Tre

I De Cello, come d’abitudine, si presentarono alla cena in perfetto orario. L’avvocato, notoriamente un buongustaio, fiutava a distanza l’odore del timballo di patate. Era la specialità di Rosina, lo sapeva bene, come sapeva che la padrona di casa non gliel’avrebbe fatto mancare.

«Non è mai venuto così buono» ripeteva tutte le volte, ripulendo il piatto fino all’ultima briciola.

Non perdeva occasione per tesserne le lodi, suscitando nella signora Manzari e nella cuoca una viva soddisfazione. Quale miglior sistema per garantirsi una nuova e abbondante porzione per la cena successiva?

Per fugare ogni dubbio, prima che la moglie si recasse in spiaggia con il pargolo, si era fatto garantire un’approfondita indagine sulle portate in preparazione. La consorte aveva giurato, ripromettendosi di non mantenere. Col marito aveva molto in comune, ma non la faccia tosta.

«E allora? Cosa ti ha detto la Manzari?» le aveva chiesto lui al ritorno.

La donna, certa che l’amica non avrebbe variato un menù così gradito, lo aveva rassicurato.

«Il timballo è in cottura».

Un atto di fiducia. Una bugia per il quieto vivere. E lui, tranquillo e con l’acquolina in bocca, preciso come il cucù di un orologio, suonò al cancello di villa Antonia.

«Guarda se non mi devi far vergognare» lo rimbrottava la moglie. «Tutta questa puntualità! Manca solo che ci presentiamo alla porta con il tovagliolo al collo».

Nicola rientrava in quel momento, con il cestino delle uova fresche al braccio. Con la camicia sbottonata, i pantaloni laceri e i piedi scalzi, era l’immagine stessa del povero contadinello. La signora De Cello lo degnò di uno sguardo misto di compatimento e sufficienza.

«Buonasera» fu svelto lui a salutare, prima di correre dalla zia.

«Ciao» rispose al volo Carlo che, verso quel ragazzo un po’ più grande di lui, nutriva una motivata ammirazione. Una volta gli aveva visto lanciare un sasso a pelo dell’acqua. Era un campione: riusciva a imprimergli almeno tre rimbalzi prima del tonfo definitivo. Si era avvicinato subito.

«M’insegni?».

Nicola non si era fatto pregare e, dopo qualche tentativo, anche Carlo era riuscito a ottenere un buon risultato. Un solo rimbalzo, ma discreto. Poi era stato chiamato da sua madre. Si sa che i genitori hanno il dono di piombare addosso ai figli quando si divertono di più.

«Carissimo Luciano, ti trovo in splendida forma».

Il benvenuto di Renato Manzari lasciò De Cello perplesso. Dall’ultima volta che si erano visti era ingrassato di diversi chili, ma decise di lasciar correre. Fare il pignolo era fuori luogo, in quel clima di festosa accoglienza.

«Ci difendiamo come possiamo» rispose.

«Signora De Cello, sono felice di rivederla».

Anche la seconda affermazione gli suonò eccessiva. A parte il cospicuo patrimonio e il blasone di famiglia che gli aveva portato in dote, trovava la propria consorte noiosa e petulante, del tutto priva di attrattive.

Antonia li ricevette nell’ingresso di casa con un sorriso smagliante. Si lasciò baciare la mano dal gentiluomo, abbracciò l’amica, carezzò la testa del ragazzino.

«Carlo, vai pure a giocare, Alba ti aspetta». Poi, rivolta agli adulti: «Miei cari, accomodatevi nel salotto. La cena sarà servita fra mezz’ora».

Suo marito prese per un braccio l’avvocato, che a sentire dell’attesa si era incupito.

«Io e Luciano facciamo una passeggiata. Voi donne avrete tante cose da dirvi».

La moglie fu lesta a raccogliere. Stando ai patti, toccava a lei avviare quel certo discorso.

«Manderò Rosina a chiamarvi quando sarà pronto».

Fra i coniugi Manzari vi fu uno sguardo d’intesa. Quindi, mentre i mariti estraevano i sigari dalle scatole per una fumata in giardino, le signore si avviarono verso il salotto.

Attraversando il corridoio la padrona di casa si fermò davanti alla camera di Alba. Prima di parlare voleva accertarsi che i bambini fossero lì, abbastanza distanti da non sentire. Quelli che sarebbero seguiti non erano discorsi per loro.

Tutto regolare: lei e Carlo stavano giocando. Erano chini sulla scrivania, impegnati a contendersi la vittoria in una partita a dama. Antonia non si lasciò sfuggire l’occasione per un commento, che la immetteva in pieno nell’argomento. Li guardò con tenera ammirazione.

«Stanno proprio bene insieme». Poi, rivolta all’amica: «Non ti sembra?».

L’altra fu pronta a rilanciare.

«Una coppia magnifica, certo. Alba, poi! Si fa ogni giorno più bella. Avrà stuoli di pretendenti quando sarà il momento».

Antonia Manzari assunse un’aria di circostanza. Il gatto col topo, il gioco era quello. Ma entrambe volevano essere il gatto.

«I pretendenti, già. Capisci bene, però, che non si può aspettare la manna dal cielo. All’avvenire di una figliola bisogna pensare per tempo».

La signora De Cello, primogenita di sette sorelle, le tre minori ancora da maritare, conosceva bene quei rituali. Il suo sguardo si fece più attento, la voce sottile.

«Avete già fatto dei progetti?».

«Dei progetti! Mia cara, di questi tempi non ci si può affidare al primo che passa. Bisogna conoscere, valutare, far bene i conti. È necessario…» lasciò la frase in sospeso. Rientrava nella sua tecnica, come il ripetere l’ultima parola dell’interlocutrice. Pretendenti… progetti… «È necessario…».

Il suo tono si era abbassato. Mentre la teneva sulla corda, Antonia lanciò un’occhiata furtiva verso l’amica, per misurare le reazioni sul suo volto. Sembrava tesa. Quel discorso le interessava, benché facesse di tutto per nasconderlo. Chissà da quanto lei e il marito speravano che i Manzari arrivassero al dunque.

Si alzò dalla poltrona e con passo lento raggiunse la finestra. Guardava fuori pensosa, verso l’altalena di Alba. L’altra liberò la curiosità con una domanda.

«È necessario cosa, Antonia?».

Si scosse, come se il quesito la richiamasse di colpo alla realtà.

«Scusa, mi ero distratta. Non ricordo più cosa avessi in mente. Ma dimmi di Carlo, piuttosto. Anche voi sarete in apprensione per il suo futuro».

L’ospite si arrese. In quella sorta di ballo in maschera che avevano ingaggiato, era il suo turno di fare un passo. Era una trattativa di alta diplomazia. A entrambe premeva sistemare i figli, il punto era arrivare a un accordo soddisfacente. Ma l’amica era l’anello debole, era lei che aveva la figlia femmina. Doveva battere su quel tasto.

«Io e Luciano ne abbiamo parlato. Certo, noi abbiamo più tempo. Per i maschi si fa presto a combinare, con tutte le ragazze da marito che ci sono in giro…».

Antonia si morse le labbra. Forse era stata precipitosa. L’altra aveva colto l’interesse e stava alzando la posta. Ma la De Cello lesse il disappunto nei suoi occhi e si riprese.

«Certo, neanche noi vogliamo commettere errori. Per Carlo dobbiamo puntare al meglio. È intelligente, bello. Ha davanti a sé una bella carriera nello studio paterno. Qualunque ragazza sarebbe felice di averlo».

«Non vorrai che tuo figlio finisca nelle mani di “una qualunque ragazza”!» finse d’inorridire la Manzari.

«Certo che no. Dovremo approfondire le nostre conoscenze, considerare con attenzione le varie possibilità».

Dalla cucina arrivavano gli odori, dal cielo un presagio di nuvole. La padrona di casa pensò che fosse il momento di sbilanciarsi un po’.

«Quella Margherita… Avete capito che genere di famiglia abbia alle spalle?».

La De Cello accusò il colpo. Non era pronta a una domanda così diretta e non sapeva come rispondere. Cercò di prendere tempo.

«Chi dovrebbe intendersi di queste cose» disse con un leggero accento di fastidio «è mio marito. Gli ho chiesto di informarsi, ma sai come sono fatti gli uomini. Non mi ha ancora dato una risposta precisa».

Un’espressione di falso stupore si disegnò sul volto di Antonia.

«Possibile che non ne sappiate proprio nulla?». Poi, con l’aria di chi vuol rendersi utile: «Renato mi ha detto che il padre della bambina è un industriale».

L’ospite incrociò le dita e curvò leggermente il capo in avanti. Si schiarì la voce.

«Già. Ma di cosa? Al Nord sono tutti industriali, vai a sapere».

Mosse le braccia in un gesto vago. Ma se sperava di cavarsela con così poco si sbagliava. Gli occhi dell’amica le rimasero addosso. Due fari puntati, che la costringevano a proseguire. Era ovvio che non aveva vuotato l’intero sacco. Con la simpatia reciproca che suo figlio e Margherita mostravano, qualche informazione l’aveva assunta di sicuro. Ripartì alla carica.

«Pare che abbia fatto fortuna durante la guerra, trafficando coi tedeschi. Ma è solo un sentito dire».

“Ottimo” rimuginò la signora Manzari. Aveva colto l’accento di perplessità. D’altra parte, come si poteva non averne? Del commendatore Galbiati, a parte l’origine lombarda e l’abitudine di trascorrere l’estate in Puglia, si sapeva poco. In compenso, mancando notizie certe, erano le chiacchiere a farla da padrone. Decise di rincarare la dose.

«Fai bene a essere diffidente. Magari c’è qualche affare poco pulito, dietro l’apparenza di rispettabilità. Oppure la sua ricchezza è un bluff e lui è un mezzo spiantato, buono appena a pagarsi le vacanze qui da noi».

Emma De Cello si avvicinò, come per sussurrare una frase all’orecchio dell’amica. In realtà parlò col consueto tono di voce.

«Ah, se è per quello, lui non paga proprio niente. La casa in cui vengono a villeggiare – che fra l’altro è un tugurio di tre stanze, la conosco perché si trova al confine coi nostri terreni – è di proprietà della moglie. Non so se mi spiego».

Si spiegava eccome. Tanto bene che non c’era da aggiungere altro. In più, mentre il discorso si andava raffreddando, il timballo si era riscaldato. Rosina si annunciò con il suono di un campanello. La cena era pronta.

I mariti entrarono sottobraccio e Antonia si disse che per quella sera poteva bastare. Ormai era chiaro, fra i De Cello e i Galbiati non c’erano accordi e non ce ne sarebbero stati. Il campo era libero, bisognava solo evitare i passi falsi.

Non doveva mostrare troppa fretta o le pretese sulla dote sarebbero state alte. Si sarebbe informata lei sui Galbiati e se, come sospettava, in quel cesto così invitante non c’erano grandi frutti, avrebbe avuto buon gioco a presentare l’offerta che più le aggradava.

Prima di andare in soggiorno passò di nuovo dalla camera di Alba. Lei e Carlo erano intenti nei loro giochi, ignari delle trame che venivano tessute sul loro futuro.

«Bambini, venite a mangiare?».

Raggiunsero insieme il soggiorno e lei assegnò a ciascuno il suo posto.

Ma la signora Manzari si sbagliava, qualcuno aveva sentito ciò che doveva rimanere segreto.

Nicola era rimasto fuori, accanto alla finestra aperta. C’era stato per tutto il tempo. La curiosità di sbirciare in quel mondo che gli era precluso lo aveva spinto a origliare e ora fremeva di rabbia.

“Non lascerò che la trattino in questo modo” si ripeteva, mentre fuggiva verso la dépendance, sperando di evitare una sfuriata della zia per il ritardo. “La difenderò io. Non possono fare di lei ciò che vogliono!”.

Poi, improvvisamente, si rese conto che Alba non aveva alcun bisogno che lui la proteggesse. Aveva gli stessi desideri della madre. Anche lei voleva un matrimonio con Carlo, seppure per motivi ben diversi. Non le interessavano il suo denaro, la “bella carriera” che avrebbe fatto nello studio paterno o i terreni di famiglia. Alba era innamorata di lui, e Nicola non doveva immischiarsi.

Si sentì sconfitto, come uno degli uccellini che ogni tanto osservava in giardino. Si affannavano a spiegare le ali, ma erano troppo piccoli e, per quanti sforzi facessero, non riuscivano a volare.

Nicola non piangeva mai, le sue lacrime erano finite il giorno del bombardamento che aveva distrutto la sua famiglia. Per una volta lo avrebbe fatto volentieri, almeno si sarebbe sfogato.

Cercò di calmarsi. Non voleva che Rosina si accorgesse della sua agitazione, che si preoccupasse. Era la sola persona che gli voleva bene.

Zia, ti prego, non mi sgridare. Sono uno stupido ragazzino, sogno cose che non posso avere. Non è colpa mia se è scoppiata la guerra, se la mamma e il babbo non ci sono più, se ho un cuore che batte forte e a parte lui non ho altro. Non mi odiare, almeno tu. Era questo che avrebbe voluto dirle e poi farsi abbracciare, farsi consolare. Invece riuscì appena a sussurrare: «Ecco le uova, oggi me ne hanno date solo quattro».

Auschwitz 1944

Il treno si fermò, questa volta definitivamente. Era giunto a destinazione. Il viaggio infernale nei vagoni bestiame, senza spazio per potersi stendere un po’ a riposare, era durato giorni. E la sete, la fame, il freddo, la sporcizia avevano ridotto tutti allo stremo.

Ora finalmente erano arrivati. Qualunque cosa li aspettasse era sicuramente meglio di quel trasporto degno di animali da macello, piuttosto che di uomini. Così pensava, almeno, perché neppure l’immaginazione dell’ebreo, abituato da secoli a conoscere la violenza più brutale, poteva fargli intuire cosa c’era fuori di quel vagone.

La prima cosa che udì fu un rumore di passi. Lenti, pesanti, cadenzati. Qualcuno si avvicinava al convoglio, per loro rappresentava il destino.

Simone ebbe appena il tempo di afferrare la mano di sua moglie Ester, di stringerla forte. Prese in braccio la bambina. Per un attimo pensò di imporre le mani sulla testa di sua figlia per darle la berakhà, la benedizione, ma si trattenne. Voleva pensare che non ce n’era motivo. Che il peggio era passato.

Erano già stati nel campo di Fossoli. La condizione di internati era dura, ma le famiglie restavano unite. Non si mangiava a sazietà ma, pagando, si poteva sempre racimolare qualcosa. Chi era stato previdente nel fare bene la valigia aveva di che coprirsi per difendersi dal freddo. E questo “era solo un trasferimento”, i nazisti non si erano stancati di ripeterlo.

Su quale fosse la destinazione finale si erano interrogati per tutto il viaggio. Ma il rabbino li aveva tranquillizzati.

«Un campo di lavoro, vedrete che sarà così. È naturale che ci vogliano sfruttare come manodopera. Siamo prigionieri, lo sforzo bellico è immane. Avranno bisogno di braccia per le loro fabbriche, come tutti i Paesi in guerra».

Parole sensate, pronunciate a fin di bene, ma la storia era diversa. L’orrore si spalancò con la porta del vagone. Scattarono tutti insieme: i latrati dei cani, le urla in tedesco, il sibilo dei frustini e i tonfi sordi dei manganelli, che roteavano in aria per poi abbattersi sulle loro teste.

«Raus! Schnell! Raus!».

Simone Viterbo provò a tenersi stretta la famiglia. Era l’unica cosa che contava. Che il mondo finisse in una gigantesca esplosione, che il cielo cadesse a pezzi e si rovesciasse su di lui era disposto ad accettarlo. Purché la moglie e la piccola si fossero salvate. Spinto dalla folla, travolto dagli stessi compagni, nuotò nella corrente cercando di non perdersi d’animo, con le sue donne attaccate al corpo.

«Per favore, non spingete! Ho una bambina. Per favore!».

Nessuno gli dava retta. Cercò di guadagnare riparo su un lato della fila, ma un energumeno alto e massiccio gli sbarrò il passo. Aveva una fascia al braccio che agitava per indicargli qualcosa.

Simone non capiva, e l’altro si fece via via più minaccioso. Voleva che lasciasse la piccola alla madre. Separavano i maschi dalle femmine, sembrava questa la regola. Provò ancora a resistere, ma l’omone si avvicinò, come se volesse afferrare egli stesso la bambina. Lui glielo impedì frapponendo la schiena. Con un rapido gesto mise la creatura fra le braccia di Ester.

«Non lasciarla mai» fece in tempo a sussurrare, prima che l’energumeno, poi rivelatosi un kapò, lo sollevasse di peso e lo scaraventasse nella fila degli uomini. Quindi s’incamminò con gli altri verso una sorte comune, che assomigliava a un cielo denso di nubi.

La voce della moglie lo raggiunse da una distanza infinita. «Te lo prometto, amore mio».

Provò a girarsi, ma non riusciva più a vederle. La folla le aveva sommerse, come se non fossero mai esistite. La barriera umana era insormontabile, tentare di uscirne era follia. Prese a delirare: l’intera umanità, si diceva, si era radunata su quella banchina al solo scopo di separarlo dai suoi affetti. I nazisti in uniforme, gli altri prigionieri, e quelli con le fasce al braccio, che non capiva se facessero parte delle vittime o dei carnefici.

Una congiura. Insieme formavano una massa scura che gli schiacciava la vita e gli rubava il futuro.

Voleva urlare, implorare che quell’incubo avesse fine. Ma non poteva e si concentrò sul presente. La colonna dei derelitti era un lungo serpente che divorava tutti i suoi compagni. Non ne vedeva più uno. Dopo il loro treno ne erano arrivati altri ed era una bolgia di idiomi, odori, corpi che si urtavano di continuo.

Trascorso un tempo che non riuscì a calcolare, di colpo si creò uno spazio. La fila s’interrompeva davanti a un tavolo, dove sedevano alcuni ufficiali delle SS. Due di loro indossavano un camice bianco.

“Saranno medici” pensò.

Erano loro a prendere le decisioni, da quanto poteva capire. Davano disposizioni agli altri, con frasi secche a cui faceva eco uno sbattere di tacchi. Si mise a osservarli e capì.

Uno dei due era il dio dei prigionieri. Senza parlare, con un gesto della mano, indicava loro la direzione da seguire. Destra o sinistra, dopo quell’imbuto la fila si sdoppiava.

Per qualche istante Simone fece da spettatore. Notò che quasi tutti finivano a destra, mentre dalla parte opposta andavano in pochi: i più forti, come se li scegliessero per un mestiere di fatica.

Si chiese dove fosse il suo destino. La giovane età poteva incolonnarlo a sinistra, ma il suo corpo era esile, non aveva mai svolto lavori pesanti.

Un lancio di dadi, per l’uomo che ormai gli era di fronte. L’ufficiale in camice bianco lo squadrò per una frazione di secondo. Senza un perché, nella mente di Simone passò un fiume di ricordi. Poi il nazista mosse la mano. Un gesto netto, a indicare la destra.

In quel preciso momento un sergente si avvicinò al secondo medico. Si inchiodò sull’attenti sollevando il braccio di scatto.

«Heil Hitler!».

Il superiore rispose al saluto.

«I carretti dei bambini sono pronti» pronunciò a voce alta il sergente, con un forte accento bavarese. Simone si fermò di colpo a osservare il nuovo arrivato. “Cosa voleva dire?” si chiese. “Di quali bambini e carretti stava parlando?”.

Il dio dei prigionieri si accorse che aveva capito la frase. Gli puntò un dito alla fronte, da lontano.

«Tu! Parli tedesco?».

Simone non si mosse. Non era sicuro che ce l’avesse con lui, e in ogni caso preferiva restare nel dubbio. L’altro ripeté la domanda alzando la voce.

L’ebreo avanzò di un passo. Spaurito, tremante. Non sapeva quanto potesse costare un’ammissione come quella. Ma era abituato a dire la verità.

«Sì» rispose, e smise di torturarsi.

Per un istante smisurato, il monosillabo rimase come sospeso. Una nuvola addensata nell’aria, che non voleva sciogliersi.

Quindi l’ufficiale si avvicinò. Senza parlare, lo spinse con violenza nella fila di sinistra. Un attimo dopo non pensava più a lui, aveva ripreso a fare il suo lavoro.

Simone era salvo. La destra era la morte, lo avrebbe imparato più avanti, ma in quel momento nei suoi pensieri c’era altro. Una donna e una bambina. Nel suo cuore c’era il loro destino.