6

Hook Hobie, solo, nell'ufficio all'ottantottesimo piano, ascoltava i rumori di sottofondo del gigantesco edificio. Stava riflettendo su come modificare i suoi programmi. Non era un tipo irremovibile e ne andava fiero; era orgoglioso del modo in cui riusciva a cambiare e a adattarsi, ad ascoltare e a imparare. Era convinto che ciò gli conferisse una marcia in più, che gli consentisse di distinguersi dalla massa.

Era partito per il Vietnam quasi del tutto inconsapevole delle proprie capacità, dato che era molto giovane. E non solo: proveniva da un ambiente represso, da una vita condotta nella tranquilla routine della provincia, priva di ogni stimolo. Il Vietnam lo aveva cambiato. Avrebbe potuto spezzarlo, come aveva fatto con altri: ne aveva visti molti cadere a pezzi, e non solo ragazzini come lui, ma anche soldati più anziani, professionisti con anni di esercito alle spalle. Il Vietnam ti piombava addosso come un macigno: alcuni ne rimanevano schiacciati, altri no. Lui era sopravvissuto. Si era guardato attorno, era cambiato, si era adattato. Aveva ascoltato e imparato.

Uccidere era facile. Prima, Hobie non aveva mai visto niente di morto, a parte alcuni animali schiacciati dalle auto: tamie, conigli e, ogni tanto, qualche moffetta sul viale coperto di foglie vicino a casa. Il primo giorno in Vietnam aveva visto otto cadaveri, tutti di soldati americani. La pattuglia era stata colpita in pieno dal tiro di un mortaio: otto uomini ridotti in brandelli. Era stato un momento decisivo: i compagni erano ammutoliti, avevano iniziato a vomitare e a gemere, increduli; lui era rimasto impassibile.

Hobie aveva cominciato la propria attività diventando una sorta di mer-cante. Tutti volevano qualcosa, lamentandosi di ciò che non avevano. Era maledettamente facile: gli bastava ascoltare. Qui, c'era un soldato che fumava ma non beveva; là, uno che adorava la birra ma non fumava: prendi le sigarette da uno e scambiale con la birra dell'altro; media lo scambio e tieni per te una piccola percentuale. Era tutto così semplice e ovvio che non riusciva a credere che non lo facessero da soli. Tuttavia non aveva preso sul serio quel nuovo mestiere, perché era certo che non sarebbe dura-to a lungo: ben presto i soldati avrebbero capito e l'avrebbero tagliato fuori dai loro scambi. Eppure ciò non accadde mai. Quella era stata la prima lezione che aveva imparato: poteva fare cose che gli altri non erano in grado di fare, sapeva individuare ciò che gli altri non vedevano. Perciò si era messo ad ascoltare con più attenzione. Che cosa desideravano i soldati?

Moltissime cose. Donne, cibo, penicillina, dischi, prestare servizio al campo base ma non alle latrine. Scarponi, repellenti per gli insetti, armi croma-te, orecchie essiccate strappate ai cadaveri vietcong come souvenir. Mari-juana, aspirina, eroina, aghi sterili, incarichi sicuri negli ultimi cento giorni di servizio. Hobie ascoltava, imparava e vagliava. Poi aveva fatto il primo grande passo in avanti, un salto concettuale che ricordava sempre con immenso orgoglio e che gli sarebbe servito da modello per le conquiste successive. Il progresso era avvenuto in risposta a un paio di problemi che si era trovato ad affrontare. Il primo era il duro lavoro che doveva svolgere ogni giorno per soddisfare le varie richieste. Scovare oggetti specifici risultava talvolta complicato: trovare ragazze sane era molto difficile e tro-varle vergini era praticamente impossibile; trattare droga e medicinali era rischioso; cercare le altre cose era diventato, invece, sempre più noioso.

Procurarsi le armi decorate, i souvenir vietcong e persino scarponi decenti richiedeva molto tempo e l'avvicendamento continuo degli ufficiali stava rovinando i suoi affari nelle zone di non combattimento. Il secondo problema era la concorrenza. Si era accorto di non essere l'unico. Eccezionale, sì, ma non unico. Altri soldati stavano imparando il mestiere e si stava lentamente creando un libero mercato: a volte, i suoi scambi venivano rifiutati, la gente se ne andava, sostenendo di poter concludere affari migliori altrove. Cambiare e adattarsi. Hobie si era messo a riflettere sulla questione.

Aveva trascorso un'intera serata da solo, sdraiato sulla branda stretta, a pensare a una soluzione plausibile. E aveva fatto il grande balzo. Perché andare a caccia di oggetti sempre più difficili da trovare? Perché fare tutta quella strada per chiedere a un medico che cosa voleva in cambio di un cranio vietcong bollito e scarnificato? Perché darsi tanto da fare per barat-tarlo con qualche dannato oggetto, portare quest'ultimo al richiedente e tornare indietro col cranio? Perché commerciare in quella robaccia? Perché non trattare il bene più comune e più accessibile dell'intero Vietnam, cioè i dollari americani? E così Hobie era diventato un prestatore di denaro. In seguito, durante la convalescenza, quando aveva molto tempo per leggere, avrebbe sorriso mestamente a quel pensiero. Era stata un'evoluzione clas-sica. Le società primitive avevano iniziato col baratto, poi erano progredite fino a instaurare un'economia monetaria. La presenza americana in Vietnam era iniziata proprio come una simile società, di quello era convinto.

Primitiva, improvvisata, disorganizzata, avvinghiata alla superficie fango-sa di quell'orrendo Paese; col passare del tempo si era ampliata, era diventata stanziale, più matura. Era cresciuta, e Hobie era stato il primo della sua specie a crescere con essa. Il primo e, per molto tempo, l'unico, il che costituiva per lui motivo di enorme fierezza. Ciò provava che era migliore degli altri: più brillante, più fantasioso, in grado di cambiare, di adattarsi e di prosperare. Il contante era la chiave di tutto. Un soldato voleva un paio di scarponi, una dose di eroina o una ragazza che qualche bugiardo muso giallo giurava avesse dodici anni e fosse vergine? Bene, quel ragazzo poteva procurarsi tutto coi soldi chiesti in prestito a Hobie. Poteva gratificare il suo desiderio subito e pagare la settimana seguente, aggiungendo alla somma dovuta una piccola percentuale d'interesse. E Hobie poteva starsene seduto come un ragno grasso e pigro al centro della tela. Niente più scarpinate, niente più discussioni. Aveva riflettuto a lungo e si era reso conto del potere psicologico dei numeri. Numeri come il nove davano l'impressione di essere piccoli e amichevoli. Nove per cento era il suo tasso d'interesse preferito perché sembrava una cifra irrilevante. Nove, solo un piccolo scarabocchio su un foglio di carta, un'unica cifra. Meno di dieci, perciò un'inezia. Ecco cosa pensavano gli altri militari. Ma nove per cento a settimana significava il quattrocentosessantotto per cento in un an-no. Qualcuno posticipava il pagamento di sette giorni? Ed ecco entrare in gioco l'interesse composto. Quel quattrocentosessantotto schizzava subito al mille per cento. Ma nessuno ci faceva caso, nessuno tranne lui. Tutti vedevano soltanto l'innocuo nove.

Il primo debitore moroso era stato un tipo grande e grosso, selvaggio, fe-roce e un po' tardo. Hobie gli aveva depennato il debito, suggerendogli che avrebbe potuto ripagarlo affiancandolo nella sua attività, nel ruolo d'intimidatore. Da allora in poi, non c'erano più stati inadempienti. Il metodo esatto di deterrenza era stato però difficile da stabilire: un braccio o una gamba rotti avrebbero spedito il soldato lontano dal fronte, all'ospedale da campo, dove sarebbe stato al sicuro, circondato da infermiere bianche che avrebbero capitolato alle sue avance, se soltanto si fosse inventato una storia eroica sul suo ferimento. Una frattura grave gli sarebbe valsa addirittura il congedo e il ritorno a casa. Tutto ciò non fungeva affatto da deterrente.

Perciò Hobie aveva ordinato al suo intimidatore di utilizzare le punte pun-ji, un'invenzione vietcong: bastoni di legno acuminati come spiedi e ricoperti di letame di bufalo, notoriamente velenoso. I vietcong li nascondeva-no in buche poco profonde, in modo che gli americani li calpestassero, procurandosi ferite infette nei piedi. L'uomo di Hobie minacciava di usarli sui testicoli degli insolventi, e la clientela dello strozzino ben presto si rendeva conto che non valeva la pena rischiare tanto, nemmeno in cambio del depennamento del debito e del congedo militare.

Quando si era ustionato e aveva perso il braccio, Hobie era già molto ricco. Il suo successivo colpo da maestro era stato portare a casa la propria fortuna, integra e senza problemi: non tutti ci sarebbero riusciti, soprattutto in quelle circostanze. Ciò costituiva un'ulteriore prova di grandezza, come, del resto, la sua vita seguente. Era giunto a New York dopo un viaggio tor-tuoso, c'era giunto menomato e sfigurato, ma si era sentito subito a casa.

Manhattan era una giungla, non molto diversa da quelle dell'Indocina; quindi non aveva ragione di agire diversamente. Non c'era motivo di cambiare linea di condotta, considerando anche il fatto che partiva con un bel capitale, non più dal nulla. Aveva praticato lo strozzinaggio per anni, e-stendendo l'attività. Possedeva il capitale e possedeva l'immagine: le cicatrici e l'uncino avevano un grande impatto visivo. Generazioni d'immigrati e di poveracci erano stati il punto di forza dei suoi affari. Per restare sul mercato, aveva combattuto la concorrenza degli italiani; per rimanere invisibile, aveva corrotto intere squadre di poliziotti e di avvocati. Poi c'era stato il secondo, grande balzo in avanti, in un modo molto simile al primo.

Era stato un processo di riflessione profondo e radicale, la risposta all'en-nesimo problema. Aveva milioni di dollari sparsi per le strade, ma erano poco redditizi; migliaia di contratti distinti, cento dollari da una parte, centocinquanta dall'altra, nove o dieci per cento alla settimana, cinquecento o mille per cento all'anno. Troppi documenti, troppe discussioni e troppe corse per tenere il passo. D'improvviso, si era reso conto che «meno è più». L'idea era arrivata come un fulmine a ciel sereno: il cinque per cento di un milione di dollari dato in prestito a una società avrebbe reso, in una settimana, più del cinquecento per cento dei miseri prestiti da strada. Così Hobie si era messo febbrilmente all'opera: aveva congelato tutti i nuovi prestiti, usando qualsiasi metodo per riavere tutto ciò che gli era dovuto.

Aveva comprato abiti eleganti, affittato alcuni uffici e, da un giorno all'altro, era diventato un prestatore di denaro a livello aziendale. Era stata una mossa da vero genio. Aveva scovato quel limbo grigio situato al di là della prassi commerciale convenzionale, e aveva trovato un sostanzioso gruppo di potenziali clienti che stavano per scivolare oltre il margine considerato accettabile dalle banche. Un gruppo numeroso, disperato, ma, soprattutto, arrendevole. Bersagli facili, uomini educati, in giacca e cravatta, che si recavano da lui per un milione di dollari e che comportavano un rischio assai minore di qualsiasi individuo con una canottiera sudicia, che ne voleva magari solo un centinaio, però abitava in una casa popolare sporca con un cane idrofobo dietro la porta. Bersagli arrendevoli, facili da intimidire, non avvezzi alla dura realtà della vita. Hobie aveva sguinzagliato allora i suoi intimidatori, si era seduto nel suo ufficio ed era rimasto a osservare mentre la clientela si riduceva a un pugno di debitori, il prestito medio aumentava di un milione di volte, i tassi d'interesse tornavano stratosferici e i profitti raggiungevano livelli che mai si sarebbe immaginato. «Meno è più.» Era un settore d'attività meraviglioso. Talvolta, ovviamente, era costretto a risolvere qualche problema, ma perlopiù si trattava di questioni gestibili. Era cambiata anche la tattica deterrente, in quanto il punto debole dei nuovi debitori erano le famiglie. Di solito, bastava limitarsi a una minaccia ma, qualche volta, bisognava passare all'azione e spesso la cosa risultava anche gradevole: mogli e figlie potevano rivelarsi molto divertenti. Un piacere in più. Aveva un'attività meravigliosa, costruita con la volontà di cambiare e di adattarsi continuamente. Nel profondo, Hobie sapeva che la flessibilità era la chiave di tutto, il suo punto di forza, e si era ripromesso di non di-menticarlo mai. Tale era la ragione per cui, in quel momento, si trovava solo nel suo ufficio, lassù all'ottantesimo piano, ad ascoltare i suoni di sottofondo dell'enorme edificio, a riflettere e a modificare i suoi piani.

Ottanta chilometri più a nord, a Pound Ridge, anche Marilyn Stone stava modificando i propri piani. Era una donna intelligente e intuiva che Chester aveva problemi finanziari. Non poteva trattarsi di nient'altro: non aveva una relazione extraconiugale, ne era certa. Esistono segni particolari da cui si capisce quando un uomo ha un'altra e Chester non ne presentava nessuno. Pertanto non poteva che avere difficoltà lavorative. All'inizio, aveva deciso di attendere, di starsene tranquilla fino al giorno in cui lui si fosse tolto il peso dallo stomaco e le avesse confessato tutto. Soltanto allora sarebbe intervenuta: avrebbe potuto gestire la situazione di lì in poi, valutarne la gravità: debiti, insolvenze, persino la bancarotta. Le donne so-no più abili degli uomini nell'affrontare determinate situazioni. Avrebbe potuto prendere decisioni pratiche, offrire consolazione al marito e rac-cogliere i cocci, lenendo la disperazione dettata dall'orgoglio che Chester avrebbe senz'altro provato. Ma stava cambiando idea. Non poteva più attendere: le preoccupazioni stavano uccidendo Chester. E Marilyn avrebbe agito autonomamente. Parlargli sarebbe stato inutile: il suo istinto era quello di nascondere i problemi per non assillarla, perciò avrebbe negato tutto e la situazione avrebbe continuato a peggiorare. Doveva prendere una decisione e agire, per il bene di Chester, oltre che per il suo.

Il primo passo era mettere la casa nelle mani di un agente immobiliare.

Quale che fosse la gravità dei guai in cui lui si era cacciato, vendere la casa sarebbe stato sicuramente opportuno. Marilyn non aveva modo di sapere se il ricavato sarebbe stato sufficiente a risolvere la situazione, ma le sembrava il punto più ovvio dal quale partire. Una donna ricca di Pound Ridge, come Marilyn, ha numerosi contatti nel campo immobiliare. Molte donne di un gradino inferiore della scala sociale, che vivono agiatamente pur senza essere ricche, collaborano con agenzie immobiliari. Lavorano part-time e cercano di farlo sembrare un hobby, più legato alla passione per l'arredamento d'interni che al commercio in sé. Marilyn poteva scegliere fra quattro amiche. Con la mano sul ricevitore, decise quale chiamare.

Alla fine optò per Sheryl: la conosceva meno bene delle altre, ma le sembrava la più competente. Lei stava prendendo la questione sul serio e il suo agente immobiliare avrebbe dovuto fare altrettanto. Compose il numero.

«Marilyn, che piacere sentirti! Che posso fare per te?» la salutò Sheryl.

La signora Stone fece un respiro profondo e disse: «Forse venderemo la casa».

«E hai chiamato me? Marilyn, grazie. Ma perché mai volete venderla? Il luogo in cui vivete è così grazioso... Per caso vi trasferite in un altro Stato?»

Marilyn fece un altro respiro profondo. «Credo che Chester sia sull'orlo della bancarotta. A dire la verità, non ne vorrei parlare, ma immagino che dovremo iniziare a elaborare un piano d'emergenza», ammise.

Non ci fu esitazione né imbarazzo da parte di Sheryl, che si limitò a osservare: «Credo sia saggio. Molte persone attendono troppo a lungo, poi si trovano costrette a vendere in modo affrettato e ci perdono».

«Molte persone? Succede spesso?»

«Stai scherzando? In continuazione. È meglio affrontare subito la questione e riscuotere il valore reale dell'immobile. Stai facendo la cosa più giusta, credimi. Come fanno del resto sempre le donne, Marilyn. Noi riusciamo a gestire queste faccende meglio degli uomini, non ti pare?»

Marilyn si rilassò e sorrise. Sentiva che stava facendo la scelta giusta e che Sheryl era la persona più adatta.

«La metto subito in lista. Suggerisco una richiesta sui due milioni di dollari, e un obiettivo di un milione e novecentomila. Questa somma dovrebbe stuzzicare qualche appetito in breve tempo», propose Sheryl.

«Quanto breve?»

«Col mercato di oggi? In quella posizione? Sei settimane. Sì, ti posso garantire un'offerta entro sei settimane.»

La dottoressa McBannerman era ancora restia a rivelare informazioni confidenziali; nonostante avesse fornito a Jodie e Reacher l'indirizzo dei signori Hobie, non aggiunse il numero telefonico. Jodie non vide nessuna logica legale in tutto ciò, ma, dal momento che la donna si sentiva più tranquilla a comportarsi in quel modo, non insistette. Si limitò a stringerle la mano e, attraversata la sala d'attesa, uscì di fretta nel parcheggio, seguita da Reacher.

«Hai visto quelle persone nella sala d'attesa?» chiese.

«Già. Persone anziane, con un piede nella fossa», rispose Jack.

«Così sembrava papà poco prima della fine. Proprio così. E credo che il signor Hobie non sia molto diverso. Che cosa possono aver scatenato quei tre di tanto grave da causare la morte di un uomo?»

Salirono insieme sulla Bravada, poi Jodie si protese dal sedile del passeggero e sganciò il telefono dell'auto. Reacher avviò il motore e tirò l'aria, mentre la donna chiamava il servizio informazioni. Gli Hobie vivevano a nord di Garrison, oltre Brighton, la fermata successiva del treno. Jodie scrisse il numero a matita sul foglietto di un blocco tascabile e lo compose.

Il telefono squillò a lungo, poi, finalmente, una voce femminile rispose:

«Pronto?»

«La signora Hobie?» chiese Jodie.

«Sì?» rispose la voce tremolante.

Jodie s'immaginò la donna: una vecchietta malferma, magra, i capelli grigi, con indosso un grembiule a fiori, attaccata a un vecchio ricevitore in una casa buia, odorante di cibo stantio e di cera per mobili.

«Signora Hobie, sono Jodie Garber, la figlia di Leon.»

«Sì?» chiese ancora la donna.

«È morto, cinque giorni fa.»

«Sì, lo so», rispose l'anziana signora. Sembrava rattristata. «La segretaria della dottoressa McBannerman ce l'ha riferito alla visita di ieri. Mi dispiace molto, era un brav'uomo. È stato molto gentile con noi, ci stava aiutando. E ci ha parlato di lei. È avvocato, vero? Le faccio le mie condoglianze.»

«Grazie. Ma potrebbe dirmi in che cosa vi stava aiutando?» Jodie arrivò subito al punto.

«Ha ancora importanza?»

«Perché non dovrebbe?»

«Be', perché suo padre è morto. Capisce, temo fosse la nostra ultima speranza.» Dal modo in cui aveva pronunciato quelle parole, ne sembrava del tutto convinta. La voce si era abbassata, velandosi di rassegnazione e assumendo una sorta di cadenza tragica, come se la donna avesse rinunciato a qualcosa cui ambiva da tempo.

Jodie s'immaginò di nuovo la donna, una mano ossuta che teneva il ricevitore all'orecchio, una lacrima su una guancia pallida e scarna. «Forse non lo era. Forse posso aiutarla io», esclamò la giovane.

Dall'altra parte del filo ci fu un lungo silenzio. Poi si avvertì il lieve sibilo del respiro. «Be', non lo so», rispose infine la donna. «Non credo si tratti del tipo di cose che trattano normalmente gli avvocati, capisce?»

«Di che si tratta?»

«Non credo abbia più importanza, ora», ripeté la signora Hobie.

«Può darmi un indizio?»

«No, credo sia tutto finito», rispose l'anziana donna, come se il suo vecchio cuore stesse per spezzarsi.

Poi di nuovo silenzio.

Jodie guardò l'ufficio della McBannerman attraverso il parabrezza. «Ma in che modo avrebbe potuto aiutarvi mio padre? Sapeva qualcosa di particolare? C'entra per caso col fatto che era nell'esercito? Riguarda l'esercito?»

«Be', sì. Per questo temo che lei, in qualità di avvocato, non possa aiutarci. Ci siamo rivolti anche a un paio di suoi colleghi. Abbiamo bisogno di qualcuno che abbia contatti con l'esercito, credo. Comunque, grazie per l'offerta. È stato molto generoso da parte sua.»

«C'è un'altra persona... È qui con me ora. Lavorava con mio padre, nell'esercito. Sarebbe disposto ad aiutarvi, se potesse», azzardò Jodie.

Calò nuovamente il silenzio, interrotto solo dal medesimo respiro sibilante. Sembrava che la donna stesse riflettendo sul da farsi.

«Si tratta del maggiore Reacher. Forse mio padre gliene ha parlato. Hanno lavorato insieme per molto tempo; mio padre l'aveva mandato a cercare quando si era reso conto di non poter più continuare», continuò Jodie.

«Lo ha mandato a cercare?» si stupì la donna.

«Sì, forse pensava che avrebbe potuto sostituirlo in ciò che stava facendo per voi.»

«Era anche lui nella polizia militare?»

«Sì. È importante?»

«Non ne sono del tutto certa», rispose la donna. Poi, dopo una pausa, chiese: «Può venire a casa nostra?»

«Verremo entrambi. Vuole che veniamo subito?»

Un altro silenzio.

«Mio marito ha preso da poco le medicine e ora sta dormendo. È molto malato, sa?»

Jodie annuì, poi aprì e richiuse la mano libera, in un gesto di frustrazio-ne. «Signora Hobie, mi può dire di che si tratta?»

Un altro silenzio, un altro respiro e un'altra pausa di riflessione.

«Preferirei ve lo dicesse mio marito. Credo che possa spiegarvelo meglio di me. È una storia lunga e a volte mi confondo.»

«D'accordo, verso che ora si sveglierà? Possiamo venire più tardi?»

chiese Jodie.

«Di solito, dopo aver preso le medicine, dorme fino al mattino seguente.

È un gran bene. L'amico di suo padre può venire domani mattina presto?»

propose la signora.

Hobie premette il tasto dell'interfono con la punta dell'uncino e chiamò il segretario per nome, una confidenza insolita per lui, generalmente causata dallo stress. «Tony? Dobbiamo parlare.»

Tony lasciò il bancone di quercia e ottone ed entrò nell'ufficio, annun-ciando: «È stato Garber ad andare alle Hawaii».

«Ne sei sicuro?» gli chiese Hobie.

Tony annuì. «Con l'American, da White Plains a Chicago, da Chicago a Honolulu, il 15 aprile. È tornato il giorno seguente, il 16, stessa rotta. Ha pagato con l'Amex. È tutto nel loro computer.»

«Ma che cosa avrà fatto laggiù?» fece Hobie, come se parlasse tra sé.

«Non lo sappiamo. Ma possiamo indovinarlo, vero?»

Nell'ufficio calò un silenzio sinistro. Tony, in attesa di una risposta, fissò la parte sana del volto di Hobie.

«Ho ricevuto la chiamata da Hanoi», rivelò Hobie, rompendo il silenzio.

«Cristo! Quando?»

«Dieci minuti fa.»

«Gesù! Hanoi? Cazzo, cazzo, cazzo!»

«Trent'anni... E ora è accaduto», mormorò Hobie.

Tony si alzò e aggirò la scrivania. Con le dita scostò due listelli delle veneziane e un raggio di sole pomeridiano penetrò nella stanza. «Dovrebbe andarsene subito. Restare è troppo pericoloso.»

Hobie non disse nulla e afferrò l'uncino con la mano sinistra.

«Lo ha promesso. Fase uno, fase due. Si sono entrambe verificate. Le chiamate sono giunte davvero, santo Dio!» incalzò Tony, allarmato.

«Occorrerà loro ancora un po' di tempo, no? In questo momento, non sanno ancora niente», mormorò Hobie.

Tony scosse il capo. «Garber non era un imbecille. Sapeva qualcosa. Se è andato alle Hawaii, avrà avuto i suoi buoni motivi.»

Hobie avvicinò l'uncino al volto e passò con delicatezza il metallo freddo sulle cicatrici, sperando di alleviare il prurito. «E quell'altro tizio... Quel Reacher? Qualche novità?»

Tony sbirciò attraverso la veneziana. «Ho chiamato. Era anche lui nella polizia militare, è stato al servizio di Garber per tredici anni. Hanno avuto un'altra richiesta d'informazioni sullo stesso uomo, dieci giorni fa. Credo si trattasse di Costello.»

«Ma perché la famiglia Garber paga Costello per scovare un vecchio compagno d'armi? Perché? Per quale dannata ragione?»

«Non ne ho idea. Quel tipo è uno sbandato. Scavava fosse per piscine, a Key West.»

«Un poliziotto militare che ora è uno sbandato», mormorò Hobie, assorto nelle sue riflessioni.

«Dovrebbe andarsene», ripeté Tony.

«Non mi piace la polizia militare.»

«Lo so.»

«Che cosa fa qui, quel bastardo d'un ficcanaso?»

«Dovrebbe scomparire», gli suggerì ancora una volta Tony.

«Sono un tipo flessibile, questo lo sai», replicò Hobie.

Tony lasciò che la veneziana si richiudesse. La stanza piombò nel buio.

«Non le sto chiedendo d'essere flessibile. Le sto chiedendo di attenersi a ciò che ha pianificato da sempre.»

«Ho cambiato i miei piani. Voglio portare a termine l'affare Stone.»

Tony girò attorno alla scrivania e andò a sedersi sul divano. «È troppo rischioso rimanere solo per quello. Entrambe le chiamate sono arrivate.

Vietnam e Hawaii, per l'amor del cielo!»

«Lo so. Perciò ho cambiato ancora il piano», rispose Hobie.

«È tornato a quello originario?»

«È una combinazione dei due. Ce ne andremo, certo, ma soltanto dopo aver inchiodato Stone.»

Tony sospirò e lasciò cadere le braccia sul divano. «Sei settimane sono...

sono troppe. Garber è stato alle Hawaii, dannazione! Era un generale importante, e ovviamente sapeva qualcosa, se no perché sarebbe andato fin laggiù?»

Hobie annuì. Sulla sua testa cadde un sottile fascio di luce che gli illuminò alcune ciocche grigie. «Sapeva qualcosa, d'accordo. Ma si è ammalato ed è morto. Ciò che sapeva è morto con lui. Perché altrimenti la figlia si sarebbe rivolta a un detective privato e a uno sbandato senza lavoro?»

«Dove vuole arrivare?»

Hobie abbassò l'uncino sotto il tavolo, posò il mento sulla mano sinistra e lasciò che le dita coprissero in parte le cicatrici. Era una posa che assumeva inconsciamente quando voleva sembrare più conciliante e meno minaccioso.

«Non posso rinunciare a Stone», borbottò. «Questo lo capisci, vero? È lì, pronto per essere divorato. Se mi arrendo, non potrò mai perdonarmelo.

Sarebbe una dimostrazione di vigliaccheria. Fuggire è una mossa intelligente, sono d'accordo con te; ma fuggire troppo presto, prima del necessario, è codardia. E io non sono un codardo, Tony, tu lo sai, vero?»

«Allora che intende fare?» lo incalzò il segretario.

«Facciamo entrambe le cose, ma acceleriamo i tempi. Concordo con te: sei settimane sono troppe. Dobbiamo andarcene prima. Però non senza l'affare Stone. Forzeremo un po' la situazione.»

«Va bene. Come?»

«Oggi ho immesso le azioni sul mercato», spiegò Hobie. «Novanta minuti prima che suonasse la campana di chiusura. Dovrebbe esser sufficiente per far arrivare il messaggio alle banche. Domani mattina, Stone verrà qui, incazzato. Io non ci sarò, perciò tu gli dirai ciò che voglio e che cosa faremo se non lo otterremo. Avremo il tutto in un paio di giorni al massimo. Io venderò in anticipo le proprietà di Long Island, in modo da non ac-cumulare ritardi. Nel frattempo, tu chiuderai la baracca.»

«Che devo fare di preciso?» chiese Tony.

Hobie osservò l'ufficio semibuio. «Ce ne andremo da qui. Perderemo sei mesi d'affitto, ma pazienza. Quei due coglioni che giocano a fare i miei uomini non saranno un problema. Uno verrà eliminato stanotte, e tu lavo-rerai con l'altro finché non mi porterà la Jacob; dopodiché li farai fuori tutti e due. Venderai la barca, le auto, e sarà tutto sistemato: nessuna faccenda in sospeso. Diciamo una settimana. Una sola. Ce la possiamo concedere, vero?»

Tony fece cenno di sì, sollevato alla prospettiva di agire. «E quel Reacher? Lui resta in sospeso.»

«Per lui ho altri progetti.»

«Non lo troveremo. Non da soli e in una settimana. Non abbiamo tempo per andare in giro a cercarlo.»

«Non sarà necessario.»

Tony lo fissò, sbalordito. «Dobbiamo, capo. È un conto in sospeso, giusto?»

Hobie scosse la testa. Poi tolse la mano da sotto il mento e sollevò l'uncino. «Non c'è ragione di sprecare energie per cercarlo. Lascerò che mi trovi lui. Lo farà. Conosco questi poliziotti.»

«E poi?»

Hobie sorrise. «Poi condurrà una vita lunga e felice. Almeno per altri trent'anni.»

«E ora che facciamo?» chiese Reacher.

Si trovavano ancora nel parcheggio davanti allo studio basso e lungo della McBannerman, il motore acceso e l'aria condizionata al massimo per combattere il calore del sole che picchiava sulla vernice verde scuro della Bravada. I bocchettoni erano angolati in modo da arieggiare l'intero abitacolo, e Reacher riusciva a percepire il delicato profumo di Jodie mescolato al freon.

In quel preciso istante si sentì felice, perché stava rivivendo una vecchia fantasia. Più volte, in passato, aveva immaginato come si sarebbe sentito accanto a lei, quando fosse cresciuta. Era una sensazione che non si sarebbe mai aspettato di provare, giacché aveva creduto di averla persa per sempre. Pensava che i suoi sentimenti sarebbero svaniti col tempo; invece, eccolo lì, seduto accanto a lei, a respirarne il profumo e a lanciare occhiate furtive alle sue gambe allungate nell'abitacolo. Pur avendo sempre supposto che sarebbe diventata una splendida donna, ne aveva sottovalutato la bellezza, e si sentiva un po' in colpa. Le sue fantasie non le avevano reso giustizia.

«È un problema. Io non posso andare lassù, domani. Non posso prendermi un altro giorno. Siamo molto impegnati, devo lavorare», disse Jodie.

Quindici anni. Erano tanti o pochi? Potevano cambiare una persona? A lui sembravano pochi; non si sentiva molto diverso dalla persona di tanti anni prima. Era sempre lo stesso, pensava nel medesimo modo ed era in grado di fare le stesse cose. Aveva acquisito molta esperienza, era più vecchio, più temprato, ma era sempre lui. Avvertiva invece che Jodie era diversa. Non poteva essere altrimenti: in quei quindici anni lei aveva vissuto molte cose. La scuola superiore, il college, la facoltà di legge, il matrimonio, il divorzio, il lavoro, lo studio legale... Reacher aveva la sensazione di trovarsi in acque sconosciute, non sapeva come porsi nei confronti di quella donna, perché aveva a che fare con tre realtà differenti che si avvicenda-vano nella sua mente: la Jodie quindicenne, la donna che lui si era immaginato fosse diventata e la persona reale. Sapeva tutto delle prime due, e niente della terza. Conosceva la ragazzina, conosceva la giovane che si era inventato nella sua testa, ma non quella vera. Ciò lo rendeva insicuro; non voleva commettere errori stupidi con lei.

«Dovrai andarci da solo. Va bene?» continuò Jodie.

«Certo. Ma non è questo il punto. Tu dovrai stare molto attenta», l'avvertì Reacher.

Jodie annuì, poi infilò le mani nelle maniche e si abbracciò. Jack la osservò e si chiese il significato di quel gesto.

«Non mi capiterà niente, almeno credo», disse la donna.

«Dove si trova il tuo ufficio?»

«A Wall Street e vivo su Lower Broadway.»

«Dunque è lì che vivi, su Lower Broadway?»

La donna annuì. «Sono tredici isolati. In genere, vado a piedi.»

«Non domani. Ti porterò io», decise Reacher.

«Davvero?» Lei sembrò sorpresa.

«Certo! Tredici isolati a piedi? Scordatelo, Jodie. Sarai abbastanza al sicuro a casa, ma potrebbero rapirti per strada. E l'ufficio? È sicuro?»

«Nessuno entra, non senza un appuntamento e una carta d'identità.»

«Bene. Allora rimarrò da te tutta la notte e domani ti accompagnerò al lavoro. Poi tornerò quassù e andrò a trovare gli Hobie. Tu rimarrai in ufficio finché non verrò a riprenderti, intesi?»

La donna rimase in silenzio e Jack ripensò a ciò che aveva detto.

«Intendevo dire... Hai una stanza per gli ospiti, vero?»

«Certamente. Ho una stanza libera», rispose lei.

«Allora va bene?»

Jodie si disse d'accordo.

«E ora?» le chiese Jack.

Lei si mise di traverso sul sedile. Il flusso d'aria del bocchettone centrale le gettò i capelli sul volto. Jodie se li sistemò dietro l'orecchio e squadrò Jack dalla testa ai piedi. Poi sorrise. «Ora dovremmo andare a far spese».

«Spese? Per comprare che? Di che cos'hai bisogno?» si stupì Jack.

«Non io. Tu», lo corresse lei.

«Di che cosa ho bisogno io

«Di vestiti. Non puoi andare a trovare una coppia di gentili vecchietti vestito in quel modo, a metà tra un vagabondo e un selvaggio del Borneo, giusto? Inoltre» - si allungò e toccò il buco nella camicia con la punta del dito -, «dobbiamo trovare una farmacia. Devi mettere qualcosa su quella bruciatura.»

«Che diavolo sta combinando?» urlò il direttore finanziario.

Era sulla soglia dell'ufficio di Chester Stone, due piani sopra il suo, le mani sullo stipite, il fiato grosso e un'espressione furiosa sul volto. Non aveva atteso l'ascensore ed era salito di corsa dalle scale antincendio. Stone lo fissò, il viso inespressivo.

«È impazzito? Le avevo detto di non farlo», urlò.

«Fare cosa?» chiese Stone.

«Immettere le azioni sul mercato. Le avevo detto di non farlo.»

«Non l'ho fatto», si difese Stone. «Non ci sono azioni sul mercato.»

«E invece sì, dannazione! Una fetta enorme. Hanno fatto scappare tutti come se fossero radioattive», ribatté l'altro.

«Come?»

Il direttore finanziario riprese fiato. Guardò il suo datore di lavoro e vide un uomo piccolo e curvo in un ridicolo vestito inglese, seduto a una scrivania che da sola valeva dieci volte più dei titoli della società.

«Le avevo detto che non doveva. Perché non ha acquistato una pagina sul Wall Street Journal e non ha fatto scrivere: 'Ehi, gente, la mia società vale meno di un cazzo'?»

«Di che diavolo stai parlando?» protestò Stone.

«Mi hanno chiamato le banche. Le azioni della Stone sono spuntate u-n'ora fa e il prezzo sta calando più rapidamente di quanto i computer rie-scano a registrare. Sono invendibili. Ha mandato loro un messaggio, dannazione! Ha detto alle banche che è insolvente, che deve loro sedici milioni di dollari garantiti da titoli che non valgono nemmeno sedici dannati centesimi», sbraitò l'uomo.

«Io non ho immesso le azioni sul mercato», ribadì Stone.

Il direttore finanziario annuì, sarcasticamente. «E chi le ha immesse?

Mio nonno?»

«Hobie...» comprese Stone. «Dev'essere stato lui. Dio mio, ma perché?»

«Hobie?» ripeté l'altro.

Chester Stone si limitò ad annuire.

«Hobie», ripeté il direttore finanziario, incredulo. «Merda, gli ha dato le azioni?»

«Ho dovuto. Non potevo fare altrimenti», si giustificò Stone.

«Cazzo! Lo vede che cosa sta facendo?»

Chester fissò il vuoto. Appariva spaventato. «Che possiamo fare?»

L'altro lasciò cadere le braccia e gli voltò le spalle. «Dimentichi il noi.

Non esiste più nessun noi. Io rassegno le dimissioni, me ne vado. Se la sbrighi da solo.»

« Tu mi hai raccomandato quell'uomo», urlò Stone.

«Non le ho detto di dargli le azioni. Che cos'è, ammattito, per caso? Se le consiglio di visitare un acquario per vedere i piranha, lei immerge il suo dannato dito nella vasca?»

«Devi aiutarmi», lo supplicò Stone.

L'uomo scrollò il capo. «Dovrà arrangiarsi. Io mi licenzio. Le consiglio di scendere nel mio ex ufficio e di darsi una mossa. C'è un'intera fila di telefoni su quella che era la mia scrivania, e squillano tutti. Le suggerisco d'iniziare da quello che suona più forte!»

«Aspetta! Ho bisogno del tuo aiuto!»

«Contro Hobie? Continui pure a illudersi, caro mio.» Dopodiché se ne andò. Si voltò, attraversò l'ufficio della segretaria e scomparve.

Stone si alzò dalla scrivania, raggiunse la porta e lo guardò scomparire.

L'ufficio era silenzioso, la segretaria era andata via prima del dovuto. Uscì in corridoio. Il reparto vendite, sulla destra, era deserto, come pure l'ufficio marketing, sulla sinistra; le fotocopiatrici erano ferme. Stone chiamò l'ascensore; il rumore meccanico risuonò in quell'insolita quiete. Scese di due piani. L'ufficio del direttore finanziario era vuoto, i cassetti della scrivania erano aperti e tutti gli oggetti personali erano già stati portati via. Entrò nell'ufficio interno: la lampada da tavolo italiana era accesa, il computer spento, i ricevitori dei telefoni erano stati staccati dagli apparecchi e posati alla scrivania di palissandro. L'uomo ne afferrò uno.

«Pronto? Sono Chester Stone», mormorò.

Lo ripeté due volte, ma dall'altra parte della linea udì solo silenzio. Poi rispose una donna, che lo pregò di attendere. Si udirono ronzii e vari clic,

poi qualche secondo di una musica dolce.

«Signor Stone? Qui è l'Ufficio Insolvenze», disse una voce.

Stone chiuse gli occhi e si aggrappò alla cornetta.

«Per favore, attenda il direttore», fece la voce.

Di nuovo la musica. Un lamento infinito di violini barocchi.

«Signor Stone?» chiese una voce profonda. «Sono il direttore.»

«Buongiorno», mormorò Stone, non sapendo che altro dire.

«Stiamo prendendo provvedimenti. Sono sicuro che comprenderà la nostra posizione.»

«Va bene», rispose Chester. Ma stava pensando: Quali provvedimenti?

Cause legali? Carcere?

«Dovremmo uscire dal ginepraio, la trattativa inizia domani», continuò la voce.

«Uscire dal ginepraio? In che modo?»

«Stiamo vendendo il debito, ovviamente.»

«Vendendo? Non capisco.»

«Non lo vogliamo più. Sono sicuro che capirà. Ha superato i nostri pa-rametri di sicurezza, perciò lo vendiamo. È quello che fanno tutti, no? Se hanno qualcosa che non desiderano più, la vendono al miglior offerente», gli spiegò l'uomo.

«A chi state vendendo?» chiese Chester, sbalordito.

«A una fiduciaria delle Cayman. Hanno fatto un'offerta.»

«E che ne sarà di noi?»

«Di noi?» La voce era perplessa. «Di noi, nulla. Il suo obbligo nei nostri confronti è terminato. Non esiste più nessun noi. Il nostro rapporto è finito.

Il mio unico consiglio è di non tentare mai di resuscitarlo. In tal caso, non farebbe che aggiungere il danno alla beffa.»

«E di chi sarei debitore, ora?»

«Della società nelle Cayman. Sono sicuro che chiunque vi sia dietro la contatterà molto presto, con la sua proposta di rimborso.»

Reacher scese dall'auto e risalì dalla parte opposta. Jodie scivolò alla guida e tirò avanti il sedile. Si diressero a sud, attraverso i soleggiati bacini di Croton, verso la città di White Plains. Ogni tanto, Jack si girava per scrutare la strada alle loro spalle. Nessun inseguitore, nulla di sospetto. Un tranquillo, sonnacchioso pomeriggio di giugno nei sobborghi newyorkesi.

Soltanto la scottatura attraverso la camicia gli ricordava che era effettivamente accaduto qualcosa.

Jodie si diresse verso un grande centro commerciale. Era un edificio imponente, delle dimensioni di uno stadio, che si ergeva, fiero, accanto a torri che ospitavano uffici, circondato da un nodo stradale molto trafficato. La giovane si districò fra le varie corsie e scese lungo una rampa che conduceva al parcheggio coperto. Era buio, là sotto, il pavimento di cemento era polveroso e macchiato qua e là di olio di motore, ma in lontananza s'intravedeva una porta di ottone e di vetro, che conduceva direttamente ai negozi ed era illuminata da una luce bianca accecante, come un miraggio.

Jodie trovò un parcheggio a cinquanta metri dalla porta. Scese dall'auto e si diresse verso una macchinetta, poi tornò e posizionò un bigliettino sul cruscotto, in modo che potesse essere letto attraverso il parabrezza.

«Bene. Dove andiamo prima?» chiese la donna.

Reacher alzò le spalle. Non era esperto di quelle cose. Aveva comperato centinaia di vestiti negli ultimi due anni, dato che aveva preso l'abitudine di acquistare abiti per non lavare quelli vecchi. Era una specie di difesa: in tal modo, non doveva portare con sé valigie pesanti e nemmeno imparare le tecniche di lavaggio. Sapeva che esistevano lavanderie automatiche e tintorie, ma l'idea di trovarvisi da solo, incerto sulle procedure da seguire, lo spaventava un po'. Inoltre consegnare gli indumenti a una tintoria impli-cava l'impegno di tornare nello stesso luogo in futuro, un impegno che lui non amava prendersi. Il metodo più pratico era dunque comprare abiti nuovi e gettare quelli vecchi. Perciò aveva acquistato molti vestiti, ma non ricordava esattamente dove. Di solito, li vedeva in qualche vetrina, entrava, li comprava e, uscendo, non faceva nemmeno caso al nome del negozio.

«Sono stato in un posto a Chicago. Credo fosse una catena di negozi, con un nome breve. Gap o qualcosa del genere. Avevano le taglie giuste», cercò di ricordare.

Jodie scoppiò a ridere e lo prese sottobraccio. «The Gap», lo corresse.

«Qui ce n'è uno.»

La porta di vetro e ottone conduceva direttamente nel centro commerciale. L'aria era fredda, odorava di sapone e di profumo. Attraversarono il reparto cosmetici e un'area con gli espositori stracolmi di capi estivi dai toni pastello; quindi raggiunsero il centro del grande magazzino. Era ovale co-me una pista per cavalli, contornato da piccoli negozi. La stessa disposizione si ripeteva ai due piani superiori. I corridoi erano ricoperti di moquette, si udiva una musica piacevole e il luogo brulicava di gente.

«Credo che The Gap sia al piano superiore», disse Jodie.

Reacher sentì odore di caffè. Uno dei locali di fronte a loro era un bar, arredato in modo da assomigliare a una piazza italiana. Le pareti erano dipinte come muri esterni e il soffitto era scuro, a simulare il cielo. Un luogo chiuso che sembrava una piazza, all'interno di un centro commerciale che cercava di apparire come una strada piena di negozi, fatta eccezione per la moquette, ovviamente.

«Vuoi un caffè?» chiese Jack.

«Prima facciamo acquisti, poi ci berremo un caffè.»

Lei lo condusse verso la scala mobile. Reacher sorrise. Sapeva come si sentiva Jodie in quel momento perché lui aveva provato la stessa emozione quindici anni prima. La ragazzina lo aveva accompagnato, nervosa e titu-bante, in una visita alla prigione militare di Manila. Per lui era territorio familiare, semplice routine, nulla di speciale. Ma per Jodie era qualcosa di nuovo e di strano. Jack si era sentito responsabile e felice, quasi come un maestro; era stato divertente stare con lei, portarla in giro. In quel momento, Jodie stava provando gli stessi sentimenti. Il grande magazzino non era per lei nulla di speciale: era arrivata in America tanto tempo prima e si era abituata a quel mondo. Adesso era lui lo straniero nel suo territorio.

«Che ne dici di questo negozio?»

Non era The Gap. Era arredato con assi e travi di qualche vecchio gra-naio. I vestiti dai colori tenui, di cotone pesante, erano esposti artistica-mente sul fondo di vecchi carri con le ruote rivestite di ferro.

«Per me va bene», disse Reacher.

Jodie lo prese per mano, il palmo fresco contro la sua. Lo trascinò nel negozio, si mise i capelli dietro le orecchie e cominciò a esaminare i vari scaffali, proprio come Jack aveva visto fare ad altre donne. Con lievi movimenti dei polsi, accostava articoli diversi: un paio di pantaloni, ancora piegati, sulla metà inferiore di una camicia, una giacca messa di traverso su entrambi, con la camicia che spuntava dal collo e i pantaloni dal fondo.

Gli occhi socchiusi, le labbra increspate. Poi scuoteva il capo e prendeva un'altra camicia. Infine, assunse un'espressione soddisfatta.

«Che ne dici?» lo interpellò.

Aveva scelto un paio di pantaloni color kaki, una camicia a quadretti verde e marrone, e una giacca leggera marrone scuro che sembrava into-narsi perfettamente al resto.

«Per me va bene», ripeté Jack.

I prezzi erano scritti a mano su cartellini attaccati ai capi con un pezzo di spago. Lui ne voltò uno col dito. «Cristo! Lascia perdere», esclamò.

«Vale quello che costa. La qualità è buona.»

«Non posso permettermelo, Jodie.»

La camicia da sola costava il doppio di quello che aveva speso una volta per un completo. Vestirsi in quel modo avrebbe significato spendere un giorno della sua paga. Dieci ore, quattro tonnellate di sabbia, di roccia e di terra.

«Te li compro io», propose lei.

Jack rimase immobile con la camicia tra le mani, incerto.

«Ricordi la collana?» gli chiese la donna.

Lui ricordava benissimo. Jodie si era innamorata di una collana d'oro in una gioielleria di Manila. Assomigliava a una corda e aveva un'aria vagamente egizia. Non era molto costosa, ma certamente irraggiungibile per le sue tasche. Leon temeva di viziarla e non era affatto propenso a com-prargliela. Perciò l'aveva fatto Reacher, non per il compleanno o un'altra occasione, ma soltanto perché Jodie gli piaceva e lei si era invaghita del gioiello.

«Ero tanto felice, pensavo di scoppiare di gioia. Sai, ce l'ho ancora, la porto spesso. Lascia che mi sdebiti, d'accordo?»

«Va bene», rispose Jack, dopo averci riflettuto. Jodie poteva permettersi quella spesa. Era avvocato e, probabilmente, aveva fatto fortuna. Inoltre era uno scambio equo, considerato il rapporto costo-reddito e quindici anni d'inflazione...

«Va bene. Grazie, Jodie.»

«Hai bisogno di calze e cose del genere, vero?»

Scelsero un paio di calze color kaki e un paio di boxer bianchi, poi Jodie si recò a una cassa e pagò con la carta di credito. Reacher portò il tutto in un camerino, tolse i prezzi e si cambiò i vestiti. Trasferì i soldi da un paio di pantaloni all'altro e lasciò i vestiti vecchi nel cestino della spazzatura.

Gli abiti nuovi erano un po' rigidi, ma gli stavano decisamente bene ed e-saltavano la sua abbronzatura.

«Stai davvero bene», esclamò Jodie. «Ora la farmacia.»

«Poi il caffè», aggiunse Jack.

Jack comprò un rasoio, una confezione di crema da barba, uno spazzolino, un tubetto di dentifricio e una pomata per le ustioni. Pagò tutto e uscì dal negozio con un sacchetto di carta marrone. Accanto alla farmacia, c'erano alcuni ristoranti e Reacher ne individuò uno da cui proveniva un invitante odore di costine.

«Perché non ceniamo, invece di berci solo il caffè? Offro io», propose.

«Va bene», accettò lei e lo prese di nuovo sottobraccio.

La cena per due costò quanto la camicia nuova, ma Jack non trovò la spesa eccessiva. Presero il dolce e il caffè e, quando ebbero terminato, alcuni dei negozi più piccoli iniziavano a chiudere.

«Bene, andiamo a casa. Dobbiamo fare molta attenzione», avvertì lui.

Riattraversarono il centro commerciale. Reacher bloccò la donna dietro la porta di vetro e ottone e scrutò il garage, dove l'aria era calda e umida.

Una possibilità su un milione, ma valeva la pena di controllare. Nessuno in vista; solo i clienti del centro che tornavano alle auto con borse strapiene.

Raggiunsero insieme la Bravada e Jodie si mise alla guida.

«Che strada fai normalmente?»

«Da qui? La FDR Drive.»

«Bene. Va' verso il LaGuardia, poi attraverseremo Brooklyn e passere-mo il ponte.»

Lei lo guardò. «Sei sicuro? Se vuoi fare il turista, ci sono posti migliori del Bronx e di Brooklyn.»

«Prima regola: la prevedibilità è pericolosa. Se di solito fai una certa strada, oggi cambiamo.»

«Parli sul serio?»

«Puoi scommetterci! Prima mi guadagnavo da vivere facendo la guardia del corpo dei VIP.»

«E io ora sono diventata una VIP?»

«Puoi scommetterci», ripeté Jack.

Un'ora più tardi era buio, la condizione migliore per attraversare il Brooklyn Bridge. Quando percorsero la rampa d'accesso e raggiunsero la parte centrale della campata, Reacher si sentì come un turista: Lower Manhattan si stagliò davanti ai loro occhi con la sua miriade di luci. Una delle visioni più suggestive del mondo, pensò Jack, che di luoghi ne aveva visti davvero molti.

«Vai a nord per qualche isolato. La prendiamo un po' alla larga. Si aspettano che andiamo dritti a casa.»

Jodie svoltò a destra e si diresse a nord, su Lafayette Street. Poi girò a sinistra e ancora a sinistra, fino a trovarsi a procedere in direzione sud, su Broadway. Il semaforo di Leonard Street era rosso. Reacher scrutò la strada davanti a loro, illuminata a giorno dalle luci al neon.

«Tre isolati», disse Jodie.

«Dove parcheggi?»

«Nel garage sotto l'edificio.»

«Bene, svolta un isolato prima», ribatté Reacher. «Scendo a dare un'occhiata. Fa' il giro e torna a prendermi. Se non mi vedi sul marciapiede, va'

alla polizia.»

Jodie svoltò a destra, su Thomas Street, fermò l'auto e lo fece scendere.

Jack batté lievemente le dita sul tetto e la donna ripartì. Girò l'angolo e trovò l'edificio di Jodie. Era grande e squadrato, aveva un atrio ristrutturato con una porta di vetro spesso, una serratura massiccia, una fila verticale di quindici campanelli coi nomi stampati, contenuti in piccole finestrelle di plastica. L'appartamento dodici recava la scritta JACOB/GARBER, come se vi abitassero due persone. Per strada c'era abbastanza gente, alcune persone formavano piccoli crocchi, altre camminavano, ma nessuna era sospetta. L'entrata del garage si trovava più avanti, sul marciapiede. Il locale era tranquillo e scarsamente illuminato; presentava due file di otto posti auto, quindici in tutto. La rampa che conduceva sulla strada occupava il sedicesimo posto. C'erano undici macchine parcheggiate. Jack perlustrò l'intero luogo: nessuno nascosto nell'oscurità. Risalì la rampa e tornò su Thomas Street, l'attraversò, schivando il traffico, e attese. Jodie stava arrivando, i fari dell'auto nella sua direzione. Lo vide, accostò e Jack riprese posto accanto a lei, esclamando: «Via libera!»

La donna s'immise di nuovo nella corsia, svoltò a destra e scese la rampa, sobbalzando. Si fermò nel corridoio centrale e parcheggiò in retromarcia. Spense il motore, poi le luci.

«Da dove si sale?» le chiese Reacher.

«Da quella porta si raggiunge l'atrio», spiegò Jodie.

C'era una rampa di scale metalliche che terminavano con una grossa porta industriale, rivestita d'acciaio. La serratura era massiccia, uguale a quella sulla porta di vetro che dava sulla strada. Scesero dalla jeep e la chiusero. Reacher prese il borsone degli indumenti di Jodie e, insieme, raggiunsero la porta. La donna la aprì ed entrarono nell'atrio deserto. Un unico ascensore, di fronte a loro.

«Quarto piano», mormorò lei.

Reacher premette il quinto. «Scenderemo un piano a piedi. Tanto per essere prudenti.»

Usarono le scale antincendio e raggiunsero il quarto piano. Jack la fece attendere sul pianerottolo e sbirciò da dietro l'angolo. Il corridoio alto e stretto era deserto. L'interno dieci a sinistra, l'undici alla destra, il dodici proprio davanti.

«Andiamo», disse.

La porta era nera e spessa, con uno spioncino e due serrature. Jodie aprì ed entrò. Poi richiuse la porta e abbassò una vecchia spranga, lunga quanto l'intera porta. Reacher la fissò nei supporti. Era di ferro e, finché si fosse trovata in quella posizione, nessuno sarebbe riuscito a entrare; quindi posò il borsone contro una parete. Jodie accese le luci e attese vicino alla porta che Reacher ispezionasse l'appartamento. Corridoio, soggiorno, cucina, camera da letto, bagno, un'altra camera da letto, un secondo bagno, armadi.

I locali erano ampi e i soffitti molto alti. Nessun ospite indesiderato. Jack tornò in salotto, si tolse la giacca nuova e la gettò su una sedia, si voltò verso di lei e si rilassò.

Jodie, però, non era affatto tranquilla. Non lo guardava e sembrava più tesa di quanto non lo fosse stata in tutta la giornata. Stava lì, in piedi, sulla soglia del salotto, irrequieta, le maniche della felpa tirate sulle mani. Reacher non aveva idea di che cosa la turbasse.

«Stai bene?» le domandò.

La donna spostò la testa avanti e poi indietro, quasi a formare un otto, per gettarsi i capelli dietro le spalle. «Credo che mi farò una doccia. E poi a letto», rispose.

«Giornata dura, eh?»

«Spaventosa.» Gli passò accanto, a una certa distanza, e si avviò verso la camera, facendogli un timido cenno con le dita che sporgevano appena dalla manica della felpa.

«A che ora, domani?» le chiese Reacher.

«Alle sette e mezzo dovrebbe andar bene», rispose lei.

«D'accordo. Buonanotte, Jodie.»

Lei scomparve nel corridoio. Jack udì la porta della camera da letto aprirsi e chiudersi. Fissò a lungo il corridoio, poi si sedette sul divano e si tolse le scarpe. Era troppo agitato per andare subito a dormire, perciò si mise a girovagare per l'appartamento.

Non si trattava di un loft vero e proprio, bensì di un vecchio edificio dai soffitti molto alti, che probabilmente aveva ospitato una fabbrica di qualche tipo. I muri erano di mattoni sabbiati, le pareti interne di gesso liscio e pulito. Aveva finestre enormi, che un centinaio di anni prima dovevano essere servite per illuminare le operazioni di cucitura o qualche altro processo lavorativo. Le parti di mattoni emanavano un calore particolare, ma tutto il resto era bianco, a eccezione del pavimento, costituito da un parquet di legno d'acero chiaro. L'arredamento era freddo e asettico, come quello di una galleria d'arte. L'assenza di elementi contrastanti rendeva subito chiaro che lì viveva soltanto una persona. Divani bianchi, sedie bianche, scaffali semplici, dipinti con la stessa vernice bianca usata per i muri.

Grandi tubi per l'acqua calda e brutti caloriferi, il tutto dipinto di bianco.

L'unico tocco di colore in soggiorno era una copia a grandezza naturale di un Mondrian, appesa alla parete, sopra il divano più grande. Si trattava di una copia perfetta, un olio su tela, nel pieno rispetto dei colori - rosso, blu e giallo -, con piccole fenditure e screpolature nel bianco, che somigliava più a un grigio. Reacher rimase a lungo a fissarlo, sbalordito. Piet Mondrian era il suo pittore preferito, e quel quadro era la sua opera preferita in assoluto. S'intitolava Composizione con rosso, giallo e blu. Mondrian aveva dipinto l'originale nel 1930 e Reacher l'aveva ammirato a Zurigo.

Di fronte al divano più piccolo, c'era un mobile alto, anch'esso dipinto di bianco, che conteneva un piccolo televisore, un videoregistratore, un decoder per la TV via cavo e un lettore CD con un paio di grandi cuffie in-serite nella presa. C'era anche una piccola pila di CD, prevalentemente di jazz anni '50, genere che a lui piaceva, ma non da impazzire.

Le finestre si affacciavano su Lower Broadway. Il brusio del traffico era costante, i neon illuminavano tutta la strada e, di tanto in tanto, qualche sirena si levava dalle vie laterali. Jack aprì le persiane con una stecca di plastica chiara e guardò il marciapiede sottostante, affollato da gruppetti di persone. Non notò nulla di strano e le richiuse.

La cucina era enorme e alta. Tutti gli armadietti erano di legno dipinto di bianco e gli elettrodomestici erano d'acciaio, di dimensioni industriali. Reacher aveva vissuto in luoghi più piccoli del frigorifero di Jodie. Lo aprì e vide una decina di bottiglie della sua acqua preferita, che aveva imparato ad amare nelle Keys. Tolse il sigillo da una di esse e se la portò nella stanza degli ospiti.

Pure la sua camera era bianca, coi mobili di legno. Reacher posò la bottiglia sul comodino e andò in bagno. Piastrelle bianche, lavabo bianco, vasca bianca, tutto di vecchio smalto e piastrelle. Chiuse le persiane, si spogliò e posò gli abiti nuovi, piegati, su un armadietto. Gettò indietro le coperte e s'infilò nel letto, a pensare.

Illusione e realtà. Che cos'erano, del resto, nove anni di differenza?

Molti quando lei aveva quindici anni e lui ventiquattro, ma che cosa significavano allora? Jack ne aveva trentotto, lei ventinove o trenta, non lo sapeva di preciso. Qual era dunque il problema? Perché non stava facendo nulla? Forse l'età non c'entrava. Forse era Leon. Jodie era sua figlia e lo sarebbe sempre stata. Ciò lo faceva sentire colpevole e gli dava l'illusione che lei fosse una sorta di sorella minore o di nipote, ma questo non era ve-ro. Lei era la figlia di un vecchio amico, nulla di più. Un vecchio amico ormai morto. Allora perché diavolo si sentiva tanto male quando la guardava e s'immaginava di toglierle la felpa e di slacciarle la cintura dei pantaloni? Perché non lo stava facendo? Perché si trovava nella stanza degli ospiti invece che dall'altra parte del muro, a letto con lei, come aveva immaginato durante numerose notti, in passato, talora con vergogna, talaltra animato da un desiderio struggente? Forse perché immaginava di essere per Jodie una sorta di fratello maggiore o di zio, lo zio preferito... quello era certo, perché sapeva di piacerle. Nutrivano molto affetto reciproco, ma ciò rendeva tutto più difficile. Gli zii preferiti godevano di un certo tipo di affetto, servivano a determinati scopi, per andare a fare spese o per viziare le nipoti, non per sedurle. Rivelarle i suoi sentimenti avrebbe sortito l'effetto di un improvviso tradimento. Indesiderabile, incestuoso, psicologi-camente dannoso. Lei era dall'altra parte del muro. Ma non c'era nulla che Jack potesse fare. Nulla. Non sarebbe mai accaduto. Sapeva che quel pensiero l'avrebbe fatto impazzire, perciò smise di pensare a Jodie e si concentrò su altre cose. Fatti reali, non semplici illusioni. I due brutti ceffi, quali che fossero, si erano sicuramente procurati il suo indirizzo; esistevano decine di modi per scoprire dove viveva una persona; forse, in quel preciso momento, erano fuori dell'edificio. Ripassò nella mente la struttura del palazzo. La porta d'entrata era chiusa, così anche quelle del garage e dell'appartamento. Le finestre erano chiuse, le persiane anche. Per quella notte sarebbero stati al sicuro, ma l'indomani il pericolo sarebbe riapparso. Un grosso pericolo. Mentre cercava di fissare nella mente i due killer, l'auto, gli abiti, la corporatura e il volto, Jack si addormentò.

In quell'esatto momento, tuttavia, solo uno dei due aveva un volto, ormai. I sicari di Hobie erano salpati insieme, dieci miglia a sud da dove si trovava Reacher, nelle acque nere della parte meridionale del porto di New York. Avevano lavorato per aprire la sacca nera e scaricare il cadavere della segretaria nelle acque mosse dell'Atlantico. Uno dei due si era rivolto al-l'altro con una stupida battuta ed era stato colpito in volto dal proiettile di una Beretta munita di silenziatore. Poi ancora e ancora. La lenta caduta del suo corpo aveva fatto finire le pallottole in tre punti diversi e la faccia si era così trasformata in un'unica grande e fatale ferita, nera nell'oscurità. Il braccio venne sollevato sulla battagliola di mogano e la mano destra tagliata all'altezza del polso con una mannaia rubata in un ristorante. Occorsero cinque colpi e fu un lavoro brutale. La mano finì in un sacchetto di plastica e il corpo scivolò nell'acqua silenziosamente, a meno di venti metri dal luogo in cui la segretaria stava già affondando.