sotto.

Tutti. Muovetevi!» ordinò.

Nessuno si alzò. Reacher contò ad alta voce: «Uno, due, tre» e sparò ancora. Lo stesso rumore forte. Le assi di legno si frantumarono ai piedi del primo individuo. Uno, due, e Jack fece ancora fuoco. E poi ancora, uno, due e fuoco! Polvere e schegge di legno ovunque. Il rumore di quei colpi in ripetizione era assordante, l'aria era satura dell'odore penetrante della polvere bruciata e della lana d'acciaio calda all'interno del silenziatore.

Dopo il terzo colpo, gli uomini si alzarono tutti insieme, accalcandosi davanti alla botola e precipitandosi giù per le scale. Reacher chiuse lo sportello sopra di loro e vi trascinò sopra il bancone. Rutter era carponi e Jack lo colpì ripetutamente sulla schiena sino a farlo girare, arretrare e fargli sbattere la testa contro il bancone.

Jodie aveva la fotografia falsa in mano. Si chinò e gliela mise davanti agli occhi. L'uomo batté le palpebre, la osservò e cominciò a muovere la bocca, un'apertura irregolare tra la barba ispida. Anche Reacher si chinò e gli afferrò il polso sinistro. Gli sollevò la mano e gli prese il mignolo fra le dita.

«Ora ti farò alcune domande. E ti spezzerò un dito ogni volta che menti-rai», minacciò.

Rutter iniziò a dimenarsi, usando tutta la sua forza per cercare di girarsi e di fuggire. Jack lo colpì ancora, un colpo forte allo stomaco, e l'uomo ripiombò sul pavimento.

«Sai chi siamo?»

«No», ansimò Rutter.

«Dov'è stata scattata questa foto?»

«Campi segreti. Vietnam», mentì.

Reacher gli ruppe il mignolo. Lo torse lateralmente e gli fratturò la nocca. Risulta più semplice tirare il dito di lato piuttosto che piegarlo all'indietro. Rutter gridò di dolore, ma Jack gli afferrò l'anulare, al quale portava un anello d'oro.

«Dove?»

«Allo zoo del Bronx», ammise l'uomo.

«Chi è il ragazzo?»

«Uno preso a caso.»

«E l'uomo?»

«Un amico», ansimò Rutter.

«Quante volte l'hai fatto?»

«Forse quindici.»

Reacher gli piegò l'anulare di lato.

«È la verità. Non più di quindici volte. Lo giuro. E a voi non ho mai fatto niente. Nemmeno vi conosco», gridò.

«Conosci gli Hobie di Brighton?»

Rutter fece mente locale, sbalordito, poi il volto assunse un'espressione meravigliata, mentre si domandava come avessero fatto due patetici vecchietti a causargli tutti quei problemi.

«Sei un disgustoso pezzo di merda, lo sai?» lo insultò Jack.

Rutter stava agitando la testa, in preda al panico.

«Dillo, Rutter», gridò Reacher.

«Sono un pezzo di merda», piagnucolò l'uomo.

«Dov'è la tua banca?»

«La mia banca?» balbettò Rutter, con sguardo assente.

«La tua banca», ripeté Jack.

Vista l'esitazione di Rutter, Reacher fece pressione sul dito.

«A dieci isolati», strillò l'uomo.

«I documenti dell'auto?»

«Nel cassetto.»

Reacher fece un cenno a Jodie, la quale si alzò e aggirò il bancone. Aprì i cassetti e trovò un fascicolo. Lo sfogliò rapidamente e riferì: «Registrata a suo nome. Gli è costata quarantamila dollari».

Reacher cambiò presa e afferrò l'uomo per il collo, spingendogli la mandibola verso l'alto e dicendo: «Compro la tua auto per un dollaro. Scuoti la testa se hai qualcosa in contrario, d'accordo?»

Rutter rimase immobile, gli occhi sporgenti a causa della pressione che Jack gli esercitava sulla gola.

«Poi ti accompagno alla banca con la mia nuova auto. Tu preleverai diciottomila dollari in contanti e io li restituirò agli Hobie», continuò Jack.

«No. 19.650, ossia l'interesse del sei per cento circa per un anno e mezzo», intervenne Jodie.

«Bene. 19.650 per gli Hobie e altrettanti per noi», concordò Reacher, aumentando la stretta.

Rutter fissò Jack, incredulo, supplicante e confuso.

«Li hai imbrogliati. Hai detto loro che avresti indagato sul figlio, ma non l'hai fatto. Perciò dobbiamo farlo noi al posto tuo. I soldi ci servono per le spese», gli spiegò Reacher.

Il volto di Rutter stava assumendo un colorito bluastro. Le mani, avvin-ghiate ai polsi di Jack, tentavano disperatamente di alleviare la pressione.

«Va bene? Questo è ciò che faremo. Scuoti la testa se hai qualcosa in contrario con qualsiasi parte del programma.»

Rutter stava tirando forte i polsi di Reacher, ma la sua testa rimase immobile.

«Considerala una tassa. Una tassa sulle tue sporche frodi», continuò Jack. Tolse la mano di scatto e si alzò.

Quindici minuti più tardi si trovavano nella banca di Rutter. L'uomo tenne la mano sinistra in tasca e firmò un assegno con la destra. Cinque minuti dopo, Reacher aveva 39.300 dollari in contanti stipati nella borsa sportiva e, un quarto d'ora più tardi, lasciò Rutter nel vicolo dietro il negozio, con due biglietti da un dollaro accartocciati in bocca, uno per il silenziatore e uno per il fuoristrada. Dopo altri cinque minuti, stava seguendo la Taurus di Jodie, diretta alla rimessa della Hertz, all'aeroporto LaGuardia. Restituita l'auto, si diressero insieme verso Manhattan, sulla Lincoln di Rutter.