Due

Quando gli era apparsa davanti la prima volta, Nicola non aveva avuto dubbi: quella che avanzava nel viale che portava alla villa non era una bambina, ma una visione. «Cavolo!» gli era sfuggito, poi era diventato rosso e si era guardato intorno, temendo che qualcuno lo avesse sentito.

Aveva ripreso a osservarla di nascosto, con la coda dell’occhio, e la sua impressione si era confermata. Tutto di lei gli piaceva. Il volto incorniciato da una massa di riccioli color del grano maturo e gli occhi azzurri come il cielo di agosto, senza nuvole. E con quel vestitino a fiori e le scarpette rosa sembrava fatta della materia degli angeli.

Il dottore e la signora Manzari le camminavano ai lati, tenendola per mano. Un quadretto familiare che gli aveva procurato una stretta al cuore.

«Ragazzino, sei tu il nipote di Rosina? Abbiamo bisogno di parlarle».

Mentre quell’uomo elegante come un Lord gli rivolgeva la domanda, lui continuava a fissare la piccola, che aveva lo sguardo perso fra i papaveri del campo, e forse sognava.

Ci aveva messo un po’ per riprendersi.

«Vi porto io» aveva detto piano, incamminandosi verso il fabbricato con gli occhi bassi.

Sentiva i passi della beata famigliola dietro di lui e non poteva fare a meno di ripensare ai suoi genitori. Alle loro mani grandi e premurose che non poteva più stringere. Erano morti due anni prima, il 2 dicembre 1943. Gli aerei tedeschi avevano bombardato il porto di Bari, il vento e le fiamme avevano fatto il resto. Oltre duemila vittime, e in mezzo a quel numero con tanti zeri tutto il suo mondo: la mamma, il padre, i tre fratellini. Si era salvato solo lui, il monello di casa. Doveva la vita alla sua incapacità di stare alle regole.

Rievocò per l’ennesima volta quel momento. Stando al calendario faceva parte di un passato lontano. Nella ragnatela dei ricordi era sempre ieri.

«Dove vai, Nicola? Sono le sette e mezzo, fra poco si cena!».

La voce della mamma lo aveva rincorso invano, mentre scendeva gli scalini tre alla volta. Volava giù in cortile, a giocare con gli amici. Da lì aveva visto il destino arrivare. L’inferno rosso che si avventava sul suo palazzo e in pochi istanti lo divorava.

Non era riuscito a muoversi, il suo corpo si era come bloccato. Immobile di fronte alle fiamme, svuotato di ogni forza, incapace di qualunque gesto. Un attimo eterno, mentre il cerchio della morte si chiudeva. I suoi cari dentro, lui fuori. È la vita, ma non era giusto che lo imparasse tanto presto.

Poi qualcuno aveva urlato.

«Corri, Nicola, non ti fermare!».

Aveva obbedito prima di capire. Correva e piangeva, davanti a sé vedeva altri che scappavano, mentre alle loro spalle avanzava l’incendio. A un certo punto era caduto a terra. Non aveva più fiato, sentiva solo il battito impazzito del suo cuore e le gambe che tremavano. Ma il pericolo ormai era lontano.

«Da oggi sei mio figlio. Rispondo io di te, davanti a Dio e al mondo».

Con queste parole Rosina, sorella del padre, lo aveva accolto in casa. Ma le frasi solenni non erano mai state il forte della donna e, mentre pronunciava la sua, era inciampata nella scopa rompendosi il femore. Col risultato che, i primi mesi, era toccato al nipote prendersi cura della zia.

Viveva da sola nell’appartamento dei nonni di Nicola, scomparsi tempo prima. Una casa vecchia e cadente che un po’ le assomigliava. Lei era la maggiore, ma le sorelle e i fratelli più piccoli uno alla volta avevano lasciato il nido. Rosina no, lei era rimasta con i genitori. Nessuno le aveva chiesto di stargli accanto “nella buona e nella cattiva sorte”, in salute e in malattia.

La natura non era stata benigna con lei. Un metro e cinquanta di altezza, tonda come una botte, e un viso sgraziato dai lineamenti irregolari su cui campeggiava un grosso naso.

Portava un fazzoletto annodato sotto il mento, che le nascondeva i capelli e le fasciava l’ovale del volto, mettendo ancora più in risalto la peluria nera ai lati della bocca. Lo aveva sempre in testa; probabile che con quel fazzoletto ci andasse pure a dormire.

«Cosa faccio, ti salto o provo a girarti intorno?».

Così la canzonava Nicola quando trotterellava alle sue spalle lungo il corridoio, che lei occupava quasi per intero con il suo didietro monumentale. Rosina fingeva di arrabbiarsi.

«Sei uno screanzato! Se ti acchiappo ti faccio saltare io!».

Ma nel cuore di quella donna perennemente vestita di nero, che niente chiedeva per sé dalla vita, c’era un amore sconfinato. Per il nipote si era tolta il pane di bocca, tirando avanti un giorno dopo l’altro grazie a piccoli lavori di sartoria, alle torte e ai biscotti che sfornava per quei pochi che potevano ancora comprarli.

Poi, quando finalmente la guerra era finita, Rosina aveva trovato un impiego fisso: tenere in ordine la villa dei Manzari, pulirne le stanze e il giardino. In più, preparare da mangiare per i “padroni” e la figlioletta nei mesi estivi, quando dalla città si trasferivano al mare.

Nicola sospirò. Pensava ad Alba, il centro di tutti i suoi sogni. Chissà se era quello l’amore, a tredici anni è difficile dare un nome alle proprie emozioni. Di sicuro, sapeva che era un sentimento che poteva farlo stare bene, o stare male, come mai gli era accaduto prima.

La felicità gli entrava nel sangue con le punture delle prime zanzare. Erano l’annuncio dell’estate e, col sole, sarebbe arrivata anche lei. Lo prendeva allora una voglia incontenibile di correre all’impazzata. Ovunque, lungo i viali della villa, dal cancello alla spiaggia, fino a sentire il cuore che scoppiava.

Rosina non capiva cosa ci fosse dietro quell’esplosione di energia. Non aveva dimestichezza con le passioni. Associava la sua gioia all’approssimarsi del caldo, ai bagni imminenti. Sapeva quanto il ragazzo amasse trascorrere il tempo al mare, fra tuffi acrobatici e lunghe nuotate. E lei d’estate lo lasciava tranquillo, libero di crogiolarsi al sole per tutto il giorno. Per il resto dell’anno doveva lavorare sodo, “benedetto figliolo”, invece di andare a scuola come gli altri che potevano permetterselo.

«Vai a vedere se l’acqua è bagnata» lo esortava al mattino tutta contenta, mentre gli preparava il cartoccio per la giornata. Un pezzo di pane e pomodoro per il pranzo, un altro per la merenda. Era questa la sua benedizione, insieme a un bacio di sfuggita mentre lui, impaziente, già scappava via.

Lo conservava sulle labbra per tutta la notte, quel bacio. Ogni volta che lo stampava sulla fronte del nipote pensava ai genitori che lui aveva perduto, al vuoto che doveva sentire e, con rassegnazione, recitava una preghiera silenziosa.

Del ragazzo conosceva un’altra grande passione: la lettura. Ma pur volendo non poteva esaudire il suo desiderio, non aveva il denaro per comprargli i libri. Alla villa ne circolavano pochi, quelli che la signora dimenticava di anno in anno nonostante l’accurata preparazione dei bagagli di fine stagione. Un rito che poteva durare giorni, terminato il quale era compito di Rosina mandare a chiamare Emanuele, l’uomo di fiducia della famiglia.

Era lui che accompagnava i Manzari dalla città al mare e viceversa. Il dottore non sapeva guidare, tanto meno gli interessava imparare. Aveva chi lo faceva per lui, e così sia.

Il rituale della partenza si ripeteva sempre uguale. L’autista saliva per ultimo, chiudeva lo sportello, avviava il motore e la macchina si allontanava sollevando una nuvola di polvere, poi spariva oltre il cancello della villa.

Quel momento, per Nicola, era il più triste dell’anno. Senza farsi scorgere rincorreva l’automobile lungo la stradina che portava all’imbocco della provinciale. Di Alba, affondata nel sedile posteriore, gli bastava vedere una ciocca di capelli. Dopo l’incrocio però non riusciva più a seguirla, la macchina prendeva velocità e lui doveva rinunciare. Allora si sedeva per terra a riprendere fiato, aspettando che il cuore smettesse di battere all’impazzata.

«Nicola!».

La zia lo chiamava dalla cucina. Nessun dubbio sul motivo: il sole stava calando, si avvicinava l’ora della cena. Prima che Rosina ripetesse il grido, la raggiunse di corsa nella stanza. Non voleva che Alba la sentisse, dal giardino.

«Zia, puoi aspettare cinque minuti? Ho i capelli bagnati, li stavo facendo asciugare».

Lei non si girò neppure.

«Non è pronto ancora. Devi andare a San Vito, a prendere le uova fresche. Oggi non ci sei stato, vero?».

Il silenzio del ragazzo era già una risposta.

«Appunto. Lungo la strada finirai di asciugarti».

Lui si lambiccò il cervello cercando una scusa, ma non la trovò. Gli dispiaceva allontanarsi, non voleva perdersi gli ultimi momenti della giornata con Alba, che era fuori a giocare ma che di lì a poco sarebbe rientrata in casa per cenare.

La piccola dépendance riservata a Rosina era separata dal resto del fabbricato. Così, a parte la mattina in spiaggia, Nicola poteva stare con la sua amica solo finché rimaneva in giardino.

In quel momento, poi, andarsene era un dispiacere doppio. Alba stava addomesticando un gattino selvatico. Era bravissima, gli agitava un bastoncino davanti da una certa distanza per indurlo ad avvicinarsi. Era un metodo infallibile, nessun micetto poteva resistere a quell’invito a giocare. Tutti, dopo qualche esitazione, tiravano fuori una zampetta e provavano ad afferrare il ramoscello. Lei allora faceva marcia indietro, costringendo il cucciolo ad avanzare un po’ alla volta, fino a che non riusciva ad accarezzarlo.

Al primo tocco c’era il rischio che l’animale si spaventasse, e in quel caso il gioco doveva ricominciare. Ma poi, quando si rendeva conto che la bambina non aveva intenzioni ostili, il micio si tranquillizzava. Pian piano Alba arrivava a prenderlo in braccio, e a quel punto amicizia era fatta. Nicola, senza rendersene conto, invidiava un po’ il gattino: avrebbe voluto essere lui l’oggetto di tutte quelle cure affettuose.

Si era distratto. Gli tornò in mente il compito assegnatogli dalla zia. Parlò a bassa voce per non spaventare la bestiola, che stava prendendo confidenza.

«Mi accompagni a San Vito?».

Alba indugiò.

«Adesso?».

«O mai più» la buttò sullo scherzo.

L’altra ci pensò su un attimo. L’idea non le dispiaceva, ma sapeva di non avere speranze. Per uscire le occorreva il permesso della mamma, che sarebbe stato di certo negato. Il padre, l’unico da cui poteva sperare in un sì, era fuori.

«Non posso. Fra poco devo mangiare».

Nicola ingoiò la delusione con un sorriso triste, il meglio che riuscì a fare. Voleva nasconderle che ci era rimasto male, perché non si mortificasse, ma lei se ne accorse lo stesso.

Si scambiarono un’occhiata.

«Vado da solo. Dopo cena ci vediamo?».

Lei temeva la domanda, che la costringeva a deluderlo di nuovo.

«Stasera viene Carlo con i genitori. Staremo in casa a giocare».

Nel pronunciare quel nome, un lampo le illuminò il viso. E lui sentì la solita fitta, immaginando la scena. I due amici immersi nei loro giochi di società, mentre “i grandi” li avrebbero osservati dal salotto, belli comodi nel divano di piume che lui non doveva sporcare.

Il divano, emblema di un mondo che gli era precluso. Se anche lo avessero ammesso, ed era fuori discussione, a una di quelle serate avrebbe resistito ben poco. Dopo una partita a carte o al Gioco dell’oca, si finiva sempre per prendere il Monopoli. E lì Nicola si perdeva.

Alba aveva provato a insegnargli, ma non c’era stato niente da fare. Tutti quei ragionamenti sui contratti da acquistare e le case da costruire non erano roba per lui. Troppo complicato.

Si girò verso l’amica, che lo stava fissando. Quegli occhi color del cielo, quanto potevano scavare nella sua anima!

«Perché non vieni anche tu?».

Nicola masticò amaro. Non poteva accettare l’offerta, e ogni volta si sentiva umiliato. Per il dottore non c’erano problemi, ma la sua consorte in certe occasioni non lo voleva vedere neppure dipinto. Non c’era posto per lui quando si riunivano i signori.

Alba lo invitava ugualmente, con la semplicità che le era propria. Ma lo faceva solo per amicizia: non era abbastanza per indurlo ad affrontare le ire della Manzari. “Per fare da terzo incomodo, poi!”. Più ci pensava, più la prospettiva gli sembrava spinosa come un cespuglio di rovi. Rispose con un’alzata di spalle.

«Vado a prendere le uova. Ci vediamo domani».

S’incamminò a piedi senza aspettare risposta. Aveva bisogno di stare da solo. Lasciò il sentiero in terra battuta e si avviò attraverso i campi. L’erba era alta, incolta. Avanzava con passi sicuri, ma l’umiliazione gli bruciava dentro, l’impotenza lo rodeva. Immaginò che la campagna di colpo prendesse fuoco. Con gli occhi della mente vide l’incendio che divampava.

Se fosse stato vero, pensò, non si sarebbe mosso. Avrebbe lasciato che le fiamme lo raggiungessero. Avrebbe avuto la stessa sorte toccata ai suoi genitori, ai suoi fratelli.

L’idea non lo spaventava, al contrario. Sarebbe scomparso sul serio, una volta per tutte, smettendo di recitare la parte dell’ombra. Perché il suo destino era peggiore della morte. Era condannato a essere invisibile agli occhi della sola persona a cui teneva. “A parte la zia” si corresse.

Sentì la brezza della sera carezzargli la faccia. Tornò sul sentiero. Allargò le braccia e prese a correre a zig zag, a occhi chiusi. Era il suo modo per abbracciare il cielo.

Lo aveva fatto tante volte. Conosceva a memoria gli ostacoli e le curve della strada, non sarebbe caduto. Proseguì così, sino alla masseria di San Vito, senza rallentare. Senza provare paura. Al buio. Per ignorare la morte che gli aveva strappato la famiglia, la vita che gli sbatteva sul muso la porta dell’amore. Non aveva nulla. Solo la carezza dell’aria.

Un vecchio contadino se lo vide venire incontro. Si fece da parte per evitare di essere travolto, poi si fermò a osservarlo.

“Ma guarda i matti che ci sono in giro” si disse. Ai suoi tempi, uno così lo avrebbero tenuto rinchiuso.