Sette

Il passaggio dalle elementari alle medie, per Alba, fu di quelli che lasciano il segno. Non c’era più un solo insegnante ma tanti, e bisognava chiamarli in un modo diverso.

«Ricorda, loro sono professori» le raccomandò la mamma il primo giorno agitandole l’indice della mano destra davanti agli occhi. Come se il termine maestro, pronunciato con grande rispetto sino a poco prima, di colpo fosse divenuto di poco conto.

“Professori”. Da come ne parlavano, chissà quanti significati racchiudeva quella parola. La cercò subito sul dizionario, ma rimase delusa. A leggere la definizione riportata pareva un lavoro come tutti gli altri.

La scuola in compenso era cambiata davvero. Le materie erano aumentate, i programmi erano più densi e impegnativi, i compagni sembravano tanti adulti in miniatura. Seri, composti, come se dall’attenzione che ponevano alle lezioni dipendesse il destino dell’umanità.

Non era mutata la cosa che più le premeva. Nella sua classe c’era ancora Carlo, come in quinta elementare. E c’era pure Margherita, che appena la vide corse a sistemarsi nel banco accanto a lei.

Meglio così. Come compagna di banco avrebbe potuto sorvegliarla, monitorando i suoi sguardi che, di sicuro, si sarebbero indirizzati di continuo verso il secondo banco della fila opposta, dove sedeva il conteso bene. Anche Alba guardava spesso da quella parte, ma Carlo non la ricambiava. Aveva ancora in testa la sua rivale.

“Si può sapere cosa ci trova in quella gatta morta piena di lentiggini?” s’interrogava lei a volte, dimenticando di aver sempre ritenuto Margherita carina e simpatica, fino a che, beninteso, non si erano trovate sui fronti opposti di una tenzone amorosa.

Nei risultati scolastici Alba era di gran lunga la migliore. Portata per natura verso lo studio, per ottenere dei buoni voti non aveva mai avuto bisogno di applicarsi troppo. Almeno in questo, sua madre non aveva di che lagnarsi.

La sua amica non era una stupida, tutt’altro, il suo punto debole era la distrazione. Quando un pensiero catturava la sua mente, non c’era verso che riuscisse a rimanere concentrata sulla lezione.

«Galbiati!».

Questa era una di quelle volte. Ma c’era un problema, l’insegnante d’italiano si era accorta che Margherita non stava attenta. Lei provò a reagire.

«Sì, professoressa».

«Vuoi continuare tu a leggere? Da come seguivi mi è parso di capire che devi amare molto la poesia di Omero».

Ironia al velluto, mentre gli artigli si affilavano, pronti a ghermire la preda. L’alunna si guardò intorno alla disperata ricerca di un aiuto. Puntò dapprima lo sguardo di Carlo, che però, timoroso di essere scoperto, continuò a fissare la lavagna. Alba fu lesta a voltarle la pagina e a indicarle il rigo dal quale ripartire.

Margherita prese subito a declamare con disinvoltura, come se non avesse fatto altro nella vita. Al vedere lo sguardo incoraggiante dell’amica, il terrore che l’aveva assalita era svanito di colpo.

«Come deserta Ettor vide la stanza, accostossi alla soglia…».

I versi si levarono nell’aria, presero corpo come piccole farfalle di carta che si staccavano dai libri. Ecco, nel tempio della fanciullezza spensierata, regnare la poesia immortale degli antichi.

La ragazza snocciolò la lettura con espressione ispirata e partecipe. A un certo punto Carlo si voltò. Non poté fare a meno di guardarla, affascinato dalla sua capacità di ricavare emozioni da quelle pagine impolverate dai secoli.

Quando il canto dell’Iliade fu terminato, lui le sorrise. Tutti la stavano osservando, era stata davvero brava, ma lei ebbe occhi solo per Carlo. Mentre i loro sguardi s’incrociavano, il ragazzo unì le mani in un applauso silenzioso. Margherita era raggiante, Alba quasi si pentì di averla aiutata: era grazie al suo aiuto che lui l’aveva ammirata. Poi scacciò quel pensiero, rallegrandosi quando arrivarono i complimenti dell’insegnante che, una volta tanto, apprezzava la sua compagna.

Il suono della campanella interruppe gli sguardi e i pensieri. Era l’ultima ora, bisognava riempire la cartella e andare. Carlo raggiunse subito Margherita.

«Sei stata magnifica, sai».

Lei si schermì.

«Ma dai. Se non fosse stato per Alba…». Si avvicinò all’amica e le scoccò un bacio sulla guancia. «Ogni tanto mi fai ricordare perché ti voglio così bene».

Lei arrossì, vergognandosi per aver provato gelosia.

Discorrendo dei compiti per l’indomani, i tre scesero lentamente le scale. Ad attenderli c’erano le mamme. Erano in gruppo davanti all’uscita, con i genitori dei loro compagni. La signora Galbiati se ne stava un po’ in disparte, un’aria preoccupata le oscurava il volto. Margherita le corse incontro.

«Mamma, Alba mi ha invitata a studiare da lei oggi pomeriggio. Ci posso andare?».

«Ho paura di no, tesoro. Non ce la faccio ad accompagnarti e venirti a prendere. La nonna non sta bene, non può restare in casa da sola».

La mente della ragazza cercò una soluzione.

«E se mi portasse papà?».

A sentir nominare il marito, le rughe sulla fronte della donna si accentuarono.

«Lui è molto impegnato in questo periodo, lo sai». Le accarezzò il viso, che si era fatto corrucciato per il rifiuto. «Non protestare, per favore. Dille che andrai a trovarla un’altra volta».

Alba aveva assistito a tutta la scena. Aveva già capito, pur senza afferrare le singole parole: era sufficiente l’espressione triste di Margherita. La salutò da lontano, dicendole a gesti che non doveva preoccuparsi. Non c’erano problemi, si sarebbero viste il giorno dopo in classe.

I problemi abbondavano, invece. Stavano di casa dai Galbiati, dove il capofamiglia si aggirava per le stanze come un leone in gabbia, il volto sfatto, la barba lunga di qualche giorno, i capelli incolti. Margherita non lo aveva mai visto così trascurato.

Provò a indagare, ma ottenne solo generiche rassicurazioni.

«Va tutto bene, tesoro, stai tranquilla. È solo un periodo di superlavoro, finirà presto».

I conti però non tornavano. Quando il padre aveva molto da fare la prima conseguenza era che passava meno tempo a casa. Rientrava tardi, cenando da solo in cucina. Questa volta era il contrario. In ufficio non andava mai, sembrava quasi che avesse paura di uscire.

Alba finì i compiti in fretta. Amava fare così per togliersi subito il pensiero. Le restava buona parte del pomeriggio per i suoi svaghi, oppure per le ricerche che tanto l’appassionavano. Preparò la cartella per l’indomani e si spostò nel salone, dove aveva i suoi libri preferiti: i classici e l’enciclopedia.

Sfilò il dizionario dallo scaffale e andò dritta alla lettera e. Le era tornato alla mente un discorso fatto con Rosina l’estate passata. Esperta com’era nel cercare i vocaboli, in pochi istanti trovò la parola che le interessava.

Ebreo: persona appartenente alla religione ebraica. Popolo ebraico: antico popolo derivato da Sem, di fede mosaica, oggi disperso per il mondo.

La spiegazione proseguiva. Lesse tutto più volte per essere sicura di aver capito bene. Si dispose poi ad approfondire alla sua maniera, cercando uno per uno i termini collegati che non conosceva. Lo avrebbe fatto subito se la madre non fosse apparsa sulla porta del salone.

Chiuse di scatto il dizionario, per un riflesso di paura che risaliva alla conversazione avuta con Rosina. Quando le aveva parlato degli ebrei, la donna aveva avuto un brivido, temendo che la piccola potesse chiederne notizie alla signora Manzari. Alba lo aveva interpretato così: per qualche oscura ragione sua madre non gradiva un suo interesse verso una religione diversa. Era dunque meglio mantenerle segrete le sue curiosità, ammesso di riuscirci.

«Cosa guardavi?».

«Niente, mamma. Le mie solite ricerche».

Sul volto di Antonia si disegnò un’espressione dubbiosa. La figlia giocò d’anticipo, prima che lei potesse articolare un’altra domanda.

«Oggi in classe abbiamo letto l’Iliade. Mi piace moltissimo, sai».

La signora Manzari s’illuminò di colpo. Il diversivo era stato scelto bene, lei aveva per i classici una forte predilezione.

«Ne sono lieta. Dunque il programma di quest’anno ti piace».

«Oh, sì! Non vedo l’ora di continuare. Sai che in seconda studieremo l’Odissea?».

Alba era pronta a continuare la manovra, ma non ce ne fu bisogno, la madre era già altrove. Aveva percepito un rumore dall’ingresso. Era la porta che si apriva, il marito stava rientrando. Alzò la voce per farsi sentire.

«Renato, sei tu?».

«Sì, cara. Ho comprato il pane».

La piccola andò incontro al padre, salutandolo con un bacio. Diede un’occhiata allegra al cartoccio che portava sotto il braccio. L’odore del pane fresco la metteva sempre di buon umore. Il medico andava a comprarlo in un panificio molto fornito, dove si trovava quello casereccio. Nei paesi della provincia lo cuocevano in un modo che ad Alba piaceva da impazzire. Era l’alimento più semplice, ma lei trovava che non ce ne fosse uno migliore.

Una volta, in un terreno vicino alla villa, aveva sentito parlare alcuni contadini che avevano fatto la guerra. Dicevano che al fronte era un lusso perfino mangiare il pane vecchio di molti giorni. Lo bagnavano per farlo ammorbidire, raccontavano, ma rimaneva duro come la pietra. Lo mangiavano ugualmente. La fame era l’unico compagno che, andando a dormire, erano certi di ritrovare il mattino dopo.

“Poverini” si disse, chissà com’era stato vivere in condizioni tanto dure. Combattere doveva essere terribile. Vedere ogni giorno i propri compagni morire, essere costretti a uccidere per salvarsi la vita.

Si ripromise di cercare la parola guerra. Forse sul dizionario, oltre a definire cosa fosse, se ne spiegavano le ragioni. Doveva scovarle lì, visto che con la mente non riusciva ad afferrarle. Dare la morte ad altre persone, lasciare un bambino senza genitori o una moglie senza marito. Cosa poteva giustificare crimini e dolori così grandi? Perché al mondo c’era tanta cattiveria?

“E se questa sfera in realtà non esistesse?” elucubrò Nicola mentre scorreva l’atlante cercando di fissare nella memoria qualche nozione di geografia. Tutti quei continenti, gli oceani, le catene montuose e le vallate. Era possibile che ci fossero davvero?

Trovava stupefacente che qualcuno avesse potuto tracciare una mappa tanto precisa dei confini del mondo. Le distanze, le proporzioni, chi mai aveva potuto misurarle così bene? Magari era solo un’invenzione, lo scherzo di un esploratore o un geografo un po’ burlone.

Gli venne in mente Alba. Quando la sua mente accarezzava fantasie come quella provava il desiderio immediato di condividerle con lei. Ma l’amica non c’era e i suoi pensieri sarebbero andati perduti. Li avrebbe dimenticati prima di quando l’avrebbe rivista. Uno spreco, come il suo inutile amore a senso unico.