Sedici
Antonia Manzari guardò Sara – il suo vero nome era miracolosamente tornato – dritta negli occhi e parlò.
«Di ciò che sto per dirti la responsabilità è solo mia. Renato non voleva, sono stata io a convincerlo. Appena finita la guerra arrivò una lettera di tuo padre. Ci diceva che era stato per lungo tempo internato in un campo, poi lo aveva liberato l’Armata Rossa. Era malato, scriveva, ma si stava rimettendo, presto sarebbe venuto a prenderti».
Sara si accasciò sul divano.
«Dio mio… cosa avete fatto…».
La voce di Antonia non si poteva più fermare.
«Non era passato un mese e si presentò a Bari a casa nostra. Tu eri piccola e non puoi ricordarlo, ma per qualche tempo sei rimasta qui al mare con Rosina. Ti abbiamo nascosta a tuo padre». Prese fiato. «Io e Renato non possiamo avere bambini. Così decidemmo… o meglio, io decisi, e mio marito acconsentì, di tenerti con noi. Dicemmo a tuo padre che eri morta in un bombardamento e lui ripartì». Fece un’ultima pausa, prima di crollare esausta su una poltrona. «Da allora non lo abbiamo più sentito».
Sara era sconvolta.
«Non ci posso credere… Non ci posso credere».
Guardava a turno l’uno e l’altra. Nei suoi occhi non c’era odio, mai più però ci sarebbe stato l’amore. Il suo sguardo era indifferente, come se stesse fissando due estranei.
«Dov’è mio padre?».
Antonia provò una sola volta a fermare la determinazione che spirava da quelle parole. Con le braccia aperte andò incontro alla ragazza, che si ritrasse. Rimase immobile, con le mani distanti e sospese nell’aria, come un burattino inanimato.
«Cosa pensi di fare? A quest’ora anche lui si sarà rifatto una famiglia».
«Dov’è?».
Il tono perentorio di Sara non ammetteva ulteriori tentennamenti. Renato Manzari s’intromise di nuovo.
«A Firenze. È da lì che veniva tuo padre».
«Firenze» ripeté la voce della ragazza, senza espressione.
Il dottore era pallido, divorato dal rimorso. Per anni si era comportato da vigliacco: non si era opposto alla moglie, le aveva lasciato compiere un’azione indegna rendendosene complice. Mentre realizzava di aver perso Alba per sempre, lo colse un pensiero: quanti significati poteva avere una sola parola. Firenze era una città, ma lei, citandola, non aveva indicato un luogo. Piuttosto una decisione, che suonava per loro come una condanna senza appello.
La decisione di Sara fu immediata. Telefonò a Margherita. Dopo la paura di veder morire annegata l’amica, Margherita aveva capito quanto Alba le fosse cara ed era andata a trovarla chiedendole perdono per il suo comportamento.
La chiamò per convincerla ad accompagnarla a Firenze e non dovette faticare molto. Anche lei aveva passato un brutto periodo e un viaggio era il modo migliore per distrarsi.
La partenza sembrò sciogliere davvero le tensioni che la opprimevano. Margherita guardava il paesaggio con occhi trasognati.
«A cosa pensi?» le chiese l’altra, tanto per fare conversazione.
«Così ora dovrò chiamarti Sara».
«Non ti piace?».
«Preferivo Alba».
Si strinse nelle spalle. Fra i vari problemi del momento, il nome le sembrava il meno importante. Rimasero in silenzio finché non si affacciò il controllore. Margherita gli porse i biglietti. Lui li osservò a lungo, come se qualcosa non andasse.
«Vedo che siete dirette a Firenze».
La ragazza intuì quello che l’uomo voleva dirle e lo anticipò.
«Scendiamo a Roma. Da lì abbiamo la coincidenza».
Il controllore approvò, sorridendo soddisfatto.
«Tutto a posto, allora».
Sara guardò l’amica con ammirazione, per la disinvoltura e la sicurezza con cui sapeva viaggiare. La sua compagna era davvero pratica di treni. Con il padre ne aveva presi tanti, non sempre per piacere.
Sara tornò con la mente all’uomo che si apprestava a incontrare. Simone Viterbo, era questo il suo nome. Era riuscita a procurarsi il suo indirizzo, ma non il numero di telefono. Aveva rinunciato all’idea di spedirgli un telegramma e si era messa subito in viaggio.
Era impaziente di vederlo. Dopo tanti anni perduti, non voleva sprecare nemmeno un giorno. Al tempo stesso provava un grande timore. Mentre scrutava il mondo nel rettangolo di un finestrino, si chiese come sarebbe stato trovarsi di fronte colui che l’aveva generata.
Nella sua mente si affollavano molti pensieri. Dove stava andando la sua vita che assomigliava a quel treno lanciato verso l’ignoto? Sarebbe diventata un’ebrea? E cosa voleva dire, esattamente? Ne sapeva poco, a parte le sue ricerche sull’enciclopedia.
I suoi interrogativi riguardavano anche Simone Viterbo. Cosa aveva passato durante la sua prigionia? Aveva visto morire la moglie? Questa domanda le procurò un grande turbamento. La donna a cui si riferiva era stata la sua mamma. Dentro quel corpo era incominciata la sua esistenza, era lei il ventre che l’aveva nutrita, il seno che l’aveva allattata, il cuore che aveva tremato per i suoi primi vagiti.
Il pensiero della madre era come una ferita. Di colpo si rese conto che, senza essere mai stata figlia, era diventata un’orfana. Si ripeté nella mente quella parola, che aveva sempre pronunciato con timore, provando un’immensa pena per chi si trovava in una simile condizione.
C’era un altro tarlo che la tormentava, instillato da Antonia Manzari: «A quest’ora anche lui si sarà rifatto una famiglia» le aveva detto. Era possibile. Sarebbe stato un problema? L’avrebbero accettata, una ragazza che bussava alla porta venendo da un passato così lontano? Non era sicura di avere la risposta.
«Non ti angosciare, dai» la voce di Margherita la colse di sorpresa. Le aveva letto nel pensiero, doveva portare scritti in fronte i propri tormenti.
«Scusa?» domandò, fingendo di non capire.
«Andrà tutto bene. Tuo padre sarà l’uomo più felice della terra. Ritrovare una figlia dopo tanti anni… Con quello che avrà passato, poverino».
Sara fece una smorfia.
«Non penso solo a lui. Potrebbe avere altre persone accanto».
«E non sei contenta? Ti ameranno, è impossibile non farlo. Sarà la tua nuova famiglia. Io non vedrei l’ora d’incontrarla se fossi al tuo posto».
Detta così sembrava semplice. Troppo, per convincersi in fretta.
«Speriamo bene. Magari non sarò capace io di farmi accogliere in una nuova famiglia, dopo quello che è successo con la prima».
L’altra si avvicinò, le spettinò i capelli.
«Smettila. Se sei riuscita ad affezionarti a una matta come me…».
Si mise a canticchiare un twist. Era allegra Margherita, man mano che la distanza da casa aumentava la sua euforia cresceva. Sara si sentì confortata dal buon umore dell’amica. In fondo poteva essere ottimista anche lei, perché no? “Il tempo aggiusta tutto” avrebbe detto Rosina, che aveva un proverbio per ogni circostanza.
«E come va col tuo fidanzato?» le chiese a un tratto Margherita.
Sgranò gli occhi. Le aveva rivolto la domanda con naturalezza, con un sorriso complice che non si aspettava. Avevano fatto pace, d’accordo, ma da lì a parlare di Carlo era un’altra storia. Possibile che il tempo avesse aggiustato anche quello?
Margherita incalzava.
«Avanti, non fare la misteriosa. Mi vuoi dire come procede?».
Si accorse di non avere una risposta.
«Non lo so nemmeno io. Quando gli ho detto dei miei veri genitori mi è sembrato dubbioso. Mi ha risposto che si riservava di parlarne in casa. Ha usato giri di parole, “questa nuova realtà è un’incognita”, “è bene che ci ragioniamo con calma”, frasi del genere».
L’amica rimase un attimo in silenzio a riflettere.
«Be’, la tua storia è sconvolgente» concluse. «Avrà bisogno di tempo per elaborarla, ma lo farà. Figurati se si lascia sfuggire una perla come te».
Lei assentì, perplessa. Non era più sicura di niente, nemmeno di ciò che provava. Si lasciò cullare dal movimento del treno, provando a riposare.
A Roma le attendeva la signora Martini, lontana parente dei Galbiati. La videro camminare verso di loro lungo il binario a scatti, come una marionetta. Margherita fece appena in tempo a mettere in guardia l’amica.
«Stai attenta, è una vera mitragliatrice. È simpatica, ma non provare a starle dietro quando parla. Fai ogni tanto un cenno affermativo, sarà più che sufficiente».
La donna non si smentì. Esauriti i convenevoli, iniziò a sparare frasi come se fossero raffiche.
«Ragazze, statemi attaccate, non vi perdete! Vedete la confusione? Pazzesca. Per fortuna abbiamo l’auto all’uscita. Avete fame? Siete giovani, ci mancherebbe. La cena sarà servita alle otto, ho dato disposizioni, ma prima vorrete vedere la città. Una breve visita, naturale». Guardò Sara. «Non sei mai stata a Roma, vero?».
La ragazza scosse il capo, ma la mitraglia umana non la guardava già più. Ripartì di gran carriera.
«Lo immaginavo. Bene. Anzi, male: una fanciulla intelligente come te deve approfondire la propria cultura. È una grave lacuna, sai? Bisogna porvi rimedio as-so-lu-ta-men-te! Ma ora ci pensa Fulvia Martini. Non sarete troppo stanche, spero».
Fra loro ci fu uno sguardo d’intesa, poi Margherita rispose di no per entrambe. Neanche stavolta la risposta arrivò a destinazione, e in ogni caso il piano non sarebbe cambiato.
La “breve visita” della città si rivelò una versione appena ridotta del Giro d’Italia. Senza fermarsi un attimo, la signora traghettò le ragazze da San Pietro a Castel Sant’Angelo, dal Colosseo a piazza Venezia. Le sue parole erano più veloci dell’auto che le guidava, snocciolava date e aneddoti della storia di Roma come se stesse leggendo la lista della spesa.
«Vedete? Da qui il Duce ha annunciato l’entrata in guerra dell’Italia, il 10 giugno del Quaranta. Dovevate sentirlo. La voce, il tono! Avrebbe convinto chiunque. In pochi mesi ci saremmo seduti al tavolo dei vincitori, diceva. È inutile che vi ripeta com’è andata a finire».
Sara non si stancava di osservare ogni cosa, si riempiva gli occhi di bellezza. Le sembrava una magia trovarsi davanti in un sol colpo le meraviglie di cui aveva letto sui libri per anni.
Con lo sguardo perso nell’immensità prese una solenne decisione: a quel primo viaggio ne sarebbero seguiti molti altri. Voleva vedere Venezia, Parigi, Londra, Vienna. Un intero progetto di vita prese forma nella sua mente. Si sarebbe laureata, sarebbe diventata un’insegnante e si sarebbe pagata i viaggi coi proventi del suo lavoro. Senza chiedere niente a nessuno, come faceva Nicola. Se il denaro non le fosse bastato avrebbe dato lezioni private, oppure si sarebbe messa a ricamare insieme a Rosina. Qualunque cosa, pur di provare ancora emozioni come quelle che stava vivendo.
Dall’Altare della Patria la signora Martini le guidò a piedi verso il Pantheon, poi a piazza Navona e a Trinità dei Monti. Teneva per mano le sue ospiti come se fossero due bambine, ma Sara accettò il contatto senza resistenze. Ora che stava al mondo senza una madre, era bello affidarsi a una mano protettiva.
Alla Fontana di Trevi l’infaticabile guida si fermò. Estrasse dalla borsetta due monetine, una per ciascuna delle ragazze. Le aveva già pronte, le offrì loro spiegando quale fosse il rituale.
«Date le spalle all’acqua e fate un bel lancio. Nel mentre, pensate che un giorno tornerete a Roma. Solo così il vostro desiderio sarà esaudito». Le fissò con uno sguardo indagatore. «Spero che non siate come certe adolescenti moderne. Disincantate, credono solo a ciò che vedono! Che tempi, mie care».
Margherita eseguì immediatamente. Sara esitò. Nel chiedersi il perché la verità apparve davanti ai suoi occhi con una chiarezza assoluta. Per lei non era quello il posto a cui tornare, la sua Fontana di Trevi si trovava da un’altra parte. Una campagna lontana, punteggiata di ulivi e case bianche, dove abitava il suo cuore.
Rivide la mareggiata che l’aveva travolta. Il braccio che si era sollevato più in alto delle onde e l’aveva afferrata, con una forza che non poteva venire solo dai muscoli. Riprovò la sensazione che la tormentava da allora e finalmente capì. In quel momento non stava agognando la salvezza. Poteva anche morire, forse era perfino la soluzione più giusta, ma doveva essere insieme a lui. Perché Nicola l’amava con tutto il cuore, glielo aveva detto quel mare in tempesta. E c’era di più: lo stesso sentimento, timido e nascosto come un germoglio, era cresciuto anche in lei.
Per anni aveva creduto di amare un altro, ma non era stato un pensiero spontaneo. Qualcosa l’aveva fuorviata, fin da bambina non aveva fatto che sentire le lodi di Carlo. «Guarda quanto è bello» le dicevano di continuo i Manzari. «Quanto è bravo, educato, gentile».
Aveva finito per convincersi, facendo propri quei pensieri. Il suo amore non era autentico, come non lo era il fatto che Antonia e Renato fossero i suoi genitori. Tutto sbagliato, tutto da rivedere. Ma ora che lo sapeva, come spostare indietro le lancette del tempo?
«Questi sono i carciofi alla romana. Vi ho detto che sono una specialità molto antica? Anche al Ghetto li cucinano in un modo di-vi-no! Mi stai ascoltando, Sara? A proposito: non so perché, ma mi sembrava che ti chiamassi Alba. Non mi avevi detto così, Margherita?».
La Martini non perdeva un colpo nemmeno a tavola. Le ragazze dovettero sorbirsi tutte le sue chiacchiere e una cena che avrebbe sfamato un reggimento. Poi furono libere di andare a dormire.
La partenza per Firenze era fissata per il mattino dopo. Sara era impaziente e al tempo stesso spaventata. Lungo il viaggio, dopo aver tentato invano di dormire, si mise a osservare la campagna. Sperava di vincere l’ansia, ma non le riuscì. Provò allora con la conversazione.
«È molto verde questa terra. Credo che imparerò ad amarla».
«Ammesso che ne avrai il tempo» ribatté sorniona l’amica. «Non credi che il tuo posto sia a Bari, accanto a tuo marito?».
Lei non era in vena di scherzare. Meno ancora lo avrebbe fatto sul suo matrimonio, che le stava davanti come una montagna da sormontare.
«Quando saremo arrivati stammi vicina, ti prego».
«E dove vuoi che vada: al mare? Non c’è neppure, a Firenze!» Margherita cercò di sdrammatizzare.
Sara percorse il tragitto da Santa Maria Novella alla casa di suo padre in preda a un’agitazione crescente. Sarebbe fuggita, se l’amica non l’avesse tenuta per mano. Nel camminare le accadde un fatto inatteso. Svoltando un angolo le parve di riconoscere una piazzetta. Poi fu la volta di una chiesa, che aveva una facciata già vista. Erano ricordi che affioravano o solo suggestione?
Prima di quanto pensasse si trovò davanti il palazzo. Le sue sensazioni si fecero più forti. Lo osservò a lungo, infine stabilì che non erano fantasie. In quel posto c’era già stata.
Il portone era chiuso. Mentre si avvicinavano ne uscì una signora, che lo tenne aperto per farle entrare. Sara la sfiorò con lo sguardo. Era un’altra impressione o quel volto le era noto? La fermò.
«Mi scusi, posso rivolgerle una domanda?».
La donna sorrise.
«Prego».
«Saprebbe dirmi a che piano abita il signor Viterbo?».
Il viso della signora fu attraversato da un’ombra. Un pensiero riflesso, un’immagine lontana, forse nulla.
«Al secondo» rispose.
«Grazie. Buonasera».
«Buonasera a lei, signorina».
Le rispose con un garbo insistito, come se volesse esortarla a salire. Nell’implicito invito Sara sciolse un po’ della sua tensione. Il nuovo mondo in cui si accingeva a mettere piede non sembrava respingerla, almeno per ora.
Mentre saliva le scale, il battito del suo cuore accelerò ancora di più. Ogni gradino un brivido, per tutta la rampa, con Margherita un passo dietro di lei.
Arrivata sul pianerottolo, la sua emozione era ormai incontenibile. Suonò il campanello, ma non successe nulla. Ripeté il gesto e stavolta sentì dei passi dall’interno. Si avvicinavano. Iniziò a tremare come una foglia. L’amica se ne accorse, le prese la mano per sostenerla.
Sara adesso era lì. Tutta la sua vita era lì, davanti a una porta chiusa. Sulle labbra una preghiera, nel cuore l’ansia e la speranza, due pulsioni che spesso si accompagnano. Aspettando che qualcuno le aprisse, ogni istante divenne per lei interminabile.