9. L’IPOTESI DEL MARCATORE SOMATICO ALLA PROVA
Sapere ma non sentire.
Per approfondire l’ipotesi del marcatore somatico cominciai con il considerare le risposte del sistema nervoso autonomo, in una serie di studi fatti insieme con Daniel Tranel (il quale È uno psicofisiologo e un neurofisiologo sperimentale). Il sistema nervoso autonomo È costituito da centri di controllo propri, situati entro il sistema lim-bico e il midollo allungato (l’amigdala È il primo esempio che viene in mente), e da proiezioni di neuroni che si dipartono da quei centri in direzione dei visceri, per tutto l’organismo. Sono innervati da terminali provenienti dal sistema nervoso autonomo tutti i vasi sanguigni, anche quelli racchiusi nello spessore della pelle (che È l’organo del corpo avente maggiore estensione); lo stesso vale per il cuore, i polmoni, l’intestino, la vescica e gli organi della riproduzione. Anche un organo come la milza, che ha a che fare per lo più con l’immunità, È innervato dal sistema nervoso autonomo.
Le ramificazioni di tale sistema sono strutturate in due grandi suddivisioni (il sistema nervoso simpatico e quello parasimpatico) ed esse si dipartono dal midollo allungato e dal midollo spinale, talvolta procedendo in parallelo con le ramificazioni del sistema non autonomo. (L’attività della divisione simpatica e quella della divisione parasimpatica sono mediate da neurotrasmettitori diversi e sono in larga misura antagonistiche: per esempio, se l'una stimola la contrazione dei muscoli lisci, l'altra ne stimola il rilassamento). I fasci nervosi autonomi di ritorno, che portano al sistema nervoso centrale i vari segnali riguardanti lo stato dei visceri, tendono a seguire le medesime vie.
Nella prospettiva dell'evoluzione, sembra che il sistema nervoso autonomo sia stato il mezzo neurale con cui il cervello di organismi assai meno complessi di noi interveniva nella regolazione della loro economia interna. Quando la vita consisteva per lo più nell'assicura-re l'equilibrata funzione di pochi organi, e quando il tipo e il numero di interazioni con l'ambiente circostante era limitato, il sistema endocrino e quello immunitario governavano la più parte di ciò che vi era da governare. Quel che il cervello richiedeva era qualche segnale riguardo allo stato dei vari organi, e insieme un mezzo per modificare tale stato in presenza di particolari circostanze esterne. Il sistema nervoso autonomo forniva proprio questo: una rete entrante per segnalare i cambiamenti dei visceri e una rete uscente per i comandi motori diretti a quei visceri. In seguito l'evoluzione diede luogo a forme più complesse di risposta motoria, come quelle che alla fine controllavano le mani, o l'apparato vocale. Tali risposte richiesero una differenziazione via via più complessa del sistema motorio periferico, che lo mettesse in grado di controllare il minuto operare di muscoli e articolazioni, e anche segnalare contatto, temperatura, dolore, posizione delle articolazioni, grado di contrazione della muscolatura.
Si ricordi che l'idea di marcatore somatico abbraccia un cambiamento totale dello stato corporeo, comprendente modificazioni sia dei visceri sia del sistema muscoloscheletrico che sono indotte da segnali neurali e da segnali chimici - anche se il componente viscerale sembra in qualche misura più critico di quello muscoloscheletrico, nella costruzione degli stati emotivi e di fondo. Per cominciare a indagare sperimentalmente la nostra ipotesi, abbiamo dovuto scegliere alcuni aspetti, in questo ampio panorama di cambiamenti, ed È parso sensato cominciare con lo studio delle risposte del sistema nervoso autonomo. In fin dei conti, quando generiamo lo stato somatico che caratterizza una certa emozione, È proprio il sistema nervoso autonomo, probabilmente, la chiave per raggiungere l’appropriata modificazione dei parametri fisiologici del corpo (sebbene nello stesso tempo vengano attivate vie chimiche importanti).
Tra le varie risposte del sistema nervoso autonomo che È possibile analizzare in laboratorio, la più utile È forse quella relativa alla conduttanza cutanea: È facile da suscitare, È affidabile ed È stata ampiamente studiata dagli psicofisiologi in individui normali di diverse età e culture. (Sono state studiate anche la frequenza cardiaca e la temperatura corporea). Un paio di elettrodi collegati alla pelle e un poligrafo consentono di registrare tale risposta senza alcun fastidio o dolore per il soggetto. Il principio di base È il seguente: quando il corpo comincia a cambiare, dopo un dato pensiero o percetto, e quando comincia a instaurarsi uno stato somatico correlato (per esempio, quello di una certa emozione), il sistema nervoso autonomo provoca un lieve aumento della secrezione di fluido nelle ghiandole sudoripare della pelle, tanto piccolo da non essere percepibile a occhio nudo, Né avvertibile dai sensori neurali della pelle, e tuttavia sufficiente a ridurre la resistenza opposta al passaggio di una corrente elettrica. Quindi, per misurare la risposta, lo sperimentatore fa passare nella pelle, tra due elettrodi rilevatori, una corrente elettrica a bassa tensione. La risposta È rappresentata da un cambiamento della intensità di corrente che passa; viene registrata sotto forma di un'onda, della quale È possibile misurare l'ampiezza (espressa in mi-crosiemens) e l'andamento nel tempo; È possibile misurare anche la frequenza con la quale si manifestano le risposte a un certo stimolo, in un intervallo di tempo prefissato.
La psicofisiologia sperimentale si È ampiamente servita dello studio di questa particolare risposta, che ha avuto un impiego pratico -spesso controverso - nelle prove con la cosiddetta macchina della verità (il cui scopo È manifestamente diverso da quello dei nostri esperimenti). In questi casi si vuole determinare se un soggetto sta mentendo, spingendolo con raggiri a negare di conoscere una data persona o oggetto: ciò provoca una risposta - non volontaria - della conduttanza cutanea.
Nel nostro studio, ci siamo ripromessi innanzitutto di scoprire se pazienti come Elliot potessero ancora generare risposte di questo tipo, cioÈ se il loro cervello fosse ancora capace di innescare un cambiamento dello stato somatico. Perciò abbiamo messo a confronto pazienti colpiti da lesioni al lobo frontale con soggetti normali e con pazienti che presentavano lesioni localizzate in altri punti del cervello. Sapevamo che le condizioni sperimentali prescelte potevano suscitare una risposta della conduttanza cutanea in modo coerente e quindi indicare la condizione normale dell'apparato neurale implicato in tale risposta. Una di tali condizioni È nota come "startle" [sobbalzo] e consiste nel sorprendere il soggetto con un rumore inatteso (ad esempio battendo d'improvviso le mani alle sue spalle) o con un lampo di luce (prodotto ad esempio con una lampada stroboscopica). Ma anche un semplice atto fisiologico come tirare un respiro profondo può essere un buon indicatore.
Non ci occorse molto tempo per verificare che tutti i soggetti con lesioni al lobo frontale rispondevano altrettanto bene quanto i soggetti normali o i pazienti con altre lesioni cerebrali. In altre parole, sembrava che in quei pazienti nulla di essenziale fosse stato alterato nell’apparato neurale che suscita la risposta della conduttanza cutanea.
Ci chiedemmo allora se essi avrebbero manifestato una risposta a uno stimolo che richiedesse una valutazione del contenuto emotivo. Questa era per noi una domanda importante, Perchè in pazienti come Elliot era stata menomata l’esperienza dell’emozione e Perchè da studi condotti in precedenza su soggetti normali sapevamo che, quando siamo esposti a stimoli con forte contenuto emotivo, questi producono una marcata risposta della conduttanza cutanea. Generiamo tali risposte quando assistiamo a scene di orrore o di dolore fisico, o quando vediamo fotografie di tali scene, o immagini di esplicito contenuto sessuale. Si può considerare la risposta della conduttanza cutanea come una parte minuscola, impercettibile, di uno stato somatico che, se si dispiegasse in modo completo, darebbe un senso avvertibile di eccitamento e di "arousal" (la pelle d’oca, in alcuni individui). Ma È importante rendersi conto che siccome i cambiamenti della conduttanza cutanea sono solo una parte della risposta dello stato corporeo, la loro presenza non assicura che alla fine si avvertirà un forte cambiamento di tale stato. Sembra però vero questo: chi non manifesta una risposta di conduttanza cutanea, sembra che non avrà mai lo stato corporeo conscio che È tipico di un’emozione.
L’esperimento fu allestito scegliendo, per i tre gruppi, soggetti confrontabili per età e per livello di istruzione. Veniva proiettata loro una serie di diapositive mentre se ne stavano comodamente seduti in poltrona, collegati a un poligrafo, senza far nulla e senza dire nulla. Molte delle diapositive erano assolutamente banali (scene anonime o disegni astratti), ma di tanto in tanto, e secondo un ordine casuale, veniva presentata una diapositiva con una scena capace di turbarli. L’esperimento andava avanti finch, restavano diapositive da vedere - e ce n’erano centinaia. Prima che la proiezione cominciasse, ai soggetti era stato raccomandato di stare attenti Perchè in seguito, durante una fase dedicata ai commenti, sarebbe stato chiesto loro di riferire che cosa avevano visto, come si erano sentiti e anche quando avevano visto determinate immagini, rispetto all’intero periodo della proiezione.
I risultati furono univoci (2). I soggetti che non presentavano lesioni frontali (sia gli individui normali sia i soggetti con lesioni cerebrali che non toccavano i lobi frontali) produssero un’abbondanza di risposte di conduttanza cutanea alle immagini disturbanti ma non a quelle banali. Al contrario, i pazienti con lesioni ai lobi frontali non manifestarono alcuna risposta: i tracciati delle loro registrazioni erano piatti (fig. 9.1).
Fig. 9.1.
Andamento della risposta di conduttanza cutanea, in soggetti normali, di controllo, senza lesioni cerebrali (A), e in soggetti con lesioni ai lobi frontali (B ), rilevata durante l'esposizione a una sequenza di immagini delle quali alcune avevano un forte contenuto emotivo. (Nel diagramma tali immagini sono individuate dalla lettera T- per target, bersaglio - posta sotto il particolare stimolo, numerato). I soggetti normali mostrano una risposta forte subito dopo aver visto le immagini “emotive”, ma non dopo quelle “neutre”; i pazienti con lesioni frontali non rispondono Né alle une Né alle altre.
Prima di saltare a una conclusione, decidemmo di ripetere l’esperimento con altri soggetti e altre immagini, e anche di ripeterlo con gli stessi soggetti, dopo qualche tempo. Di nuovo, posti nella condizione passiva descritta in precedenza, furono i soggetti con lesioni frontali quelli che non diedero alcuna risposta alle immagini disturbanti, anche se in seguito essi furono in grado di discutere nei particolari il contenuto delle diapositive, e anche di ricordare in quale fase della seduta di proiezione erano comparse sullo schermo certe diapositive. Furono capaci di descrivere a parole la paura, la ripugnanza o la tristezza connesse alle immagini viste, e anche di dire quanto prima (o dopo) di un’altra era comparsa una certa immagine, e in quale momento della proiezione. Non vi poteva essere dubbio: questi soggetti erano stati ben attenti, avevano compreso il contenuto delle immagini e i concetti in esse rappresentati erano loro accessibili a vari livelli; essi sapevano non solo che una data immagine mostrava, ad esempio, un omicidio, ma anche che il modo in cui l'omicidio era rappresentato conteneva un elemento di orrore, o che bisognava rattristarsi per la vittima e rammaricarsi che una simile situazione si fosse potuta presentare. In altre parole, un dato stimolo aveva prodotto una copiosa evocazione di conoscenze pertinenti, nella mente dei soggetti con lesioni frontali sottoposti all'esperimento. E tuttavia, a differenza dei soggetti di controllo, i pazienti con lesioni frontali non avevano manifestato una risposta di conduttanza cutanea. Analizzate, le differenze si rivelarono molto significative.
Durante una delle primissime interviste di commento, un paziente ci confermò, in modo spontaneo e con intuito perfetto, che quel che mancava non era solo la risposta della pelle. Egli notò che dopo aver visto tutte le diapositive non era affatto turbato, anche se il contenuto di alcune di esse - se ne rendeva conto - avrebbe dovuto turbarlo. Si consideri l'importanza di questa rivelazione. Avevamo di fronte un essere umano a conoscenza sia del significato manifesto di quelle immagini sia del loro implicito significato emotivo, ma consapevole anche del fatto che egli non “sentiva” nel modo in cui sapeva di essere solito sentire (e in cui forse “si supponeva” che egli sentisse?) riguardo a tale significato implicito. Il paziente ci stava dicendo che la sua carne non rispondeva più a questi argomenti come una volta aveva risposto; che "sapere non significa necessariamente sentire", anche quando vi rendete conto che quel che sapete dovrebbe farvi sentire in un certo modo, ma non lo fa.
Più di qualsiasi altro risultato, fu la insistita mancanza di risposta della conduttanza cutanea (unita all'assenza di sentimenti attestata da pazienti con lesioni frontali) a convincerci che valeva la pena di continuare a perseguire l’ipotesi del marcatore somatico. In effetti, sembrava che la conoscenza di quei pazienti fosse disponibile in tutta la sua portata ed estensione, eccetto la conoscenza disposizionale che accoppia un particolare evento con il meccanismo capace di ripristinare una risposta emotiva. In assenza di tale legame automatico, i pazienti erano in grado di evocare internamente una conoscenza fattuale ma non di produrre uno stato somatico - o, almeno, non uno stato somatico di cui fossero consapevoli. Potevano avvalersi di una gran copia di conoscenza fattuale, ma non fare esperienza di un sentimento - vale a dire, la “conoscenza” di come i loro corpi dovrebbero comportarsi con riferimento alla conoscenza fattuale evocata. E dal momento che in precedenza tali soggetti erano stati normali, essi potevano rendersi conto che il loro stato mentale complessivo non era come sarebbe dovuto essere, che mancava qualcosa.
Nel complesso, i test di risposta della conduttanza cutanea ci fornirono una controparte fisiologica misurabile della osservabile riduzione di risonanza emotiva che già avevamo rilevato in questi pazienti, e della riduzione di sentimenti che essi stessi avvertivano.
Rischiare: gli esperimenti con giochi d’azzardo.
Un’altra via di verifica sperimentale si fondava su una prova studiata da Antoine Bechara, un giovane laureato che seguiva un corso di perfezionamento nel mio laboratorio. Frustrato (come tutti i ricercatori) dalla natura artificiosa della maggior parte delle prove sperimentali che si compiono in neuropsicologia, egli voleva sviluppare un mezzo il più “realistico” possibile per valutare la capacità di decisione. Così egli escogitò (e in seguito perfezionò, assieme a Hanna Damasio e Steven Anderson) una serie di brillanti prove che nel nostro laboratorio vanno sotto il nome - scontato - di “esperimenti con giochi d'azzardo” (2), e sono quanto di più lontano si possa immaginare dalle noiose manipolazioni in genere imposte da esperimenti analoghi. L'ambientazione È assai colorita, pazienti e soggetti normali si divertono a sottoporvisi e la natura stessa della ricerca così compiuta favorisce il verificarsi di episodi divertenti. Mi ricordo ancora l'espressione di un mio illustre visitatore il quale, dopo avere fatto un giro per il laboratorio, ed essere passato accanto a una stanza dove era in corso un test, ritornò nel mio ufficio con gli occhi fuori dalle orbite e la mandibola penzoloni per lo stupore e mi bisbigliò: “C'È gente che gioca a carte, qui!”.
Nell'esperimento di base, il soggetto (chiamato “il giocatore”) È seduto a un tavolo sul quale sono disposti, di fronte a lui, quattro mazzi di carte, rispettivamente contrassegnati A, B, C e D. Gli vengono dati in prestito 2000 dollari (falsi, ma perfettamente simili a quelli veri) e gli si comunica lo scopo del gioco: egli deve perdere il meno possibile della somma assegnatagli all'inizio e guadagnare quanto più possibile denaro extra. Il gioco consiste nello scoprire in successione le carte, una per volta, da uno qualsiasi dei quattro mazzi, fino a che lo sperimentatore non interrompe la prova; quindi il giocatore non sa quante carte dovrà voltare in totale. Inoltre, lo si informa che ogni carta voltata gli farà guadagnare del denaro, ma di tanto in tanto a questo guadagno si accompagnerà l'obbligo di pagare una certa somma. Egli però non sa, quando comincia a giocare, Né quanto guadagnerà o perderà per una data carta, Né l'ordine di comparsa delle carte; ignora anche la relazione tra le carte e uno dei quattro mazzi. Solo dopo che una carta È stata voltata si svela quanto ha guadagnato, o quanto dovrà pagare. Inoltre, il giocatore non sa quanto ha guadagnato o perduto a un dato momento, e non può tenerne registrazione scritta.
Voltare una carta del mazzo A o B frutta la bella somma di 100 dollari, mentre voltarne una dal mazzo C o D ne frutta solo 50. Però alcune carte del mazzo A o del mazzo B, del tutto imprevedibilmente, richiedono da parte del giocatore un pagamento molto forte, fino a un massimo di 1250 dollari, mentre alcune carte del mazzo C o del mazzo D possono comportare anch’esse un pagamento, ma di somme decisamente inferiori: meno di 100 dollari, in media. Queste regole, non rivelate al giocatore, non vengono cambiate mai. Inoltre, sempre senza che il giocatore lo sappia, la prova termina dopo che sono state voltate 100 carte. In partenza il giocatore non ha modo di prevedere che cosa accadrà, e nemmeno può riuscire a tenere a mente un computo preciso di guadagni e perdite, via via che il gioco procede: proprio come nella vita, in cui buona parte della conoscenza grazie alla quale viviamo e costruiamo il nostro futuro adattativo ci viene distribuita con parsimonia, frammento dopo frammento, mentre l’esperienza aumenta e l’incertezza domina. La nostra conoscenza (come quella del giocatore) È foggiata sia dal mondo con il quale interagiamo sia dalle spinte intrinseche al nostro organismo: per esempio il fatto che preferiamo il guadagno alla perdita, la ricompensa alla punizione, un rischio moderato a un rischio forte.
E’ interessante osservare come si comportano, nell’esperimento, gli individui normali. Essi cominciano con il saggiare ognuno dei quattro mazzi, in cerca di indizi e di regolarità. Poi, forse allettati dall’esperienza degli alti guadagni possibili, mostrano in genere una prima preferenza per i mazzi A e B; ma gradualmente, nel giro delle prime trenta mosse, spostano la preferenza verso i mazzi C e D e si attengono a questa strategia fino al termine della prova. Alcuni giocatori che si dichiarano amanti del rischio possono occasionalmente tornare a saggiare i mazzi A e B, ma solo per riportarsi in breve alla linea d'azione che appare più prudente.
I giocatori non hanno modo di effettuare un calcolo preciso di guadagni e perdite; invece a poco a poco si fa strada in loro l'impressione che alcuni mazzi (e precisamente l'A e il B) siano più “pericolosi” di altri. Si potrebbe dire che essi intuiscano come le più basse penalizzazioni collegate ai mazzi C e D consentiranno loro di vincere, a lungo andare, sebbene il guadagno iniziale sia più modesto. Io sospetto che prima e al di sotto dell'impressione conscia vi sia un processo non conscio che gradualmente formula una previsione per l'esito di ogni mossa e gradualmente dice al giocatore attento (dapprima in modo sommesso, ma poi sempre più forte) che se farà una certa mossa ne avrà una ricompensa o una punizione. In breve, io non credo che si tratti di un processo interamente conscio, o interamente non conscio; sembra invece che, quando un cervello ben accordato prende una decisione, operino entrambi i tipi di elaborazione.
II comportamento dei pazienti con lesioni frontali ventromediane fu illuminante: quel che essi facevano nel test con le carte assomigliava a quello che spesso avevano fatto nella vita quotidiana dopo aver subito la lesione cerebrale, mentre differiva da quello che avrebbero fatto prima della lesione. Il loro comportamento era diametralmente opposto a quello degli individui normali.
Dopo un primo campionamento generale, i pazienti con lesioni frontali sistematicamente voltavano più carte prese dai mazzi A e B, e sempre meno carte prese dai mazzi C e D. In tal modo, le penalità che erano costretti a pagare erano così forti che, nonostante ricevessero una cifra più alta per ogni carta presa dal mazzo A o dal mazzo B, verso la metà del test avevano dato fondo alla somma ricevuta all’inizio e dovevano chiedere un altro prestito allo sperimentatore. Anche Elliot fu sottoposto all’esperimento, e nel suo caso questo comportamento È tanto più degno di nota in quanto egli continua a definirsi una persona avveduta, poco propensa a rischiare, mentre anche gli individui normali che si definivano amanti del rischio, giocatori d’azzardo, si comportavano in modo assai diverso, con grande cautela. Per di più, alla fine del test Elliot sapeva quali mazzi di carte fossero pericolosi e quali no; eppure, quando alcuni mesi dopo l’esperimento venne ripetuto, con altre carte e altri contrassegni per i mazzi, Elliot continuò a comportarsi come faceva nella vita quotidiana, cioÈ perseverando nell’errore.
Questo È il primo test di laboratorio che abbia consentito di misurare una controparte delle travagliate scelte quotidiane di Phineas Gage. Sottoposti alla medesima prova, pazienti con lesioni ai lobi frontali il cui comportamento - e le cui lesioni - sono confrontabili con quelli di Elliot hanno fornito prestazioni simili (fig. 9.2).
Fig. 9.2.
Istogrammi che mostrano i risultati del test con le carte da gioco. I soggetti normali, di controllo, preferiscono i mazzi C e D, al contrario i pazienti con lesioni ai lobi frontali preferiscono i mazzi A e B. Le differenze sono significative.
Ma perchè questo test dovrebbe avere successo là dove altri falliscono? Probabilmente Perchè esso È una buona imitazione della vita: viene eseguito in tempo reale, e assomiglia ai veri giochi di carte; include esplicitamente ricompense e punizioni, come pure valori espressi in moneta; impegna il soggetto in una ricerca di vantaggi, presenta dei rischi; offre delle scelte ma non dice come, quando o che cosa scegliere. E’ carico di incertezze, ma la sola via per ridurle al minimo È quella di produrre, con qualsiasi mezzo sia disponibile, impressioni e stime di probabilità, dal momento che non si può fare alcun calcolo preciso.
Dietro questo comportamento operano meccanismi neuropsicologici affascinanti, soprattutto nel caso dei pazienti con lesioni frontali. Elliot era manifestamente preso dal compito: attentissimo, collaborativo, interessato all'esito. Di fatto, egli voleva "vincere". Che cos'era che lo faceva scegliere in modo così disastroso? Come per gli altri suoi comportamenti, non possiamo invocare Né penuria di conoscenze Né mancanza di comprensione della situazione. Le premesse per una scelta non venivano mai meno, lungo il procedere del gioco. Quando perse 1000 dollari, Elliot se ne rese ben conto, e infatti pagò la somma all'esaminatore; e tuttavia continuò a scegliere i mazzi che davano 100 dollari, il che lo portava in perdita ogni volta che era penalizzato. E nemmeno si può pensare che dopo un po' il gioco imponesse un carico aggiuntivo alla sua memoria, Poiché il susseguirsi dei risultati sfavorevoli o positivi veniva reso esplicito, in genere. Via via che le loro perdite si accumulavano, Elliot e gli altri pazienti con lesioni frontali dovevano ricorrere a prestiti, che costituivano la prova esplicita del cattivo andamento della partita; ma essi insistevano nell'operare le scelte meno vantaggiose, per un tempo più lungo rispetto a quello rilevato in qualsiasi altro gruppo di soggetti - inclusi diversi pazienti con lesioni cerebrali non interessanti i lobi frontali.
I pazienti che presentano vaste lesioni cerebrali localizzate in altri punti (per esempio all'esterno dei settori prefrontali) possono dare, nella prova, le stesse prestazioni di soggetti normali, purch, siano in grado di vedere e di comprendere le istruzioni. Questo È vero anche per soggetti con menomazioni del linguaggio. Una paziente affetta da grave deficit della capacità di denominazione, provocato da di-sturbi alla corteccia temporale sinistra, eseguì il test continuando per tutta la durata della prova a lamentarsi a voce alta, nel suo linguaggio spezzato dall’afasia, che non vedeva alcun senso in quel che faceva. E tuttavia il profilo della sua prestazione risultò impeccabile: senza alcuna esitazione scelse sempre ciò che la sua razionalità perfettamente integra la portava a scegliere.
Che cosa poteva essere accaduto, nei cervelli dei soggetti con lesioni frontali? Proviamo a considerare un elenco di possibili meccanismi alternativi:
1) questi soggetti non sono più sensibili alla punizione come i soggetti normali, ma reagiscono solo alla ricompensa;
2) sono diventati talmente sensibili alla ricompensa che la sola presenza di questa basta Perchè essi trascurino la punizione;
3) sono ancora sensibili a ricompensa e punizione, ma Né l’una Né l’altra contribuiscono al marcamento automatico o al dispiegamento prolungato di previsioni di esiti futuri, cosicch, risultano favorite le opzioni immediatamente premianti.
Mentre tentava di orientarsi tra queste possibilità, Antoine Bechara mise a punto una prova diversa, modificata per l’inversione tra ricompensa e punizione. Ora si aveva per prima la punizione, Poiché ogni carta voltata comportava il pagamento di una somma (più grande per le carte del primo mazzo che per quelle del secondo) mentre di tanto in tanto arrivava la ricompensa. Come nella prima prova, anche in questa due mazzi davano un guadagno e due davano una perdita. In questa nuova prova Elliot si comportò come i soggetti normali; lo stesso accadde con gli altri pazienti colpiti da lesioni ai lobi frontali. Perciò bisognava scartare l’idea che Elliot e gli altri pazienti con lesioni frontali fossero semplicemente insensibili alla punizione.
In questo senso andava anche l'analisi qualitativa delle prestazioni dei pazienti nella prima prova. I profili delle loro risposte mostravano che, subito dopo aver dovuto pagare, i pazienti evitavano il mazzo dal quale avevano pescato la carta penalizzante, e lo stesso facevano i soggetti normali; a differenza dei soggetti normali, però, subito dopo i pazienti tornavano al mazzo “cattivo”. Se ne desume che i pazienti erano ancora sensibili alla punizione, ma che gli effetti di questa non si protraevano per molto, probabilmente Perchè la punizione non era connessa con l'abbozzo di elementi di previsione riguardanti le prospettive a venire.
Miopia rispetto al futuro.
I meccanismi delineati nell'ipotesi 3) porterebbero un osservatore esterno a giudicare i pazienti assai più interessati al presente che al futuro. Privi di marcatori, o di previsioni dispiegate per un tempo non brevissimo, questi pazienti sono in larga misura guidati dalle prospettive immediate e sembrano, in effetti, insensibili al poi. Ciò suggerisce che nei pazienti con lesioni ai lobi frontali È profondamente accentuata quella che può essere una tendenza di base affatto normale: puntare sull'oggi invece di investire sul domani. Negli individui normali e in quelli socialmente adattati, tale tendenza È posta sotto controllo, specie nelle situazioni in cui È in gioco un interesse personale; nei pazienti con lesioni ai lobi frontali, invece, essa acquista una dimensione soverchiante, che può facilmente schiacciarli. Si potrebbe descrivere il loro disagio come “miopia rispetto al futuro”, adottando il concetto che È stato proposto per spiegare il comportamento di individui sotto l’influenza dell’alcool o di altre sostanze. Lo stato di ebbrezza restringe il panorama del nostro futuro, tanto che quasi nulla che non appartenga al presente viene elaborato con chiarezza (3).
Se ne potrebbe concludere che il risultato delle lesioni di questi pazienti È la perdita di ciò che i loro cervelli hanno acquisito attraverso l’educazione e la socializzazione. La capacità di imparare a farsi guidare dalle prospettive future anzich, dall’esito immediato È uno dei caratteri più tipici degli esseri umani - e si comincia a impararlo da bambini. Nei pazienti con lesioni ai lobi prefrontali, il danno cerebrale menoma non solo il deposito di conoscenze accumulate relative a tale orientamento, ma anche la capacità di acquisire nuove conoscenze dello stesso tipo. Come spesso avviene nei casi di lesioni cerebrali, questa tragedia apre uno spiraglio alla scienza, consentendo di fare qualche luce sulla natura dei processi che sono andati perduti - e qui sta l’unico aspetto riparatore, se proprio se ne vuole trovare uno.
Sappiamo dove sono localizzate le lesioni che causano la menomazione; sappiamo qualcosa sui sistemi neurali presenti nelle aree danneggiate da quelle lesioni. Ma come avviene che la loro distruzione d’improvviso faccia sì che le conseguenze future non abbiano più alcuna influenza sul decidere? Analizzando i vari componenti in cui si può scindere il processo, si trovano svariate possibilità.
E’ pensabile che le immagini che costituiscono uno scenario futuro siano deboli e instabili; esse verrebbero attivate, ma non mantenute ferme nella coscienza per un tempo bastante a far sì che intervengano nella strategia di ragionamento appropriata. In termini neuropsicologici, ciò equivale a dire che la memoria operativa e/o l’attenzio-ne non stanno funzionando bene, per quanto si riferisce alle immagini relative al futuro. La spiegazione regge a prescindere dal fatto che le immagini riguardino il dominio degli stati corporei o quello dei fatti esterni al corpo.
Un’altra spiegazione fa ricorso all’idea dei marcatori somatici. Anche se le immagini delle conseguenze future fossero stabili, una lesione delle cortecce prefrontali ventromediane impedirebbe l’evocazione dei relativi segnali di stato somatico (attraverso un anello corporeo, o un anello “come se”) e di conseguenza i corrispondenti scenari futuri non sarebbero più marcati. La loro importanza non sarebbe evidente e il loro impatto sul processo di decisione sarebbe cassato, oppure facilmente soverchiato dall’importanza delle prospettive immediate. Si può spingersi un po’ oltre dicendo che quel che andrebbe perduto sarebbe un meccanismo capace di generare in modo autonomo previsioni sull’importanza di un esito futuro. Nei soggetti normali sottoposti ai test con le carte descritti più sopra, ciò avverrebbe dopo ripetute esposizioni a differenti combinazioni di punizione e ricompensa, rispetto a un certo mazzo di carte. In altre parole, il cervello associerebbe un certo grado di positività o negatività a ciascuno dei mazzi (A, B, C o D). Il processo di base sarebbe non conscio, e consisterebbe nel “pesare” frequenze e gravità degli stati negativi. Lo stato somatico orientante sarebbe l’espressione neurale di questo mezzo, celato e non conscio, di ragionamento. Nei pazienti con lesioni frontali non sembra verificarsi alcun processo del genere.
Oggi io sono propenso a mettere assieme le due possibilità. Il fattore critico È l’attivazione degli stati somatici pertinenti, ma credo anche che il meccanismo dello stato somatico agisca da amplificatore per mantenere attive e ottimizzare la memoria operativa e l’attenzione connesse con gli scenari futuri. In breve, non È possibile formulare e usare adeguate “teorie” della propria mente e di quella degli altri, se fa difetto qualcosa come il marcatore somatico.
Prevedere il futuro: correlati fisiologici.
Hanna Damasio ha suggerito un seguito del tutto naturale agli esperimenti con i giochi d'azzardo. La sua idea È stata quella di tenere sotto osservazione le prestazioni sia dei soggetti normali sia di quelli con lesioni frontali, per cogliere eventuali differenze nell'andamento della conduttanza cutanea durante le prove.
Antoine Bechara e Daniel Tranel organizzarono l'esperimento collegando al poligrafo alcuni pazienti e alcuni soggetti normali sottoposti al test con le carte. In tal modo furono raccolti due insiemi paralleli di dati: le scelte che i soggetti andavano operando con continuità via via che la prova si svolgeva e il profilo continuo della conduttanza cutanea generato durante il processo.
Il primo lotto di risultati fornì un profilo sorprendente: sia i soggetti normali (“di controllo”) sia i pazienti con lesioni ai lobi frontali davano una risposta di conduttanza cutanea, ogni volta che ricevevano una ricompensa o una penalizzazione dopo avere voltato una data carta. In altre parole, nei pochi secondi immediatamente successivi al pagamento della penale o all'acquisizione della ricompensa, sia i soggetti normali sia i pazienti con lesioni frontali mostravano, attraverso la risposta della pelle, di essere stati influenzati dall'evento. Ciò È importante Perchè mostra, una volta di più, che i pazienti possono generare tale risposta in certe condizioni ma non in altre. E' evidente che essi rispondono a stimoli che si producono adesso (una luce, un suono, una perdita, un guadagno), ma che non risponderanno se l’evento innescante È la rappresentazione mentale di qualcosa che È in relazione con lo stimolo ma non È accessibile in percezione diretta. Di primo acchito, si potrebbe descrivere il loro stato con lo slogan: “Fuori della vista, fuori della mente”: felice formula che Patricia Goldman-Rakic adotta per spiegare in modo sintetico il deficit di memoria operativa provocato da una disfunzione frontale dorsolaterale. Noi sappiamo però che, in questi pazienti, ciò che È “fuori della vista” può essere “ancora nella mente”, ma non conta; allora uno slogan migliore potrebbe forse essere questo: “Fuori della vista e dentro la mente, ma non fa niente”.
Dopo che ebbero voltato un certo numero di carte, però, anche ai soggetti normali cominciò ad accadere qualcosa di bizzarro. Subito prima che essi scegliessero una carta da un mazzo cattivo (cioÈ, mentre essi stavano decidendo o avevano appena deciso di pescare da quello che lo sperimentatore sapeva essere un mazzo cattivo), veniva generata una risposta di conduttanza cutanea che andava accentuandosi con il procedere del gioco. Il cervello dei soggetti normali, insomma, andava gradualmente imparando a prevedere un esito sfavorevole, e segnalava la relativa “negatività” di quel mazzo prima che ne venisse pescata e voltata una carta (4).
Il fatto che i soggetti normali non esibissero tali risposte all’inizio della prova, il fatto che le risposte fossero acquisite con l’esperienza e che la loro intensità continuasse ad aumentare via via che si aggiungevano nuove esperienze (sia positive sia negative), indicavano in modo netto che il cervello di quei soggetti andava imparando qualcosa di importante sulla situazione e cercava di segnalare in anticipo che cosa non sarebbe stato positivo, in futuro.
Ancora più sorprendente fu ciò che vedemmo esaminando le risposte dei pazienti con lesioni frontali: "i pazienti non mostravano alcun tipo di risposta anticipatrice"; nessun segno che il loro cervello stesse sviluppando la previsione di un esito negativo.
Più di qualsiasi altro risultato, questo dimostra sia l'inspiegabile comportamento sia buona parte della sottostante neuropatologia di tali pazienti: i sistemi neurali che avrebbero consentito loro di imparare che cosa preferire e che cosa evitare non funzionano bene, e perciò non sono in grado di produrre risposte adeguate a una situazione nuova.
Noi non sappiamo, tuttora, in qual modo negli esperimenti con le carte si sviluppi la previsione di esiti futuri negativi. Ci si può chiedere se il soggetto elabori una stima cognitiva di negatività contro positività, per ogni mazzo, e colleghi in modo automatico tale impressione con uno stato somatico indicante negatività, il quale a sua volta può cominciare a operare come segnale d'allarme. In questo schema il ragionamento (una stima cognitiva) precede la segnalazione somatica; ma questa È ancora l'elemento critico per l'attuazione, giacch, si sa che i pazienti non possono operare “normalmente” pur conoscendo i mazzi buoni e quelli cattivi.
Vi È, però, un'altra possibilità, secondo la quale una valutazione celata e non conscia precede qualsiasi processo cognitivo. Le reti prefrontali si affinerebbero, quanto al rapporto tra negatività e positività proprio di ogni mazzo, sulla base della frequenza di stati somatici cattivi o buoni provati "dopo" la punizione o la ricompensa. Con il contributo di questa cernita automatica, il soggetto sarebbe “aiutato a pensare” alla possibile negatività o positività di ciascun mazzo; vale a dire, sarebbe guidato verso una teoria sul gioco che sta giocando. Sistemi regolatori di base del corpo preparerebbero così il terreno a un'elaborazione cognitiva, conscia. In assenza di siffatta preparazio-ne, non si arriverebbe mai, o si arriverebbe troppo tardi e in misura insufficiente, a rendersi conto di che cosa È buono e che cosa È cattivo (10).