POST SCRIPTUM
Il cuore umano in conflitto.
“Non È vero che la voce del poeta debba essere mera testimonianza dell’uomo; può essere uno degli appoggi, dei pilastri che lo aiutano a resistere e a prevalere” (1). Scritte attorno al 1950, queste parole di William Faulkner si applicano altrettanto bene anche oggi. Il pubblico al quale egli pensava di rivolgersi era quello dei suoi colleghi scrittori, ma avrebbe potuto anche destinarle a quelli di noi che studiano il cervello e la mente: la voce dello scienziato non deve essere una mera registrazione della vita quale essa È; la conoscenza scientifica può essere un pilastro che aiuti gli esseri umani a resistere e a prevalere. Questo libro È stato scritto nella convinzione che la conoscenza in generale e quella neurobiologica in particolare abbiano una parte da recitare nel destino umano; che, purch, noi lo vogliamo, una più profonda conoscenza del cervello e della mente ci aiuterà a conseguire quella felicità la cui brama fu il trampolino del progresso, due secoli fa, preservando la gloriosa libertà che Paul Eluard ha descritto nella sua poesia "Libert," (2).
Nello stesso testo prima citato, Faulkner dice ai suoi colleghi scrittori che essi hanno “dimenticato i problemi del cuore umano in conflitto con sè stesso: l’unica cosa che può dare buona scrittura, Perchè di questo soltanto vale la pena di scrivere, il tormento e il sudore”. Agli scrittori egli chiede di non lasciare spazio, nelle loro esercitazioni, “ad altro che non siano le antiche verità e certezze del cuore; le antiche, universali verità senza le quali ogni storia È effimera e condannata: amore e onore e pietà e orgoglio e compassione e sacrificio”.
E’ allettante, e incoraggiante, credere (forse oltre gli intendimenti di Faulkner) che la neurobiologia possa aiutarci non solo a comprendere la condizione umana e a provarne pietà, ma in tal modo anche a capire i conflitti sociali, contribuendo ad alleviarli. Con questo non si vuol suggerire che la neurobiologia possa salvare il mondo, ma soltanto che l'accumulo graduale di conoscenze sugli esseri umani può aiutarci a trovare modi migliori di amministrare le umane vicende.
Da qualche tempo gli esseri umani si trovano in una fase nuova dell'evoluzione, una fase ricca di pensiero, in cui mente e cervello possono essere insieme servitori e padroni dei loro corpi e delle società che essi costituiscono. Certo non mancano i rischi, quando menti e cervelli che hanno avuto origine dalla natura cominciano a fare gli apprendisti stregoni, per influenzare la natura stessa; ma anche il non raccogliere la sfida, il non tentare di ridurre al minimo la sofferenza comporta qualche rischio. In effetti, non fare nulla È enormemente rischioso; fare appena ciò che va da sè, in modo naturale, può soddisfare solo quanti non riescono a immaginare mondi migliori e modi migliori, quanti credono che noi già viviamo nel migliore dei mondi possibili (3).
La neurobiologia moderna e l'idea di medicina.
Se consideriamo il concetto di medicina e coloro che la praticano, nella nostra cultura, troviamo qualcosa di paradossale. Molti medici si interessano di arte, di letteratura, di filosofia; non pochi sono diventati eminenti poeti, o romanzieri, o autori di teatro; altri, poi, ci hanno dato riflessioni profonde sulla condizione umana nelle sue varie dimensioni: psicologica, sociale, politica. E tuttavia le scuole di medicina dalle quali essi provengono ignorano, in larga misura, questi versanti, e si concentrano piuttosto sulla fisiologia e sulla patologia del corpo. La medicina occidentale (e quella degli Stati Uniti in particolare) ha raggiunto mete gloriose attraverso l'espansione della medicina interna e delle varie branche della chirurgia, queste e quella mirando alla diagnosi e al trattamento di organi e sistemi malati, ivi incluso il cervello (o, più precisamente, il sistema nervoso centrale e quello periferico), che È uno di tali sistemi di organi. Ma il suo prodotto più prezioso, la mente, È stato poco considerato dal filone principale della medicina; esso, in effetti, non È stato l’oggetto centrale della disciplina (la neurologia) che È emersa dallo studio delle malattie del cervello. Forse non per caso la neurologia americana ha avuto inizio come una sotto-specializzazione della medicina interna, conquistandosi solo in questo secolo una propria autonomia.
Da questa tradizione deriva il fatto che la mente come funzione dell’organismo È stata vistosamente trascurata. Ancora oggi sono poche le scuole di medicina che offrono ai loro studenti una precisa formazione sulla mente normale - il che implicherebbe una forte presenza, nel piano di studi, di psicologia, neuropsicologia e neuroscienze. Si studiano la mente e i suoi disturbi quando si affrontano le malattie mentali; ma È sorprendente che gli studenti si occupino di psicopatologia senza aver mai seguìto un corso di psicologia generale.
Si possono addurre diverse ragioni per spiegarlo; ragioni per lo più riconducibili, secondo me, a una impostazione cartesiana. Negli ultimi tre secoli, gli studi di medicina e di biologia hanno voluto comprendere la fisiologia e la patologia del corpo, escludendone la mente, in buona misura lasciata alle cure della filosofia e della religione. Anche quando essa divenne il punto focale di una specifica disciplina (la psicologia), non riuscì a guadagnarsi l’accesso alla biologia o alla medicina - almeno fino a tempi recenti. So che questo panorama ammette alcune lodevoli eccezioni, ma esse non fanno che rafforzare la mia idea sul quadro d'assieme.
Ne risulta che È stato amputato il concetto di umanità con il quale la medicina opera; e allora non sorprende che, in generale, le conseguenze sulla mente delle malattie del corpo siano prese in considerazione solo in un secondo momento, o non lo siano affatto. La medicina ha stentato a riconoscere che la percezione della propria condizione di salute da parte del paziente È un fattore importante, per l'esito della cura. Ancora troppo poco si sa sull'effetto placebo, attraverso il quale il paziente dà una risposta più positiva di quanto un dato intervento medico lascerebbe pensare. (L'effetto placebo può essere stimato analizzando i risultati della somministrazione di pillole o iniezioni che, all'insaputa del paziente, non contengono alcun principio farmacologico attivo, per cui si presume che non dovrebbero esplicare alcuna influenza, Né positiva Né negativa). Per esempio, non sappiamo quali soggetti È più probabile che rispondano con un effetto placebo, o se l'effetto possa manifestarsi in tutti i soggetti; nemmeno sappiamo fino a che punto possa spingersi, l'effetto placebo, e con quali differenze rispetto alla somministrazione del principio attivo. Poco sappiamo sui possibili modi di esaltarne la portata; e non abbiamo alcuna idea del grado di errore che l'effetto placebo può avere creato per i cosiddetti studi in doppio cieco.
Si comincia finalmente ad accettare il fatto che disturbi psicologici, lievi o gravi, possono provocare malattie somatiche, ma ancora non si studiano le circostanze - e la misura - in cui ciò può avvenire. Eppure sono tutte cose che le nostre nonne conoscevano bene: esse sapevano dirci come il dolore, le preoccupazioni ossessionanti o gli eccessi d'ira facessero male al cuore, fossero causa di ulcera, minassero la costituzione fisica e ci rendessero più facilmente soggetti a infezioni. Ma tutto ciò era troppo “folcloristico”, troppo “dolce”, con riferimento alla scienza: e le cose andarono come andarono. C’È voluto molto tempo Perchè la medicina cominciasse a scoprire che valeva la pena di considerare a fondo le basi di tale forma di saggezza umana.
Nella biologia e nella medicina occidentali, l’orientamento cartesiano, che portava a trascurare la mente, ha avuto due pesanti conseguenze negative. La prima nel campo strettamente scientifico: È stato ritardato di svariati decenni ogni serio sforzo di comprendere la mente in termini biologici generali; anzi È più giusto dire che esso È a malapena cominciato. Meglio tardi che mai, certo; ma il ritardo significa anche che fin qui si È perduta qualsiasi possibile influenza che una profonda comprensione della biologia della mente avrebbe potuto esercitare.
La seconda conseguenza negativa riguarda l’efficacia della diagnosi e del trattamento delle malattie. E’ sicuramente vero che i grandi medici sono stati non solo profondi conoscitori della fisiopatologia del loro tempo, ma anche individui capaci, grazie alla saggezza accumulata e alla propria intuizione, di leggere nel cuore umano in conflitto. Grazie a una "combinazione" di conoscenza e di talento, essi si sono dimostrati sagaci diagnostici e abilissimi operatori. Ma inganneremmo noi stessi se pensassimo che lo standard della pratica medica nel mondo occidentale sia quello definito da tali illustri esponenti. Una visione distorta dell’organismo umano, insieme con la soverchiante crescita delle conoscenze e con l’esigenza di specializzazioni sempre più spinte contribuisce ad aggravare l’inadeguatezza della medicina, piuttosto che a ridurla. Non c’era proprio bisogno che sopravvenissero i problemi economici; ma si sono aggiunti an-che questi, ed È certo che le prestazioni sanitarie ne saranno peggiorate.
Il più vasto pubblico non ha ancora ben chiaro il problema della scissione tra corpo e mente nella medicina occidentale, anche se sembra averlo colto. Arrivo a pensare che il successo di alcune forme “alternative” di medicina, soprattutto di quelle che si rifanno a tradizioni non occidentali di terapia, possa rappresentare una risposta riequilibratrice al problema. Del resto, in esse qualcosa da ammirare e da imparare c'È, anche se - a prescindere dalla loro adeguatezza sul versante umano - quello che ci offrono non È sufficiente per trattare in modo efficace la malattia. Bisogna onestamente riconoscere che la medicina occidentale, anche quella mediocre, risolve un gran numero di problemi, e in modo decisivo. Ma le forme alternative di medicina indicano con forza un'area di lampante debolezza della tradizione medica occidentale, che richiede di essere corretta, in modo scientifico, rimanendo all'interno della medicina scientifica. Se, come io penso, il favore di cui attualmente godono le medicine alternative È una spia della diffusa insoddisfazione per l'incapacità, da parte della medicina tradizionale, di considerare l'individuo umano nella sua interezza, allora credo che tale insoddisfazione aumenterà, negli anni a venire, con l'approfondirsi della crisi spirituale della società occidentale.
L'offesa dei sentimenti, il dolore e la sofferenza individuali che disperatamente implorano sollievo, la perdita di un mai raggiunto senso di felicità e di equilibrio interiore (cui aspira la maggioranza degli esseri umani) non sembrano destinati ad attenuarsi tanto presto (4). Sarebbe sciocco chiedere alla sola medicina di curare una cultura malata; ma È altrettanto sciocco ignorare questi aspetti del malessere mano.
Una nota sui presenti limiti della neurobiologia.
Ho parlato, in questo libro, di fatti acquisiti, di fatti ancora discussi e di interpretazioni di fatti; di idee condivise o non condivise da molti degli scienziati che si occupano del cervello e della mente; di cose che stanno così come io le espongo, e di cose che potrebbero stare nel modo in cui io le espongo. La mia insistenza nel ripetere che tanti “fatti” sono incerti, e che molto di ciò che si può dire sul cervello rientra piuttosto nella categoria delle ipotesi di lavoro, può avere sorpreso il lettore. Mi piacerebbe poter affermare che si sa con certezza in qual modo il cervello produce la mente, ma non sono in grado di farlo, e temo che nessuno lo sia.
Aggiungo subito che la mancanza di risposte definitive sul tema mente/cervello non dà motivo di disperare, Né deve essere vista come spia di un fallimento dei settori scientifici che se ne occupano. Al contrario, il morale della truppa È alto, Perchè le nuove scoperte si susseguono a un ritmo che non È mai stato così intenso. Mancano, È vero, descrizioni precise e interpretazioni complessive, ma ciò non indica che si sia imboccato un vicolo cieco: anzi, vi È motivo di credere che si arriverà a spiegazioni soddisfacenti, anche se sarebbe sconsiderato voler fissare una data d’arrivo, o peggio sostenere che esse sono dietro l’angolo. Se motivo di preoccupazione può esservi, questo deriva non dalla mancanza di progressi, ma dal tumultuoso affluire di nuovi fatti che le neuroscienze propongono di continuo e che minacciano di ingolfare la nostra capacità di fare chiarezza.
Si potrebbe obiettare: Perchè, con una tale ricchezza di nuovi fatti, mancano ancora le risposte definitive? Perchè non siamo in grado di spiegare esattamente e compiutamente in qual modo vediamo e, soprattutto, come avviene che vi sia un sè che vede?
La principale (si potrebbe anche dire l'unica) ragione del ritardo È la complessità stessa dei problemi per i quali cerchiamo risposta. E' evidente che ciò che vogliamo comprendere dipende in larga misura dal funzionamento dei neuroni. Della loro struttura e del loro modo di operare abbiamo una buona conoscenza, fino al livello delle molecole che ne sono i costituenti e che gli fanno fare quello che fanno meglio: scaricare, o conformarsi in schemi di eccitazione. Inoltre, sappiamo qualcosa sui geni che danno luogo ai neuroni e che li fanno operare in un certo modo. Ma È chiaro che la mente umana dipende dalla scarica globale di tutti quei neuroni, che formano insiemi complicati: dai circuiti microscopici a scala locale ai sistemi macroscopici estesi anche diversi centimetri. Nei circuiti di un cervello umano vi sono miliardi di neuroni; il numero delle sinapsi formate fra tali neuroni non È inferiore a 10 miliardi, e la lunghezza totale degli assoni che formano i circuiti di neuroni È dell'ordine delle svariate centinaia di migliaia di chilometri (per queste stime informali sono debitore a Charles Stevens, neurobiologo del Salk Institute). L'attività di questi circuiti produce uno schema di scarica che viene trasmesso a un altro circuito; questo a sua volta può scaricare oppure no, in dipendenza da una miriade di influenze: alcune locali, provenienti da altri neuroni che hanno termine nell'intorno, e altre globali, dovute a composti chimici (come gli ormoni) portati dal sangue. La dimensione temporale della scarica È estremamente piccola, dell'ordine delle decine di millisecondi: ciò significa che nello spazio di un secondo della vita della mente il cervello produce milioni di schemi di scarica per un'ampia varietà di circuiti distribuiti in varie regioni del cervello.
Dovrebbe quindi essere chiaro che non È possibile scoprire i segreti delle basi neurali della mente chiarendo tutti i misteri di un neurone isolato, a prescindere da quanto tipico esso possa risultare, o ricostruendo tutti gli intricati schemi di attività locale in un tipico circuito di neuroni. In prima approssimazione, i segreti elementari della mente risiedono nell'interazione di schemi di scarica generati da molti circuiti di neuroni, localmente e globalmente, momento per momento, all'interno del cervello di un organismo vivente.
L'enigma mente/cervello non ammette un'unica, semplice risposta, ma piuttosto molte risposte, intonate alla miriade di componenti del sistema nervoso ai suoi vari livelli strutturali. Per comprendere questi livelli occorre fare ricorso a diverse tecniche e procedere a ritmi differenti. Il lavoro può basarsi in parte su esperimenti con animali, con sviluppi relativamente rapidi, mentre quello da compiere su esseri umani procederà con più lentezza, dovendosi osservare le opportune cautele e limitazioni.
E' stato chiesto come mai le neuroscienze non abbiano raggiunto esiti altrettanto spettacolari quanto quelli della biologia molecolare degli ultimi quattro decenni; qualcuno si È anche domandato quale possa essere, nelle neuroscienze, l'equivalente della scoperta della struttura del D.N.A., e se sia stato stabilito qualche fatto di pari importanza. Non si può ravvisare una simile corrispondenza, anche se ad alcune acquisizioni riguardanti livelli diversi del sistema nervoso si potrebbe riconoscere un valore pratico confrontabile (ad esempio, la comprensione piena del potenziale d'azione). Ma l'equivalente vero non può che essere "un disegno su grande scala di circuiti e sistemi", completo di descrizioni "a livello sia micro- sia macrostrutturale".
Per il lettore che dovesse giudicare insufficienti le considerazioni appena addotte per spiegare i limiti delle conoscenze attuali, ne aggiungerò altre due. In primo luogo, come già accennato, il fatto che solo una parte dei circuiti del cervello È specificata dai geni. Il genoma umano indica in modo preciso la costruzione del nostro corpo, ivi incluso il disegno globale del cervello; ma non tutti i circuiti si sviluppano e operano attivamente secondo impostazione dei geni. In un qualsiasi istante della vita di un individuo adulto, buona parte dei circuiti del suo cervello È personale e unica, giacch, riflette la storia e le vicende di quel particolare organismo; e ciò, come È facile capire, non semplifica il compito di svelare i misteri neurali. In secondo luogo, ogni organismo umano opera in collettivi di esseri simili; la mente e il comportamento degli individui membri di tali collettivi, operanti in dati ambienti fisici e culturali, non sono foggiati soltanto dai circuiti sopramenzionati, Né tanto meno dai soli geni. Per raggiungere una comprensione soddisfacente del cervello che produce la mente umana e il comportamento umano È necessario valutarne il contesto culturale e sociale; e ciò rende l’impresa scoraggiante.
Leve per la sopravvivenza.
In alcune specie animali (non di umani, e nemmeno di Primati) che presentano memoria, ragionamento e creatività limitati, si riscontrano tuttavia manifestazioni di comportamento sociale complesso il cui controllo neurale deve essere innato. Gli insetti (formiche e api, in particolare) offrono continui spettacolari esempi di cooperazione sociale al cui confronto l’Assemblea generale dell’ONU avrebbe di che vergognarsi. Più vicini a noi, i mammiferi mostrano una certa abbondanza di tali manifestazioni; il comportamento di lupi, delfini, vampiri, suggerisce una struttura etica. E’ chiaro che gli esseri umani posseggono alcuni degli stessi meccanismi innati, e che questi costituiscono la possibile base di alcune strutture etiche impiegate dagli esseri umani. Ma le più elaborate convenzioni sociali su cui si basa la vita quotidiana devono avere avuto un’origine culturale e per via culturale devono essere state trasmesse.
Se È così, quale può essere stato l’agente che ha innescato lo sviluppo culturale di tali strategie? E’ verosimile che esse si siano evolute come mezzo per affrontare le sofferenze provate da individui la cui capacità di ricordare il passato e di anticipare il futuro aveva raggiunto uno sviluppo apprezzabile. In altre parole, esse si sono evolute in individui capaci di rendersi conto che la loro sopravvivenza era minacciata, o che era possibile migliorare la qualità della vita, una volta sopravvissuti. Ma ciò può essere accaduto solo nelle poche specie animali il cui cervello era strutturato in modo da presentare, in primo luogo, un’ampia capacità di memorizzare categorie di oggetti e di eventi, nonch, oggetti ed eventi singoli; cioÈ di stabilire rappresentazioni disposizionali di entità ed eventi al livello di categorie e al livello di casi unici. In secondo luogo, occorreva un’ampia capacità di manipolare i componenti di quelle rappresentazioni memorizzate e di foggiare, per mezzo di combinazioni nuove, creazioni originali, la cui varietà più immediatamente utile era costituita da scenari immaginati: anticipazioni di esiti di azioni, elaborazione di piani per il futuro, concepimento di nuovi obiettivi capaci di rafforzare la sopravvivenza. In terzo luogo, un’ampia capacità di memorizzare le nuove creazioni sopra descritte, cioÈ gli esiti previsti, i nuovi piani, i nuovi obiettivi. Queste creazioni memorizzate io le chiamo “ricordi del futuro” (5).
Se per poter affrontare la sofferenza fu necessario creare strategie sociali tali da potenziare la conoscenza del passato già vissuto e del futuro previsto, resta da spiegare Perchè, innanzitutto, insorse la sofferenza. Per questo, occorre prendere in considerazione il senso - biologicamente assegnato - del dolore e del suo opposto, il piacere. La cosa curiosa È che i meccanismi biologici sottesi da ciò che noi oggi chiamiamo piacere e dolore costituirono anche un motivo importante Perchè gli strumenti innati della sopravvivenza fossero selezionati e combinati così come lo furono, nell'evoluzione, quando non vi era alcuna ragione o sofferenza individuale. Questo può voler dire soltanto che lo stesso semplice dispositivo, applicato a sistemi aventi ordini di complessità assai differenti e in circostanze diverse, conduce a risultati differenti ma correlati. Il sistema immunitario, l'ipota-lamo, le cortecce frontali ventromediane e la Dichiarazione dei Diritti hanno, alla radice, la stessa causa.
Dolore e piacere sono le leve di cui l'organismo ha bisogno Perchè le strategie istintive e quelle acquisite possano operare in modo efficiente. Con ogni probabilità, furono anche le leve che controllarono lo sviluppo di strategie per le decisioni sociali. Quando numerosi individui, riuniti in gruppi sociali, provarono le dolorose conseguenze di certi fenomeni naturali, sociali, psicologici, fu possibile lo sviluppo di strategie culturali e intellettuali che consentissero di affrontare l'esperienza del dolore e forse di ridurlo.
Dolore e piacere si hanno quando diveniamo consci di profili dello stato corporeo che costituiscono una chiara deviazione dalla gamma di base. La configurazione di stimoli e quella degli schemi di attività cerebrale avvertite come dolore o come piacere sono poste a priori, nella struttura del cervello. Dolore e piacere si hanno Perchè i cir-cuiti scaricano in un certo modo, e tali circuiti esistono Perchè sono stati istruiti geneticamente a formarsi in un certo modo. Le nostre reazioni al dolore e al piacere possono sì essere modificate dall’educazione, ma esse sono comunque un esempio primario di fenomeni mentali che dipendono dall’attivazione di disposizioni innate.
E’ opportuno distinguere almeno due componenti, nel piacere e nel dolore. Rispetto al primo, il cervello traccia la rappresentazione di una modificazione locale di stato corporeo, che viene riferita a una parte del corpo. Questa È una percezione somatosensoriale in senso proprio, derivante dalla pelle, o da una mucosa, o da una parte di un organo. Il secondo componente proviene da un più generale cambiamento di stato corporeo - in effetti, un’emozione. Se diciamo piacere o dolore, ad esempio, questo È il nome dato al concetto di un particolare paesaggio del corpo che il nostro cervello sta percependo. Nel cervello, la percezione di tale paesaggio viene ulteriormente modulata da neurotrasmettitori e neuromodulatori, che influenzano la trasmissione di segnali e il funzionamento dei settori del cervello implicati nella rappresentazione del corpo. L’emissione di endorfine (la morfina endogena dell’organismo), che si legano ai recettori degli oppioidi (simili a quelli su cui agisce la morfina), È un fattore importante per la percezione di un “paesaggio di piacere”, che può cancellare o attenuare la percezione di un “paesaggio di dolore”.
Un esempio di elaborazione del dolore servirà a chiarire meglio quanto detto. A me sembra che le cose vadano in questo modo: a partire dalla stimolazione dei terminali nervosi in un’area somatica nella quale un tessuto È stato offeso (per esempio, il canale radicola-re di un dente), il cervello costruisce una rappresentazione transitoria del cambiamento corporeo locale, che È differente dalle rappre-sentazioni precedenti della medesima area. Lo schema di attività che corrisponde ai segnali di dolore e le caratteristiche percettive della rappresentazione risultante sono interamente assegnati dal cervello, ma per il resto non sono differenti, in termini neurofisiologici, da qualsiasi altro tipo di percezione corporea. Se tutto finisse qui, però, non si avvertirebbe altro che una particolare immagine di cambiamento corporeo, senza alcuna conseguenza molesta. Potrebbe non fare piacere, ma non se ne avrebbe alcun inconveniente. Quello che io sostengo È che "il processo non si ferma qui". L'innocente elaborazione dello stato corporeo innesca rapidamente un'ondata di ulteriori cambiamenti di stato corporeo che ne accentuano lo scostamento dalla gamma di base. "Lo stato che ne consegue È un'emozione, con un profilo particolare". Il sentimento spiacevole di sofferenza sarà formato a partire dalle successive deviazioni dello stato corporeo. Ma Perchè, si potrebbe chiedere, queste vengono avvertite come sofferenza? La risposta È: Perchè l'organismo dice così. Siamo venuti alla vita con un meccanismo preorganizzato per darci l'esperienza del dolore e del piacere. La cultura e le vicende di ciascuno possono alterare la soglia alla quale il meccanismo viene innescato, o modificarne l'intensità, o offrirci i mezzi per smorzarlo; ma l'essenza del dispositivo È data.
A che cosa serve avere un tale meccanismo preorganizzato? Perchè deve esservi questo stato addizionale di disturbo, anzich, la sola immagine del dolore? Qui si può solo chiederselo, ma il motivo deve avere qualcosa a che vedere con il fatto che la sofferenza ci mette sull'avviso: essa ci dà la migliore protezione per la sopravvivenza, Perchè accresce la probabilità che gli individui prestino attenzione ai segnali di dolore e agiscano per allontanarne la fonte o per correggerne le conseguenze.
Se il dolore È una leva per il corretto dispiegamento di pulsioni e istinti, e per lo sviluppo di strategie di decisione connesse con tale dispiegamento, ne segue che le alterazioni della percezione del dolore dovrebbero essere accompagnate da menomazioni del comportamento; e sembra che così accada. Gli individui portatori dalla nascita della bizzarra condizione nota come assenza congenita di dolore non arrivano ad acquisire strategie di comportamento normale; molti di essi sembrano perennemente soddisfatti e giulivi, nonostante che la loro condizione porti a danni alle articolazioni (non avvertendo dolore, questi soggetti le forzano ben oltre i limiti di tolleranza meccanica, e in tal modo si provocano strappi ai legamenti e alle capsule) o a ferite e ustioni gravi (sono incapaci di ritrarsi dal contatto con un oggetto rovente, o con una lama che penetra nella loro carne) (6). E’ molto interessante scoprire che il loro comportamento presenta qualche deficit, Perchè essi possono ancora sentire piacere, e quindi essere influenzati da sentimenti positivi. Ma ancora più affascinante È l’ipotesi che i dispositivi di leva intervengano non solo nello sviluppo, ma anche nel dispiegamento delle strategie di decisione acquisite. I soggetti con lesioni prefrontali mostrano curiose alterazioni della risposta al dolore; per esempio, in loro È intatta l’immagine localizzabile del dolore stesso, ma sono assenti le reazioni emotive che costituiscono parte integrante del processo del dolore, o quanto meno non È normale il sentimento che ne consegue. Riguardo a tale dissociazione, inoltre, bisogna ricordare anche i pazienti che hanno subìto lesioni cerebrali di origine chirurgica a seguito di interventi per alleviare dolori cronici.
Vi sono condizioni neurologiche che comportano dolori frequenti e molto intensi, come ad esempio la nevralgia del trigemino, nota anche come "tic douloureux". (Nevralgia vuol dire dolore di origine neurale; il trigemino innerva i tessuti della faccia e porta segnali dalla faccia al cervello). Essa riguarda la faccia, in generale un solo lato e una zona particolare: ad esempio la guancia. Un gesto del tutto innocente come un tocco lieve sulla pelle, o perfino un leggero soffio di brezza che la sfiori, possono scatenare d'improvviso un dolore lancinante: chi ne È colpito sente la pelle straziata da una lama, o trafitta da mille aghi che penetrano fino all'osso. Finchè, questo tormento continua (e può presentarsi di frequente), il paziente non riesce a pensare ad altro, non riesce a fare altro: tutta la sua esistenza ora È concentrata sul dolore, mentre il corpo si ritrae in una chiusura difensiva.
Talvolta la nevralgia mostra di resistere a ogni possibile medicamento, e si parla di condizione intrattabile, o refrattaria; in tali casi, si può ricorrere alla neurochirurgia, unica via di sollievo. Nel passato (come si È visto nel capitolo 4) una possibile modalità di trattamento era la leucotomia prefrontale; e i risultati di tale intervento illustrano, meglio di qualsiasi altra circostanza, la distinzione tra il dolore in quanto tale (cioÈ la percezione di una certa classe di segnali sensoriali) e la sofferenza (cioÈ il sentimento che deriva dall'avverti-re la reazione emotiva a quella percezione).
Quando ero allievo di Almeida Lima (il neurochirurgo che aiutò Egas Moniz a sviluppare la tecnica dell'angiografia cerebrale e della leucotomia prefrontale, e che in effetti fu il primo a eseguire tale operazione), fui testimone di un episodio significativo. Oltre che ottimo chirurgo, Lima era anche un individuo dotato di grande umanità; perciò aveva deciso di adottare una leucotomia modificata per affrontare i casi di dolore intrattabile, ed era convinto che fosse giustificabile ricorrere a tale procedura nei casi più disperati. Una volta, egli volle che seguissi il suo modo di procedere fin dall'inizio. Ri-cordo nitidamente quel paziente, rannicchiato nel suo letto in attesa dell’operazione, quasi immobile, terrorizzato dall’idea che il minimo movimento potesse provocare altro dolore. Due giorni dopo l’operazione, quando Lima e io passammo a visitarlo durante il solito giro, ci trovammo di fronte un’altra persona: sereno e rilassato, giocava a carte con uno dei suoi compagni di stanza. Quando Lima gli chiese se il dolore lo tormentava ancora, egli lo guardò e rispose con espressione sorridente: “Oh, il dolore È lo stesso, ma adesso mi sento bene, grazie”. L’operazione sembrava aver soppresso la reazione emotiva che È parte di ciò che chiamiamo dolore: essa aveva posto fine alla sofferenza dell’uomo. L’espressione del volto, la voce, il modo di atteggiarsi erano quelli che si associano di solito a stati piacevoli, non al dolore. Ma sembrava che l’operazione avesse fatto poco all’immagine di alterazione locale della regione somatica fornita dal nervo trigemino, e questo È il motivo per cui il paziente affermava che il dolore era lo stesso. Il cervello non poteva più generare sofferenza, ma esso produceva ancora “immagini di dolore”; cioÈ elaborava normalmente la proiezione somatosensitiva (mappa) di un paesaggio di dolore (7). Oltre a ciò che può dirci riguardo ai meccanismi del dolore, questo esempio rivela la separazione tra l’immagine di un’entità (lo stato del tessuto biologico che È uguale a un’immagine di dolore) e l’immagine di uno stato corporeo che specifica l’immagine dell’entità a forza di giustapposizioni nel tempo.
Io credo che la neurobiologia e la medicina dovrebbero orientarsi in modo deciso ad alleviare la sofferenza del tipo descritto più sopra. Un altro obiettivo, non meno importante, dovrebbe essere quello di alleviare la sofferenza nelle malattie mentali. Del tutto differente, e irrisolta, È la questione della sofferenza che scaturisce da conflitti personali e sociali, fuori dell’àmbito medico. Oggi si tende a cancellare ogni distinzione e ad adottare l'orientamento medico per sopprimere qualunque tipo di disagio. I paladini di questa tendenza possono valersi di un'osservazione seducente: se un aumento del livello della serotonina, per esempio, può non solo curare la depressione, ma anche ridurre l'aggressività, rendere il soggetto meno timido, dargli maggiore fiducia, Perchè non sfruttare tale opportunità? Chi, se non un guastafeste bigotto, potrebbe negare a un altro essere umano i benefici di tali farmaci miracolosi? Ma il problema, ovviamente, sta nel fatto che la scelta non È chiara, per svariate ragioni. Innanzitutto, non ci sono noti gli effetti biologici di più ampia portata dei farmaci. Restano poi altrettanto misteriose le conseguenze di un'assunzione su larga scala sociale di farmaci. In terzo luogo (e questa È forse la considerazione più importante), se la soluzione proposta per la sofferenza individuale e sociale aggira le cause del conflitto individuale e sociale, non È verosimile che possa funzionare per molto tempo. Potrà curare un sintomo, ma lascerà intatte le radici del malessere.
Non ho detto molto del piacere. Dolore e piacere non sono gemelli, o immagini speculari l'uno dell'altro - almeno non per quanto concerne il loro ruolo come leve della sopravvivenza. Il più delle volte È il segnale collegato al dolore che in qualche modo ci guida lontano da una minaccia incombente, per l'immediato o in un futuro prefigurato. E' difficile immaginare che possano sopravvivere individui e società governati dalla ricerca del piacere quanto o più che dalla fuga dal dolore. Questa opinione oggi trova conferma in alcuni sviluppi sociali di culture sempre più edonistiche, oltre che nel lavoro che i miei colleghi e io stiamo conducendo sui correlati neurali delle emozioni. Sembra che vi sia una molto maggiore varietà di emozioni negative che di emozioni positive, ed È evidente che il cervello impiega sistemi differenti per trattare le une e le altre. Forse pensava a qualcosa di simile Tolstoj quando scriveva, all’inizio di "Anna Ka-renina": “Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice È infelice a suo modo”.