Ore romane
Oggi, di nuovo, ho fissato il coltellino sulla mia scrivania. L’avevo acquistato mesi fa a Campo de’ Fiori, appena prima di comprare del pane, poi mi ero diretto verso via della Corda per trovare un posticino tranquillo a piazza Farnese; lì mi ero seduto su un gradino e mi ero preparato dei panini al prosciutto e Bel Paese. Andando verso Palazzo Farnese, avevo trovato una fontanella e avevo risciacquato un grappolo d’uva moscatello comprata da un fruttivendolo.4 Mi stavo chinando per lavare anche il coltello nuovo di zecca e rinfrescarmi il viso, quando mi venne in mente che, tra tutti i giorni trascorsi a Roma, forse quello che mi sarebbe piaciuto di più ricordare sarebbe stato proprio quello, e che su quel coltello da quattro soldi, che in origine avevo pensato di buttare subito dopo averlo usato ma in seguito avevo deciso di tenere, c’era inciso qualcosa della calda e intima sensazione che cala verso mezzogiorno nelle tipiche giornate terse d’estate a Roma. Mi giunse all’improvviso in un’unica parola, una sola, che però era la migliore possibile, perché catturava il clima, la città e l’atmosfera di quel giorno di giugno davvero mite e, di conseguenza, dell’intero anno: serenità. Gli italiani usano l’aggettivo sereno per descrivere il tempo, il cielo, il mare, una persona. È sinonimo di tranquillo, terso, limpido, calmo.
Ed è così che mi piace sentirmi a Roma, ed è così che si sente la città quando i suoi languidi muri ocra risplendono al sole di mezzogiorno. Quando vecchie fontane traboccanti ti sfidano a immergere le mani, bagnarti la faccia e riposare un momento prima di riprendere il cammino per vicoli tortuosi ancora più angusti, lungo Campo Marzio, nel centro storico.
Questa garenna di antiche viuzze risale a molti secoli prima; qui in epoca rinascimentale liti scellerate, vendette e uccisioni erano all’ordine del giorno, come gli artisti, i finti artisti e gli sbruffoni che popolavano queste strade. Oggi questi vicoli con gli edifici sbilenchi che hanno imparato a sorreggersi a vicenda come gemelli siamesi trasudano odore di ardesia, creta e vecchio calcare umido; dalle botteghe degli artigiani fuoriesce colla per legno e resina, a riprova che in quest’area di laboratori ce ne saranno in eterno. Altrimenti, dopo mezzogiorno le strade sono un mortorio. Fatta eccezione per le campane, ogni tanto un martello, il suono di un tornio o di una sega elettrica che viene zittita subito dopo, l’unico suono che sentirete in vicolo del Polverone o in piazza della Quercia è lo sporadico tintinnio dei piatti che risuona da molte case, a suggerire che in tutta Italia sta per essere servito il pranzo.
Qualche passo ancora in largo della Moretta, e all’improvviso si comincia a distinguere il fresco aroma del caffè tostato che, cammin facendo, emana da santuari nascosti. Ognuno di questi rifugi, al pari di minuscole stazioni per pellegrini o delle numerose chiese verso cui uomini in fuga, da Cellini all’Angelotti della Tosca, correvano per cercare asilo, ha una sua antica leggenda. Caffè Rosati, Caffè Canova, Caffè Greco, Caffè sant’Eustachio, Antico Caffè della Pace, piccole oasi dove la luce accecante ben si sposa con gli interni bui, come il caffè caldo ben si sposa con il ghiacciolo al limone, come solo chi vive nel Mediterraneo ricerca l’ombra e aspetta che l’adorato sole cali.
Queste ore estive possiedono una magia eterna quanto i minuscoli rituali che ogni giorno ci inventiamo intorno a esse. Ecco i miei. Passeggiare nel caldo secco e all’improvviso riscoprire il semisconosciuto vicolo Montevecchio, dove dal nulla spunta un immenso ombrellone color bianco ottico, che annuncia cibo e buon vino. Consumare l’ennesima bottiglia d’acqua gassata per lavare una mano resa inevitabilmente appiccicosa dalle cibarie comprate cammin facendo. Levarsi le scarpe vicino alla fontana delle Tartarughe nella deserta piazza Mattei, che si crogiola nella gloria color ocra degli edifici adiacenti e, al riparo da occhi indiscreti, immergerli un momento in uno specchio d’acqua così placido e traslucido con cui nemmeno la spiaggia più silenziosa nel giorno più silenzioso potrebbe rivaleggiare.
Nessuno vorrebbe mai disimparare a perdersi, la gradita sensazione di non riuscire ancora a trovare la strada giusta in quel labirinto di strade secondarie, perché ciò significa che la visita alla città è ancora agli inizi. La regola è semplicissima: diffida delle cartine. Non te la fanno mai vedere tutta, la Roma rinascimentale; si limitano a frapporsi fra te e la città. Piuttosto, vai a casaccio. Vagare e provare un lieve sconcerto, sono queste le guide migliori. Roma deve fluttuarti davanti agli occhi. Giri senza meta, alla deriva, e all’improvviso, senza sapere come, approdi in piazza Navona o a Campo de’ Fiori, a sant’Andrea della Valle, al Pantheon, in piazza di Spagna o in piazza del Popolo, con il suo incredibile tridente da cui si irradiano tre vie: via del Babuino, via del Corso e via di Ripetta. «Possibile che questa sia la fontana di Trevi?» ti domandi, in parte ammaliato dalla tua bussola interiore, che sapeva fin dall’inizio dov’eri diretto e che, con il senno di poi, ti concede una sorta di diritto di proprietà sulla piazza, come un principe potrebbe pensare di essere l’unico ad avere il diritto di sposare una debuttante in particolare solo perché è stato il primo a notarla a corte. Come scopriamo la bellezza non è un fatto marginale; la prefigura. L’occasione che ci conduce alle cose amate ci rivela moltissime cose su di esse, ma anche su di noi. Non voglio solo vedere la fontana delle Tartarughe, voglio trovarla per puro caso.
In questa città proteiforme ogni cosa rimanda al concetto di vagare a casaccio e senza meta, e la distanza più breve tra due punti non è mai una linea retta, ma una figura a forma di otto. Allo stesso modo Roma non rivela un solo percorso, un solo passato, ma un accumulo di passati diversi: un giorno fai una passeggiata e incontri Gogol, Ovidio, Piranesi, Ingres, Cesare e Goethe; un altro Caravaggio e Casanova, Freud e Fellini, Montaigne e Mussolini, Henry James e Joyce; un altro ancora Wagner, Michelangelo, Rossini, Keats e Tasso. E ti accorgerai di una cosa che nessuno ti dice: a dispetto di tutti quei nomi, edifici e luoghi d’interesse, a dispetto di molteplici strati di stucco, gesso e vernice schiaffati di nascosto nel corso dei secoli su tutto ciò che vedi, a dispetto del fatto che tante figure provenienti da un determinato passato continuano a rispuntare in un altro e che tanti palazzi sono innestati su generazioni di edifici più vecchi, alla fine ciò che conta di più sono i casi fortuiti, i piccoli elusivi piaceri dei sensi: acqua, caffè, limone, cibo, sole, voci, il tocco del marmo tiepido, gli sguardi rubati di nascosto e poi le facce, le più belle del mondo.
Questa, non vi è alcun dubbio, è la città più bella della terra, e anche la più serena. Non solo il clima e tutto ciò che la circonda sono sereni, ma diventiamo sereni perfino noi. Serenità è sentirsi tutt’uno con il mondo, non volere nient’altro rispetto a ciò che si ha, non avvertire alcuna mancanza: essere in tutto e per tutto nel presente, come non accade quasi mai in altri luoghi. Questa, dopo tutto, è anche la città più pagana del mondo, logorata dal presente. I siti e i monumenti più grandiosi, ci dice Roma, non significano nulla a meno che non stimolino e non soddisfino il corpo; a meno che, in altre parole, non si possa mangiare, bere e rilassarsi in mezzo a essi. La bellezza dà sempre piacere, ma a Roma la bellezza nasce dal piacere.
Due volte al giorno torniamo all’Antico Caffè della Pace, vicino a piazza Navona. Dista pochi passi dall’hotel Raphaël (un luogo lussuoso dalla cui terrazza si gode una vista sconfinata su Campo Marzio). Affascinanti artisti in erba, modelle, vagabondi e starlette sofisticate ci vengono per sorseggiare un caffè, leggere il giornale o semplicemente ritrovarsi, e non fanno che aumentare nel corso della giornata. Mi piace venire qui la mattina molto presto, quando il profumo di terra riarsa aleggia sulla città ad annunciare il caldo e un bagliore accecante verso mezzogiorno. Mi piace essere il primo a sedermi, quando i romani ancora non sono usciti di casa, perché da quando ho lasciato Roma, anni fa, detesto sentire che chi abita o è nato qui conosce la città meglio di quanto non riuscirò mai a fare io, dunque mi consola essere qui prima che loro siano pronti ad affrontare le loro strade. Mantenendo lo status privilegiato di turista che non deve andare al lavoro posso fingere – un’illusione sancita dal fuso orario – di non essere mai andato via, di essermi solo svegliato prestissimo.
Alla sera, la turbolenta folla del caffè si riversa per le strade. Quasi tutti hanno un telefonino in mano, sia perché si aspettano che suoni in qualsiasi momento sia perché ormai rientra nel dress code, il moderno discendente del pugnale che conferiva all’istante una certa importanza nell’inevitabile baruffa di strada. Uno dei giovani seduti al tavolo, che vanno dai venti ai trent’anni, fissa con attenzione il suo telefonino come se si stesse esaminando i tratti del volto in uno specchietto tascabile. Guardando i fiori di Roma, capisco quanto sia facile riconciliare il culto della figura con la bellezza che abbonda in un luogo barocco come piazza Navona. Quell’ambigua clientela manterrà sempre qualcosa di inquietante e, al contempo, seducente. Ci troviamo, dopo tutto, nel mondo di Cellini e Caravaggio, che abitavano, mangiavano, si azzuffavano, amavano, complottavano e duellavano a pochi isolati di distanza da lì. Tuttavia, da qualche sconosciuta crepa delle loro vite squallide e debosciate regalarono al mondo il meglio che occhio umano potrà mai vedere. Qui viveva anche l’implacabile papa Alessandro VI Borgia, i cui figli, Lucrezia e Cesare, sono ben noti alla storia. Poco lontano, e un centinaio d’anni dopo, Giordano Bruno venne denudato e bruciato sul rogo a Campo de’ Fiori. Pochi mesi prima era accaduto un fatto sconvolgente, era dal martirio dei primi cristiani che Roma non veniva turbata a quel modo: la brutale decapitazione della giovane e bella Beatrice Cenci per ordine diretto del papa.
Magari non diventeremo mai romani, tuttavia bastano poche ore perché l’incantesimo abbia effetto. Ci modifichiamo. Il nostro sguardo comincia a soffermarsi di più sulle cose; facciamo meno storie sullo spazio; le voci ci risultano più interessanti; ci si scambia sorrisi a profusione. Cominciamo a vedere la bellezza ovunque. La troviamo al Bateleur, un affascinante e scalcinato negozio di antichità e souvenir in via di san Simone, vicino a via dei Coronari, dove si trovano acquerelli francesi incredibili. O Ai Monasteri, dove si vendono prodotti realizzati nei monasteri italiani, appunto, e dove ho trovato una deliziosa grappa speziata, l’amaro più buono del mondo e un miele dolcissimo. O alla Ferramenta alla Chiesa Nuova, all’apparenza una semplice ferramenta, come dice il nome, ma in realtà una vera e propria galleria di pomelli, maniglie e chiavi antiche, dove la gente entra con preziosi cardini dei tempi che furono di cui disperano di poter trovare una copia, che invece il proprietario gli fornisce in quattro e quattr’otto.
La città è imprevedibilmente bella. Gli sporchi muri color ocra (che stanno svanendo in fretta sotto nuovi rivestimenti volti a restituire loro il giallo, il pesca, il rosa e il lilla originario) sono belli. E perché no? L’ocra è la tonalità più vicina al color carne che potrà mai assumere la pietra; è simile all’argilla, e dall’argilla Dio ha plasmato la carne. I fichi che mangeremo sotto il sole sono belli. Il marciapiede consunto lungo via dei Cappellari, per quanto umile e sudicio, è bello. Il clarinettista che si dirige verso l’ombroso vicolo delle Grotte intonando un’aria di Bellini suona in maniera splendida. La chiesa di Santa Barbara, affacciata su largo dei Librari, non poteva offrire spaccato più accurato di un tipico tableau vivant romano, completo di venditore di gelati, cane addormentato, Harley-Davidson, ombrelloni di tela e galantuomini che chiacchierano fuori da una piccola sartoria, dove qualcuno sta suonando una versione per mandolino di Core ’ngrato, una canzone napoletana, mentre una signora attraversa il mio campo visivo sfoggiando una serie di felliniani voile bianchi. Mi ci vuole un secondo per realizzare che quell’eccentrica sessantenne aristocratica sta sfrecciando scalza su una mountain bike, con un’aria di imperturbabile sprezzatura.
Cosa darei per non perdere mai Roma. Andandomene, riprenderò la mia vita quotidiana molto prima del previsto, come una tremante Cenerentola tornata a servizio presso la matrigna. Non è solo della bellezza che sentirò la mancanza. Mi mancherà anche il modo in cui questa città mi entra sottopelle e, per un attimo, mi fa suo, o il modo in cui do per scontato il piacere. È una sensazione che mi sento addosso, ogni giorno più forte. So che si tratta di una sensazione presa in prestito; appartiene a Roma, non a me. So che andrà a morire non appena mi lascerò alle spalle questa luce.
È una preoccupazione che non si intromette in nulla; si limita ad aleggiare, come un inutile avvertimento lanciato a qualcuno che abbia ricevuto il dono dell’immortalità per una settimana. Fu allora che comprai il prosciutto, i filoni di pane, il coltello. E vidi i Caravaggio a San Luigi dei Francesi; o andai a vedere le sibille di Raffaello a Santa Maria della Pace e, pur trovando la porta chiusa, fui comunque contento di ammirarne il colonnato circolare. Davvero queste cose eterne possono sparire dalla mia vita? E dove vanno quando non sono lì a guardarle? Che cosa accade alla vita quando non la viviamo?
La prima volta arrivai a Roma da rifugiato nel 1965. In lutto per la vita persa ad Alessandria e determinato a non farmi piacere la nuova città, alla fine mi arresi, e per tre magici anni Campo Marzio fu il luogo che arrivai più vicino ad amare. Imparai ad amare l’italiano e Dante e qui, come in nessun altro luogo sulla terra, scelsi perfino l’edificio esatto in cui un giorno mi sarei stabilito.
Anni fa, iniziavo una delle mie due passeggiate preferite nel punto in cui corso Vittorio Emanuele II, la sfarzosa strada ottocentesca, incrocia il mio adorato Campo. Non appena lo scuolabus aveva attraversato il fiume dalla Città del Vaticano, chiedevo all’autista di lasciarmi in largo Tassoni, invece di portarmi alla stazione Termini, da dove avrei dovuto prendere un mezzo pubblico e viaggiare per altri quaranta minuti prima di arrivare al nostro sciatto appartamento in un quartiere proletario dopo l’Alberone. Da largo Tassoni, o mi dirigevo a sud verso via Giulia e poi Campo de’ Fiori, e camminavo un paio d’ore prima di arrivare a casa, oppure puntavo a nord.
Non c’era nulla che mi piacesse di più che perdermi in quel labirinto di minuscoli e furtivi vicoli scuri color ocra che speravo, mentre vagavo in mezzo a essi, un giorno fossero sboccati in una piccola piazzetta incantata dove avrei incontrato un grado di bellezza più elevato. Ciò che desideravo di più era passeggiare liberamente per le strade di Campo Marzio e trovare liberamente qualsiasi cosa volessi trovare, che fosse la vera immagine di questa città, qualcosa dentro di me o di simile a me nelle cose e nelle persone che vedevo, oppure una nuova casa che sostituisse quella che avevo perso.
Vagabondare per quelle strade con il buio riguardava più me e i miei desideri segreti che non la città. Mi permetteva, ogni volta, di ricreare le mie fantasie, perché è così che cerchiamo di trovare noi stessi, a casaccio e prendendo direzioni sbagliate. Passeggiare per Campo Marzio alla ricerca di qualcosa come se fossi un prospettore era il mio modo di sentirmi parte di quella zona e di reclamarla come mia solo perché ci ero passato tante, tantissime volte, come un cane quando marca il territorio. Nell’inutilità delle mie camminate pomeridiane, stavo tracciando una cartina di Roma di mia invenzione, che volevo essere sicuro che esistesse, perché la Roma che mi aspettava a casa non era quella che volevo. Nei vicoli in penombra di una Roma rinascimentale che si frapponeva tra me e la Roma antica, e tra me e il mondo moderno, potevo fingere che da un momento all’altro, e senza sapere come, sarei uscito da un cerchio del tempo e, percorrendo un vicoletto fiancheggiato dalle case di Campo Marzio, avrei guardato dentro finestre che ormai conoscevo bene, avrei suonato un campanello al piano di sotto e, dal citofono, sentito una voce che mi diceva che ero di nuovo in ritardo per la cena.
Poi un pomeriggio accadde il miracolo. Mentre camminavo poco dopo piazza Campitelli vidi un cartello su un portone: AFFITTASI. Non riuscii a resistere, entrai nell’edificio e parlai con la portinaia, spiegandole che forse la mia famiglia era interessata a quell’appartamento. Quando mi disse il prezzo, restai impassibile. Quella sera annunciai subito a mia madre che dovevamo muoverci, che il pomeriggio seguente doveva farmi la cortesia di mollare tutto e venire con me dopo la scuola a vedere un nuovo appartamento. Non doveva preoccuparsi se non parlava italiano; avrei pensato a tutto io. Quando mi ricordò che eravamo poveri e dipendevamo dal buon cuore dei parenti, imbastii una solida argomentazione: dato che la cifra corrisposta ogni mese a un becero zio per il buco in cui stavamo era decisamente esagerata, perché non cercare un posto migliore? A tutt’oggi non so perché mia madre decise di stare al gioco. Ci accordammo che, se non fossimo riusciti a convincere la portinaia ad abbassare il prezzo, lei avrebbe fatto una smorfia in segno di tacita disapprovazione.
Non avrei mai creduto che una facciata così fatiscente in Campo Marzio potesse ospitare un appartamento tanto sontuoso ed elegante. Non appena entrammo nella casa vuota con i soffitti alti, dai nostri passi timidi e cauti cominciò a risuonare un’eco così forte sul parquet scricchiolante che volevo sopprimerli tutti, come fossero insetti che ci eravamo portati da Alberone e, scappando, ci avrebbero smascherati. Mi guardai in giro, guardai mia madre. Di sicuro avevamo capito entrambi che non avevamo abbastanza soldi nemmeno per comprare un tavolo per la cucina, figuriamoci quattro sedie da metterci intorno. E tuttavia, mentre sbirciavo nelle vecchie stanze, sapevo già che quella era la Roma che amavo: lussuosa e barocca, come un’eroica opera di George Frideric Händel. La figlia della portinaia mi seguiva con lo sguardo. Cercai di assumere un’aria calma e osservai il soffitto con naturalezza, come se lo stessi ispezionando con occhi esperti. Mi infilai in un’altra stanza. Le camere da letto erano troppo grandi. E ce n’erano quattro. Scelsi la mia all’istante. Guardai fuori dalla finestra e vidi la strada a me così familiare. Aprii la portafinestra e mi ritrovai sul balcone, le mattonelle immerse nella luce del sole al tramonto che andava illanguidendosi. Mi appoggiai alla balaustra. Ah, abitare qui...
Le persone nel palazzo dall’altra parte della strada stavano guardando la televisione. Qualcuno stava portando a spasso il cane su una via rivestita di acciottolato laterale. Da due grossi lampioni di vetro appesi su entrambi i lati di una casa d’angolo adiacente cominciò a diffondersi sui muri un pallido bagliore arancio. Immaginai mia madre che mi mandava giù a comperare il latte, il motorino dei miei sogni parcheggiato in cortile.
Quel giorno si era vestita bene, probabilmente per fare colpo sulla portinaia. Ma il tailleur di sartoria, che aveva ritoccato di recente, risultava fuori moda, e lei appariva più vecchia, nervosa. Si rivelò una pessima attrice, finse che c’era qualcosa che non andava, pur non sapendo dire di preciso cosa e alla fine, quando fu chiaro che la portinaia non ci sarebbe mai venuta incontro, assunse quell’aria delusa che avevamo provato e riprovato in precedenza.
«Anche a me dispiace, signore» mi disse la figlia della portinaia. Ciò che portai via con me quel giorno non fu solo il rimpianto nei suoi vivaci occhi scuri mentre ci accompagnava di sotto, ma il profondo rammarico con cui mi aveva elargito un bonus inatteso che avrei custodito per il resto della vita: «Signore». Avevo appena compiuto quindici anni.
Mi sono domandato spesso cosa ne è stato di quell’appartamento. Dopo la nostra visita, non osai più passare di lì, e pur di evitare di imbattermi nella portinaia o in sua figlia mi inventavo elaborate deviazioni. Anni dopo, di ritorno dagli Stati Uniti con la barba e i capelli lunghi, ci tornai. La cosa che mi sorprese di più non fu che Campo Marzio fosse zeppo di boutique di lusso, ma che qualcuno avesse tolto per sempre il cartello AFFITTASI. L’appartamento non aveva aspettato.
E tuttavia il palazzo in cui non ho mai abitato è l’unico posto che vado a visitare ogni volta che torno a Roma, proprio come la Roma che ancora mi perseguita è proprio quella che mi costruivo durante le mie passeggiate pomeridiane. Oggi l’edificio non è più color ocra smorto, ma rosa pesca. Anch’esso è passato dall’altra parte e, come la ragazza con gli occhi scuri, con ogni probabilità sta cercando di restare giovane, il tocco esperto della mano di un’estetista a colmare quei punti che hanno sempre umanizzato la pietra di Roma e trasformato il trascorrere del tempo in un piccolissimo miracolo indolore. A quindici anni, avevo visitato la vita che avrei voluto condurre e la casa che un giorno o l’altro sarebbe stata mia. Adesso stavo visitando la vita che avevo sognato di vivere.
Per fortuna il presente, proprio come il sole di mezzogiorno a Roma, si intrufola sempre nel passato. Pochi secondi dopo essermi fermato davanti al palazzo, mi prende una nascente indifferenza e mi affretto a iniziare una di quelle lunghe passeggiate tanto attese che già so non termineranno prima del calar del sole. Penso all’ocra, all’acqua, ai fichi freschi e alle pietanze buone e semplici che mangerò a pranzo. Penso al mio grande balcone al settimo piano dell’Hotel de Russie, affacciato sulle cupole gemelle di Santa Maria di Montesanto e Santa Maria dei Miracoli, vicino a piazza del Popolo. È quello che ho sempre desiderato fare a Roma. Non visitare nulla, non ricordarmi di nulla, ma solo restarmene seduto, e dalla mia posizione sopraelevata, con il Pincio alle spalle, esaminare tutta la città davanti a me nell’incantevole e serena luce di un pomeriggio romano.
Stasera esco con dei vecchi amici, andiamo al ristorante Vecchia Roma in piazza Campitelli. Lungo il tragitto, so che passeremo davanti al mio angolino segreto in Campo Marzio – faccio sempre in modo di prendere quella strada – dove lancerò un ultimo sguardo furtivo all’appartamento con questa luce vespertina. Di sera, su Roma cala sempre un incantesimo irreale, e dai grandi lampioni di queste strade labirintiche e deserte risplende la luce dei piccoli altari e delle icone dentro chiese buie. Senti risuonare i tuoi passi, anche se i piedi non sembrano sfiorare il pavimento ma quasi fluttuare sulle luccicanti lastre di ardesia, coprendo distanze che fanno apparire banale l’arco di tempo trascorso. Lungo il tragitto, a mano a mano che le strade si fanno più buie, deserte e spettrali, lascio andare avanti gli altri e me ne resto un po’ da solo. Mi piace immaginare i fantasmi di Leopardi, Henri Beyle (che il mondo conosce come Stendhal), Beatrice Cenci e Anna Magnani levarsi da un angolo deserto, tutti sempre ben disposti a fermarsi e a salutarmi, come personaggi danteschi riemersi in superficie e ansiosi di convenire con altri prima di rifluire nella notte. È al francese che sono più legato. Solo lui capisce perché queste strade e l’appartamento sopra di esse sono così importanti per me; solo lui capisce perché tornare in certi posti aggiunge un anello di crescita e risulta il metodo più accurato per misurare il tempo. Anche lui tornava sempre qui. Mi sorride, e aggiunge che lo fa ancora, mi ricorda che andarsene da questa città non significa amarla meno, e nemmeno smetterla di preoccuparsi del tempo qui non appena esso si ferma altrove. Questa, dopo tutto, è la Città Eterna. Da qui non te ne vai mai. Volendo, puoi anche scegliere il tuo posticino per quando sarai un fantasma. Il mio, già lo so dov’è.