4. A SANGUE PIU’
FREDDO.
Non vi è stato mai alcun dubbio sul fatto che, in determinate circostanze, l’emozione distrugga il ragionamento. Di questo vi sono numerose prove, che costituiscono la ragione dell’ammonimento tante volte ripetutoci dai nostri maestri: non essere una testa calda, tieni a bada le emozioni; non lasciare che le passioni interferiscano con il giudizio. Ne consegue che di solito concepiamo l’emozione come una facoltà mentale eccedente, una non richiesta compagna -che la natura ci ha imposto - del nostro pensiero razionale. Se l’emozione È piacevole, ne godiamo come di un lusso; se È dolorosa, la soffriamo come un’intrusa malaccetta. In ogni caso, ammonisce il saggio, emozione e sentimento vanno presi solo a piccole dosi: dobbiamo essere ragionevoli.
Vi È molta saggezza in questa credenza largamente condivisa, e non sarò io a negare che un’emozione non controllata o mal diretta possa essere una copiosa fonte di comportamenti irrazionali, o che una ragione apparentemente normale possa essere disturbata da sottili inclinazioni radicate nell’emotività. Per esempio, È più probabile che un paziente preferisca un metodo di cura se gli si dice che il 90 per cento dei soggetti che vi si sono sottoposti È ancora in vita cinque anni dopo, piuttosto che se gli si dice che il 10 per cento È deceduto (1). L’esito dichiarato È esattamente lo stesso, ma È probabile che i sentimenti suscitati dall’idea della morte conducano al rigetto di una possibilità che sarebbe adottata nell’altra configurazione della scelta: un’illazione irrazionale e non coerente. Il fatto che i medici non rispondano in modo diverso rispetto ai pazienti non medici conferma che l’irrazionalità non deriva da mancanza di conoscenza. Tuttavia, quel che si sente ripetere di solito tralascia una nozione che emerge dallo studio di pazienti come Elliot e da altre osservazioni che tratterò più avanti: "una riduzione dell’emozione può costituire una fonte ugualmente significativa di comportamento irrazionale". Il legame - contrario all’intuizione - tra assenza di emozione e comportamento distorto può dirci qualcosa sul meccanismo biologico della ragione.
Cominciai a seguire questa strada adottando l’impostazione della neuropsicologia sperimentale (2), che si può legare ai seguenti passi: trovare correlazioni sistematiche tra danni cerebrali in determinati siti e disturbi del comportamento e della cognizione; confermare i risultati stabilendo quelle che sono note come doppie dissociazioni, per cui un danno nel sito A causa il disturbo X ma non il disturbo Y mentre un danno nel sito B causa il disturbo Y ma non il disturbo X; formulare ipotesi sia generali sia particolari secondo le quali un sistema neurale normale costituito da componenti diversi (per esempio, regioni corticali e nuclei subcorticali) effettua una normale prestazione cognitivo/comportamentale con differenti componenti a grana fine; da ultimo, saggiare le ipotesi in nuovi casi di lesioni cerebrali, in cui una lesione avvenuta in un certo sito viene usata come "sonda" per vedere se il danno ha provocato l’effetto supposto. L’obiettivo dell’impresa neuropsicologica, così, È quello di spiegare in qual modo certi processi cognitivi e i loro componenti siano in relazione con i sistemi neurali e i loro componenti. La neuropsicologia non riguarda, o non dovrebbe riguardare, la ricerca della “localizzazione” cerebrale di un “sintomo” o di una “sindrome”.
Per prima cosa mi preoccupai di verificare che le nostre osservazioni riguardanti Elliot valessero anche per altri pazienti; e così risultò. Fino a oggi abbiamo studiato dodici pazienti con lesioni prefrontali del tipo riscontrato in Elliot, e in nessuno era assente un deficit di capacità decisionale combinato con piattezza di emozioni e sentimenti. I poteri della ragione e l’esperienza dell’emozione declinano insieme, e la loro menomazione si inquadra in un profilo neuropsicologico nel quale l’attenzione di base, la memoria, l’intelligenza e il linguaggio appaiono intatti, tanto che sarebbe impossibile invocarli per spiegare i deficit di giudizio dei pazienti.
Ma non È solo dopo una lesione prefrontale che appare la vistosa, convergente menomazione della ragione e del sentimento. In questo capitolo, mostrerò come tale combinazione di alterazioni possa scaturire da lesioni ad altri siti cerebrali specifici, e come tali correlazioni suggeriscano l’interagire dei sistemi sottesi dai normali processi dell’emozione, del sentimento, del ragionare e del decidere.
Prove da altri casi di lesioni prefrontali.
Mi sembra opportuno porre in una prospettiva storica i miei commenti su casi di lesioni prefrontali. Per chi voglia tentare di comprendere le basi neurali del ragionamento e della decisione, la vicenda di Phineas Gage non È la sola fonte storica importante; sono in grado di presentarne qui altre quattro che contribuiscono a delineare il profilo di base.
Il primo esempio, studiato nel 1932 da R.M. Brickner, neurologo della Columbia University, e identificato come “paziente A”, È quello di un agente di cambio trentanovenne di New York, un professionista di successo, nel quale si sviluppò un tumore al cervello, come in Elliot un meningioma (3). Il tumore crebbe dall’alto, esercitando una pressione verso il basso sui lobi frontali, con risultati simili a quelli da noi riscontrati in Elliot. Walter Dandy, uno dei pionieri della neurochirurgia, riuscì a rimuovere il tumore, potenzialmente letale, ma non prima che la massa tumorale avesse arrecato estesi danni alle cortecce cerebrali nei lobi frontali, a sinistra e a destra (fig. 4.1). Le aree colpite comprendevano tutte quelle che andarono perdute in Elliot e in Gage, ma si spingevano un poco oltre. Sulla sinistra, furono rimosse chirurgicamente tutte le cortecce frontali poste di fronte alle aree del linguaggio; sulla destra, l’escissione fu più ampia, abbracciando tutta la corteccia di fronte alle aree che controllano il movimento. Furono anche asportate le cortecce della superficie ventrale (orbitaria) e la parte inferiore della superficie interna (mediana) di entrambi i lati dei lobi frontali; il giro del cingolo fu risparmiato. (La descrizione chirurgica fu confermata per intero, vent’anni dopo, da un’autopsia).
Il paziente A aveva percezione normale. Normale l’orientamento rispetto a persone, luoghi, tempo; normale la sua memoria convenzionale riguardo a fatti recenti o remoti. Le sue capacità motorie e linguistiche erano intatte, e tale sembrava anche la sua intelligenza, sulla base dei test psicologici disponibili a quel tempo; molto rilievo si dava al fatto che egli era in grado di eseguire calcoli e di giocare bene a dama. Ma a dispetto del suo sorprendente benessere fisico e delle mirabili capacità mentali, il paziente A non ritornò mai al lavoro: se ne stava a casa, e qui elaborava piani per un rientro nella professione, ma senza mai attuare nemmeno il più semplice di tali piani. Era un’altra vita che si disfaceva.
La personalità di A era cambiata profondamente. La sua riservatezza di modi era svanita; prima era stato un individuo riflessivo e compì-to, e ora poteva rivelarsi tanto inopportuno da sconcertare. Sulle altre persone (compresa sua moglie) esprimeva osservazioni irriguardose, a volte francamente crudeli. Si vantava della propria bravura professionale, fisica e sessuale, sebbene non lavorasse, non facesse alcuno sport e avesse cessato di avere rapporti sessuali con la moglie o con chicchessia. La sua conversazione ruotava per lo più attorno a prodezze mitiche, condita da notazioni pungenti, in genere rivolte contro gli altri. All’occasione, se frustrato, si faceva ingiurioso, ma senza passare alla violenza fisica.
Fig. 4.1.
Le parti ombreggiate rappresentano i settori ventrale e mediano del lobo frontale che risultano marcatamente compromessi nei pazienti con la “matrice” di Gage. Si noti che non risulta affetto il settore dorsolaterale dei lobi frontali.
A = emisfero cerebrale destro, vista esterna (laterale)
B = emisfero cerebrale destro, vista interna (mediana)
C = cervello visto dal basso (vista ventrale o orbitaria)
D = emisfero sinistro, vista esterna E = emisfero sinistro, vista interna.
La vita emotiva del paziente A sembrava impoverita; di tanto in tanto poteva capitargli un’esplosione di emozioni, ma per lo più tali manifestazioni erano assenti. Non v’È alcun segno che egli sentisse qualcosa per gli altri; nessun indizio di imbarazzo, tristezza o angoscia per una svolta così tragica della sua esistenza. Nell’insieme, l’aggettivo che meglio definisce la sua affettività È “poco profonda”. Egli era divenuto passivo e dipendente; così, trascorse il resto della sua vita sotto la tutela della famiglia: gli insegnarono a far funzionare una macchina stampatrice, imparò a stampare biglietti da visita e questa divenne la sua unica attività produttiva.
Il paziente A manifestava con tutta chiarezza le caratteristiche cognitive e comportamentali che sto cercando di definire per quella che potrebbe chiamarsi la “matrice” di Phineas Gage: dopo avere sofferto una lesione alle cortecce frontali, perdette la capacità di scegliere la linea d’azione più vantaggiosa, nonostante le capacità mentali fossero per altri versi rimaste inalterate; emozioni e sentimenti erano compromessi. Va precisato che, quando si mettono a confronto diversi casi, attorno a questa matrice si riscontrano differenze dei profili di personalità; ma È tipico dell’inevitabile natura delle sindromi avere una matrice, un nucleo condiviso di sintomi e una variabilità dei sintomi tutt’attorno a tale nucleo. Come ho già accennato nel-l’esporre le differenze superficiali tra Gage e Elliot, È prematuro decidere sulla causa di tali differenze. Qui voglio semplicemente far notare l’essenza comune della loro condizione.
La seconda fonte storica risale al 1940 (4). Donald Hebb e Wilder Penfield, alla McGill University canadese, descrissero un paziente il quale aveva subito un grave incidente all’età di sedici anni, e richiamarono l’attenzione su un punto importante. Phineas Gage, il paziente A e le loro controparti moderne erano stati adulti normali e avevano raggiunto la maturità della persona prima di subire lesioni ai lobi frontali e di mostrare anomalie di comportamento. Che cosa sarebbe accaduto se la lesione li avesse colpiti durante lo sviluppo, in un certo momento della loro infanzia, o dell’adolescenza? Si sarebbe portati a prevedere che bambini o adolescenti così menomati non riusciranno a sviluppare una personalità normale, che il loro senso sociale non giungerà mai a maturazione; ed È esattamente ciò che È stato riscontrato in tali casi. Il paziente di Hebb e Penfield aveva su-bìto una frattura composta delle ossa frontali tale da comprimere, fino a distruggerle, le cortecce frontali su entrambi i lati, e anche se era stato un bambino normale e un adolescente normale, dopo l’incidente la continuità del suo sviluppo sociale fu interrotta e anche il suo comportamento sociale ne fu danneggiato.
Ancor più rivelatore, forse, È il terzo caso, descritto da S. S. Ackerly e A. L. Benton nel 1948 (5). Il loro paziente subì una lesione al lobo frontale all’epoca della nascita, e perciò crebbe passando attraverso gli stadi dell’infanzia e dell’adolescenza privo di molti dei sistemi cerebrali che a mio giudizio sono necessari Perchè possa emergere una personalità umana normale. Di conseguenza, il suo comportamento fu sempre anormale. Non era stupido, da bambino, e gli apparati di base della sua mente sembravano intatti; ma egli non acquisì mai un comportamento sociale normale. All’età di diciannove anni fu sottoposto a un esame neurochirurgico, e risultò che il lobo frontale sinistro era poco più che una cavità vuota, mentre quello destro era del tutto assente, in conseguenza di atrofia: quella grave lesione avvenuta all’epoca della nascita aveva danneggiato in maniera irreversibile la maggior parte delle cortecce frontali.
Questo paziente non riuscì mai a tenere un posto di lavoro: ogni volta, dopo alcuni giorni di obbedienza perdeva interesse per l’attività assegnatagli, arrivando perfino a commettere furti o a mostrarsi riottoso. Qualsiasi scostamento dalla routine consueta riusciva facilmente a frustrarlo e poteva causare un’esplosione di malumore, anche se in genere egli era piuttosto remissivo e gentile. (Di lui si diceva che avesse i modi cortesi che definiscono “la compitezza di un maggiordomo inglese”). Gli interessi sessuali erano deboli ed egli non ebbe mai relazioni sentimentali. Il suo comportamento era stereotipato, privo di immaginazione e di iniziativa; Né sembrava influenzato da premi o punizioni. Nessun passatempo preferito, nessuno sviluppo di capacità professionali. La memoria era capricciosa: cadeva in difetto in situazioni nelle quali ci si aspetterebbe il verificarsi di qualche forma di apprendimento, e poi d’improvviso poteva rivelarsi brillante in qualche settore marginale - per esempio, aveva una conoscenza minuziosa dei diversi modelli di automobile. Non era mai felice, Né triste; tanto il piacere quanto il dolore sembravano, in lui, di breve durata.
Il paziente di Hebb e Penfield e quello di Ackerly e Benton avevano in comune alcuni tratti della personalità. Rigidi e ostinati nel loro modo di accostarsi alla vita, erano entrambi incapaci di organizzare la propria attività futura e di mantenere un’occupazione rimunerati-va; mancavano di creatività e di originalità; avevano la tendenza a vantarsi e a presentare un quadro favorevole di sè; mostravano modi in generale corretti ma stereotipati; erano meno capaci di altri di provare piacere e di reagire al dolore; le loro pulsioni sessuali e l’istinto di esplorazione erano ridotti; mostravano assenza di deficit motori, sensori o di comunicazione, mentre l’intelligenza complessiva rientrava nella gamma di quanto ci si poteva attendere in base al loro retroterra culturale. Si presentano di continuo equivalenti moderni di tali casi, e in tutti quelli che io ho potuto osservare le conseguenze sono simili. Per storia clinica e per comportamento sociale, questi pazienti ricordano quello di Ackerly e Benton. Un modo per descrivere il loro disagio È affermare che mai essi riescono a costruire una teoria adeguata della propria persona, o del ruolo sociale della propria persona nella prospettiva del passato e del futuro; e quel che non possono costruire per sè non possono nemmeno crearlo per gli altri. Sono privi di una teoria della propria mente e della mente di coloro con cui interagiscono (6).
La quarta fonte di prove storiche si presenta in un settore inatteso: la letteratura sulla leucotomia prefrontale. Sviluppata nel 1936 dal neurologo portoghese Egas Moniz, questa tecnica chirurgica era intesa a trattare l’ansietà e l’agitazione che accompagnano condizioni psichiatriche quali la nevrosi ossessivo-coatta e la schizofrenia (7). Secondo la tecnica elaborata da Moniz e applicata dal suo collaboratore Almeida Lima, neurochirurgo, l’intervento ledeva piccole regioni della sostanza bianca profonda di entrambi i lobi frontali. (Il nome “leucotomia” viene dai termini greci "leukos", che vuol dire “bianco”, e "tomos", che vuol dire “sezione”; “prefrontale” indica la regione in cui si opera l’intervento). Come si È visto nel capitolo 2, la sostanza bianca al di sotto della corteccia cerebrale È formata da fasci di assoni (cioÈ fibre nervose), ciascuno dei quali È il prolungamento di un neurone. L’assone È il mezzo attraverso il quale un neurone entra in contatto con un altro. I fasci di assoni incrociano la materia cerebrale nella sostanza bianca, connettendo regioni differenti della corteccia cerebrale. Alcune connessioni sono locali, tra regioni della corteccia che distano solo pochi millimetri l’una dall’altra, mentre altre uniscono regioni molto più distanti: ad esempio, regioni corticali di un emisfero cerebrale con regioni corticali dell’altro emisfero. Vi sono anche connessioni, nell’uno o nell’altro senso, tra regioni corticali e nuclei subcorticali - gli aggregati di neuroni al di sotto della corteccia cerebrale. Sovente si designa come “proiezione” il fascio di assoni che va da una sorgente nota a un determinato bersaglio, Poiché gli assoni si proiettano su una particolare raccolta di neuroni. Una sequenza di proiezioni attraverso diverse stazioni bersaglio È nota come “percorso”.
L’idea originale concepita da Moniz fu che, in pazienti patologicamente affetti da ansietà e agitazione, proiezioni e percorsi nervosi della sostanza bianca nella regione frontale avessero formato circuiti anormalmente ripetitivi e iperattivi. L’ipotesi non si fondava su alcuna prova, anche se studi recenti sull’attività della regione orbitaria in pazienti affetti da ossessione o da depressione suggeriscono che Moniz può essere stato nel giusto, almeno in parte, anche là dove si sbagliava sui particolari. Ma se l’idea di Moniz era solida e precorritrice rispetto alle prove disponibili all’epoca, risultava quasi timida rispetto al trattamento che egli proponeva. Ragionando sul caso del paziente A e sui risultati di alcuni esperimenti su animali che illustreremo più avanti, Moniz prevedeva che una rescissione chirurgica di quelle connessioni avrebbe eliminato l’ansietà e l’agitazione, lasciando però inalterate le capacità dell’intelletto: egli era convinto che tale intervento avrebbe curato le sofferenze dei pazienti consentendo loro una vita mentale normale. Mosso dall’osservazione di quella che gli appariva come la condizione disperata di tanti pazienti non curati, Moniz mise a punto e tentò l’operazione.
I risultati delle prime leucotomie prefrontali diedero qualche conferma alle sue predizioni: nei pazienti scomparvero ansietà e agitazione, mentre rimanevano in larga misura intatte funzioni come il linguaggio e la memoria convenzionale. Non sarebbe corretto, tuttavia, giudicare che l’intervento chirurgico non menomasse i pazienti in altri modi. Il loro comportamento, che non era mai stato normale, adesso era anormale in un modo diverso. L’ansietà estrema diede luogo a un’estrema calma; le loro emozioni apparivano piatte, e sembrava che essi non soffrissero. Il vivace intelletto che aveva prodotto compulsioni incessanti o pittoreschi deliri adesso era tranquillo; la pulsione dei pazienti a rispondere e ad agire, per quanto impropriamente, adesso era imbavagliata.
Da queste prime metodologie si ricavano testimonianze tutt’altro che ideali: raccolte molto tempo fa, con le limitate strumentazioni e conoscenze neuropsicologiche dell’epoca, non sono esenti (come sarebbe auspicabile) da pregiudizi, positivi o negativi; e le controversie su tali modalità di trattamento erano fortissime. Tuttavia, gli studi esistenti indicano con precisione alcuni fatti: in primo luogo, che una lesione della sostanza bianca soggiacente alle regioni orbitaria e mediana del lobo frontale alterava emozione e sentimento; in secondo luogo, che non ne erano toccati gli strumenti di base della percezione, della memoria, del linguaggio e del movimento; in terzo luogo, che nella misura in cui È possibile distinguere le nuove manifestazioni del comportamento da quelle che portarono all’intervento, sembra che i pazienti sottoposti a leucotomia fossero meno creativi e decisi di prima.
Per onestà nei confronti di Moniz e della prima tecnica di leucoto-mia prefrontale, va osservato che i pazienti trassero alcuni indiscutibili benefici dall’intervento chirurgico. Un aggravamento del deficit di capacità decisionale, sullo sfondo della loro malattia psichiatrica primaria, era forse un peso meno opprimente rispetto alla incontrollata ansietà di prima. Per quanto una mutilazione chirurgica del cervello sia inaccettabile, non si deve dimenticare che negli anni Trenta il trattamento tipico di tali pazienti implicava il relegarli in istituti per malati mentali, e in aggiunta, o in alternativa, la somministrazione di dosi massicce di sedativi che soltanto ottundevano la loro ansietà, sostanzialmente stordendoli e consegnandoli al sonno. Tra le poche alternative alla leucotomia, la camicia di forza e l’elettroshock. Solo verso la fine degli anni Cinquanta sarebbero cominciati ad apparire i primi farmaci psicotropi, come la torazina. E bisogna ricordare anche che tuttora non abbiamo modo di sapere se gli effetti a lungo termine di tali farmaci sul cervello siano comunque meno distruttivi di quanto potrebbe essere una forma selettiva di chirurgia. Il giudizio deve restare sospeso.
Non v’È alcun bisogno, invece, di sospendere il giudizio contro quella ben più distruttiva versione dell’intervento di Moniz che È nota come lobotomia frontale. L’operazione ideata da Moniz provocava danni limitati al cervello; al contrario, la lobotomia frontale era spesso un mero atto di macelleria, causa di lesioni estese, e si rese ovunque famigerata per il modo discutibile in cui veniva prescritta e per le non necessarie mutilazioni che produceva (8).
Sulla base della documentazione storica e delle prove ottenute in laboratorio, noi siamo giunti alle seguenti conclusioni provvisorie:
1) se la lesione arriva a toccare il settore ventromediano, un danno bilaterale alle cortecce prefrontali È sempre associato a menomazioni del ragionamento/attività decisionale e insieme dell’emozione/sentimento;
2) quando tali menomazioni si profilano su un quadro neuropsicologico per il resto largamente intatto, il danno È più esteso nel settore ventromediano; inoltre il dominio maggiormente affetto È quello personale/sociale;
3) nei casi di lesioni prefrontali in cui i settori dorsale e laterale sono danneggiati almeno quanto il settore ventromediano, se non più estesamente, le menomazioni del ragionamento e della decisione non sono più concentrate nel dominio personale/sociale. Tali menomazioni, come quelle dell’emozione e del sentimento, sono accompagnate da deficit dell’attenzione e della memoria operativa, rivelati da test con oggetti, parole o numeri.
Quel che ci occorreva sapere adesso era se questi strani compagni di letto (ragionamento/attività decisionale menomati ed emozione/sentimento menomati) potevano comparire da soli o in diversa compagnia neuropsicologica a seguito di lesioni in altri punti del cervello.
La risposta fu che sì, essi comparivano, e in modo pronunciato, come effetto di lesioni in altri punti, uno dei quali era un settore dell’emisfero cerebrale destro (non del sinistro) che contiene le diverse cortecce deputate a elaborare i segnali provenienti dal corpo. Un altro comprendeva strutture del sistema limbico, ad esempio l’amigdala.
Prove da lesioni oltre le cortecce prefrontali.
Vi è un’altra importante condizione neurologica che condivide la matrice di Phineas Gage, anche se i pazienti che ne sono affetti non sembrano assomigliare a Gage, all’esterno. L’anosognosia, come viene chiamata (dalle parole greche "nosos", che vuol dire “malattia”, e "gnosis", che vuol dire “conoscenza”), È una delle sindromi neurologiche più bizzarre in cui ci si possa imbattere; il nome denota l’incapacità di riconoscere la malattia su di sè. Si pensi a un soggetto rimasto vittima di un colpo apoplettico grave e con il lato sinistro del corpo completamente paralizzato: incapace di muovere una mano e un braccio, una gamba e un piede, incapace di stare eretto o di camminare, il volto per metà immobile. E ora si consideri lo stesso soggetto inconsapevole di tale menomazione, il quale riferisce che non c’È nulla e alla domanda: “Come si "sente"?” risponde con un sincero: “Bene!”. (Il termine anosognosia È stato impiegato anche per designare l’afasia o l’inconsapevolezza della cecità. Qui io faccio riferimento solo alla forma prototipa di tale condizione, quale È stata indicata più sopra, descritta per la prima volta da Joseph F. F. Babinski) (9).
Chi non abbia dimestichezza con l’anosognosia potrebbe pensare che il “ripudio” della infermità sia “psicologicamente” motivato, cioÈ che sia una reazione adattativa alla precedente afflizione. Posso affermare con sicurezza che non È così. Si consideri la disgrazia speculare, cioÈ il caso in cui È paralizzato il lato destro del corpo anzich, quello sinistro; questi pazienti di solito non presentano anosognosia, e anche se spesso sono gravemente menomati nell’uso del linguaggio, e possono soffrire di afasia hanno piena cognizione dello stato in cui versano. Inoltre, alcuni pazienti colpiti da una paralisi devastante sul lato sinistro, causata però da un quadro di danni cerebrali diverso da quello che provoca paralisi e anosognosia, possono avere mente e comportamento normali e rendersi conto della propria menomazione. Riassumendo: la paralisi del lato sinistro causata da un particolare quadro di danni cerebrali È accompagnata da ano-sognosia; la paralisi del lato destro causata da un quadro speculare di danni cerebrali non È accompagnata da anosognosia; la paralisi del lato sinistro causata da modalità di lesione cerebrale diverse da quelle associate all’anosognosia non È accompagnata da mancanza di consapevolezza. L’anosognosia, quindi, si verifica sistematicamente in caso di lesione a una particolare regione del cervello e solo a quella, in pazienti i quali possono apparire, a chi non abbia dimestichezza con il mistero della neurologia, più fortunati di quelli che sono sia paralizzati per metà sia menomati nel linguaggio. Il “ripudio” della infermità È il risultato della perdita di una particolare funzione cognitiva, dipendente da un particolare sistema cerebrale che può essere leso da un colpo apoplettico o da varie malattie neurologiche. L’anosognosico tipico deve essere posto di fronte alla propria manifesta menomazione Perchè sappia che c’È qualcosa che non va, in lui. Ogni volta che interrogavo la mia paziente D J sulla sua paralisi (completa) al lato sinistro, mi rispondeva invariabilmente cominciando con l’affermare che i suoi movimenti erano del tutto normali, che forse una volta erano stati menomati, ma che ora non lo erano più. Se le chiedevo di muovere il braccio sinistro, inerte, cominciava a cercarlo con gli occhi e dopo avervi gettato lo sguardo mi domandava se davvero volevo che “quello” si muovesse “da sè”. Io le rispondevo di sì, e allora D J prendeva nota "visivamente" dell’assenza di qualsiasi movimento dell’arto, aggiungendo che “non sembrava far molto, da sè”; poi, per mostrarsi collaborativa, suggeriva: “Posso muoverlo con la mano destra”.
L’incapacità di sentire la menomazione in modo automatico e rapido, e per via interna, attraverso il sistema sensoriale dell’organismo, nei casi gravi di anosognosia non scompare mai; in quelli più blandi può essere mascherata. Ad esempio, un paziente può avere il ricordo visivo dell’arto immobile e dedurne che c’È qualcosa che non va, in quella parte del corpo. Oppure il paziente può ricordare le innumerevoli dichiarazioni, fatte dai suoi parenti e dal personale medico, secondo cui c’È una paralisi, c’È un’infermità e quindi no, non È tutto normale. Affidandosi a tale sorta di informazione ottenuta dall’esterno, uno dei nostri più intelligenti soggetti anosognosici continua a dire: “"Una volta", avevo quel problema”, oppure: “"Una volta", lo trascuravo”; e naturalmente la situazione non È cambiata. La mancanza di aggiornamento diretto sulla condizione reale dell’organismo e della persona non si può definire in altro modo che stupefacente. (Purtroppo, nelle discussioni sull’anosognosia, la sottile distinzione tra consapevolezza diretta e consapevolezza indiretta del proprio stato da parte del paziente va spesso perduta, o È male interpretata. Per una delle poche eccezioni, si veda A. Marcel) (10). Nei pazienti affetti da anosognosia, non meno impressionante della dimenticanza degli arti infermi È la manifesta assenza di ogni preoccupazione per il proprio stato, l’assenza di emozione, il fatto che, interrogati al riguardo, essi riferiscono di una assenza di sentimenti. La notizia che hanno subito un attacco grave, che c’È un forte rischio di ulteriori disturbi cerebrali o cardiaci, o che sono colpiti da un cancro esteso giunto ormai a toccare il cervello - insomma, la notizia che la loro vita non sarà più come prima - di solito È accolta con animo sereno, talvolta con macabro umorismo, mai però con angoscia o tristezza, con lacrime o rabbia, con disperazione o panico. E’ importante sapere che una notizia comparabilmente cattiva data a un paziente con lesioni speculari a carico dell’emisfero sinistro provoca reazioni del tutto normali. In pazienti anosognosici non si riesce a trovare emozione e sentimento, e questo È forse l’unico aspetto felice della loro condizione, per ogni altro verso tragica. Forse non È sorprendente che la loro capacità di fare programmi per il futuro, o di prendere decisioni riguardo alla sfera personale e a quella sociale, sia profondamente menomata. La paralisi rappresenta forse il minore dei loro mali.
Fig. 4.2.
Cervello umano: gli emisferi destro e sinistro visti dall'esterno. Le aree ombreggiate coprono le cortecce somatosensitive primarie. Altre aree somatosensitive - rispettivamente la seconda area sensitiva (S2) e l'insula - sono sepolte dentro la scissura di Silvio, in posizione immediatamente anteriore e posteriore rispetto alla base della corteccia somatosensitiva primaria, e perciò non sono visibili in una rappresentazione di superficie. (Le frecce ne indicano la localizzazione approssimativa).
In uno studio sistematico di pazienti affetti da anosognosia, il neuropsicologo Steven Anderson ha confermato quanto sia ampia la gamma dei deficit, e ha dimostrato che i pazienti sono incuranti della propria situazione e delle relative conseguenze quanto lo sono della paralisi che li ha colpiti (11). Molti appaiono incapaci di prevedere la verosimiglianza di esiti infausti; se e quando riescono a prevederli, sembrano incapaci di provarne sofferenza. Di certo non sono in grado di costruire una teoria adeguata di ciò che sta capitando loro, di ciò che potrà capitare nel futuro, di ciò che gli altri pensano sul loro conto. Non meno significativo È il fatto che non si rendono conto di quanto sia inadeguato il loro stesso teorizzare. Quando l’immagine di sè È compromessa a tal punto, può essere impossibile aver coscienza che i pensieri e le azioni di quel sè non sono più normali.
I pazienti affetti dal tipo di anosognosia appena descritto presentano lesioni all’emisfero destro (fig. 4.2). Abbozzare una caratterizzazione completa dei correlati neuroanatomici dell’anosognosia È un progetto ancora in corso, tuttavia si può dire questo: È leso un gruppo selezionato di cortecce cerebrali del lato destro note come somato-sensitive (dal greco "sòma", corpo; al sistema somatosensitivo fanno capo sia le sensazioni esterne di tatto, temperatura, dolore, sia quelle interne di posizione delle articolazioni, stato dei visceri, dolore) e che comprendono le cortecce dell’insula di Reil, le aree citoarchitet-toniche 3, 1, 2 della regione parietale e l’area S2, anch’essa parietale, nella profondità della scissura di Silvio. (Si osservi che ogni qual volta io uso il termine “somatico” o “somatosensitivo” ho in mente il soma, o corpo, in senso generale, e mi riferisco a tutti i tipi di sensazioni corporee, incluse quelle dei visceri). La lesione colpisce anche la sostanza bianca dell’emisfero destro, distruggendo l’interconnessione tra le regioni citate, che ricevono segnali da tutto il corpo (muscoli, articolazioni, organi interni), e la loro interconnessione con il talamo, i gangli basali e le cortecce motorie e prefrontali. Una lesione parziale al sistema a più componenti qui descritto "non" provoca il tipo di anosognosia di cui sto trattando.
Da molto tempo, la mia ipotesi di lavoro È che le aree cerebrali in mutua comunicazione entro la regione dell’emisfero destro lesa nel-l’anosognosia probabilmente producono, attraverso le loro interazioni cooperanti, la mappa più completa e integrata dello stato presente del corpo che sia disponibile per il cervello.
Il lettore potrebbe chiedersi Perchè mai tale mappa sia sbilanciata verso l’emisfero destro, e non bilaterale: in fin dei conti, il cervello consta di due metà quasi simmetriche. La risposta È che nella specie umana come nelle specie non umane le funzioni sembrano essere spartite in modo non simmetrico tra i due emisferi cerebrali, per ragioni che probabilmente sono legate al bisogno di avere un solo controllore finale, e non due, quando si arriva a dovere scegliere un atto o un pensiero. Se entrambi i lati avessero pari voce in capitolo, riguardo all’esecuzione di un movimento, alla fine si potrebbe avere un conflitto: la mano destra potrebbe interferire con quella sinistra, riducendo la possibilità di produrre schemi coordinati di movimento, nei casi in cui fosse implicato più di un arto. Per un certo numero di funzioni, le strutture di un emisfero devono avere un vantaggio: tali strutture sono chiamate "dominanti".
L’esempio meglio conosciuto di dominanza È quello che riguarda il linguaggio. In oltre il 95 per cento degli individui - inclusi molti mancini - il linguaggio dipende in larga misura dalle strutture dell’emisfero sinistro. Un altro esempio di dominanza (questa volta a favore dell’emisfero destro) riguarda il senso integrato del corpo, per il quale la rappresentazione dello stato dei visceri, da una parte, e dall’altra la rappresentazione dello stato degli apparati muscoloscheletrici di arti, tronco e capo convergono in una mappa dinamica coordinata. Si osservi che questa non È una mappa unica e continua, ma piuttosto una interazione e coordinazione di segnali di mappe separate. In tale disposizione, i segnali riguardanti entrambi i lati (sinistro e destro) del corpo trovano il loro terreno d’incontro più ampio, nell’emisfero destro, nei tre settori corticali somatosensitivi indicati in precedenza. E’ significativo che la rappresentazione dello spazio extrapersonale, come pure i processi dell’emozione, implichino una dominanza dell’emisfero destro (12). Ciò non vuol dire che le strutture equivalenti dell’emisfero sinistro non rappresentino il corpo (o anche lo spazio, se È per questo); vuol dire però che le rappresentazioni sono differenti: quelle dell’emisfero sinistro probabilmente sono parziali e non integrate.
Per alcuni aspetti, i pazienti affetti da anosognosia assomigliano a quelli colpiti da lesioni prefrontali. Gli uni e gli altri, per esempio, sono incapaci di prendere decisioni appropriate su questioni personali o sociali; e i pazienti prefrontali con menomazione della capacità di decidere sono di solito indifferenti al proprio stato di salute, come gli anosognosici, e sembrano dotati di un’insolita resistenza al dolore.
Alcuni lettori ne saranno sorpresi, e potranno chiedersi Perchè hanno sentito parlare così poco della menomata capacità decisionale degli anosognosici. Perchè lo scarso interesse riservato alla menomazione del ragionamento dopo una lesione cerebrale si È concentrato sui pazienti con lesioni prefrontali? A titolo di spiegazione, si potrebbe osservare che i pazienti con lesioni prefrontali sembrano normali, dal punto di vista neurologico (i loro movimenti, le sensazioni, il linguaggio sono integri, mentre il disturbo sta nei sentimenti e ragionamenti, menomati), e perciò possono partecipare a una varietà di interazioni sociali che renderanno manifesto il loro deficit di ragionamento. D’altra parte, i pazienti affetti da anosognosia sono il più delle volte considerati infermi a motivo delle loro lampanti menomazioni motorie e sensoriali, e perciò la gamma delle interazioni sociali a cui possono partecipare È limitata. In altre parole, È drasticamente ridotta la loro possibilità di porsi a rischio. Ma anche così i deficit di capacità decisionale ci sono, pronti a manifestarsi alla minima occasione, pronti a insidiare i migliori programmi di riabilitazione che famigliari e personale medico abbiano elaborato. Incapaci di rendersi conto della profondità della propria menomazione, costoro non mostrano quasi alcuna tendenza a collaborare con il terapeuta, Né alcuna motivazione a star meglio. E Perchè dovrebbero, se in genere non sono consapevoli della gravità della loro condizione? L’indifferenza o la gaiezza apparenti sono ingannevoli, Perchè tale apparenza non È volontaria e non si basa su una conoscenza della situazione reale; e però spesso viene male interpretata come adattativa, e chi assiste e cura È erroneamente indotto a formulare una prognosi migliore per i pazienti esteriormente sereni che per le loro controparti lacrimose e angosciate della stanza accanto.
Un esempio pertinente, a questo riguardo, È offerto dal caso di William O. Douglas, giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti, il quale nel 1975 fu colpito da apoplessia all’emisfero destro (13). L’assenza di deficit del linguaggio faceva ben sperare per un suo ritorno al seggio che aveva occupato; o almeno così pensavano tutti, augurandosi che non si dovesse prematuramente rinunziare a un così brillante e decisivo membro della Corte. Ma i tristi eventi che seguirono narrano una storia diversa, e ci mostrano quanto problematiche possano essere le conseguenze se a un paziente affetto da tali menomazioni si consente di avere ampie interazioni sociali.
Fig. 4.3.
Superficie interna di entrambi gli emisferi. Le aree ombreggiate individuano la corteccia del cingolato anteriore. I pallini neri indicano la proiezione dell'amigdala sulla superficie interna dei lobi temporali.
I primi segnali rivelatori sopraggiunsero presto, quando Douglas lasciò l’ospedale contro il parere dei medici; lo avrebbe fatto più di una volta, per farsi condurre alla Corte, oppure in faticosi giri di acquisti o a pranzi luculliani. Questo comportamento, assieme all’allegra disinvoltura con la quale egli attribuiva il proprio ricovero in ospedale a un “cedimento”, e respingeva come una fola la paralisi al lato sinistro, fu attribuito al suo carattere e alla sua proverbiale risolutezza. Costretto a riconoscere, durante una pubblica conferenza stampa, che non era in grado di camminare o di alzarsi dalla sedia a rotelle senza aiuto, egli liquidò l’argomento con l’affermazione che “camminare non ha molto a che vedere con il lavoro della Corte”; e tuttavia invitò i giornalisti a fare un’escursione con lui, il mese seguente. Più avanti, dopo che ripetuti tentativi di riabilitazione si erano dimostrati infruttuosi, a un visitatore che gli chiedeva della sua gamba sinistra Douglas rispondeva: “Ho segnato da quaranta metri, calciando con questa gamba, giù in palestra”, e scommetteva che avrebbe potuto firmare per gli Washington Redskins. Se poi lo sba-lordito visitatore cercava cautamente di obiettare che forse la sua età ormai avanzata poteva costituire un impedimento non trascurabile, Douglas gli replicava ridendo: “Sì, certo, ma dovresti vedere l’effetto che riesco a dare ai miei tiri!”. Il peggio, comunque, doveva ancora presentarsi, giacch, Douglas venne più volte meno all’osservanza delle convenzioni sociali con gli altri membri della Corte e con il personale. Per quanto non in grado di assolvere il suo compito, egli si rifiutava con fermezza di dimettersi; e anche dopo essere stato costretto a farlo, sovente si comportava come se fosse ancora in carica.
I pazienti anosognosici del tipo che ho qui descritto, quindi, hanno più che una paralisi al lato sinistro della quale non sono consapevoli; hanno anche un deficit di ragionamento e di decisione, e un deficit di emozione e sentimento.
Qualche parola, adesso, riguardo alle indicazioni provenienti da lesioni all’amigdala, che È uno dei componenti principali del sistema limbico (fig. 4.3). I pazienti con lesione bilaterale confinata all’amigdala sono straordinariamente rari, e sono stati fortunati i miei colleghi Daniel Tranel, Hanna Damasio, Frederick Nahm e Bradley Hyman a poterne studiare uno: una donna, con un quadro di inadeguatezza personale e sociale esteso su tutto l’arco della sua esistenza (14). E’ indubbio che la gamma e l’appropriatezza delle sue emozioni sono menomate, e che in lei c’È scarsa preoccupazione per le situazioni problematiche nelle quali si pone. La “follia” del suo comportamento non È dissimile da quella riscontrata in Phineas Gage o in pazienti affetti da anosognosia e, come in costoro, non può essere imputata a carenze educative o a scarsa intelligenza: la donna ha un diploma di scuola secondaria e il suo quoziente d’intelligenza rientra nella fascia normale. Inoltre, con una serie di ingegnosi esperimenti Ralph Adolphs ha potuto mostrare che in lei È profondamente anormale la valutazione degli aspetti più sottili dell’emozione. Certo, sono risultati che attendono una replica e una conferma da casi confrontabili, prima che si possa attribuire loro un peso eccessivo; però devo aggiungere che lesioni equivalenti in scimmie provocano un deficit nell’elaborazione delle emozioni, come ha mostrato per primo Larry Weiskrantz e come poi hanno confermato Aggleton e Passingham (15). Inoltre, lavorando su ratti, Joseph LeDoux ha mostrato oltre ogni ombra di dubbio che l’amigdala ha un ruolo, nelle emozioni (su questi risultati dirò di più nel capitolo 7).
Una riflessione su anatomia e funzione.
La precedente rassegna delle condizioni neurologiche nelle quali compaiono menomazioni del ragionamento/decisione e dell’emozione/sentimento rivela con piena evidenza quanto segue.
In primo luogo, nel cervello umano vi È una regione (le cortecce prefrontali ventromediane) la cui lesione compromette sia il ragionamento/decisione sia l’emozione/sentimento, soprattutto nel dominio personale e sociale. Per metafora si potrebbe dire che ragione ed emozione “si incrociano” nelle cortecce prefrontali ventromedia-ne, e così pure nell’amigdala.
Fig. 4.4.
L'insieme delle regioni nelle quali una lesione danneggia sia il ragionamento sia l'elaborazione delle emozioni.
In secondo luogo, nel cervello umano vi È una regione (il complesso delle cortecce somatosensitive dell’emisfero destro) la cui lesione pure compromette il ragionamento e la decisione, ma secondo uno schema differente: o il difetto È molto più ampio, tale da mettere a repentaglio tutte le attività dell’intelletto in tutti i domìni, oppure È più selettivo, e minaccia le operazioni su parole, numeri, oggetti, o sullo spazio, piuttosto che quelle relative al dominio personale e sociale. La figura 4.4 mostra una mappa schematica di tali intersezioni critiche.
In breve, sembra che nel cervello umano vi sia una collezione di sistemi coerentemente deputati a quel processo di pensiero orientato verso un fine che chiamiamo ragionamento e a quella selezione delle risposte che chiamiamo decisione, con un’enfasi particolare verso il dominio sociale e personale. La medesima collezione di sistemi È implicata anche nell’emozione e nel sentimento, e in parte È deputata a elaborare i segnali corporei.
Una sorgente.
Prima di abbandonare l’argomento delle lesioni del cervello umano, voglio avanzare l’idea che in questo vi sia una particolare regione nella quale i sistemi attinenti a emozione/sentimento, attenzione e memoria operativa interagiscono tanto a fondo che essi costituiscono la sorgente dell’energia sia dell’azione esterna (movimento) sia di quella interna (ragionamento, animazione del pensiero). Questa regione È la corteccia anteriore del giro del cingolo, un’altra tessera del "puzzle" del sistema limbico.
Mi sono fatto quest’idea dopo avere osservato un gruppo di pazienti con lesioni in tale area e nei dintorni di essa. L’espressione migliore per descrivere il loro stato È “animazione sospesa”, mentale ed esterna: l’estrema varietà di una menomazione del ragionamento e dell’espressione di emozioni. Le regioni chiave danneggiate includono la corteccia anteriore del giro del cingolo (o più semplicemente del “cingolato”), l’area motoria supplementare (nota in breve come SMA o M2) e la terza area motoria (nota come M3) (16). In alcuni casi sono implicate anche aree prefrontali contigue, ad esempio la corteccia motoria nella superficie interna dell’emisfero (fig. 4.5). Nel loro insieme, le aree contenute in questo settore del lobo frontale sono state associate al movimento, all’emozione e all’attenzione (È nozione acquisita il loro coinvolgimento nella funzione motoria; per quanto riguarda il coinvolgimento nell’emozione e nell’attenzione, si vedano rispettivamente Damasio e van Hoesen, 1983, e Petersen e Posner 1990) (17). Una lesione in questo settore non solo provoca menomazioni del movimento, dell’emozione e della capacità di attenzione, ma determina anche una sospensione virtuale dell’animazione degli atti e dei processi di pensiero, cosicch, la ragione non È più esercitabile. Può illustrarlo bene la storia di una mia paziente, che chiamerò signora T.
In questa paziente, un colpo apoplettico aveva provocato danni estesi alle regioni dorsale e mediana del lobo frontale, in entrambi gli emisferi. Di colpo essa piombò nell’immobilità, e fu privata della parola: se ne stava nel letto con gli occhi aperti ma con il volto privo di espressione: un atteggiamento che spesso ho definito con l’aggettivo “neutro” per indicarne l’imperturbabilità - o assenza.
Fig. 4.5.
L'emisfero sinistro del cervello umano visto dall'esterno (a sinistra) e dall'interno (a destra). E' indicata la localizzazione delle tre principali regioni motorie corticali: M1, M2 e M3. M1 comprende la cosiddetta “striscia motoria” che compare in molti disegni del cervello, spesso sormontata da una figura rozzamente umana (l'“omuncolo di Penfield”). M2, meno conosciuta, È l'area motoria supplementare -la parte interna dell'area 6. Ancor meno conosciuta È la M3, che si trova sepolta ben addentro nel solco del cingolato.
Non più animato del volto era il suo corpo. La signora T. era in grado di compiere un movimento normale con braccio e mano (ad esempio per tirarsi su le coperte), ma in genere i suoi arti erano a riposo. Interrogata sulla sua condizione, di solito rimaneva in silenzio, anche se dopo molte insistenze sapeva dire il proprio nome, o quello del marito e dei figli, o il nome della città in cui viveva. Ma nulla diceva della sua storia clinica, passata o presente, e non era capace di descrivere gli eventi che avevano portato al suo ricovero in ospedale. Così, non v’era modo di sapere se la donna non avesse alcun ricordo di tali eventi, o se li ricordasse ma fosse restìa o inabile a parlarne. Le mie ripetute domande non la turbarono mai, Né mai mostrò un barlume di ansia riguardo a se stessa o a qualcos’altro. Mesi dopo, mentre veniva gradualmente emergendo dallo stato di mutismo e acinesia (assenza di movimento) e cominciava a rispondere alle domande, lei stessa avrebbe chiarito il mistero del suo stato mentale. Al contrario di quanto si sarebbe potuto pensare, la sua mente non era stata imprigionata nel carcere della sua immobilità: sembrava, invece, che di mente proprio non ve ne fosse stata granch,, nessun vero pensiero o ragionamento. La passività del suo volto e del suo corpo erano l’appropriato riflesso della sua mancanza di animazione mentale. Ora era sicura di non aver provato angoscia per l’assenza di comunicazione: nulla l’aveva costretta a non dire quel che aveva dentro; piuttosto, come ricordava, “non avevo proprio nulla da dire”.
Ai miei occhi, la signora T era stata priva di emozioni; secondo la sua esperienza, sembra che per tutto quel tempo non avesse avuto sentimenti. Ai miei occhi, la donna non aveva prestato attenzione specifica agli stimoli esterni che le erano stati presentati, Né aveva internamente seguito la loro rappresentazione, o la rappresentazione delle evocazioni correlate. Potrei dire che la sua volontà era stata svuotata, e tale sembra essere stata anche la sua riflessione. (Francis Crick ha adottato il mio suggerimento secondo cui in pazienti affetti da tali lesioni la volizione È svuotata, e ha considerato l’ipotesi di un substrato neurale del libero arbitrio) (18). In breve, vi era una diffusa menomazione della pulsione tramite la quale possono essere generati movimenti e immagini mentali e dei mezzi tramite i quali possono essere esaltati. L’assenza di tale pulsione si traduceva, all’esterno, in acinesia, mutismo, espressione assente del volto. All’apparenza, nella mente della signora non vi erano stati ragionamento e pensiero normalmente differenziati, e naturalmente nessuna decisione veniva presa, tanto meno attuata.
Prove dagli studi su animali.
Tali studi offrono altra materia alla tesi che vado qui costruendo. Il primo che voglio ora discutere risale agli anni Trenta. Un’osservazione compiuta su scimpanz, sembra aver fornito, se non l’impulso per il progetto della leucotomia prefrontale, almeno il robusto incoraggiamento di cui Moniz aveva bisogno per far procedere la sua idea. Alla Yale University, J. F. Fulton e C. F. Jacobsen compivano ricerche sull’apprendimento e la memoria (19), servendosi di due scimpanz,, Becky e Lucy, che non erano soggetti gradevoli: quando erano frustrati - e ciò capitava con facilità - diventavano cattivi. Nel corso del loro studio, Fulton e Jacobsen decisero di indagare in qual modo un danno alla corteccia prefrontale alterasse l’apprendimento di un compito sperimentale. In una prima fase, i due ricercatori intervennero su un lobo frontale, senza conseguenze o quasi sulle prestazioni o sulla personalità degli animali. Nella fase successiva, essi intervennero sull’altro lobo frontale; allora accadde qualcosa, e qualcosa di notevole. In circostanze nelle quali, in precedenza, Becky e Lucy erano stati frustrati, ora sembravano non curarsene; invece di mostrarsi rabbiosi e cattivi, ora restavano mansueti. Durante il Congresso mondiale di Neurologia tenutosi a Londra nel 1935, Jacobsen diede ai colleghi che riempivano la sala una vivida descrizione del cambiamento sopravvenuto (20); e si può supporre che nell’ascoltare la sua relazione Moniz si sia alzato per chiedere se lesioni analoghe, prodotte sul cervello di pazienti psicotici, non potessero offrire una soluzione ad alcuni dei problemi che li affliggevano, senza che uno sbalordito Fulton fosse in grado di rispondere.
Una lesione bilaterale prefrontale del tipo già descritto preclude la normale esibizione delle emozioni e - non meno importante - provoca anormalità del comportamento sociale. Si deve a Ronald Myers una serie di studi illuminanti che mostrano come scimmie (non antropomorfe) sottoposte ad ablazione prefrontale bilaterale (che tocchi sia i settori dorsolaterali sia quelli ventromediani ma lasci integra la regione del cingolato) non mantengono relazioni sociali normali all’interno del loro gruppo, nonostante il fatto che nulla È cambiato nel loro aspetto fisico (21). Nelle scimmie operate, le cure corporali (di sè stesse e degli altri individui) sono molto ridotte; lo stesso vale per le interazioni affettive con gli altri individui, non importa se maschi, femmine o cuccioli; vocalizzazioni ed espressioni del volto sono impoverite; il comportamento materno È menomato; infine, si osserva indifferenza sessuale. Questi individui possono muoversi normalmente, ma non entrano in relazione con gli altri membri del gruppo al quale appartenevano prima dell’intervento, Né gli altri membri entrano in relazione con loro, mentre riescono a stabilire relazioni normali con scimmie che presentano gravi deficit fisici (come una paralisi) ma che non hanno subìto danni prefrontali. Anche se le scimmie paralizzate sembrano più gravemente inabilitate di quelle con lesioni prefrontali, esse cercano e ricevono il sostegno degli individui loro pari.
E’ corretto supporre che le scimmie con lesioni prefrontali non siano più in grado di osservare le complesse convenzioni sociali che sono proprie dell’organizzazione di un gruppo (relazioni gerarchiche tra i suoi diversi membri, dominanza di alcune femmine e di alcuni maschi sugli altri membri, eccetera) (22). E’ verosimile che esse risultino inadeguate in termini di “cognizione sociale” e di “comportamento sociale”, e che gli altri animali reagiscano in modo analogo. Si noti che scimmie con danni alla corteccia motoria ma non alla corteccia prefrontale non mostrano tali difficoltà.
Scimmie sottoposte ad ablazione bilaterale del settore anteriore del lobo temporale (a seguito di interventi che non danneggiano l’amigdala) rivelano qualche menomazione del comportamento sociale, ma in misura di gran lunga più modesta rispetto a quelle con lesioni prefrontali. Nonostante le marcate differenze neurobiologiche tra scimmie e scimpanz,, e tra scimpanz, ed esseri umani, il deficit provocato da lesione prefrontale mostra una essenza sempre presente: il comportamento personale e sociale È gravemente compromesso (23).
Il lavoro di Fulton e Jacobsen offre altre indicazioni importanti. Come si È già detto, il loro studio aveva lo scopo di comprendere apprendimento e memoria, e da questo punto di vista i loro risultati costituiscono una pietra miliare. Uno dei compiti assegnati dai ricercatori ai due scimpanz, era apprendere un’associazione esistente tra uno stimolo premiante e la sua posizione nello spazio. L’esperimento era organizzato in questo modo: uno dei due animali aveva davanti a sè, a portata di braccio, due recipienti, e in uno di questi veniva messo un pezzo di cibo, facendo in modo che l’animale potesse vedere; poi i due recipienti venivano coperti, cosicch, il cibo non era più visibile. Dopo un intervallo di alcuni secondi, l’animale doveva raggiungere il recipiente nel quale era nascosto il cibo, trascurando l’altro, vuoto. In condizioni normali l’animale serbava conoscenza della collocazione del cibo per tutta la durata dell’intervallo, e quindi compiva il movimento appropriato per raggiungerlo.
Dopo una lesione prefrontale, invece, non era più in grado di eseguire questo compito: non appena lo stimolo era fuori della vista, a quanto sembra, era anche fuori della mente. Questi risultati divennero il fondamento delle successive indagini neurofisiologiche sulla corteccia prefrontale fatte da Patricia Goldman-Rakic e da Joaquim Fuster (24).
Un risultato recente, che ha particolare rilievo per la mia tesi, riguarda la concentrazione di uno dei recettori chimici della serotonina nel settore ventromediano della corteccia prefrontale e nell’amigdala. La serotonina È uno dei principali neurotrasmettitori, cioÈ di quelle sostanze la cui azione contribuisce a quasi tutti gli aspetti del comportamento e della cognizione. (Altri neurotrasmettitori chiave sono la dopamina, la norepinefrina - o noradrenalina - e l’acetilcoli-na: tutte queste sostanze sono emesse da neuroni posti in piccoli nuclei del midollo allungato o del prosencefalo basale, i cui assoni terminano nella neocorteccia, nei componenti corticali e subcorticali del sistema limbico, nei gangli basali e nel talamo). Nei Primati, una delle funzioni della serotonina È quella di inibire il comportamento aggressivo (curiosamente, in altre specie essa ha funzioni diverse). Si osserva sperimentalmente che, quando se ne impedisce l’emissione ai neuroni dai quali la serotonina proviene, una delle conseguenze È che gli animali si comportano in modo impulsivo e aggressivo. In generale, intensificare l’azione della serotonina riduce l’aggressività e favorisce il comportamento sociale.
In questo quadro È importante osservare, come ci mostra il lavoro di Michael Raleigh (25), che nelle scimmie non antropomorfe il cui comportamento È socialmente ben armonizzato (lo si può misurare sulla base delle esibizioni di cooperazione, cure corporali, vicinanza agli altri individui) il numero dei recettori della serotonina-2 È molto alto nel lobo frontale ventromediano, nell’amigdala e nelle cortecce temporali mediane più vicine, ma non in altri punti del cervello, mentre vale l’opposto per le scimmie che mostrano comportamento antagonistico, non cooperativo. L’osservazione conferma il legame di sistema tra cortecce ventromediane prefrontali e amigdala che ho suggerito sulla base di risultati neuropsicologici, e mette in relazione queste aree con il comportamento sociale, che È il principale dominio affetto per quanto riguarda l’alterata capacità decisionale dei miei pazienti. (Si designano con “serotonina-2” i recettori della serotonina identificati in questo studio Perchè ne esistono molti tipi differenti: in effetti, non meno di quattordici).
Digressione sulle spiegazioni neurochimiche.
Quando si vuole spiegare la mente e il comportamento, fare appello alla neurochimica non basta; occorre sapere dove si pone la chimica, nel sistema che si suppone provochi un dato comportamento. Senza conoscere le regioni corticali o i nuclei nei quali la sostanza chimica agisce, all’interno del sistema, non v’È alcuna possibilità di arrivare anche solo a comprendere come essa modifichi la prestazione del sistema - e si badi che tale comprensione È appena il primo passo, che precede l’eventuale chiarimento del modo in cui operano i circuiti a grana più fine. Per di più, la spiegazione neurale comincia a essere utile solo quando si rivolge ai risultati dell’attività di un dato sistema su un altro. E’ sbagliato ridurre, con affermazioni superficiali, le importanti conclusioni descritte nel paragrafo precedente al risultato che la serotonina da sola “causa” un comportamento sociale adattativo e che la sua mancanza “causa” aggressività. La presenza o l’assenza di serotonina in specifici sistemi cerebrali aventi specifici recettori per tale sostanza modifica il loro funzionamento, e tale cambiamento a sua volta modifica il funzionamento di altri sistemi ancora, con un risultato che alla fine sarà espresso in termini cognitivi e di comportamento.
Queste osservazioni sulla serotonina sono tanto più opportune alla luce della recente notorietà che tale neurotrasmettitore si È conquistata. E’ oggetto di larga attenzione un farmaco antidepressivo molto diffuso, il Prozac, che agisce bloccando la ricaptazione della serotonina e probabilmente aumentandone la disponibilità. Su quotidiani e rotocalchi si È affacciata la nozione secondo cui bassi livelli di serotonina potrebbero essere correlati con una propensione alla violenza. Il problema È che a “causare” una determinata manifestazione non È di per sè l’assenza (o una ridotta presenza) di serotonina: questa È parte di un meccanismo straordinariamente complicato che agisce al livello di molecole, sinapsi, circuiti locali e sistemi, e nel quale intervengono robustamente anche fattori socioculturali, passati e presenti. Una spiegazione soddisfacente può scaturire solo da una visione più complessiva dell’intero processo, che analizzi da vicino le variabili significative di un dato problema, quali la depressione o l’adattabilità sociale.
In termini più pratici: non si risolverà il problema della violenza sociale rivolgendo l’attenzione solo ai problemi sociali e ignorando i correlati neurochimici, Né incolpando solo questi ultimi. Occorre prendere in considerazione sia i fattori neurochimici sia quelli sociali, nella giusta misura.]
Conclusione.
Gli elementi discussi in questo capitolo relativi a soggetti umani suggeriscono un legame stretto fra una serie di aree cerebrali e i processi di ragionamento e di decisione. Gli studi condotti su animali hanno rivelato che alcuni degli stessi legami coinvolgono alcune delle stesse aree. Riunendo le indicazioni fornite dagli studi su soggetti umani e su animali si possono elencare alcuni fatti sul ruolo dei sistemi neurali che abbiamo identificato.
In primo luogo, questi sistemi sono certamente implicati nei processi della ragione, nel senso ampio del termine; in particolare, sono implicati nel pianificare e nel decidere.
In secondo luogo, un sottoinsieme di tali sistemi È associato al pianificare e al decidere, comportamenti che si potrebbero fare rientrare sotto l’etichetta “personali e sociali”. Qualcosa lascia intravedere che tali sistemi siano in relazione con quell’aspetto della ragione che va di solito sotto il nome di “razionalità”.
In terzo luogo, i sistemi che abbiamo identificato hanno una funzione importante nell’elaborazione delle emozioni.
In quarto luogo, i sistemi sono necessari per tenere a mente, per un intervallo di tempo prolungato, l’immagine di un oggetto che È pertinente ma che non È più presente.
Perchè ruoli così disparati dovrebbero confluire in un settore circoscritto del cervello? Che cosa potrebbe esservi di comune tra le seguenti attività: pianificare e assumere decisioni, personali e sociali; elaborare emozioni; tenere a mente un’immagine in assenza della cosa che essa rappresenta?