Parallasse
Sono nato ad Alessandria d’Egitto. Ma non sono egiziano. Sono nato da una famiglia turca, ma non sono turco. In Egitto ho frequentato scuole inglesi, ma non sono inglese. I miei familiari hanno ottenuto la cittadinanza italiana e io ho imparato l’italiano, ma la mia lingua madre è il francese. Per anni, da bambino, ho nutrito l’errata convinzione che fossi francese e che, come tutti quelli che conoscevo in Egitto, presto sarei tornato in Francia. Già il verbo «tornare» era un paradosso, perché virtualmente nessuno tra i miei parenti più stretti era francese né aveva mai messo piede laggiù. La Francia, però, e con essa Parigi, era la mia casa del cuore, la mia casa immaginaria, e sarebbe rimasta tale per tutta la vita, anche se, tre giorni dopo il nostro arrivo, non vedevo l’ora di andarmene. Nemmeno un briciolo di me è francese.
Sono africano di nascita, nella mia famiglia vengono tutti dall’Asia Minore e vivo in America. Tuttavia, pur avendo abitato in Europa non più di tre anni, mi considero profondamente e inestirpabilmente europeo, come rimango profondamente e inestirpabilmente ebreo, anche se non credo in Dio, non conosco nessun rituale ebraico e ho visto più chiese in un anno che non sinagoghe in un decennio. A differenza dei miei antenati, i marrani, che erano ebrei ma facevano finta di essere cristiani, a me piace essere un ebreo tra i cristiani, l’importante è che riesca a spacciarmi per cristiano tra gli ebrei.
Sono un ebreo fittizio, come sono un europeo immaginario. Un europeo immaginario all’ennesima potenza.
I primi quattordici anni della mia vita li ho trascorsi in Egitto a sognare e a fantasticare di vivere in Europa. Sentivo di appartenerle; per me l’Egitto era semplicemente un errore a cui bisognava porre rimedio. Non lo amavo, e non vedevo l’ora di andarmene; nemmeno l’Egitto mi amava, e difatti alla fine mi costrinse ad andarmene. La bellezza di Alessandria, del Mediterraneo, di trovarmi in un luogo che la storia ci aveva messo secoli a creare, non significavano nulla per me. Nemmeno la spiaggia riusciva a sedurmi. Se in un giorno di novembre le spiagge deserte di Alessandria sembravano appartenere a me e a nessun altro sul pianeta, e se in quelle splendide mattine terse nemmeno un’ondina increspava il mare, tutto ciò che mi serviva per cogliere la magia del momento era un’illusione: l’illusione, cioè, che quella spiaggia non fosse in Egitto ma in Europa, preferibilmente in Grecia. In effetti, ogni volta che vedevo una bella statua greca o romana mi veniva automatico di pensare alla Grecia, non a una statua greca in Egitto. Una statua greca in Egitto aspettava solo di rioccupare il proprio legittimo posto ad Atene, anche se in realtà il posto legittimo di una statua ellenica non era Atene, ma Alessandria. In pratica, una bella villa in stile mediterraneo affacciata sull’oceano Pacifico mi sta chiedendo di immaginare che si trovi – e per estensione anch’io – in Italia, non a Beverly Hills. Se una spiaggia in Egitto mi ricordava fotografie che avevo visto di Capri, o se un angusto vicoletto di ciottoli mi faceva pensare alle città della Provenza, l’istinto non era godermi ogni angolo per ciò che in realtà era, cioè un bel posto, ma in quanto simulacrum che desiderava disperatamente di essere rimpatriato, vale a dire riportato in Europa. Era questo cerchio controfattuale, questa continua distorsione e dislocazione che mi consentivano di vivere in Egitto.
Quando mi torna in mente Alessandria, non è solo Alessandria che mi torna in mente. Quando mi torna in mente Alessandria, mi torna in mente un luogo che mi piaceva pensare fosse già altrove. Ricordare Alessandria senza ricordare me ad Alessandria che bramavo Parigi è un ricordo sbagliato.
Stare in Egitto era come fingere all’infinito di essere già via dall’Egitto.
Non vedere questa fondamentale distorsione vuol dire distorcere il ricordo.
Non considerarla un’attitudine mentale costante vuol dire dimenticare che non sono più in grado di vedere nulla, a meno che non riesca a costruire o a ricavare simili distorsioni ovunque. L’arte è solo un sublime modo di rappresentare distorsioni ormai divenute insopportabili.
Uno dei momenti più intimi e illuminanti in Egitto l’ho vissuto insieme a un’anziana zia. Una sera entrai in camera sua e la trovai che fissava il mare. Senza voltarsi, si limitò a farmi spazio vicino alla finestra, e insieme fissammo il mare buio e silenzioso. «Mi ricorda la Senna» disse.
Mi raccontò che una volta abitava vicino alla Senna. Le mancava, la Senna. Le mancava Parigi. Alessandria non era mai stata davvero casa sua. Ma nemmeno Parigi, se è per questo. La sua visione delle cose confermava quello che provavo io. La nostra era la mera copia di un originale che ci attendeva in Europa. Tutto ad Alessandria era una versione simulata di qualcosa di autenticamente europeo.
Per effetto di una curiosa distorsione, tuttavia, non appena ebbi collegato la nostra spiaggia alessandrina con la Senna iniziai subito a essere un po’ più indulgente nei confronti delle nostre spiagge in Egitto, e forse anche a nutrire un po’ di amore per Alessandria, perché la città rifrangeva qualcosa di irriducibilmente europeo. Come mia zia, anch’io avevo bisogno di questa deviazione prima verso una Senna immaginaria e poi verso un’Alessandria «derealizzata» per cominciare a vedere quello che avevo davanti agli occhi.
Tale deviazione non è altro che una riproposizione della distorsione cui facevo riferimento prima. Ogni cosa che vedi davanti a te evoca un altrove immaginario. Ma è per mezzo di questo altrove immaginario che cominci a vedere cos’hai davanti agli occhi. Questo genere di deviazioni e distorsioni rivela un’incapacità di connettersi al presente e di vivere appieno le esperienze.
Alcuni di noi si avvicinano alle esperienze, all’amore, alla vita stessa passando per queste deviazioni. Dobbiamo deviare il nostro disprezzo prima di renderci conto che quanto abbiamo nel cuore non è disprezzo, tutt’altro.
I fotografi lo chiamano parallasse. Non solo le cose davanti a noi sono instabili, ma lo è anche il nostro punto di osservazione. Perché l’osservazione, al pari della memoria, del pensiero, della scrittura, dell’identità e del desiderio, è un gesto instabile, una mossa instabile. Scattiamo una foto, sperando di cogliere un’unica immagine, quando in realtà l’immagine vera è un’infinita sovrapposizione di immagini instabili.
Dopo che la mia famiglia venne espulsa dall’Egitto e si stabilì a Roma fu una sorpresa vedere che l’Europa, da noi considerata erroneamente «casa», non lo era affatto. Il presunto rimpatrio ci portò in una terra che si rivelò essere più straniera e meno familiare di ciò che avevamo avuto davanti al naso per decenni in Egitto. All’improvviso, e la nostalgia è fonte di molte distorsioni, cominciammo a sentire la mancanza di Alessandria. Ci affezionammo a tutto ciò che in Europa ci ricordava Alessandria; ricercavamo determinati luoghi, per esempio, o momenti, inflessioni particolari della luce del sole, vaghi profumi di acqua di mare che ci aiutassero a rievocare il nostro Egitto perduto. La deviazione, per così dire, era finita e stava per condurci a tutta velocità a un secondo distacco.
Quella che in Africa pareva solo la brutta copia di qualcosa di autenticamente europeo divenne un originale sacro; di copie se ne trovavano ovunque in Europa, ma l’originale era perduto per sempre. Per effetto di una curiosa distorsione, andare a Capri fu non solo un tentativo di ritrovare l’Egitto e, sempre mediante tale deviazione, di imparare ad accettare e, nella migliore delle ipotesi, a farsi piacere ciò che, nel bene o nel male, sarebbe stata la nostra nuova casa in Italia; era anche un tentativo per spingerci ad apprezzare il fatto che alla fine il tanto agognato rimpatrio era avvenuto. Era come andare a casa di mia zia a Parigi e, in piedi alla finestra, dirle: «Ti ricordi quella sera, quando di fronte al mare sognavamo di essere a Parigi? Ecco, adesso ci siamo».
Solo che Parigi non valeva un bel niente se non si evocava – parallassicamente – la sua compagna ombra, Alessandria.
A mancarci non era solo l’Egitto. Ci mancava sognare l’Europa in Egitto. Ci mancava l’Egitto in cui avevamo sognato l’Europa.
La situazione divenne infinitamente più contorta non appena lasciai l’Europa e mi trasferii in America. Non che Alessandria finì nel dimenticatoio, certo che no; restava e sarebbe sempre rimasta, per usare le parole di Lawrence Durrell, «la capitale della memoria». Tuttavia, non appena l’ebbi persa, l’Europa ricominciò a esercitare la sua attrazione sui miei pensieri, oltretutto con ancora più forza adesso che la mia Europa un tempo immaginata in Egitto si era raddoppiata in un’Europa ricordata dagli Stati Uniti. Anzi, nel corso degli anni il desiderio e il ricordo, la brama e la nostalgia, hanno mandato segnali così confusi tra loro che ormai sono ben disposto ad accettare che memoria e immaginazione siano due gemelle residenti lungo un confine immaginario che consente loro di condurre una doppia vita e di scambiarsi clandestinamente messaggi in codice.
Il parallasse non è solo un disturbo visivo. È un disturbo «derealizzante» e paralizzante dell’anima: cognitivo, metafisico, intellettuale ed estetico. Non si tratta solo di uno spostamento, di sentirsi alla deriva sia nello spazio sia nel tempo, è un fondamentale disallineamento tra chi siamo, chi saremmo potuti essere, chi potremmo ancora essere, chi non riusciamo ad accettare di essere diventati e chi forse non saremo mai. Dai per scontato che non sei come gli altri e che per capire gli altri, per stare con gli altri, per amare gli altri e perché gli altri ti amino devi nutrire pensieri altri rispetto a quelli che ti vengono naturalmente. Per stare con gli altri devi essere l’opposto di quello che sei; per leggere dentro gli altri devi leggere l’opposto di ciò che vedi; per essere da qualche parte devi immaginare di essere o di poter essere altrove. È il modo dell’irrealtà. Provi emozioni, immagini, pensi e scrivi in senso controfattuale, perché scrivere rivela tale disturbo, anzi lo perpetua, lo consolida.
Lo scrittore tedesco W.G. Sebald, morto nel 2001, scriveva spesso di persone la cui vita era andata in pezzi, intrappolate in uno stato di apatia, stagnazione e intontita sterilità. Che a seguito di alcuni spostamenti determinati da errori o capricci della storia finiscono per vivere la vita sbagliata. Il passato interferisce e contamina il presente, mentre il presente guarda indietro verso il passato e lo distorce. La vita come deviazione dalla vita stessa.
I personaggi di Sebald vedono spostamenti ovunque, non solo intorno a loro ma anche dentro di loro. Lo stesso Sebald non riesce a pensare, a vedere, a ricordare e, ci scommetterei, a scrivere senza postulare lo spostamento come metafora basilare.
Per scrivere, o riproponi uno spostamento o te lo inventi.
Non importa se è ricordato, immaginato o anticipato. Il fatto stesso che non si riesca a stabilirlo forse non è solo un sintomo del disturbo; ne è anche la causa. Una persona che è andata via non solo si trova nel posto sbagliato, ma conduce anche la vita sbagliata, o perlomeno così le sembra. Tuttavia, pur conducendo la vita sbagliata o vivendo nel posto sbagliato e avendo acquisito un nuovo nome, parlando e scrivendo in un’altra lingua, ciò non significa che là fuori ci sia una vita reale o una casa reale o una lingua vera. L’esilio sfugge alla nozione stessa di casa, nome, lingua. L’esiliato non sa più da cosa è stato allontanato.
Vi racconto cinque brevi aneddoti.
C’è una «mossa» che ormai con i miei amici è diventata una sicura fonte di divertimento. Ecco più o meno cosa succede con il mio amico A ogni volta che vado a cena da lui in Riverside Drive a Manhattan. A un certo punto della serata, mentre stiamo guardando il sole al tramonto gettare luminosissime sfumature d’arancio sulle acque cristalline dell’Hudson, immancabilmente compare una chiatta illuminata o una nave della Circle Line, ed ecco che allora A per prendermi in giro dice: «Ah, sì, un bateau mouche. Ma allora siamo a Parigi!»
Bingo. E io so che lui sa, proprio come lui sa che io so che lui sa. Poco importa se mi immagino di essere a Parigi o se sto ricordando Parigi: per quanto concerne la nostra mossa, memoria e immaginazione sono intercambiabili. Se preferite, per dirla in termini meno chiari: Tu non sei qui. Ogni altra cosa, invece, sì.
Oppure, per dirla con parole ancora più allarmanti, che si ricollegano direttamente alla questione dell’identità di cui una volta mi rese partecipe un superstite dell’Olocausto: «Una parte di me» disse «non mi ha seguito. Non si è mai imbarcata sulla nave. Semplicemente è rimasta là».
Non so bene cosa significhi questa frase. Ma mi colpì, e più ci penso, più mi appare vera, e non me ne stupisco: Una parte di me non mi ha seguito. Una parte di me non è con me, non è mai con me. Il filosofo francese Merleau-Ponty amava evocare la sindrome dell’arto fantasma secondo cui gli amputati avvertono un dolore lancinante in un arto che il loro corpo non possiede più. La memoria a volte può risvegliare ai sensi cose che realisticamente non dovrebbero più essere in grado di sentire. Ma all’improvviso, a causa di questo parallasse mnemonico, di questo compagno ombra che distorce ogni cosa, ci viene ricordato che siamo divisi in due. Divisi dal nostro passato, da una casa, da noi stessi.
Quando si ha la sensazione di essere distaccati da se stessi o di trovarsi in due luoghi contemporaneamente, ciò che abbiamo perso è come un arto amputato, qualcosa che ci è stato portato via e che non poteva viaggiare con noi: un braccio, un nonno, un fratellino minore. Solo che il braccio non è avvizzito, come il nonno o il fratellino minore non sono morti.
E dunque io sono qui, sulla riva opposta dell’Atlantico, mentre il braccio è là, oltre Gibilterra. Non posso tornare indietro, trovare il mio arto e rimetterlo al proprio posto?
Certo che no! Ma non perché il braccio non ci starebbe più. E nemmeno perché ho imparato a vivere senza o ne ho trovato un altro migliore. A incutere una certa paura è il pensiero che chi sono oggi forse non è un corpo con un braccio in meno. Forse è il contrario. Sono io il braccio che svolge il lavoro di tutto il corpo. È il corpo a essere rimasto indietro. Solo il braccio è partito. Sulla nave si è imbarcata solo una parte sacrificabile di me.
Io sono altrove. Ecco cosa intendiamo con la parola alibi. Significa altrove. Certe persone hanno un’identità. Io ho un alibi. Un io-ombra.
Non c’è da stupirsi se quando sono con il mio amico A penso al bateau mouche. Non c’è da stupirsi se a volte cenare a casa sua mi sembra qualcosa di provvisorio e forzato, se il contatto tra noi appare marginale, incompiuto, poco soddisfacente. La maggior parte di me non è nemmeno con me adesso. Come posso essere con lui, nel Nuovo Mondo, quando non sono nemmeno con me stesso, quando una parte di me è altrove?
Con un altro mio amico, B, diamo alla mossa una spinta in più. Un venerdì sera della primavera scorsa, mentre stiamo camminando per un’affollata strada di ciottoli a Williamsburg, Brooklyn, che ci ricorda tanto, lo avvertiamo subito entrambi, una festosa piazzetta di Aix, Portofino o San Sebastián a inizio estate, il mio amico B mi guarda e dice: «Lo so. Perché tu possa apprezzare questa strada, perché tu sia in questa strada, devi immaginare di essere là». Ha ragione. Senza questa trasposizione non riesco ad avere coscienza del presente. Ho bisogno di questa deviazione, di queste spinte, di questi alibi, di queste mosse controfattuali. Ho bisogno di questo schermo, di questo velo, di questo inganno per essere e stare qui, adesso, nel presente.
Poi c’è l’episodio con la mia amica C, quella che vive a Parigi, a cui ho già fatto cenno. In questo caso si crea un giro di vite ancora più sottile. «Perché questa serata ti arrivi davvero, devi pensare di essere là a immaginare di essere qui desiderando di essere là.» Ora vi spiego.
Vi ricapitolo di nuovo l’episodio. Un pomeriggio di settembre chiamai la mia amica. Quando rispose, le chiesi com’era Parigi. La sua risposta non mi stupì. «Grigia. Ultimamente Parigi è sempre grigia. Non cambia mai.» Anch’io me la ricordavo così, ovvio. «Che si dice a New York?» mi chiese lei. A lei mancava New York. A me mancava Parigi.
Non ero dove si trovava lei, ma dove sarebbe voluta essere; lei, invece, si trovava esattamente dove credevo di voler essere io.
Poi qualche mese dopo mi si presentò l’occasione di andare a Parigi, così la richiamai e le dissi che, per quanto mi piacesse la città, l’idea di viaggiare non mi entusiasmava. Parigi inoltre, la trovavo sempre stressante, avrei preferito di gran lunga restarmene a New York e immaginare rilassanti cene parigine. «Sì, certo» convenne lei, già infastidita. «Dal momento che devi, a Parigi non ci vuoi andare. Ma visto che ci andrai comunque, fammi un favore...» La sua voce fremeva di irritazione. «Quando sei a Parigi, pensa di essere a New York a desiderare di essere a Parigi, e vedrai che andrà tutto bene.»
Con la mia amica D, si aggiunge un’ulteriore stretta. Siamo da lei, in terrazza, a Brooklyn. È una cena meravigliosa: musica, cibo, vino, ospiti, ottima conversazione. Quando si fa buio guardo verso l’orizzonte, ed ecco profilarsi davanti a me una magnifica e nitida vista dello skyline di Manhattan appena dopo il tramonto in una sera di mezz’estate. Che strano, mi assale uno dei più antichi dilemmi che tormentano tutti i newyorkesi: meglio abitare a Brooklyn e godersi il lusso di questa vista mozzafiato di Manhattan, oppure nell’invitante, maestosa Manhattan e guardare Brooklyn ma senza mai vedere Manhattan?
E poi faccio quello che facciamo tutti quando ci troviamo ai piani alti di qualche edificio. Aguzzo la vista e mi chiedo: Chissà se da qui si vede casa mia? E se chiamassi il mio vecchio numero di telefono per vedere chi risponde? Da qui vedo me stesso?
Con il mio amico E, l’intera faccenda prende una piega di gran lunga più complicata. E lui detesta la nostalgia, non la sopporta.
Non hai mai amato né Parigi, né New York, né Alessandria.
Tu le ami tutte e tre.
Ne odi una perché non puoi avere l’altra.
Ne ami una ma vorresti amare l’altra.
Le ami tutte.
Le odi tutte.
Non odi, non ami, non te ne frega niente, perché non sei capace di amare, non sei capace di odiare, vorresti che te ne fregasse qualcosa, vorresti che non te ne fregasse niente, non sai, non dici. Può esserci identità nella dispersione?
Infine ecco la sesta persona dell’equazione: io.
Nella mia definizione della mossa appena descritta non sono le città ad attirarci e non è il tempo trascorso laggiù che desideriamo; piuttosto è la vita immaginata, non vissuta che abbiamo proiettato su di esse a chiamarci e a esercitare una forte attrazione su di noi. La città stessa è solo un costume, un muro o, come disse il pittore Monet, una busta vuota. Ciò che conta e che non muore mai è il ricordo della vita immaginata che avevamo sperato di vivere.
Un’altra mossa, chiamatela Io1. Volendo comprare al mio primogenito, che è americano, il suo primo libro di storia, feci una cosa che mi sembrava così naturale da lasciarmi quasi sbalordito: gli comprai un volume che avevo anch’io da bambino, intitolato Ma première histoire de France, «La mia prima storia di Francia». Quando gli mostrai una scena della battaglia di Agincourt riccamente illustrata mi resi conto che non avevo mai deciso con chi schierarmi, se con i francesi o con gli inglesi. Il giorno di san Crispino, da che parte stavo io, un ebreo nato in Egitto che parla francese, inglese e italiano, tutte e tre con l’accento sbagliato?
Anzi, non riuscivo nemmeno a decidere come scrivere il nome della battaglia: Agincourt con la g, all’inglese, o Azincourt con la z, alla francese?
L’ultima mossa, l’ultimissima. Io2: Non so nemmeno come pronunciare il mio cognome, figuriamoci scriverlo. Alla turca, all’araba, alla francese, all’italiana o all’americana? A pensarci bene, anche il mio nome proprio è un problema: André va pronunciato con l’accento sull’ultima sillaba o sulla penultima, all’americana? E poi come si pronuncia la r? Mi chiamo Andrea, Andreas, Andareyah, Andrew, Andy, oppure André come stabilito da mio padre, che mi aveva dato il nome di una zia protestante ripudiata come gesto di sdegno nei confronti dei suoi, e che lo pronunciava con un accento italo-turco in una famiglia la cui lingua madre non era il francese, e nemmeno l’italiano, il turco o l’arabo, ma lo spagnolo, e oltretutto nemmeno il castigliano, ma il ladino?
Il fatto è che non lo so. Ho tanti nomi-ombra, ma nemmeno uno vero.
In Ultima notte ad Alessandria ho cercato di spiegare tutto questo descrivendo le visite alle mie due nonne, le quali facevano a gara per conquistarsi quel genere di attenzione che spesso si spaccia per amore. Com’era d’abitudine negli anni prima della scuola, tutti i giorni al mattino mi portavano da una nonna e nel pomeriggio dall’altra. Non era difficile, poiché abitavano nella stessa via, esattamente l’una di fronte all’altra – è così che si erano conosciuti i miei genitori. Un po’ più complicato era andare a trovare una nonna senza che l’altra lo sapesse. Dovevano sentirsi entrambe privilegiate. La cosa più eccitante – anzi, mi correggo: la cosa più eccitante per lo scrittore adulto nell’atto di ricordare, cioè immaginare, cioè inventare – la cosa più eccitante, dicevo, era il pensiero che la mattina, mentre stavo a casa di una, sbirciavo dalla finestra e guardavo la casa dell’altra al di là della strada, dove già mi immaginavo più tardi intento a sbirciare dalla finestra. Al mattino mettevo in scena quello che avrei fatto nel pomeriggio, solo che le prove risultavano incomplete se non riuscivo a ripensare a esse. Cercavo di essere in entrambi i luoghi allo stesso tempo, come Marcel Proust che, vedendo un proprio articolo sul giornale, cercava di leggerlo adottando una doppia prospettiva, sia in prima sia in terza persona. L’astuzia iniziale divenne una condizione indispensabile anche per esercitare un’altra forma di astuzia. Non solo ero sleale nei confronti di entrambe le nonne, ma ero sleale e ambiguo anche verso me stesso. E che dire dello scrittore che finge di ricordare questo episodio quando in realtà se lo sta inventando di sana pianta e, ammettendo di averlo inventato, spera con questa intelligente manovra di dire la verità accedendo così a un alibi di terzo livello?
Forse, quando al mattino guardavo fuori dalla casa di una nonna, cercavo di scoprire se più tardi, dall’altra, sarei stato più felice. O forse temevo il contrario, e dunque inviavo al di là della strada il conforto di cui avrei avuto bisogno dopo. O forse temevo che, non appena mi avessero portato dalla nonna del pomeriggio, mi sarei dimenticato di quella del mattino, e dunque mi spedivo un pacco-aiuti con dentro la fotografia di quella che avevo appena salutato. O forse era più semplice: temendo che cambiare luogo avrebbe cambiato anche chi ero, in realtà stavo consolidando un’identità innestandola sull’altra, peccato che fossero entrambe poco solide.
Per tornare all’esempio di Merleau-Ponty, stavo toccando una gamba che nel giro di qualche ora non sarebbe più stata mia. Cominciavo a rendermi conto di cosa significasse cercare un arto e non trovare nulla.
Stretto tra il ricordo e la memoria anticipata, il presente non esiste. Il presente non esiste, non perché – e qui mi tornano in mente le mie due nonne – il bambino nel presente prevede già il passato prima che il futuro sia accaduto, o perché ci sono essenzialmente due case ipotetiche, nessuna delle quali è quella vera, ma perché lo spazio realmente abitato è diventato la strada tra le due abitazioni, o meglio il transito tra memoria e immaginazione, prima, e tra immaginazione e memoria, poi. La manovra intelligente di cui parlavo è la casa, e le emozioni primarie sono la vergogna, il tradimento e il desiderio di superarli, non certo l’amore. Le nostre intuizioni sono diventate controintuitive, i nostri istinti sono tormentati dalla ragione, la nostra capacità di comprensione è controfattuale.
Esilio, spostamento e dislocazione, inoltre, inducono un numero corrispondente di spostamenti e dislocazioni intellettuali, psicologici ed estetici.
Se mi è concesso invocare la tradizione ebraica, la casa è fuori dalla casa. In ebraico, ebreo si dice ibhri, cioè «colui che viene dalla parte opposta (del fiume)». Definisci te stesso non come una persona che viene da un determinato luogo, ma come una persona che viene da un luogo che sta dalla parte opposta rispetto a esso. Vieni da un altro luogo, e sarà sempre così. Tu e il tuo alibi siete uno l’ombra dell’altro.
È questa la mia casa. Se non viene stimolato il nervo controfattuale io non riesco a scrivere. Se la scrittura non mi obbliga a dislocare o a reinventare ciò che credo, penso, possa piacermi, ciò che penso di essere o dove penso di essere diretto o quello che penso di scrivere – cioè, se scrivere non mi rende libero – non ci riesco.
Ci sono scrittori che scrivono evitando potenziali occasioni di attrito. Aggirano qualsiasi tipo di ostacolo, evitano quello che non sanno, si tengono alla larga da zone oscure e, quando possibile, terminano una frase dopo aver detto tutto quello che si erano prefissati di dire.
Poi ci sono scrittori che, inconsapevolmente, con le occasioni d’attrito ci vanno a nozze. Cominciano senza nemmeno sapere quale sia l’argomento; scrivono al buio, ma continuano, perché è così, scrivendo, che procedono a tentoni, che fanno luce sull’oscurità intorno a loro.
Per poter scrivere devo uscire da una casa, valutarne un’altra e trovare la terra di nessuno che giace nel mezzo. Devo andare da un André, cancellarlo, scegliere l’altro André che sta dalla parte opposta e poi andare alla ricerca dell’André di mezzo, la cui voce quasi sicuramente riecheggerà quella di un André capace di camuffare tutti gli eloquenti segnali che rivelano come l’inglese non sia la sua lingua madre, ma nemmeno il francese, l’italiano o l’arabo. Scrivere deve risultare quasi un fallimento, come se rischiasse di saltare tutto all’ultimo momento. Se parto bene, se vado alla grande, se scrivere è come tornare a casa, invece, non è la storia che fa per me. Devo avere perso la chiave e non trovare più il duplicato. Scrivere non è come tornare a casa. Scrivere è un alibi. Scrivere è una perpetua balbuzie di alibi.
Ho bisogno di bisticciare con una lingua, non perché essa sia inadatta o io tema di non esserne all’altezza, ma perché mi ritrovo a dire quello che penso di voler dire dopo averlo detto, non prima. Più dislocato di così... Non scrivi prima un elenco di punti essenziali e poi riversi le parole sulla carta; scrivi perché non riesci a comporre un elenco di punti essenziali. A scrivere in un altro modo non ce la fai. Scrivi in modo innaturale non solo perché non hai una lingua naturale, ma anche perché scrivere e pensare sono ormai diventati gesti innaturali.
Per parodiare Michelangelo, non si scolpisce il marmo per ricavarne una statua fino ad allora nascosta; la statua è esaminare il marmo, nasconderne le imperfezioni, rimediare a eventuali errori di scalpello.
Scrivi non dopo avere riflettuto sulle cose, ma per riflettere su di esse. Scolpisci per immaginare cosa avresti potuto scolpire con occhi migliori in un mondo migliore.
Ti rivolgi a te stesso, e così hai l’illusione di avere un centro.
Ma non puoi fare altro. Non possiedi altro.
Per dirla in altre parole: non vedi le cose, ci vedi doppio. Ancora meglio: vedi di vedere doppio.
Ti piacerebbe vedere una cosa sola: invece vedi un parallasse.
Magari desideri la verità, ma cogli solo paradossi.
Mi rivolgo a me stesso non solo perché non so fare di meglio; mi rivolgo a me stesso anche perché altrimenti non riuscirei a dislocarmi e impostarmi intellettualmente ed esteticamente per farlo. Non sai se ciò che provi è davvero ciò che provi o piuttosto ciò che dici di provare, come non sai se dire che provi una certa cosa in realtà è solo un modo per non dire nulla. Improvvisi. Speri che gli altri ti credano. Se ti credono, allora potresti anche copiarli e credere alla persona a cui credono loro.
Potrei riassumere il concetto di esilio così: ho fatto in modo che scrivere diventasse la mia casa. Potrei perfino spingermi oltre e aggiungere che ho costruito la mia casa non sulle parole e sul loro significato, ma sul ritmo, nient’altro, perché il ritmo è come provare emozioni, il ritmo è come respirare, il ritmo è battito del cuore e desiderio, e se il ritmo non reinventa tutto ciò che avremmo voluto fosse stata o fosse diventata la nostra vita allora l’atto stesso di cercare e testare con quel ritmo particolare diventa un modo di provare emozioni ed essere nel mondo. Una prosa ritmata, per quanto pirotecnica, è anche un modo per nascondere la mia totale incapacità di scrivere una cosa tanto semplice come una frase ordinaria in lingua inglese.
Adesso sto cavillando, però, e queste sono solo parole. E dire che sono solo parole non mi avvicina a quel genere di verità in cui molti di noi si rifugiano a fine giornata, perché la verità, per quanto sia difficile da gestire quando ce n’è talmente tanta da non riuscire a sopportarla, o anche quando non ce n’è abbastanza, è comunque qualcosa che speriamo prenda il nome di casa. E questo, in esilio, è la prima cosa che tu – o loro – butti a mare.