Sei
«Cos’è questa repubblica?» proruppe il dottor Manzari dall’ingresso, dopo aver visto la pila dei bagagli. «Mica penserai che un armamentario del genere entri in una sola automobile!».
La moglie sorrise. Ogni anno la stessa storia: il consorte protestava per l’elevato numero di valigie che la donna preparava per il mare. “Cosa vuol capire un uomo” si chiese “di quanto spazio richieda un intero corredo di stagione?”.
I mariti erano fatti per incombenze differenti. Guadagnare il denaro per la famiglia, amministrare i terreni. Quanto alle faccende di casa, tutta un’altra musica. La soluzione migliore era sdrammatizzare.
«Guarda che non sta bene dire così. Ti ricordo che, da quando re Umberto è in esilio, la parola repubblica non è più sinonimo di confusione».
Lui non apprezzò l’ironia.
«Avanti, Antonia! Ti sembra il momento di metterti a scherzare? Come pensi che riusciremo a trasportare quintali e quintali di masserizie? E non abbiamo nemmeno…».
Alba si allontanò per non ascoltare il resto. “Non abbiamo nemmeno la nostra vecchia Balilla che, anche se non sembrava, era così capiente…”.
Aveva sentito mille volte quella tiritera. Era uno dei tormentoni del rientro dalle vacanze, insieme al disco di Parlami d’amore Mariù che non si trovava e all’emicrania della madre, che arrivava sempre un attimo prima della partenza.
Lasciò i genitori alle loro schermaglie, che non accennavano a placarsi.
«Stai tranquillo, mio caro. All’andata non è funzionato tutto bene? Il buon Emanuele saprà mettere tutto nel bagagliaio, vedrai».
L’autista, sorpreso dal complimento e dal tono della signora Manzari, insolitamente affabile per essere rivolto a lui, venne in suo aiuto.
«Non si preoccupi, dottore. In pochi minuti avrò caricato ogni cosa».
Renato rinunciò a lamentarsi. A questo punto era in minoranza.
«Se lo dici tu».
Lasciò che Emanuele si occupasse dei bagagli e volse lo sguardo al giardino. Il sole illuminava gli oleandri ravvivandone i colori, e quella vista gli trasmise un senso di pace.
Notò che un bottone del suo panciotto si stava allentando e si riservò di segnalarlo alla moglie. Poi affondò le mani nelle tasche. Non rinunciava al gilè nemmeno in agosto: educato fin da bambino alla compostezza, si portava addosso la lezione materna come se fosse un altro vestito.
«Dovrai essere impeccabile perfino in punto di morte» lo ammoniva sempre lei, con tono grave. «Il Signore sarà più disposto all’indulgenza, se ti troverà a posto».
Sua madre era mancata molti anni prima. Se n’era andata in perfetto ordine, com’era vissuta, ma non era mai tornata a confermargli la storia del perdono riservato all’eleganza. Lui nel dubbio la prendeva per buona.
Alba era delusa. Non c’era mai stata una partenza, alla fine della stagione, senza che un certo rito fra lei e Nicola fosse rispettato. Lui inseguiva l’auto correndo a perdifiato, oltre il cancello della villa. Lei restava girata per tutto il tempo, a costo di farsi venire il torcicollo. Agitavano le braccia fino a quando non diventavano l’uno per l’altra due puntini, impossibili da distinguere. Poi ciascuno dei due prendeva la sua strada.
Le corsie della provinciale, per Nicola, erano come le Colonne d’Ercole degli antichi. Con la curva si chiudeva il suo piccolo mondo e si aprivano orizzonti inaccessibili.
Nessuna rincorsa questa volta. Il ragazzo le strinse appena la mano, senza nemmeno darle il tradizionale bacio su una guancia. Con la testa bassa, come se avesse timore di guardarla negli occhi.
«Allora ciao».
«Ciao».
Rosina invece l’abbracciò forte, con le lacrime che spuntavano dagli occhi. Aveva il pianto facile, ultimamente, e ne dava la colpa all’età.
«Mi sto facendo proprio vecchia» le disse tutta commossa. «Una vecchia brutta e noiosa».
Lei le asciugò il volto con i baci.
«Sei bella invece. E ti voglio tanto bene».
Con la coda dell’occhio Alba osservò il ragazzo che si allontanava. Non riusciva a capire il motivo di tanto distacco.
Provò a consolarsi. Una volta le avevano detto che il tempo cura ogni ferita. La frase l’aveva colpita. Se valeva per tutti, anche a Nicola prima o poi sarebbe passata. Ma il suo cruccio restava. La tradizione del saluto era spezzata e anche un altro accordo, fra loro, era saltato.
«Quest’inverno ti scrivo» l’aveva sorpresa il ragazzo qualche tempo prima.
Non era da lui sbilanciarsi in una simile promessa. Si vergognava della sua scrittura disordinata, degli errori che costellavano le sue pagine. Ma per rispettare quel patto si era messo d’impegno, accettando perfino lezioni di grafia. Alba si divertiva a insegnargli, godendo di ogni progresso che faceva. Ricorreva a qualunque trucco pur di spingerlo a perseverare.
«Bravo. Per fare la a devi aggiungere una gambetta alla o. Così, bene. Se stai nel rigo ti regalo una caramella».
Poi fra loro era sceso il gelo e non se n’era fatto più niente. “Non mi ha chiesto l’indirizzo di Bari” considerò sfiduciata. Se anche avesse smesso di avercela con lei, come avrebbe fatto a spedirle una lettera?
Quando il cancello si aprì e l’automobile svoltò verso sinistra per imboccare la strada, provò a guardarsi intorno. Vide solo erba incolta e fiori di campo cresciuti a casaccio. Controllò ancora mentre il sentiero faceva sfilare le ville, ma il suo amico non si trovava nemmeno lì. Di sicuro era già andato in spiaggia, senza curarsi di lei.
Si sbagliava. Lungo il tratto sterrato che immetteva sulla provinciale c’era una buca. In quel punto Emanuele era costretto a rallentare.
Nicola conosceva il percorso a memoria. Sapeva che all’altezza del fosso c’era un grande albero di ulivo. Ci si era arrampicato e se ne stava lassù, nascosto dalle foglie. Non visto, mandò ad Alba un bacio a distanza, soffiandolo sulla mano perché il vento glielo portasse alle guance.
Il bacio con il soffio lo aveva imparato dalla zia. Con Alba lo usavano da piccoli, quando salivano ciascuno su un ramo diverso per mangiare le ciliegie.
Lei si torturò per tutto il viaggio, rimpiangendo la sua bella amicizia finita per sempre. Non ne capiva la ragione e quello strappo immotivato la faceva soffrire.
Le affiorò un ricordo della scuola. In classe il maestro le faceva sfogliare spesso il dizionario. «Devi imparare ogni giorno un vocabolo nuovo,» la esortava «così quando sarai grande ne conoscerai a migliaia».
A lei quell’esercizio piaceva. Si fermava a rileggere ogni singola riga, si divertiva a cercare i sinonimi e i contrari.
Durante il tragitto verso la città, Alba apprese la parola nostalgia. Ne aveva letto tempo prima, ma solo ora il suo significato le appariva chiaro.
Un pendolo di ricordi che oscillava di continuo dalla mente al cuore: lo avrebbe forse spiegato così. Un’assenza tangibile, fisica. Come un braccio amputato, o un dente che cade, lasciando il vuoto nella bocca sino a quando non ne spunta uno nuovo.
Finite le vacanze Nicola le era sempre mancato, ma in un modo diverso. Lui c’era, anche se stava lontano. La portava dentro di sé e Alba questa cosa riusciva a sentirla, a dispetto di qualunque distanza.
“Il tempo cura ogni ferita”. Quanto ne sarebbe servito, di tempo, per dimenticare il suo amico? C’era davvero, in qualche parte del mondo, un altro dente che potesse sostituirlo?
Auschwitz
Simone era al campo da un mese, ma gli sembrava già un tempo infinito. Ogni giorno gli portava un nuovo calvario, ogni attimo contemplava il rischio che i suoi giorni cessassero. Poteva rendere l’anima perché non passava una selezione, o perché le SS usavano su di lui uno dei tanti strumenti di assassinio a loro disposizione. E non c’erano solo questi pericoli. L’ultimo passo era sovente il risultato di una resa individuale: bastava cedere alla fame, agli stenti, alla continua tentazione di lanciarsi contro i reticolati.
L’alta tensione, scelta da molti suoi compagni per cessare di soffrire. Una morte rapida, che chiudeva una vita ricca di tormenti e povera di speranze.
Davide, il romano, le era andato incontro con un sorriso triste. La prima smorfia di beffarda ironia che gli avesse visto da quando lo conosceva.
«Addio, Simone Viterbo,» aveva detto guardandolo negli occhi «me ne vado. Il Signore mi dovrà capire. È meglio una fine sofferta che una sofferenza senza fine».
C’era stato un attimo di pausa, in cui aveva cercato invano una risposta. Si erano scambiati ancora uno sguardo. Poi l’altro si era mosso: senza fretta, in silenzio. Aveva raggiunto il filo spinato. Lo aveva proprio abbracciato, come se fosse quel figlio lontano di cui ignorava la sorte. In un attimo era rimasto fulminato.
Anche Simone pensava spesso all’ipotesi di togliersi la vita, ma ogni volta lo tratteneva il pensiero di sua moglie, della bambina. Non le aveva più viste dal loro arrivo.
Nella sua mente risuonavano ancora l’ultima frase rivolta a Ester mentre le metteva la piccola fra le braccia: «Non lasciarla mai», e la risposta della donna, spintonata nell’altra fila: «Te lo prometto, amore mio». Parole che gli battevano in testa con l’insistenza di un martello che percuote un’incudine.
Non faceva che chiedersi cosa ne fosse stato di loro, delle due persone che erano tutta la sua vita. Non voleva smettere di sperare. Era accaduto tutto così in fretta, dopo la selezione fatta all’arrivo gli eventi erano come precipitati.
«Tu lavorerai qui» gli aveva strillato un graduato, mostrandogli un ufficio del fabbricato principale, gelido e cupo come il resto del campo.
Dal primo giorno lo avevano messo a lavorare come interprete, la sua conoscenza delle lingue era risultata preziosa. Merito degli studi di filologia, della sua passione per la letteratura tedesca, dei corsi di perfezionamento negli atenei di Heidelberg e Tubinga. Ma la sua cultura universitaria era una medaglia che aveva il suo rovescio.
Un tarlo non faceva che assillarlo. Non capiva come conciliare la brutalità delle SS che lo tormentavano con l’ardore per la libertà di Schiller, il senso della natura di Goethe, l’amore dell’amore di Novalis. C’era forse, si chiedeva, nella ferocia antisemita dei suoi aguzzini, una scintilla del fuoco che in un’epoca non lontana aveva acceso l’Europa?
Nell’adolescenza si era riempito il cuore di Sturm und Drang, ne aveva così amato i versi e la passione! Ma ora dov’erano finiti la tempesta e l’impeto che tanto esaltavano l’animo umano? E quello struggimento, chiamato Sensucht. Cosa lo aveva fatto degenerare in una folle ossessione di morte?
L’incombenza del presente lo strappò alle sue riflessioni. Il caporale Schmidt lo informava dell’arrivo di un treno da Fossoli. Era un nuovo carico di ebrei italiani, che lo avrebbe impegnato a tradurre gli odiati ordini per tutta la giornata.
“Pazienza,” si disse “almeno non avrò il tempo di pensare”. Ma sapeva d’ingannarsi. Fermare la mente era un’azione che non gli era mai riuscita.
Un attimo dopo, nel freddo micidiale della Judenrampe, si chiedeva cosa stessero pensando in quel momento i suoi fratelli, ammassati nei vagoni piombati di un carro bestiame beffardamente definito treno. Ancora ignari del proprio destino, in attesa di scendere sulla banchina.
Vecchi, donne, bambini. Umanità votata allo sterminio, macchiata dalla colpa di appartenere a una religione sbagliata.
«Shemà Israel… » iniziò a pregare sottovoce, mentre a tratti scrutava quel cielo reso opaco dal fumo del camino.
A otto giorni, come tutti i neonati ebrei, Simone era stato circonciso. Si era interrogato spesso, nel corso della sua vita, sul significato di un simile atto di affiliazione. Anche in altri culti c’erano rituali che seguivano di poco la nascita, a sancire l’ingresso nel mondo e nella comunità religiosa. Ma ora quel piccolo intervento, di cui non aveva tracce nella memoria, assumeva ai suoi occhi una valenza ben diversa.
La circoncisione era la prova del delitto. Chi negava di essere ebreo poteva essere facilmente smascherato grazie a un’umiliante ispezione corporale. Qualunque documento falso serviva a poco di fronte a un’evidenza del genere.
«Avanti, pidocchio!».
Schmidt lo spinse senza complimenti verso il convoglio. Presto ci sarebbe stato bisogno della sua opera. Spiegava ai nuovi arrivati le procedure a cui dovevano sottoporsi: la consegna degli oggetti personali, il taglio dei capelli, il tatuaggio. Il numero sull’avambraccio sinistro che diventava una nuova identità e bisognava subito impararne il suono in tedesco, perché con quello li avrebbero chiamati da allora in poi, e guai se un prigioniero non rispondeva immediatamente.
Chiuse gli occhi, sforzandosi di tornare col pensiero ai tempi più felici. Gli sarebbe bastato un momento per riprendere coraggio. Quale magnifica sofferenza fu ritrovare nella memoria l’amata Firenze, la sua casa a pochi isolati dal Tempio di via Farini! Le botteghe degli orefici sul Ponte Vecchio, le viuzze del centro brulicanti di vita, gli eleganti caffè di piazza della Repubblica. Le passeggiate con la sua Ester al tramonto, lungo il corso dell’Arno.
Le ali del ricordo lo fecero approdare in piazza Santo Spirito, dove c’era la trattoria che sua moglie adorava. Ogni volta che ci andavano lei ordinava le tagliatelle, la specialità della casa. Ci faceva mettere il pomodoro invece del ragù. La prima volta che le aveva chieste in quel modo, rammentò, nel locale era scoppiata una mezza rivoluzione. Era uscito perfino il cuoco a spiegare che un piatto simile, di antica tradizione, non si poteva cambiare. Era un sacrilegio: senza il tipico sugo di carne non sarebbe stato lo stesso.
«Perché non le assaggia, almeno?» insisteva, con aria offesa. «Così poi mi darà ragione!».
Era un omone grande e grosso, ma lei non si era lasciata intimorire. A chi si trovava ad assistere alla scena era sembrato di vedere un minuscolo pulcino che fronteggiava un enorme gallo arrabbiato.
Ester aveva tenuto il punto sino alla fine. Con tutta la calma del mondo aveva spiegato che il suo non era un capriccio.
«È una regola religiosa, la carne di maiale non la posso mangiare».
Il tipo allora si era fermato. Aveva allargato a mo’ di scusa le sue manone e si era profuso in un inchino.
«Mi perdoni, signora, non avevo capito».
Da quel giorno, ogni volta che alla cucina arrivava l’ordinazione delle tagliatelle al pomodoro, il cuoco usciva a dare il benvenuto alla sua cliente ebrea. Si toglieva il cappellone bianco, le faceva una riverenza e tornava ai fornelli, che onorava di uno zelo degno delle grandi occasioni.
La pasta fatta in casa! Mentre il convoglio si fermava e un tenente si avvicinava ai vagoni per parlare con il capotreno, a Simone parve di sentirne di nuovo l’odore. Come se stesse arrivando proprio allora, appena cotta. Un bel piattone fumante, portato in equilibrio sulle dita da quel cameriere sardo che sorrideva di continuo con la bocca spalancata, in un modo che lui e la moglie avevano sempre trovato un po’ buffo. Quanto lo avrebbe apprezzato, ora, quel vezzo innocente!
Rivide nella mente la piazza, i suoi colori, l’atmosfera di quiete che spirava da ogni angolo. La loro bella trattoria con l’insegna in legno scuro e i rampicanti intrecciati sulla ringhiera. Quei tavoli così accoglienti, che lanciavano inviti a cui non si poteva resistere!
Chissà se un giorno ci sarebbero tornati, si sorprese a pensare. Chissà se Ester e la bambina erano ancora sulla terra. Se la vita normale sarebbe mai ricominciata. Magari il genere umano aveva subito un’altra condanna divina. Ma certo, doveva essere così: oggi toccava agli ebrei e domani sarebbe successo a qualcun altro, fino alla totale distruzione.
In preda ai suoi tormenti, Simone si mosse per raggiungere un gruppo di persone che scendevano da un vagone. Quando fu più vicino le osservò con attenzione. Si trattava di una famiglia al completo. C’erano anche i nonni, due vecchietti che si guardavano attorno spauriti, tenendosi per mano.
Provò un’istintiva tenerezza nell’immaginare gli anni che dovevano aver vissuto insieme, anni che avevano scavato nei loro volti rughe profonde come i cerchi del tronco di un albero. Si chiese quante prove avesse superato, il loro amore, in un lasso di tempo così lungo. Quanti sacrifici avessero affrontato fianco a fianco, in decenni che avevano conosciuto guerre, epidemie, catastrofi.
Un castello destinato a sgretolarsi di lì a poco. Se vivere non era mai stato uno scherzo, il passato impallidiva al cospetto di Auschwitz. Si costrinse a non guardare i crematori, mentre guidava l’intera famiglia tremante verso la fila diretta alla selezione.
«Prego, da questa parte».
I due anziani lo seguirono docilmente, senza fare domande. Solo all’ultimo il vecchio gli afferrò un braccio, mantenendo l’altra mano stretta a quella della moglie.
«Cosa ci succederà adesso?».
Simone aveva gli occhi bassi. Non rispose. Data l’età, l’uomo che lo fissava e la sua compagna non avevano speranze. Presto sarebbero stati cenere. Un filo in più, nel fumo nero dei camini.