3. UN MODERNO PHINEAS GAGE
Non molto tempo dopo che io ebbi cominciato a esaminare pazienti il cui comportamento era simile a quello di Gage, ogni volta sbalordito dagli effetti che poteva produrre un danno all’area prefrontale (sto parlando di un buon ventennio fa), mi fu chiesto di visitare un paziente nel quale tale condizione si presentava in forma particolarmente pura. A quanto mi fu detto, la personalità di questo paziente aveva subito un cambiamento radicale, e i medici che me ne riferirono volevano soprattutto sapere se ciò fosse una vera infermità. Elliot (lo chiamerò così) era allora trentenne (1); non più in grado di tenere un posto di lavoro, viveva affidato alla custodia di un fratello; ma ora si poneva il problema che a Elliot non veniva riconosciuto il diritto a riscuotere l’assegno di invalidità. Per quel che si poteva vedere, egli era un individuo intelligente, capace, sano: doveva tornare in senno e rimettersi a lavorare. Diversi professionisti avevano dichiarato che le sue facoltà mentali erano integre, intendendo con questo che Elliot era nella migliore delle ipotesi un pigro, e nella peggiore un simulatore.
Lo visitai subito, e ne fui colpito: era una persona piacevole e interessante, dotata di un fascino profondo ma controllata nelle sue emozioni. Mostrava una compostezza riguardosa e piena di tatto, appena contraddetta da un lieve sorriso ironico indicante una saggezza superiore e una blanda condiscendenza verso le follie del mondo; appariva freddo, distaccato, imperturbabile, anche nel discutere di vicende personali che avrebbero potuto metterlo in imbarazzo. A me venne fatto di pensare a George Sanders quando impersona Addison DeWitt nel film "Eva contro Eva".
Ma oltre a essere coerente e lucido, Elliot mostrava chiaramente di sapere ciò che accadeva attorno a lui. Poteva citare a menadito date, nomi, particolari; commentava i fatti della politica con l’ironia che questi spesso meritano e sembrava comprendere bene la situazione economica generale. La sua conoscenza del settore nel quale aveva lavorato rimaneva solida. A me era stato detto che le sue capacità erano immutate, e ciò appariva plausibile. Ricordava perfettamente le vicende della propria vita, compresi gli ultimi, strani eventi - e in realtà erano successe le cose più strane.
Elliot era stato, prima, un buon marito e un buon padre; aveva avuto un impiego in un rinomato studio legale, e ovunque aveva rappresentato un modello, per fratelli e colleghi. Aveva raggiunto, insomma, una condizione invidiabile, sia personale sia professionale e sociale. Ma a un certo punto la sua vita cominciò a disfarsi. Era assalito da violenti mali di capo, e concentrarsi gli riusciva sempre più difficile; inoltre, con il peggiorare della sua condizione, sembrava perdere ogni senso di responsabilità, cosicch, il suo lavoro doveva essere completato o corretto. Il medico di famiglia sospettò che la causa potesse essere un tumore al cervello, e purtroppo il sospetto si rivelò fondato.
Il tumore era esteso e cresceva rapidamente; all’epoca in cui fu diagnosticato, aveva raggiunto le dimensioni di una piccola arancia. Si trattava di un meningioma - così chiamato Perchè si sviluppa dalle meningi, le membrane che rivestono la superficie del cervello. In seguito appresi che il tumore di Elliot aveva cominciato a crescere nell’area mediana, proprio sopra le cavità nasali, e sopra il piano formato dal tetto delle orbite. Crescendo, il tumore comprimeva dal basso entrambi i lobi frontali, spingendo verso l’alto.
In generale i meningiomi sono benigni, per quanto riguarda la natura del tessuto tumorale; ma se non vengono rimossi per via chirurgica possono essere fatali quanto quelli maligni: infatti, continuando a comprimere, nella loro crescita, il tessuto cerebrale, finiscono con l’ucciderlo. Per sopravvivere, Elliot doveva essere sottoposto a intervento chirurgico.
Fu quindi operato, da un’eccellente ,quipe medica, e il tumore fu rimosso; inoltre, come si fa di solito in questi casi, si dovette rimuovere anche il tessuto dei lobi frontali che era stato danneggiato dal tumore. L’operazione fu un successo sotto ogni punto di vista, e le prospettive erano ottime, dal momento che tali tumori non hanno la tendenza a riprodursi. Quello che si sarebbe rivelato meno fausto fu il cambiamento di personalità del paziente, che cominciò a manifestarsi durante la convalescenza, e in modi tali da lasciare sbalorditi famigliari e amici. Le sue doti intellettuali e la sua capacità di muoversi e di usare il linguaggio erano intatte; e tuttavia per molti versi Elliot non era più Elliot.
Seguiamo la sua giornata dall’inizio: al mattino, aveva bisogno di essere sollecitato per mettersi in movimento e prepararsi per andare al lavoro. Qui giunto, non era capace di amministrare correttamente il proprio tempo: non si poteva fare affidamento su di lui, in fatto di scadenze. Quando il lavoro richiedeva di interrompere un’attività per passare a un’altra, accadeva spesso che egli continuasse con la prima, perdendo di vista, a quanto sembrava, lo scopo principale; oppure capitava che interrompesse l’attività nella quale era impegnato per volgersi a un’altra che in quel momento lo attirava di più. Se, per esempio, il suo compito avesse richiesto di leggere e classificare i documenti di un certo cliente, egli certamente li avrebbe letti, ne avrebbe compreso appieno il significato e il valore, e certamente avrebbe saputo come selezionarli e ordinarli in base alla analogia o diversità di contenuto. Ma - e qui stava il problema - era probabile che d’improvviso abbandonasse il lavoro di selezione che aveva cominciato per mettersi a leggere, con attenzione e intelligenza, uno di quei documenti, magari dedicandovi l’intera giornata. Oppure, poteva passare tutto il pomeriggio a sceverare quale criterio di ordinamento fosse il più opportuno: in base alla data, alla lunghezza del documento, alla pertinenza con il caso? E intanto il flusso del lavoro si interrompeva. Si potrebbe dire che il particolare segmento di lavoro sul quale Elliot si era impuntato veniva eseguito troppo bene, a scapito dell’intento complessivo. Si potrebbe anche dire che Elliot diveniva irrazionale rispetto al più ampio quadro di comportamento, che riguardava le sue priorità principali, mentre in quadri più ristretti, attinenti a compiti sussidiari, le sue azioni erano molto più minuziose di quanto fosse necessario.
Le sue conoscenze di base erano sopravvissute, a quanto sembrava, ed egli era in grado di compiere bene come prima molte azioni separate; ma non si poteva far conto su Elliot Perchè eseguisse un’azione appropriata quando ce lo si aspettava. Si comprende, quindi, come egli perdesse il lavoro, dopo che ripetuti consigli e richiami da parte di colleghi e superiori erano rimasti inascoltati. La vita di El-liot si era avviata su una china diversa.
Non più legato a un impiego regolare, si lanciò in nuovi passatempi e in affari rischiosi. Per esempio, gli venne la mania del collezioni-smo; niente di male, in questo, ma certo un’abitudine poco pratica quando ciò che si colleziona sono scarti e rifiuti. Le sue nuove attività spaziavano dall’edilizia alla gestione di investimenti. In una delle sue imprese, si associò con un tizio tutt’altro che raccomandabile, e a nulla servì che gli amici lo mettessero in guardia. Finì con l’inevitabile bancarotta, nella quale perse tutti i risparmi che vi aveva investito. Era sconcertante vedere un uomo come Elliot, con il suo passato, imbarcarsi in affari e in decisioni finanziarie così malcerti.
La moglie, i figli e gli amici non riuscivano a capire come mai una persona tanto accorta, e per di più opportunamente preavvertita, potesse agire in modo così sciocco; alcuni non ressero. Vi fu un primo divorzio, seguito da un breve matrimonio con una donna che Né la famiglia Né gli amici approvavano; quindi un altro divorzio. Privo di qualunque fonte di reddito, continuò ad andare sempre più alla deriva, fino a che, come ultimo colpo per coloro i quali ancora si preoccupavano di lui e seguivano le sue vicende, giunse il rifiuto dell’assegno sociale di invalidità.
A Elliot fu ripristinata l’assistenza. Io spiegai che causa dei suoi fallimenti era una condizione neurologica: certo, era ancora fisicamente abile e le sue facoltà mentali erano in massima parte integre; ma era menomata la sua capacità di giungere a una decisione, e anche la capacità di fare un programma efficace per le ore a venire - non si dica, poi, per i mesi o gli anni del suo futuro. Niente a che vedere, in questi cambiamenti, con le modificazioni di giudizio che possono capitare a ciascuno di noi, di tanto in tanto. Individui di normale intelligenza e con un grado di istruzione confrontabile con quello di Elliot commettono, certo, errori e prendono a volte decisioni sbagliate, ma non con esiti così sistematicamente nefasti. In Elliot i cambiamenti avevano ampiezza maggiore ed erano segno di infermità: non erano conseguenza di una precedente debolezza di carattere, e sicuramente non erano sotto il controllo volontario del paziente. Molto semplicemente, la loro causa, alla radice, era un danno a un particolare settore del cervello. Per di più, essi avevano carattere cronico: la condizione di Elliot non era transitoria, ma si sarebbe mantenuta.
Con questo soggetto, sano e intelligente, la tragedia era che, pur non essendo Né stupido Né ignorante, egli agiva come se lo fosse. L’elaborazione dei suoi processi decisionali era talmente compromessa che egli non poteva più porsi come un essere sociale efficiente. Anche di fronte ai risultati catastrofici delle sue decisioni, Elliot non imparava dai suoi errori: sembrava che fosse oltre ogni possibile redenzione, come il malfattore incallito che dichiara il proprio sincero rincrescimento, ma subito dopo torna a commettere l’ennesimo reato. E’ corretto affermare che era stato compromesso il suo libero arbitrio, e spingersi a dire, in risposta alla domanda da me posta riguardo a Gage, che anche quello di Gage lo era stato.
Sotto certi aspetti, Elliot era un nuovo Phineas Gage: come Gage, egli era precipitato da uno stato di grazia sociale; ormai incapace di ragionare e di decidere per garantire e migliorare la condizione propria e della propria famiglia, non era più un essere umano indipendente. E come in Gage, anche in lui si era sviluppata la mania del collezionismo. Vi erano, però, anche alcune differenze. Elliot era meno veemente di quanto sembra fosse stato Gage, Né mai si abbandonò a imprecazioni e oscenità; non sono ancora in grado di rispondere con fondamento empirico alla domanda se tale diversità corrisponda a lievi differenze di localizzazione delle rispettive lesioni o a differenze di formazione socioculturale, di età, di personalità prima dell’incidente.
Ancor prima di studiare il cervello di Elliot con le moderne tecniche di visualizzazione, sapevo che il danno toccava la regione del lobo frontale: era l’unica indicata dal suo profilo neuropsicologico. Come si vedrà nel capitolo 4, un danno in altri punti (per esempio nella corteccia somatosensitiva sul lato destro) può compromettere la capacità di decisione, ma in tali casi sono presenti altri deficit concomitanti (una grave paralisi, disturbi dell’elaborazione delle sensazioni). L’analisi mediante tomografia computerizzata e mediante risonanza magnetica consentì di capire che erano stati lesi entrambi i lobi frontali - destro e sinistro - e che il danno era molto più grande a destra che a sinistra. In effetti, la superficie esterna del lobo frontale sinistro era illesa: il danno era localizzato all’interno dei settori orbitario e mediano. Questi erano lesi anche sul lato destro, ma qui in più era distrutto il nucleo del lobo (la sostanza bianca sotto la corteccia cerebrale), con il risultato di rendere funzionalmente non più operante larga parte delle cortecce frontali sul lato destro.
Su entrambi i lati non erano danneggiate le parti del lobo frontale connesse con il controllo dei movimenti (cioÈ le regioni motoria e premotoria). NÉ ciò risultò sorprendente: infatti i movimenti di Elliot erano del tutto normali. Erano anche intatte, come previsto, le cortecce frontali connesse con il linguaggio (area di Broca e zone circostanti). Infine, era intatta anche la regione posta appena sotto la base del lobo frontale, il prosencefalo basale, che È tra quelle necessarie per l’apprendimento e la memoria: se fosse stata lesa, la memoria di Elliot ne sarebbe stata compromessa.
Vi era indicazione di altri danni al cervello di Elliot? La risposta È un reciso no. Tanto nell’emisfero destro quanto in quello sinistro, le regioni temporale, occipitale e parietale erano illese, e lo stesso poteva dirsi per i grandi nuclei di sostanza grigia al di sotto della cortec-cia, inclusi i gangli basali e il talamo. Quindi il danno era confinato alle cortecce prefrontali: in particolare il settore ventromediano di queste ne aveva subìto la parte maggiore, proprio come nel caso di Gage. In Elliot, però, il danno era più esteso sul lato destro che su quello sinistro.
Si potrebbe concludere che andò distrutta solo una piccola parte di cervello; questo rimase per larga misura intatto. Ma non È l’entità, la quantità del danno che importa, quando se ne debbano considerare le conseguenze. Il cervello non È un’unica, grande massa di neuroni che fanno tutti la stessa cosa, quale che sia la posizione che occupano. Sia in Gage sia in Elliot, le strutture lese erano quelle che sono necessarie Perchè il ragionamento culmini nella decisione.
Una nuova mente.
La solidità dell’intelletto di Elliot mi colpì molto, ricordo; ma ricordo anche di aver pensato che molti altri pazienti colpiti da lesioni al lobo frontale davano la stessa impressione di solidità, mentre erano avvenuti sottili cambiamenti dell’intelletto, che solo particolari test neurofisiologici potevano rivelare. Il loro comportamento alterato era stato attribuito spesso a difetti della memoria o dell’attenzione; ma Elliot mi avrebbe presto liberato da tale illusione.
In precedenza, Elliot era stato esaminato in un altro istituto, e qui avevano espresso l’opinione che non vi fosse indizio alcuno di “sindrome cerebrale organica”: in altre parole, sottoposto agli usuali test di intelligenza, Elliot non mostrava alcun segno di menomazione. Il suo quoziente di intelligenza (Q.I.) ricadeva nella fascia superiore, e anche la valutazione compiuta con la scala WAIS (Wechsler Adult Intelligence Scale) non indicava alcuna anormalità. Si trovò che i suoi problemi non erano il risultato di “affezione organica” o di “disfunzione neurologica” (affezioni del cervello, in altre parole), ma che riflettevano invece problemi di adattamento “emotivo” e “psicologico” (in altre parole, turbe mentali), trattabili quindi con la psicoterapia. Solo dopo il fallimento di una serie di sedute di psicoterapia, Elliot fu assegnato alla nostra unità. (La distinzione tra malattie del “cervello” e della “mente”, tra disturbi “neurologici” e disturbi “psicologici” o “psichiatrici”, e una malaugurata eredità culturale che permea la società e la medicina: essa riflette un’ignoranza radicale della relazione tra cervello e mente. I disturbi del cervello sono visti come tragedie inflitte a individui che non possono essere biasimati per la loro condizione, mentre quelli mentali, specie se influiscono sulla condotta e sulle emozioni, sono visti come disagi sociali dei quali chi ne soffre deve in buona misura rispondere. A chi ne risente devono rimproverarsi le pecche caratteriali, una carente modulazione delle emozioni e simili colpe; si ritiene che il problema consista soprattutto nella mancanza di forza di volontà).
Il lettore potrebbe benissimo chiedersi se le precedenti valutazioni mediche fossero errate. E’ concepibile che un individuo con le menomazioni di Elliot possa rispondere bene ai test psicologici? La risposta È: sì. Pazienti che presentano vistose anormalità del comportamento sociale possono rispondere in modo normale a molti test di intelligenza, a volte alla maggioranza di essi: È una realtà frustrante, che da decenni angustia tanto il clinico quanto chi esegue i test. Può esservi un’affezione al cervello senza che i test di laboratorio misurino menomazioni significative. Ma il problema non sta nei pazienti, sta nei test, che non si indirizzano in modo adeguato alle particolari funzioni compromesse, e così non riescono a misurare alcun declino. Conoscendo lo stato di Elliot e la sua lesione predissi che egli sarebbe risultato normale nella maggior parte dei test psicologici, ma anormale in un piccolo numero di test sensibili a disfunzioni delle cortecce frontali. Come si vedrà fra poco, Elliot doveva sorprendermi.
I test psicologici e neuropsicologici di tipo standard rivelarono un intelletto superiore (2). In ogni singolo subtest del WAIS, Elliot mostrò capacità superiori o pari alla media. Risultò superiore la memoria immediata per i numeri, la memoria verbale a breve termine e la memoria visiva per i disegni geometrici; risultò normale la capacità di richiamo ritardato di figure complesse e parole dall’elenco di Rey, e anche la sua prestazione nel Multilingual Aphasia Examination - una batteria di test che valuta diversi aspetti della produzione e della comprensione del linguaggio. Nel test standard di Ben-ton per il giudizio di discriminazione di volti e di orientamento di linee, in quelli per l’orientazione geografica e la costruzione di blocchi bi- e tridimensionali, la sua capacità di costruzione e di percezione visiva risultò normale. Normale anche la copiatura di una figura complessa di Rey-Osterrieth.
Elliot fornì prestazioni normali anche nei test di memoria che prevedevano procedure di interferenza. Uno di questi richiedeva di ricordare gruppi triconsonantici a distanza di tre, nove e diciotto secondi, dovendo nel contempo contare a ritroso; un altro, di ricordare gli elementi di un elenco dopo un intervallo di quindici secondi speso nell’eseguire calcoli. Per lo più, i pazienti con lesioni ai lobi frontali danno risposta anormale; Elliot rispose bene in entrambi i casi, con una precisione, rispettivamente, del 100 e del 95 per cento.
In breve, erano integre la capacità percettiva, la memoria del passato, la memoria a breve termine, l’apprendimento di nuovi contenuti, il linguaggio e la capacità aritmetica; anche l’attenzione, cioÈ la capacità di concentrarsi su un particolare contenuto mentale escludendo gli altri, e la memoria operativa, che È la capacità di tenere a mente informazione per un periodo di molti secondi e di operare mentalmente su tale informazione. Di solito, i test della memoria operativa si eseguono nel dominio di parole o numeri, oggetti o loro caratteristiche: per esempio, a un soggetto si dice un numero telefonico e poi gli si chiede di ripeterlo immediatamente, a ritroso, saltando le cifre dispari.
Nel prevedere che Elliot sarebbe caduto nei test che servono a rivelare disfunzioni dei lobi frontali mi ero sbagliato: egli si rivelò intellettualmente integro, tanto che superò senza inciampi perfino i test speciali. Fu scelto il Wisconsin Card Sorting Test che È il più usato di un piccolo gruppo di cosiddetti test per i lobi frontali: il soggetto deve scegliere da un mazzo di carte su cui sono riprodotte figure che possono essere suddivise in categorie - secondo il colore (per esempio, rosso o verde), la forma (stelle, cerchi, quadrati), il numero di elementi raffigurati (uno, due o tre elementi). Quando l’esaminatore cambia il criterio secondo il quale il soggetto sta scegliendo e ordinando le carte, questi deve accorgersene rapidamente e passare al nuovo criterio di selezione. Negli anni Sessanta, la psicologa Brenda Milner ha mostrato che spesso pazienti con lesioni alle cortecce prefrontali sono menomati, nell’esecuzione di tale compito; altri ricercatori ne hanno dato ripetute conferme (3). Tali pazienti tendono a fissarsi su un criterio, invece di adeguarsi opportunamente. Elliot ottenne un risultato che la maggior parte dei pazienti con lesioni ai lobi frontali non raggiunge: arrivò a sei categorie in settanta tornate, districandosi agevolmente nel compito senza alcuna differenza apparente rispetto a individui non menomati. Inoltre, egli ha mantenuto negli anni questo tipo di prestazione nel Wisconsin Test e in prove analoghe. In questa sua normalità È implicita la capacità di seguire e di lavorare con una memoria operativa, come pure una essenziale competenza logica e la capacità di cambiare assetto mentale.
Un altro indice di una funzione intellettuale superiore sovente compromessa in soggetti con lesioni ai lobi frontali È la capacità di compiere stime sulla base di conoscenze incomplete. Due ricercatori (Tim Shallice e M. Evans) hanno escogitato una prova per valutarla; la prova È costituita da domande per le quali non esiste una risposta precisa (salvo, forse, accettare una sequenza di banalità) e alle quali si può rispondere solo rievocando una varietà di fatti sconnessi e operando su questi con destrezza logica in modo da pervenire a un’inferenza efficace (4). Supponete, per esempio, che vi si chieda quante giraffe vi sono a New York, o quanti elefanti nello Iowa; dovrete considerare che nessuna delle due specie È indigena dell’America settentrionale, cosicch, le si potrà trovare solo negli zoo o in parchi appositamente creati; poi dovrete passare in rassegna la pianta di New York e la carta dello Iowa, segnando in ciascuna quanti di tali insediamenti possono esservi; ricorrendo a un altro vostro deposito di conoscenze potrete determinare il probabile numero di giraffe e di elefanti per ogni sede; infine, fatti alcuni conti, arriverete a un risultato. (Io spero che voi possiate rispondere con un numero ragionevolmente approssimato, ma certo sarei sorpreso - e turbato -se conosceste il numero esatto). In sostanza, dovete produrre una stima accettabile, basata su frammenti sparsi di conoscenze non collegate; e dovete possedere una competenza logica normale, un’attenzione normale e una memoria operativa normale. Alla luce di tutto questo, allora, È interessante sapere che il sovente irragionevole Elliot fornì stime cognitive che rientravano nella gamma normale.
Fino ad allora Elliot era passato con successo attraverso la maggior parte delle prove a cui era stato sottoposto; ma ancora non aveva fatto alcun test di personalità, e io pensai che ciò fosse necessario. Quali probabilità c’erano che andasse bene nel principale di questi test, il Minnesota Multiphasic Personality Inventory (M.M.P.I.)? (5) Come avrete immaginato, Elliot risultò normale anche questa volta: egli fornì un profilo solido, una prestazione genuina.
Da tutti questi test, Elliot emergeva come un soggetto dotato di intelletto normale, ma non capace di decidere in modo appropriato, specie quando la decisione riguardava questioni personali o sociali. Era possibile che ragionare e decidere nel dominio personale e sociale fossero differenti dal ragionare e pensare in domìni riguardanti gli oggetti, lo spazio, numeri e parole? Dipendevano forse da processi e sistemi neurali differenti? Dovetti arrendermi alla circostanza che in laboratorio, con i tradizionali strumenti della neuropsicologia, si poteva misurare poco o nulla, nonostante i non piccoli cambiamenti che avevano fatto seguito alla sua lesione cerebrale. Altri pazienti avevano manifestato questo tipo di dissociazione, ma nessuno in modo così sconcertante per noi esaminatori. Dovevamo sviluppare nuovi criteri, se volevamo misurare una qualsiasi menomazione; e se volevamo dare una spiegazione soddisfacente delle sue anomalie di comportamento dovevamo abbandonare i motivi tradizionali: le impeccabili esecuzioni di Elliot erano lì a indicare che questi erano fuori causa.
Risposta alla sfida.
Quando ci si imbatte in un ostacolo intellettuale, la cosa più saggia che si possa fare È abbandonare per un po’ il problema; così accantonai momentaneamente il caso di Elliot, e quando tornai a pensarci mi accorsi che il mio punto di vista si era modificato. Mi resi conto che, per varie ragioni, mi ero preoccupato troppo dello stato dell’intelligenza di Elliot e degli strumenti della sua razionalità, curandomi poco delle sue emozioni. In queste, a prima vista, nulla appariva fuori dell’ordinario. Come ho già accennato in precedenza, egli era emotivamente controllato - come sono state molte persone insigni e socialmente esemplari, peraltro. Di certo non era un tipo troppo emotivo; non rideva Né piangeva a sproposito, e non appariva Né triste Né allegro. Non era spiritoso, bensì dotato di un pacato senso dell’umorismo - assai più simpatico e socialmente accettabile di quello di certe mie conoscenze. Un’analisi più approfondita, però, indicava che mancava qualcosa, e che io ne avevo trascurato il principale indizio: Elliot riusciva a raccontare la tragedia della sua vita con un distacco che strideva rispetto alla portata degli eventi. Era sempre controllato, sempre capace di descrivere vicende e circostanze con la freddezza dello spettatore non coinvolto; anche se era lui il protagonista, mai si aveva il senso della sua sofferenza. Beninteso, questa sorta di riserbo È spesso la benvenuta, dal punto di vista del medico-ascoltatore, che così può ridurre il proprio impegno emotivo. Ma allorch, parlai di nuovo con Elliot - per ore, alla fine - divenne chiaro che il suo distacco era insolito. Elliot non esercitava alcuna azione di freno sul proprio affetto: era calmo, rilassato, e la sua esposizione fluiva senza sforzo. Egli non impediva l’espressione di una risonanza emotiva interiore, Né nascondeva un’agitazione interna; semplicemente, non c’era in lui alcuna agitazione da nascondere. E questa non era riservatezza culturalmente acquisita: in una qualche curiosa maniera, involontariamente protettiva, la sua tragedia non lo faceva penare; mi accorsi che soffrivo di più io, nell’ascoltarlo, di quanto sembrasse tarlo, di quanto sembrasse soffrire lui. Anzi io sentii che soffrivo più di lui già al solo pensare alla sua vicenda.
Un frammento dopo l’altro, il quadro della sua disaffezione si veniva componendo, in parte grazie alle mie osservazioni, in parte grazie a quanto diceva lo stesso Elliot, in parte grazie alle testimonianze dei suoi parenti. Nel dispiegare le proprie emozioni Elliot era assai più pacato adesso di quanto fosse prima di essere colpito dal tumore. Sembrava accostarsi alla vita sempre sulla stessa nota neutra; mai, in ore di chiacchierate, colsi in lui una sfumatura di emozione: niente tristezza, Né impazienza o frustrazione, sotto l’incalzare delle mie domande. Lo stesso comportamento, mi fu detto, manifestava nell’ambiente di ogni giorno: di solito non mostrava ira, e nelle rare occasioni in cui ciò accadeva le sue esplosioni erano rapidissime, e subito riacquistava il suo nuovo sè usuale, calmo e senza risentimenti.
In seguito, e in modo del tutto spontaneo, avrei ottenuto direttamente da lui la prova che mi occorreva. Il mio collega Daniel Tra-nel aveva compiuto un esperimento psicofisiologico nel quale mostrava, ai soggetti, stimoli visivi capaci di suscitare emozioni: per esempio, immagini di edifici che crollavano durante un terremoto, di case distrutte da incendi, di persone ferite in incidenti sanguinosi o sul punto di annegare vittime di alluvioni. Quando interrogammo Elliot dopo una delle molte sedute di esame di tali immagini, egli dichiarò apertamente che il suo modo di sentire era cambiato, dopo il male: avvertiva come argomenti che prima avevano suscitato in lui una forte emozione ora non provocavano più alcuna reazione, Né positiva Né negativa.
Stupefacente! Provate a immaginare quel che era accaduto: provate a immaginare di non sentire piacere quando contemplate una pittu-ra che vi piace, o quando ascoltate uno dei vostri brani musicali preferiti. Provate a immaginarvi completamente privati di tale possibilità, e tuttavia ancora consapevoli del contenuto intellettuale dello stimolo visivo o sonoro, e consapevoli anche del fatto che una volta vi dava piacere. "Sapere ma non sentire": così potremmo riassumere la infelice condizione di Elliot.
Cominciai allora a considerare, incuriosito, la possibilità che tale riduzione delle emozioni e dei sentimenti di Elliot potesse avere un ruolo nel venir meno della sua capacità decisionale: ma l’idea aveva bisogno di essere sostenuta da ulteriori studi, condotti su Elliot e su altri pazienti. Prima di tutto, dovevo poter escludere, oltre ogni ombra di dubbio, che mi fosse sfuggita qualche difficoltà intellettuale primaria di Elliot tale da spiegare i suoi problemi.
Ragionare e decidere.
Per poter procedere all’esclusione di sottili deficit intellettuali, bisognava seguire molte strade. Era importante stabilire se Elliot ancora conosceva le regole e i princìpi di comportamento che giorno dopo giorno trascurava di rispettare. In altre parole, aveva perduto ogni conoscenza riguardante il comportamento sociale, per cui anche se dotato di normali meccanismi di ragionamento non sarebbe stato in grado di risolvere un problema? Oppure possedeva ancora quelle conoscenze ma non era più capace di metterle assieme ed elaborarle? Oppure ancora, era in grado di accedere alle conoscenze, ma non di operare su di esse e di compiere una scelta?
Questa fu un’indagine che compii con l’aiuto di uno dei miei studenti, Paul Eslinger. Cominciammo con il presentare a Elliot una serie di problemi riguardanti dilemmi etici e questioni finanziarie.
Per esempio: trovandosi ad aver bisogno di denaro, sarebbe stato disposto a rubarlo, se ne avesse avuto l’occasione e anche la garanzia pressoché totale che non sarebbe stato scoperto? Oppure: essendo a conoscenza dell’andamento delle azioni della società X nell’ultimo mese, avrebbe venduto o comprato azioni? Elliot rispose come avrebbe risposto chiunque di noi del laboratorio. I suoi giudizi etici obbedivano a princìpi che tutti noi condividevamo; egli era ben consapevole di come le convenzioni sociali si applicassero a quei problemi. Anche le sue decisioni finanziarie suonavano ragionevoli. Non v’era nulla di particolarmente elaborato nelle domande che gli sottoponemmo; tuttavia fu significativo scoprire che egli non rispondeva in modo anormale. Dopo tutto, le sue prestazioni nella vita reale erano un seguito di violazioni nei domìni abbracciati da quei problemi; la discrepanza tra le omissioni della vita reale e la normalità di laboratorio prospettava ancora un’altra sfida.
La risposta l’avrebbe trovata più tardi il mio collega Jeffrey Saver, studiando il comportamento di Elliot in una serie di prove di laboratorio, controllate, riguardanti convenzioni sociali e valori morali. La prima di tali prove riguardava la formazione di scelte per l’azione; il test era concepito per misurare la capacità di escogitare soluzioni alternative per ipotetici problemi sociali. Posto di fronte a quattro situazioni sociali imbarazzanti, presentate verbalmente, per ognuna il soggetto deve produrre (e descrivere con parole) differenti opzioni di risposta. In un caso, ad esempio, il protagonista rompe un vaso di fiori di una sposa, e gli si chiede di indicare quali azioni potrebbe compiere Perchè la sposa non si adiri. Per stimolare soluzioni diverse, si impiega una serie standard di domande del tipo: “Che cos’altro si potrebbe fare?”. Poi si registra il numero di soluzioni pertinenti e distinte concepite dal soggetto, sia prima sia dopo la sollecitazione. Rispetto a un gruppo di controllo, Elliot non fece rilevare alcun deficit nella sua prestazione, sia per numero di soluzioni pertinenti esposte prima della sollecitazione, sia per numero totale di soluzioni pertinenti, sia per indice di pertinenza.
La seconda prova riguardava la consapevolezza delle conseguenze, e questa misura era costruita in modo da campionare l’inclinazione spontanea del soggetto a considerare le conseguenze delle sue azioni. Al soggetto vengono presentate quattro situazioni ipotetiche nelle quali si può essere tentati di trasgredire la convenzione sociale consueta. In uno dei segmenti della prova, il protagonista va in banca a cambiare un assegno, e il cassiere gli dà più soldi del dovuto; al soggetto si chiede di descrivere un possibile seguito, e di esporre i pensieri del protagonista prima di un’azione, nonch, i pensieri o gli eventi successivi. Il punteggio assegnato al soggetto riflette la frequenza con la quale la sua risposta contiene anche una considerazione delle conseguenze che comporterà l’avere adottato una data opzione. In questa prova, la prestazione di Elliot fu perfino superiore a quella del gruppo di controllo.
La terza prova (la Means-Ends Problem Solving Procedure) riguardava l’abilità di concettualizzare mezzi efficaci per conseguire un obiettivo sociale. Al soggetto vengono presentati dieci scenari diversi, ed egli deve concepire provvedimenti adeguati ed efficaci per raggiungere un obiettivo specificato, al fine di soddisfare un bisogno sociale: per esempio, creare un’amicizia, mantenere una relazione sentimentale, risolvere una difficoltà di lavoro. Al soggetto si potrebbe dire di qualcuno che si trasferisce in un nuovo quartiere e riesce a farsi molti buoni amici, tanto da sentirsi perfettamente inserito; quindi gli si chiede di elaborare una storia in cui si descrivono gli eventi che hanno portato a tale esito positivo. Il punteggio È dato dal numero di atti efficaci che lo hanno determinato. Elliot rispose in modo impeccabile.
La quarta prova riguardava la capacità di predire le conseguenze sociali di certi eventi. Il test era costituito dalla presentazione di trenta pannelli, ciascuno con una vignetta rappresentante una situazione interpersonale; al soggetto si richiede di scegliere, fra tre altri pannelli, quello nel quale È raffigurata la scena che a suo giudizio presenta il seguito più verosimile della storia. Il punteggio riflette il numero di scelte corrette. Elliot non ottenne un risultato diverso dai soggetti normali, di controllo.
L’ultima prova, la quinta (la Standard Issue Moral Judgment Interview, una versione modificata del dilemma di Heinz messa a punto da L. Kohlberg e colleghi) (6), riguardava lo stadio di sviluppo del ragionamento morale. Al soggetto viene presentata una situazione sociale che implica un conflitto tra due imperativi morali e gli si chiede di indicare una soluzione del dilemma dando anche una particolareggiata giustificazione etica della scelta fatta. Ad esempio, in una di tali situazioni il soggetto deve decidere se un individuo può o no rubare un certo farmaco per scongiurare la morte della propria moglie, e poi deve spiegare Perchè ha deciso così. Il punteggio prevede espliciti criteri di graduazione, per assegnare il giudizio relativo a ogni intervista a un dato livello di sviluppo morale.
Il soggetto viene così classificato in uno dei cinque stadi previsti, via via più complessi, di ragionamento morale. Si distinguono livelli preconvenzionali (stadio 1 : obbedienza e orientamento determinato dalla punizione; stadio 2: scopo strumentale e scambio); livelli convenzionali (stadio 3: accordo interpersonale e conformità; stadio 4: accordo sociale e tutela del sistema) e un livello postconvenzionale (stadio 5: contratto sociale, vantaggiosità, diritti individuali). Alcune ricerche indicano che, all’età di 36 anni, l’89 per cento dei soggetti maschi americani appartenenti alla classe media si È sviluppato fino allo stadio convenzionale del ragionamento morale, e l’11 per cento fino allo stadio postconvenzionale. Elliot ottenne un punteggio globale di 4/5, indicante una modalità tardo-convenzionale, quasi postconvenzionale di pensiero morale: un risultato eccellente. In breve, Elliot aveva una capacità normale di produrre opzioni di risposta alle situazioni sociali e di considerare spontaneamente le conseguenze di alcune opzioni particolari. Era anche capace di con-cettualizzare i modi per conseguire obiettivi sociali, di predire il probabile esito di situazioni sociali e di compiere ragionamenti morali a un livello avanzato di sviluppo. I risultati indicavano con chiarezza che il danno al settore ventromediano del lobo frontale non aveva distrutto le conoscenze sociali registrate, poi richiamate sotto le condizioni dell’esperimento.’
Mentre la prestazione di Elliot era in accordo con l’alto punteggio ottenuto nei test convenzionali per la memoria e l’intelletto, essa contrastava nettamente con il deficit di capacità decisionale che egli mostrava nella vita di ogni giorno. Come mai? Noi spiegammo la vistosissima divergenza sulla base di varie differenze tra le condizioni e le esigenze imposte da tali prove e quelle presenti nella vita reale. Proviamo ad analizzare queste differenze.
Salvo che per l’ultima prova, non era richiesto di fare una scelta tra le varie opzioni: era sufficiente evocarle, ed evocarne le possibili conseguenze. In altre parole, era sufficiente ragionare sul problema, ma non era necessario che il ragionamento sostenesse una decisione. In questa prova, una prestazione normale dimostrava l’esistenza di conoscenza sociale e la possibilità di accedervi, ma nulla diceva riguardo al processo o alla scelta stessa. La vita reale, invece, sa come forzarvi a scegliere, e se non cedete a questa pressione potete rimanere indecisi proprio come Elliot.
Niente potrebbe illustrarlo meglio delle parole dello stesso Elliot; al termine di una sessione nella quale aveva esposto un gran numero di opzioni per l’azione, tutte fondate e attuabili, egli si aprì in un sorriso, manifestamente soddisfatto della propria ricca immaginazione, ma aggiunse: “E dopo tutto questo, io ancora non saprei che cosa fare!”.
Anche se avessimo impiegato test che richiedessero a Elliot di fare una scelta a ogni voce, le condizioni ancora sarebbero state diverse dalle circostanze della vita reale: egli avrebbe avuto a che fare con l’originario insieme di vincoli e non con quelli, nuovi, scaturiti a partire da una data risposta iniziale. Nella “vita reale”, per ogni scelta fatta corrispondere da Elliot a una data situazione vi sarebbe stata una risposta che avrebbe modificato il quadro, richiedendo un’ulteriore serie di scelte; ciò avrebbe portato a un’altra risposta ancora, e alla richiesta di un’altra serie di scelte, e così via. In altre parole, dalle prove di laboratorio era assente l’imprecisata, ininterrotta e sempre aperta evoluzione che caratterizza le situazioni della vita reale. Lo studio di Jeffrey Saver, però, aveva lo scopo di valutare status e accessibilità della base di conoscenze, non il processo di ragionamento e di decisione.
Bisogna notare anche altre differenze tra la vita reale e le prove di laboratorio. In queste ultime, la cornice temporale degli eventi considerati era compressa, anzich, realistica. In alcune circostanze, l’elaborazione in tempo reale può richiedere di tenere a mente l’informazione (per esempio, rappresentazioni di persone, oggetti o scene) per intervalli di tempo prolungati, specialmente se emergono nuove opzioni e nuove conseguenze da confrontare. Inoltre, nelle nostre prove le situazioni - e le domande al riguardo - erano presentate pressoché esclusivamente attraverso il linguaggio. Ma la vita reale il più delle volte ci si para davanti con una più ampia mescolanza di materiale figurativo e linguistico: di fronte a noi si presentano persone e oggetti; vedute, suoni, odori; scene di intensità variabile; e ogni forma di narrazione, verbale o figurata, che noi vi creiamo attorno.
Comunque, a parte queste carenze, avevamo pur fatto qualche progresso. I risultati suggerivano con forza che non bisognava attribuire il deficit decisionale di Elliot a scarsità di conoscenza sociale, o a difficoltà di accesso a tale conoscenza, o ad una menomazione elementare del ragionamento; Né, ancora meno, a un deficit elementare dell’attenzione o della memoria operativa riguardante l’elaborazione della conoscenza fattuale necessaria per prendere decisioni nel dominio personale e in quello sociale. Il deficit appariva collocarsi agli stadi più avanzati del ragionamento, in prossimità o in corrispondenza del punto in cui deve essere fatta la scelta o deve emergere la risposta. Insomma, era in un punto avanzato del processo che qualcosa non andava per il verso giusto. Elliot era incapace di scegliere in modo efficace, o poteva non scegliere affatto, o scegliere malamente. Si ricordi come fosse solito deviare da un compito assegnatogli e sprecare ore in minuzie. Posto di fronte a un compito, ciascuno di noi deve ogni volta selezionare correttamente il cammino da seguire tra le molte opzioni che si prospettano, se non vuol mancare il bersaglio. Elliot non era più in grado di scegliere quel cammino, e noi dovevamo scoprire il Perchè.
Adesso ero certo che Elliot avesse molto in comune con Phineas Gage. In entrambi, i difetti del comportamento sociale e della capacità di decidere erano compatibili con una normale base di conoscenza sociale, e con funzioni neuropsicologiche di ordine superiore che erano state preservate: ad esempio la memoria convenzionale, il linguaggio, l’attenzione di base, e inoltre la memoria operativa e il ragionamento di base. Si aggiunga che ero certo che in Elliot il deficit si accompagnasse a una riduzione della reattività emotiva e del sentimento. (Con ogni probabilità, il deficit emotivo era presente anche in Gage, ma le testimonianze rimasteci non ci permettono di affermarlo con sicurezza. Considerati l’uso di un linguaggio scurrile e l’ostentazione della propria miseria, possiamo dedurne quanto meno che gli mancava ogni senso di imbarazzo). Sospettavo anche che il deficit di emozione e sentimento non fosse un innocente spettatore, casualmente vicino al deficit del comportamento sociale; l’alterazione delle emozioni probabilmente contribuiva al problema. Cominciai a pensare che la freddezza del ragionare di Elliot gli impedisse di assegnare valori differenti a opzioni differenti, rendendo il paesaggio del suo processo decisionale irrimediabilmente piatto. Poteva anche darsi che la medesima freddezza rendesse il suo paesaggio mentale troppo mutevole e instabile per il tempo occorrente a operare la selezione delle risposte: in altre parole, forse c’era un deficit modesto anzich, basilare della memoria operativa, capace di alterare il resto del processo di ragionamento necessario per fare emergere una decisione. Comunque sia, il tentativo di comprendere sia Elliot sia Gage prometteva un accesso alla neurobiologia della razionalità.